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Legami familiari

(“Family Ties Unlaced”, di Kamilah Aisha Moon – in immagine – poeta e docente di scrittura creativa statunitense, nata nel 1973. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Kamilah

LEGAMI FAMILIARI SLEGATI

Sono andata al Museo Smithsoniano di Arte Africana

per provare una connessione

Ho imparato un po’ di cultura

& visto manufatti ancestrali

La mia distante parentela

di là dall’acqua

Sento invece il baratro del negozio da articoli da regalo

dove cassieri neri fanno larghi sorrisi e chiacchierano

con clienti bianchi ma si trasformano

in figure di pietra

mentre battono alla cassa

i miei poster

portachiavi

& segnalibro

La mia distante parentela

di là dal bancone

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(tratto da: “The Double X Economy by Linda Scott review – the need to empower women”, di Gaby Hinsliff per The Guardian, 18 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Il libro di cui si tratta è edito da Faber.)

Linda Scott

Il nuovo libro di Scott (in immagine), The Double X Economy, ruota attorno all’ormai relativamente nota idea che al fianco di quella che è vista come l’economia principale si svolga un’economia ombra di lavoro fatto dalle donne, penalizzate dai limiti sociali posti per esse e dalle barriere erette contro la loro partecipazione, e che potenziare coloro che vi sono intrappolate sarebbe di più largo beneficio per la società intera.

Ciò che lei porta a questo argomento un po’ usurato è una prospettiva globale, attingendo ad aneddoti spesso affascinanti sui villaggi africani e del Bangladesh in cui ha lavorato, ma anche un’entusiasmante presa di posizione contro il biasimare le donne per cose di cui non hanno colpa.

Cercare costantemente modi in cui le donne possano essere “aggiustate”, in modo che finalmente guadagnino gli stessi benefici economici degli uomini è, argomenta lei, mancare di vedere che sono spesso gli uomini – o più specificatamente le dinamiche che certe volte sorgono da gruppi di uomini – che hanno necessità di essere aggiustate.

“Le donne sono pagate meno non perché siano meno istruite, meno motivate, meno ambiziose, meno propense a chiedere più soldi, più deboli, più codarde, più pigre, destinate a essere madri che stanno a casa, o qualsiasi altra delle centinaia di scuse sputate fuori dalla cultura popolare che biasimano le donne. – è uno dei passi brucianti del libro – Sono pagate meno perché uomini ostili e le istituzioni che essi creano continuano a trovare maniere per frustrare l’eguaglianza di genere.” (…)

Il punto centrale di Scott è che lo stesso schema di eguaglianza economica femminile accoppiata alla minaccia di violenza maschile è identificabile su tutto il pianeta: è davvero possibile che le donne ovunque abbiano preso le stesse decisioni fallimentari ripetutamente, o piuttosto c’è qualcosa che le ostacola e le ferma? Il vantaggio delle lenti non occidentali da lei usate per questo argomento consiste nel rendere più facile vedere ingiustizie palpabili quando sono portate all’estremo – in società dove le donne ancora non possono di diritto avere proprietà, scegliere chi sposare o rifiutarsi di fare sesso – piuttosto di quando sono in casa tua. (…)

“Nessuna scusa giustifica la sofferenza sopportata dalle donne – scrive Linda Scott – ma questo non impedisce alla gente di continuare a provarci.”

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8 marzo 2020, lettera aperta (trad. Maria G. Di Rienzo):

Ai capi di stato e di governo di tutto il mondo.

Noi siamo Hilda e Leonie, donne che stanno lottando in prima linea contro la crisi climatica e l’ingiustizia di genere.

Hilda e Leonie

(Hilda Flavia Nakabuye di “Fridays for Future Uganda” e Leonie Bremer di “Fridays for Future Germany”, particolare di un’immagine di Thomas Reuters Foundation.)

Hilda:

Io sono cresciuta in tre differenti luoghi dell’Uganda. Da mia zia, da mia mamma e da mio papà – e tutto quel che mi importava era andare a scuola, cosa che mi è sempre piaciuta. Tuttavia, è arrivato un momento in cui la mia famiglia non poteva più pagare le tasse scolastiche. Come risultato, ho saltato la scuola per tre mesi. La crisi climatica ha cominciato a reclamare il nostro orto, con forti piogge che lavavano via le sementi, costanti periodi di siccità che prosciugavano i torrenti e forti venti che hanno portato alla massiccia diffusione di insetti nocivi, così anche i soldi sono andati a finire. In modo ingiusto, i paesi che hanno contribuito di meno alla crisi del clima sono quelli colpiti più duramente.

Ho visto molta gente morire a causa della crisi climatica e ci sono persone che ne muoiono ogni giorno mentre la situazione continua a peggiorare. Tuttavia, nulla è stato fatto da chi è al potere per combattere o risolvere questa crisi. L’impatto della crisi climatica mi ricorda lo sfrenato razzismo e l’apartheid che i miei antenati hanno subito. Io sto costantemente soffrendo a causa dei gravi effetti che hanno su di me le azioni, le parole e l’avidità di chi è al potere, con poco aiuto o niente aiuto del tutto da parte dei paesi sviluppati. Invece, stanno contribuendo incondizionatamente all’aumentare delle emissioni grazie alle quali milioni di vite innocenti sono già state perdute nel Sud globale. In effetti, questo dovrebbe essere il momento in cui questi paesi rispondono al loro dovere morale e ripuliscono il loro caos.

Leonie:

Nel mentre Hilda è diventata un’attivista di Fridays for Future per l’impatto diretto del cambiamento climatico sulla sua vita, io avrei potuto non averne mai idea, giacché vivo in Germania dove la gente può ancora permettersi il lusso di ignorare l’attuale tremendo impatto della crisi climatica. Questo paese è abbastanza ricco da poter semplicemente compensare i danni fatti dalla siccità ai raccolti importando prodotti. La mia vita sino ad ora è stata senza problemi e non ho mai dovuto saltare la scuola, i pasti o le vacanze.

Sul treno verso la conferenza mondiale sul clima, Hilda si è confrontata con me con la sua storia e il fatto che il paese da cui provengo non sta agendo in base alle sue responsabilità. La Germania è spesso chiamata la pioniera della protezione del clima, il che è contraddittorio rispetto al fatto che è ha il quarto posto al mondo pro capite per emissioni di CO2 (CO2-Bericht des Joint Research Center).

E’ spaventoso che il più grande obiettivo della Germania sia un’economia funzionante al costo, al peggio, della vita delle persone. La crisi climatica è il risultato del sistema economico industrializzato diretto da una società patriarcale. Al contrario, nei gruppi di attivisti per il clima le donne sono predominanti, poiché sono quelle che soffrono di più per la crisi climatica.

Le donne devono essere in prima linea nella lotta contro la crisi climatica. Secondo le Nazioni Unite, l’80% delle persone disperse da questa crisi sono donne.

Hilda:

La crisi climatica ha un volto femminile.

Nel mio vicinato, la maggioranza delle coltivazioni sono maneggiate da piccole agricoltrici. La crisi climatica ha immediato impatto sulle condizioni di vita delle donne, causa fame e rischi per la salute e ha un effetto terribile sulle nostre famiglie. Siccità e inondazioni causano perdita di raccolti, ma i proprietari terrieri hanno la possibilità di ricevere compensazioni dallo stato. Alle donne, tuttavia, è tradizionalmente negata la proprietà della terra, il che conduce a una minaccia diretta per i nostri minimi mezzi di sussistenza.

Come donna africana, io sono spesso oppressa dal razzismo, dal sessismo, dalla cultura, dal classismo e ora la crisi climatica si aggiunge come cappello.

Questo è il motivo per cui noi, Leonie e Hilda, abbiamo fatto squadra. Dobbiamo tutti ascoltare l’uno il dolore dell’altro, la paura, la sofferenza e altre emozioni causate dalla crisi climatica.

Noi abbiamo capito che essa è il pericolo più grave per gli esseri umani e in special modo per le donne.

Dobbiamo unirci e lottare contro la crisi climatica oltrepassando i confini continentali. Dobbiamo lottare per la protezione del clima senza sessismo, razzismo e oppressione e costringere i governi a fare altrettanto.

Fridays for NOW! – Hilda & Leonie”

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China 2009

“La Dabu, la matriarca che guida la famiglia Mosuo. Questo ruolo chiave è tenuto dalle donne più anziane fra i parenti. Lei è quella da cui discendono nome e proprietà, maneggia il danaro e organizza le cerimonie religiose.”

Credo sia una buona cosa il riuscire ancora a interessarsi di storia, arte, fotografia ecc. in questo momento così pieno di incertezza e sofferenza: il vostro interesse per “Grande cuori, mani forti” (28 febbraio u.s.) merita dunque una risposta.

Dove sono le altre società matriarcali? (Ovunque.) Sono tutte di antica origine? (No.) Raffigurano semplicemente l’oppressione di genere rovesciata? (Niente di più lontano dalla realtà.) Andate in miniera, allora, e poi vediamo (Questo è lo scemo di turno: adesso gli spiego tutto anche se è probabilmente inutile, così – in caso capisca qualcosa – almeno può uscire dalla garitta dove sta di vedetta contro l’invasione “femminazista” e andare a casa).

Il tratto comune a tutte le società matriarcali è che i figli/le figlie sono primariamente connessi alla madre: portano il suo nome e/o vivono nella casa del suo clan anche quando raggiungono l’età adulta. Spesso eredità e beni passano da madre a figlia. Molte società matriarcali sono agricole, laiche, costruite in modo orizzontale e non gerarchico, basate sull’eguaglianza di genere. In quelle ancora esistenti le donne giocano un ruolo centrale sul piano sociale, economico e (non sempre) politico.

La fotografa cecoslovacca-algerina Nadia Ferroukhi (le immagini qui presenti sono particolari di sue istantanee) ne ha girate parecchie e ha dato testimonianza delle sue esperienze qui:

http://nadia-ferroukhi.com/v4/sets/matriarcat/

Si tratta della serie “Nel Nome della Madre”, a cui ha dato un contributo significativo l’antropologa, etnologa e femminista francese Françoise Héritier (1933-2017).

Nadia ha vissuto con i Mosuo in Cina, i Tuareg in Algeria, i Minangkabau in Indonesia e i Navajo negli Usa – che sono le realtà di segno matriarcale più note, ma ha trovato società simili in Kenya, in Guinea-Bissau, nelle Comore, in Messico. Ritrarre le comunità in modo congruo e dettagliato non è stato facilissimo, spiega la fotografa: “La gente si aspetta da questo risultati spettacolari. Ma in effetti io ho fotografato la vita quotidiana.” Una vita quotidiana lontana dagli stereotipi e dai pregiudizi, in cui un’organizzazione sociale dà valore a ogni suo membro.

Riportare e tradurre tutto il lavoro di Nadia renderebbe questo articolo così lungo da divenire faticoso, perciò ho scelto degli “assaggi” che si accordano al mio incipit.

Comoros 2017

“Una giovane sposa sull’isola di Grande Comore. Dopo il matrimonio, il marito si trasferisce nella casa costruita per lei dalla sua famiglia, dove è considerato un ospite del clan matrilineare.”

NUOVO DI ZECCA:

E’ il villaggio di Tumai in Kenya, nato nel 2001 per fornire rifugio alle donne della tribù Samburu che erano state vittime di violenza domestica / violenza di genere. Simile a Umoja e a Jinwar

(https://lunanuvola.wordpress.com/2019/03/01/jinwar/) – la fondatrice Chili viene in effetti da Umoja – accoglie le divorziate, ha messo fuorilegge le mutilazioni genitali e non ammette gli uomini sopra i 16 anni d’età. Tumai è completamente autosufficiente. Tutte le decisioni sono prese per voto di maggioranza fra le donne, che allevano capre, costruiscono da sole le loro case, vanno a caccia se serve e tengono rituali sacri (allevamento a parte, le altre attività non sarebbero loro permesse in circostanze “normali”).

DIFFERENTI, NON SPECULARI:

Guinea-Bissau – “Lo stile di vita negli arcipelaghi, in particolare sull’isola di Canhabaque (3.500 persone) è stato scarsamente influenzato, quando per nulla del tutto, dalla civiltà moderna. Qui, le case sono di proprietà delle donne e sono gli uomini a trasferirsi dalle loro mogli. Sebbene il padre passi il suo cognome ai figli, è la madre che sceglie il primo nome ed è al suo clan che essi sono affiliati. L’isola è governata da una regina. C’è anche un re (che non è il marito della regina) ma il suo ruolo è limitato: è un semplice portavoce. Ogni villaggio è amministrato da un consiglio di donne, elette a vita.”

Messico – “Juchitán, una città di 78.000 abitanti nello stato messicano di Oaxaca è il luogo dove è nata la madre della pittrice Frida Kahlo. Durante i secoli, uomini e donne hanno sviluppato forme chiaramente identificate di autonomia. Le donne maneggiano il commercio, l’organizzazione di festival, la casa e la strada. Agricoltura, pesca e politica sono responsabilità degli uomini. Questo è uno dei pochi luoghi in Messico dove la lingua e i dialetti Zapotec sono ancora parlati. Usato negli scambi fra donne del vicinato e donne di passaggio, questo linguaggio ha costruito fra le donne una notevole solidarietà. Nome, casa e eredità si trasmettono in linea femminile. Perciò, la nascita di una figlia è fonte di grande gioia.”

Indonesia “La più grande società matrilineare al mondo, composta dai Minangkabau, si trova sulle colline della costa occidentale di Sumatra in Indonesia. Secondo il loro sistema sociale, tutte le proprietà ereditarie passano da madre a figlia. Il padre biologico non è tutore del bambino; è il mamak, il più anziano fra gli zii materni, ad assumere tale ruolo. Durante la cerimonia matrimoniale, la moglie va a prendere il marito nella casa di lui, accompagnata dalle donne della sua famiglia. L’adat, o “legge ordinaria”, determina una serie di regole tradizionali non scritte su questioni matrimoniali e proprietarie. In accordo a queste regole, qualora vi sia un divorzio il marito deve lasciare la casa e la donna mantiene la custodia dei figli e l’abitazione.”

QUESTE IN MINIERA CI VANNO GIA’:

Stati Uniti d’America – “La vita sociale della nazione Navajo è organizzata attorno alle donne, secondo un sistema matrilineare in cui titoli, nomi e proprietà si trasmettono in linea femminile. Quando una ragazza Navajo raggiunge la pubertà deve passare attraverso la Kinaaldá, una cerimonia di quattro giorni che segna il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questa cerimonia è collegata al mito Navajo della Donna Cangiante, la prima donna sulla Terra in grado di avere bambini. Nella riserva, le donne sono in genere più attive degli uomini. Non è insolito per loro tornare a studiare tardi durante le loro vite, persino dopo aver avuto figli.”

Usa 2011

Queste donne Navajo lavorano in una miniera di carbone, assicurandosi in tal modo totale indipendenza finanziaria.

Maria G. Di Rienzo

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amanirenas 2

Amanirenas (o Amanirena) fu regina – qore e kandake, “re” ed “erede matrilineare” – del Kush dal 40 al 10 BCE.

E’ solo una delle mille e mille figure femminili storiche sepolte da un metodo per cui se non corrispondono a uno stereotipo patriarcale è meglio non parlarne affatto. Questa poi, oltre a essere una guerriera, era pure cieca da un occhio!

Jason Porath – https://www.rejectedprincesses.com/ – racconta di lei così (l’illustrazione sottostante è sua):

“Molto tempo fa, quando Roma aveva messo gli occhi sul sud, una regina con un occhio solo combatté così fieramente che Roma non andò mai più oltre l’Egitto.

Il suo nome era Amanirenas.

Questa è la sua storia, e la storia di una testa famosa decapitata.

amanirenas

La vicenda inizia con la sconfitta di Cleopatra e Marcantonio per mano di Augusto.

Dopo aver annesso l’Egitto, Augusto e i suoi si ripromisero di spingersi ancora più a sud.

Ciò significa che la prossima nazione era quella di Amanirenas, regina del regno di Kush, in quello che oggi è il Sudan.

Florido quanto l’Egitto, Kush era tuttavia molto più piccolo dell’Impero Romano. Ad ogni modo, mentre Roma era distratta altrove, Kush colpì per primo.

Il marito di Amanirenas morì durante le prime battaglie, lasciando lei e il figlio a continuare la lotta.

Kush conquistò due grandi città romane, prese prigionieri ed espanse i confini del regno.

Come sberleffo finale, i Kushiti decapitarono numerose statue di Augusto.

Augusto non ne fu divertito. Roma reclamò le sue città, invase il Kush, distrusse la sua antica capitale e vendette migliaia di persone come schiave. Sembrava che Kush fosse stato messo in ginocchio. Non era così.

Amanirenas contrattaccò velocemente e ripetutamente, in apparenza usando alcune terrificanti tattiche di guerra.

Un’incisione mostra Amanirenas con due spade, mentre dà da mangiare prigionieri al suo leone domestico. Altre registrazioni descrivono l’uso di elefanti da guerra contro i nemici.

kandake

Dopo non molto, Roma acconsentì a un trattato di pace permanente (Ndt.: senza tributi o altre condizioni). Combinando resistenza ambientale e resistenza armata, Kush si dimostrò troppo difficile perché Roma continuasse a combattere.

Non conosciamo le opinioni di Kush sulla guerra. Sino a oggi, nessuno è riuscito a tradurre i loro geroglifici.

Kush scomparve 400 anni dopo, lasciando rovine che non furono oggetto di studio sino al 1900.

Come un tempio riscavato nel 1914. Gli archeologi furono sconvolti dal ritrovamento della testa di una statua di Augusto, il reperto di quel tipo meglio preservato che fosse sino allora sopravvissuto.

Stava sotto il piede di un governante kushita.”

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afronauts

Nel 2014 uscì il corto “Afronauts” della regista, sceneggiatrice e scrittrice ghanese Nuotama Frances Bodomo.

(per vederlo: https://fourthree.boilerroom.tv/film/afronauts)

Diventato rapidamente un film “cult”, è la trasposizione poetica e malinconica, in bianco e nero, della vera storia di come l’Accademia Spaziale dello Zambia tentò di battere sul tempo la missione statunitense diretta alla Luna nel 1969.

Il suo ritmo è quello di un sogno intenso che punta più sulla visualizzazione (angolature di ripresa, scenari, espressioni) che sul dialogo, rendendo in questo modo gli scambi relazionali maggiormente importanti rispetto all’azione. La protagonista, ovvero l’astronauta designata, è la diciassettenne Matha che vediamo impegnata nell’addestramento per il volo nello spazio: non si tratta solo di una emozionante impresa umana e tecnica – in un crescendo silenzioso quanto teso, la ragazza diventa l’incarnazione della richiesta di futuro per i corpi, le culture e le aspirazioni africane.

La buona notizia è questa: “Afronauts” avrà una nuova versione come lungometraggio. Negli ultimi sei mesi, con il sostegno di varie istituzioni (Sundance Institute, Tribeca Film Institute, IFP’s Emerging Storytellers program ecc.), la regista Bodomo ha viaggiato in Zambia intervistando gli attivisti per l’indipendenza, prominenti figure accademiche e i partecipanti originari al programma spaziale. Il film è quasi completo e noi amanti dell’sf siamo in fremente attesa di poterci immergere ancora nelle magiche atmosfere evocate dalla sublime narratrice Nuotama Frances Bodomo (in immagine qui sotto). Maria G. Di Rienzo

Nuotama Frances Bodomo

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wanuri

(tratto da: “Meet the director of the Kenyan lesbian romance who sued the government who banned it”, intervista a Wanuri Kahiu – in immagine sopra – di Cath Clarke per The Guardian, 12 aprile 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. Il film di cui si discute è uscito nei cinema britannici lo stesso giorno dell’intervista.)

“Sto per mettermi a piangere.”, dice Wanuri Kahiu, agitando le mani e sorridendo. Mi sta raccontando di un filone su Twitter in cui un mucchio di gente ha risposto alla domanda: “Qual è stato il giorno più felice della tua vita?”. Una giovane donna kenyota ha replicato: “Guardare “Rafiki” con mia madre e fare coming out.”

“Rafiki” è il nuovo film di Kahiu – una magnifica storia romantica su due ragazze che si innamorano a Nairobi. E’ un film gentile, con una scena di sesso così blanda da poter essere guardata assieme a un parente anziano. Ma in Kenya, una società conservatrice in cui 534 persone sono state arrestate fra il 2013 e il 2017 perché avevano relazioni con individui dello stesso sesso, “Rafiki” è stato bandito.

Negli ultimi dodici mesi, Kahiu è stata assalita sui social media, minacciata di arresto e ha sofferto innumerevoli commenti offensivi, a volte proveniente da membri della sua stessa famiglia. “Ho visto i commenti più spregevoli venire da persone che amo. – dice – E’ stato incredibilmente arduo.”

Allo stesso tempo, la sua carriera sta prendendo il volo. Qualche giorno prima di essere bandito, “Rafiki” è stato selezionato per Cannes. Ora, Kahiu ha due progetti in corso: una serie di fantascienza per Amazon Prime e la direzione di Millie Bobby di “Stranger Things” in uno sceneggiato per giovani adulti prodotto da Reese Witherspoon, il che la rende la prima donna africana a ottenere un contratto di questo tipo. Un articolo la definisce “la nuova Kathryn Bigelow”.

Ci incontriamo di prima mattina in un albergo di Londra. Kahiu è arrivata in volo ieri da Nairobi, dove vive con il marito cardiologo e i loro due bambini. Dimostra dieci anni in meno della sua età (39 anni), beve tè alla menta e parla con impegno e concentrazione.

I suoi guai iniziarono nell’aprile dello scorso anno, quando la Commissione cinematografica del Kenya le ha chiesto una revisione di “Rafiki” (che significa “amica/o” in Swahili). “Consideravano il film troppo ottimista. Mi dissero che se avessi cambiato il finale, mostrando la protagonista principale Kena che si pente, lo avrebbero classificato come vietato ai minori di 18 anni.”

Kahiu si rifiutò e il bando seguì, con la Commissione che dichiarava come il film cercasse di “promuovere il lesbismo in Kenya, contrariamente alla legge e ai valori dominanti dei kenyoti.”

Da questo pronunciamento in poi, Kahiu si è sentita minacciata. Il presidente della Commissione la ha accusata di aver falsificato la sceneggiatura per ottenere la licenza necessaria a girare il film: “Ha minacciato di farmi arrestare, ma non ha potuto perché noi non abbiamo mai infranto la legge.”

rafiki movie

(Samantha Mugatsia nel ruolo di Kena e Sheila Munyiva nel ruolo di Ziki in “Rafiki”.)

Quale sarebbe stato lo scenario peggiore? “Essere arrestata. Le prigioni in Kenya non sono il massimo del lusso.” La regista ha allestito un rifugio sicuro nel caso le autorità perseguitassero lei stessa o le attrici. Il linguaggio usato dal presidente della Commissione era incendiario: “Il tentativo di normalizzare l’omosessualità è analogo al mettere l’aria condizionata all’inferno.”

Kahiu fece causa con successo affinché “Rafiki” potesse essere mostrato nei cinema per sette giorni, al fine di renderlo idoneo agli Oscar (ma alla fine il Comitato di selezione per gli Oscar del Kenya non lo scelse come candidato per il miglior film straniero). “Tutto quel che ho fatto è un film su una storia immaginaria. Sto letteralmente solo facendo il mio lavoro.” Le cause legali si susseguono. La regista ha denunciato il governo per violazione della libertà di espressione e sarà di nuovo in tribunale in giugno. (…)

Wanuri Kahiu ha realizzato uno sceneggiato sul bombardamento del 1998 dell’ambasciata statunitense a Nairobi, poi un documentario sull’ambientalista vincitrice del Premio Nobel per la Pace Wangari Maathai. Ma il film che mostra al meglio le sue ambizioni è il corto “Pumzi”, venti minuti di afrofuturismo ambientati 35 anni dopo che la terza guerra mondiale ha estinto la vita sulla Terra.

In Africa non ha sperimentato sessismo perché regista donna, dice, in parte per la scarsità di registi di ambo i sessi, in parte perché le donne sono sempre state percepite come narratrici (“Racconti storie ai bambini per tenerli distanti dal fuoco mentre stai cucinando.”)

Ciò che trova deprimente è l’aspettativa per cui, essendo un’africana che crea film, il suo lavoro dovrebbe avere a che fare con la guerra, la povertà e l’Aids. “E’ la gente che pensa all’Africa come a un paese orribile, deprimente, che muore di fame. E perciò il tuo lavoro dovrebbe riflettere questo.” Kahiu rigetta l’idea che tutta l’arte del continente debba riflettere determinate istanze. Ciò di cui c’è bisogno, sostiene, sono nuove visioni dell’Africa: “Se non vediamo noi stessi come persone piene di speranza e di gioia non lavoreremo verso queste ultime due. Io credo davvero che vedere sia credere.” Per questo scopo ha creato Afrobubblegum, un collettivo che sostiene arte africana “divertente, spensierata e fiera”. (…)

Il tè è stato bevuto, le fotografie sono state scattare e Kahiu sta per tornare alla sua stanza, non per dormire ma per lavorare sulla sceneggiatura per Amazon. Durante i giorni festivi, suo marito tenta di lusingarla per staccarla dal portatile. Ma non è così semplice, spiega lei: “Se penso a un giorno perfetto, c’entra il lavoro. L’unico modo in cui posso gestire il patriarcato, la mascolinità tossica, l’unico modo in cui riesco a trovare un senso al fatto che questo film è in tribunale, che delle persone minacciano la mia esistenza e il mio lavoro, è scrivere e creare. E’ il solo modo in cui sento di avere il controllo della situazione.”

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(“Lesbian ‘witches’ chained and raped by families in Cameroon”, Thomson Reuters Foundation, editing di Katy Migiro, trad. Maria G. Di Rienzo.)

black lesbian pride

Yaounde, 2 ottobre 2018 – Durante un triste servizio domenicale in chiesa, la 14enne Viviane – stanca di lottare contro la sua attrazione per le ragazze – si rassegnò a una conclusione infelice: era stata stregata. A scuola e in chiesa a Yaounde, la capitale del Camerun, le era stato a lungo detto che avere predilezione per il proprio sesso non era solo un peccato, ma anche il segno che un sinistro incantesimo era stato gettato su di te.

“Non vedevo le ragazze come tutti gli altri – ho pensato che uno spirito maligno mi avesse posseduta. – ha detto al telefono a Thomson Reuters Foundation, con una mesta risata, dalla Francia, dove ha chiesto asilo l’anno scorso con l’aiuto della sua fidanzata – Così ho cominciato a pregare per mandarlo via.”

Ma le sue preghiere fallirono. Quattro anno più tardi, Viviane fu incatenata al muro e violentemente stuprata da un uomo che la sua famiglia la forzò a sposare, dopo aver scoperto che era lesbica.

Dal Sudafrica all’India all’Ecuador, persone gay sono sottoposte a “stupro correttivo” dalle loro famiglie, da estranei e da vigilanti che credono l’omosessualità sia una malattia mentale che deve essere “curata”.

A volte, ciò è perpetrato con la copertura delle tenebre o quando il picchiare della pioggia su tetti di latta attutisce le grida, gay del Camerun hanno narrato a Thomson Reuters Foundation. Altre volte è orchestrato da membri della famiglia che regolarmente si fanno “giustizia” da soli, torturando, stuprando e assassinando parenti gay e lesbiche che loro pensano essere streghe o sotto maledizione.

La credenza nella stregoneria è diffusa in Camerun. Anche se è illegale praticare magia nera, le autorità fanno poco per impedire alle famiglie di consultare maghi che compiono sacrifici rituali per “curare” i loro parenti dall’omosessualità.

Le relazioni fra persone dello stesso sesso sono tabù all’interno dell’Africa, che ha alcune delle leggi più proibitive al mondo contro l’omosessualità. Persone gay sono di routine ricattate, assalite e/o stuprate, e subiscono sanzioni penali che vanno dall’imprigionamento alla morte. Un rapporto del 2017 dell’ILGA – International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, attesta che 33 paesi africani su 54 criminalizzano le relazioni fra persone dello stesso sesso.

Gli atti omosessuali costano cinque anni di prigione in Camerun, dove secondo CAMFAIDS (un gruppo di sostegno LGBT+) almeno 50 persone sono state condannate – fra il 2010 e il 2014 – per crimini che vanno dall’indossare abiti dell’altro sesso a quello dell’uomo che ha inviato un messaggio di testo con scritto “Ti amo” a un altro uomo.

“La violenza anti-LGBT+ sta peggiorando.”, ha detto Michel Engama, direttore di CAMFAIDS, il cui predecessore Eric Ohena Lembembe è stato trovato morto nel 2013 con il collo spezzato e il volto bruciato da un ferro da stiro, come riportato da Human Rights Watch.

Almeno 600 attacchi e reati omofobici sono stati registrati in Camerun lo scorso anno, secondo

Humanity First Cameroon, un’organizzazione che raggruppa associazioni LGBT+, con una lesbica su cinque e un gay su dieci che hanno denunciato di essere stati stuprati. Gli attivisti dicono che la vera dimensione del problema è probabilmente molto peggiore, poiché la maggior parte degli assalti non sono denunciati.

La famiglia di Viviane la picchiò e la frustò dopo aver scoperto i messaggi di testo espliciti che aveva mandato alla sua ragazza. Sua zia e i suoi fratelli la portarono al loro villaggio, dove lo stregone locale la costrinse a bere pozioni a base di sangue di gallina e le inserì peperoncini piccanti nell’ano, giustificando il tutto come un rituale di “purificazione”.

Trovarle un marito che fosse pastore della chiesa era una possibilità di ripulire il nome della famiglia, ha spiegato Viviane. Il fatto che avesse già due mogli e 30 anni più di lei non fu preso in considerazione. “Non ci furono discussioni al proposito. – ha detto, aggiungendo che la famiglia ricevette la “dote” dal pastore ancor prima che lei fosse informata dell’accordo – Per loro, io ero una specie di collana che avevano venduto.”

Sebbene lo stupro sia reato in Camerun, non c’è la possibilità che una simile violazione sia ascritta a un marito, ha detto Viviane: “Un pastore in Camerun è come un dio. Dio non può violentare. E se lo accusi di stupro, il diavolo sei tu.”

Nel mentre Viviane ha ritenuto che la sua miglior opzione fosse fuggire dal paese, Frederique ha parlato pubblicamente dopo aver subito uno stupro di gruppo nel 2016, dopo aver lasciato in taxi un seminario LGBT+ a cui aveva partecipato a Yaounde. Il tassista si fermò per salire un altro uomo e guidò sino a una parte deserta della città, dove entrambi la violentarono mentre la schernivano accusandola di essere una lesbica e una strega.

“Continuavano a urlare che io meritavo quel castigo, che mi stavano correggendo. – ha detto la 33enne, che ha ormai raccontato la sua storia a centinaia di ragazze durante incontri e seminari in Camerun – Se avessi denunciato penalmente, sarei stata vista non come una vittima, ma piuttosto come qualcuna che si era meritata quel che era accaduto.” Frederique crede che la sua decisione di parlare le abbia salvato la vita: “Anche una mia amica è stata stuprata e si è sentita completamente sola, isolata, depressa. Si è quasi uccisa. – dice cercando di trattenere le lacrime – Io avevo pensato di fare lo stesso. Ma ero anche così furibonda. Non volevo che altre ragazze patissero questo, ne fossero vittime come me. Volevo esporre i perpetratori per far finire tutto questo.”

Non è facile, dice anche. Le lesbiche in Camerun vivono ogni giorno in segretezza e prudenza, comunicando con nomi in codice e cambiando di frequente i luoghi pubblici in cui si incontrano. “Continuiamo a lottare, – dichiara – anche se siamo doppiamente discriminate: prima come donne e poi come lesbiche.”

Engama di CAMFAIDS sa che le precauzioni non garantiscono sicurezza e sottolinea come il ventenne Kenfack Tobi Aubin Parfait sia stato picchiato a morte, il mese scorso, da suo fratello maggiore che credeva fosse gay.

“C’è una vera guerra condotta contro di noi. – dice Engama, che riceve regolarmente minacce di morte – Ma continueremo a lottare sino a che si saranno stancati… Nessuno può darci la libertà. Dobbiamo prendercela.”

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Il terzo romanzo di Trifonia Melibea Obono, “La Bastarda”, segna un primato: è il primo di un’Autrice della Guinea Equatoriale a essere tradotto in inglese.

lawrence e trifonia

(Trifonia Melibea Obono e il traduttore Lawrence Schimel)

Uscito sul mercato internazionale il 17 aprile scorso – distribuito da Feminist Books per gli Usa, Modjaji Books per il Sudafrica, Turn Around per la Gran Bretagna – narra la storia di Okomo, un’adolescente orfana di madre che vive con la nonna e a cui sono proibite molte cose: Okomo non risponde agli standard della femminilità patriarcale ed è perciò un’emarginata, ma scoprirà di non essere la sola a portarsi addosso quest’etichetta. Entrata in contatto con un gruppo “misterioso” di ragazze che fanno una bandiera dell’essere giudicate indecenti, sebbene debbano incontrarsi segretamente, Okomo si innamorerà della loro leader e si ribellerà contro le rigide norme culturali che le sono imposte.

Trifonia Melibea Obobo è nata a Evinayong, nella Repubblica della Guinea Equatoriale, nel 1982. E’ docente universitaria alla Facoltà di Letteratura e Scienze Sociali nel suo paese e fa parte del Centro per gli studi afro-ispanici dell’UNED (università nazionale per l’istruzione a distanza) spagnola.

Chi ha già letto “La Bastarda”, in particolare altre scrittrici, ne è entusiasta:

Alexis Pauline Gumbs (“M Archive: After the End of the World”): “Un romanzo di svolta che dice al mondo, a partire dalla propria prospettiva, che c’è così tanta necessaria vita fuori, oltre, prima e dopo il patriarcato. Per coloro di noi a cui è stato detto che non esistiamo. Che non possiamo esistere. Che non dovremmo esistere. Questa storia innovativa piena di amore e di cura serve da incantesimo per ricordarci che esistiamo, siamo esistite e dobbiamo sostenerci l’una con l’altra per esistere e vivere come siamo.”

Maggie Thrash, (“Honor Girl”): “Sebbene io viva a un mondo di distanza dalla Guinea Equatoriale, ho visto molto di me stessa in Okomo: un “maschiaccio”, smaniosa di essere libera e di sfuggire al gioco truccato della società. Ho fatto il tifo per lei a ogni pagina e ho desiderato per me stessa e per tutte le ragazze che noi si sia abbastanza coraggiose da creare il nostro proprio mondo.”

Maria G. Di Rienzo

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“Figure religiose, il governo, i tuoi genitori – tutti vogliono aver da dire su quel che fai in mezzo alle tue gambe. Io voglio dirti che non è affar loro e che il tuo corpo, i tuoi desideri e le tue idee appartengono solo a te. Se a loro non piace quel che sei, sono loro ad avere torto.” Rima, donna bisessuale, Libano.

mani arcobaleno

Così si apre il rapporto “Audacia nell’avversità – Attivismo lgbt in Medio Oriente e Nord Africa” (2018) curato da Human Rights Watch, che con la collaborazione di AFE (Fondazione Araba per le libertà e l’eguaglianza) ha anche prodotto alcuni video al proposito: in essi, attivisti e attiviste mandano messaggi di sostegno e incoraggiamento alle persone lgbt che vivono nelle zone indicate.

“Nonostante la repressione sponsorizzata dallo stato e lo stigma sociale, persone lesbiche, gay, bisessuali e transgender in Medio Oriente e Nord Africa stanno trovando modi per far sentire le proprie voci.

Stanno raccontando le loro storie, costruendo alleanze, creando reti oltre i confini, sviluppando movimenti nazionali e regionali, e trovando modi creativi di combattere omofobia e transfobia.”, dice la presentazione.

Il rapporto completo, 83 pagine, lo trovate qui:

https://www.hrw.org/sites/default/files/report_pdf/lgbt_mena0418_web_0.pdf

(Non sono riuscita a trovare un link funzionante per i video)

Ho dei problemi con alcune scelte di Human Rights Watch e non conosco la Fondazione che ha collaborato al progetto, ma si tratta pur sempre di materiale che val la pena conoscere.

Maria G. Di Rienzo

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