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Posts Tagged ‘gender gap’

(tratto da: “The Double X Economy by Linda Scott review – the need to empower women”, di Gaby Hinsliff per The Guardian, 18 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Il libro di cui si tratta è edito da Faber.)

Linda Scott

Il nuovo libro di Scott (in immagine), The Double X Economy, ruota attorno all’ormai relativamente nota idea che al fianco di quella che è vista come l’economia principale si svolga un’economia ombra di lavoro fatto dalle donne, penalizzate dai limiti sociali posti per esse e dalle barriere erette contro la loro partecipazione, e che potenziare coloro che vi sono intrappolate sarebbe di più largo beneficio per la società intera.

Ciò che lei porta a questo argomento un po’ usurato è una prospettiva globale, attingendo ad aneddoti spesso affascinanti sui villaggi africani e del Bangladesh in cui ha lavorato, ma anche un’entusiasmante presa di posizione contro il biasimare le donne per cose di cui non hanno colpa.

Cercare costantemente modi in cui le donne possano essere “aggiustate”, in modo che finalmente guadagnino gli stessi benefici economici degli uomini è, argomenta lei, mancare di vedere che sono spesso gli uomini – o più specificatamente le dinamiche che certe volte sorgono da gruppi di uomini – che hanno necessità di essere aggiustate.

“Le donne sono pagate meno non perché siano meno istruite, meno motivate, meno ambiziose, meno propense a chiedere più soldi, più deboli, più codarde, più pigre, destinate a essere madri che stanno a casa, o qualsiasi altra delle centinaia di scuse sputate fuori dalla cultura popolare che biasimano le donne. – è uno dei passi brucianti del libro – Sono pagate meno perché uomini ostili e le istituzioni che essi creano continuano a trovare maniere per frustrare l’eguaglianza di genere.” (…)

Il punto centrale di Scott è che lo stesso schema di eguaglianza economica femminile accoppiata alla minaccia di violenza maschile è identificabile su tutto il pianeta: è davvero possibile che le donne ovunque abbiano preso le stesse decisioni fallimentari ripetutamente, o piuttosto c’è qualcosa che le ostacola e le ferma? Il vantaggio delle lenti non occidentali da lei usate per questo argomento consiste nel rendere più facile vedere ingiustizie palpabili quando sono portate all’estremo – in società dove le donne ancora non possono di diritto avere proprietà, scegliere chi sposare o rifiutarsi di fare sesso – piuttosto di quando sono in casa tua. (…)

“Nessuna scusa giustifica la sofferenza sopportata dalle donne – scrive Linda Scott – ma questo non impedisce alla gente di continuare a provarci.”

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(tratto da: “Women stage ‘mass scream’ in Switzerland over domestic violence and gender pay gap”, Reuters, 15 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

mass scream

Donne in tutta la Svizzera hanno scatenato le loro grida durante una protesta nazionale che chiede eguale trattamento e la fine della violenza per mano degli uomini.

L’anno scorso, mezzo milione di persone marciò per evidenziare lo scarso risultato della nazione rispetto ai diritti delle donne. La versione di quest’anno di quello che le organizzatrici chiamano lo Sciopero delle Donne è stata più contenuta, domenica scorsa, a causa delle restrizioni relative al coronavirus.

“Per me è emozione. Perché io grido per me, ma grido anche per le mie sorelle e i miei fratelli, grido per tutti gli altri bambini che hanno perso una madre o un padre, e grido anche per mia madre che avrebbe gridato lei pure, se fosse ancora qui.”, ha detto Roxanne Errico, una studente 19enne che racconta come sua madre fu uccisa dal partner violento.

Un’altra residente di Ginevra, Rose-Angela Gramoni, dice di aver partecipato a tutti gli scioperi delle donne sin dal 1991. “Ora posso morire in pace, la prossima generazione è qui per subentrare. Ma per un po’ sono stata molto triste. Pensavo che avevamo lottato per molte cose ma non avevamo finito il lavoro e non c’era nessuna che l’avrebbe fatto.”, dice Gramoni, che è sulla settantina.

La Svizzera ha un’alta qualità della vita ma resta indietro rispetto ad altre economie sviluppate nei salari delle donne e nell’eguaglianza sul posto di lavoro. Le donne guadagnano circa un quinto in meno degli uomini, meglio di trent’anni quando guadagnavano un terzo ma in peggioramento dal 2000, secondo i dati forniti dal governo.

Migliaia di marciatrici a Ginevra e in altre città svizzere hanno gridato per un minuto a partire dalle 15.24 – l’ora del giorno in cui le donne, tecnicamente, cominciano a lavorare gratis a causa del divario nelle paghe. Hanno anche inscenato un flash mob e tenuto un minuto di silenzio per le donne uccise da mariti e compagni. Le dimostranti hanno condannato la violenza contro le donne e contro la comunità Lgbt, e chiesto riconoscimento per il lavoro di cura non pagato in famiglia e a favore di parenti.

swiss women - mass scream

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(tratto da: “Global gender equality will take another 100 years to achieve, study finds”, di Jessie Yeung, per CNN Business, 17 dicembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

italia

Molte di noi non vivranno per vedere l’eguaglianza di genere raggiunta in tutto il mondo, secondo un nuovo studio che predice come la pietra miliare sia distante almeno 100 anni.

L’annuale Global Gender Gap Report del World Economic Forum posiziona l’Islanda come il paese con maggior eguaglianza di genere per l’undicesimo anno consecutivo, seguito dai vicini nordici Norvegia, Finlandia e Svezia. Siria, Pakistan, Iraq e Yemen sono agli ultimi posti.

Il rapporto analizza 153 paesi nel loro progresso verso la parità di genere, concentrandosi su quattro temi principali: partecipazione economica, conseguimenti nell’istruzione, salute e sopravvivenza, potenziamento politico.

“L’inchiesta di quest’anno mette in luce la crescente urgenza di azione. – dice il rapporto – Con l’attuale tasso di cambiamento, ci vorrà circa un secolo per raggiungere la parità, una sequenza temporale che è semplicemente inaccettabile nel mondo globalizzato di oggi, in special modo fra le generazioni più giovani che palesano visioni sempre più progressiste sull’eguaglianza di genere.”

Alcuni dei quattro temi mostrano del progresso; per esempio, 35 paesi hanno già raggiunto l’eguaglianza di genere nell’istruzione e tutti i paesi dovrebbero raggiungerla entro 12 anni: progresso che è largamente dovuto ai recenti avanzamenti nei paesi in via di sviluppo, dice il rapporto. La salute e la sopravvivenza delle donne stanno anche migliorando, con 48 paesi oggetto della ricerca che hanno raggiunto quasi la piena eguaglianza.

Per altre aree, tuttavia, ci vorrà più tempo. La partecipazione e le opportunità economiche quest’anno per le donne sono regredite: “solo una manciata di paesi” si stanno appena avvicinando all’eguaglianza e il mondo avrà bisogno di 257 anni in più per ottenerla pienamente. Di media, solo poco più di metà delle donne adulte sono nel mercato del lavoro di fronte al 78% degli uomini, dicono gli autori del rapporto.

Il divario di genere nella rappresentazione politica pure ristagna: nessun paese ha completamente chiuso la differenza e, globalmente, la stima dà 95 anni per raggiungere l’eguaglianza.”

Potete leggere l’intero rapporto qui:

http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf

L’Italia arretra al 76° posto, surclassata da nazioni quali Bosnia Erzegovina, Montenegro, Kazakistan e Botswana. Se lo trovate consolante vi dirò che facciamo meglio del Suriname (77)…

Ma chissà, forse il prossimo anno raggiungeremo la posizione n. 41 come la Giamaica? Il ventesimo posto dell’Albania no, vedete ogni giorno quanto tempo ci vuole in Italia per trattare le donne da esseri umani.

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(“What to Do About Climate Change? Ask Women – They Have the Most to Lose”, di Winnie Byanyima – in immagine – direttrice esecutiva di Oxfam International, 18 dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

winnie byanyima

Il cambiamento climatico è sempre stato una questione politica. Alle sue radici vi sono enormi sbilanciamenti di potere e diseguaglianza, che si sono mostrati durante le recenti discussioni sul clima delle Nazioni Unite in Polonia. Questi sbilanciamenti definiscono chi è maggiormente vulnerabile agli impatti del cambiamento climatico, quali vite e mezzi di sostentamento saranno o sono già sottosopra. In nulla ciò è più palese che nel divario di genere: la lotta per la giustizia climatica e la giustizia di genere devono andare mano nella mano.

Il cambiamento climatico colpisce le donne in modi profondamente differenti dagli uomini. Cultura e tradizione in molti luoghi assegnano il ruolo di cura delle famiglie alle donne. Sono le donne, per esempio, a essere responsabili del raccogliere legna, dell’andare a prendere acqua e del coltivare cibo per nutrire bocche affamate. Perciò, mentre gli impatti del cambiamento climatico prendono controllo, sono le donne a dover stare sulla prima linea dell’adattarsi e trovare soluzioni: nuove fonti d’acqua; nuovi modi per sfamare le loro famiglie; nuove coltivazioni da far crescere e nuovi modi per farle crescere; nuovi modi di cucinare.

Nel mio paese, l’Uganda, le donne camminano già fino a sei ore al giorno per raccogliere acqua. Con le stagioni secche che stanno diventando più lunghe, le donne saranno costrette a camminare ancora di più. Come ho detto ai leader (in maggioranza uomini) del G7 a nome del Comitato consultivo sul genere quest’anno, chiunque dubiti delle fondamenta scientifiche che accertano il cambiamento climatico dovrebbe tentare di discuterne con le donne che camminano sempre più lontano ogni anno per andare a prendere l’acqua.

Le nazioni ricche sono state svergognate ai dibattiti sul clima perché hanno mancato di riconoscere l’urgenza del limitare gli impatti del cambiamento climatico. Mentre i paesi vulnerabili ad esso hanno chiesto un responso d’emergenza, una manciata di paesi ricchi principalmente esportatori di petrolio – inclusi il Kuwait, la Russia, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti – ha negato la ragione scientifica che sta dietro a queste richieste di azioni urgenti.

Il cambiamento climatico ha effetti su tutti, ma le persone povere che vivono già ai margini ecologici sono colpite nel modo più duro. Spesso contano sulla pioggia per le loro coltivazioni, vivono in strutture fatiscenti e non hanno risparmi o assicurazioni su cui contare quando il disastro arriva.

Quando il disastro colpisce, come la carestia nel Sahel proprio ora, sono le bambine a essere tolte da scuola per aiutare le famiglie in difficoltà a far quadrare i conti. Sono le donne che restano senza niente quando non c’è abbastanza cibo per tutti. Le donne hanno meno beni su cui contare e sono largamente assenti dal processo decisionale, il che aggrava la loro vulnerabilità.

Quanto vulnerabile sei già per cominciare – quale è il tuo status nella nostra società diseguale – ha una grandissima influenza sul modo in cui il cambiamento climatico avrà impatto su di te. Per le donne, già vulnerabili, il cambiamento climatico inasprisce i loro fardelli già esistenti relativi alla cura.

Pochi negano che le donne siano le più colpite dal cambiamento climatico, ma vi è scarso accordo su cosa fare al proposito. C’è voluta una lunga lotta per aumentare l’importanza del genere nei dibattiti sul clima. L’anno scorso un Piano d’azione di genere fu approvato dopo un decennio di pressioni da parte di impegnate attiviste. Eppure, l’idea che la comunità internazionale debba prestare attenzione alle dinamiche di genere mentre sviluppa e implementa politiche sul cambiamento climatico resta assai delicata. I ripetuti sforzi, durante la prima settimana di negoziazioni in Polonia, di affrontare l’impatto sproporzionato della migrazione forzata sulle donne sono falliti, bloccati da un negoziatore del gruppo di paesi arabi. Sembra che menzionare i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, sia troppo da tollerare per alcuni paesi: l’argomento è stato escluso dall’accordo.

Se vogliamo impedire al cambiamento climatico di calpestare i diritti delle donne e delle persone maggiormente vulnerabili, allora dobbiamo lottare per società più egualitarie. Ciò significa mettere in discussione i ruoli di genere, condividere più equamente il lavoro fra uomini e donne e aumentare la partecipazione delle donne al processo decisionale.

Significa anche che dobbiamo guardare alle nostre economie, che non danno valore ai contributi delle donne. Le nostre economie ignorano l’invisibile e non pagato lavoro di cura svolto da milioni di donne in tutto il mondo. C’è un’impressionante similitudine su come la nostra economia ignora il costo del cambiamento climatico fuori controllo: mancando di far pagare gli inquinatori. Queste sono entrambe conseguenze di un’economia corrotta. E’ un’economia che conta le cose sbagliate, cercando la crescita del PIL a ogni costo.

Le persone nei consigli d’amministrazione e nei governi che prendono le decisioni che alimentano il disastro climatico e la diseguaglianza sono in maggioranza uomini bianchi benestanti. I miliardari sono ricompensati a spese dei salari da fame per molti e a spese di un pianeta abitabile.

Ricordatelo, su 10 miliardari 8 sono maschi; la maggioranza dei poveri del mondo sono femmine. E’ un periodo favorevole per i miliardari e la loro sproporzionata quota di emissioni! A mia zia – contadina nell’Uganda rurale – ci vorrebbero 175 anni per produrre lo stesso tasso di emissioni di quelli che stanno nell’1%!

A Oxfam, e nel più vasto settore umanitario, crediamo in un mondo libero dall’ingiustizia della povertà, una lotta che non può essere separata da quella per la giustizia climatica e per l’eguaglianza di genere. Per arrivarci, abbiamo necessità di cambiamenti su vasta scala al nostro modello economico dominante e nel modo in cui conduciamo la politica. Dobbiamo riconoscere gli oneri e le discriminazioni poste sulle donne nelle case, nelle situazioni di crisi e nella nostra struttura economica e cominciare a considerare il genere quando affrontiamo gli impatti del cambiamento climatico. E poiché la comunità scientifica ci sta dicendo che abbiamo solo 12 anni per prevenire l’innalzamento globale fuori controllo delle temperature, abbiamo bisogno di cambiare velocemente.

Nei prossimi mesi, i governi devono seguire le indicazioni delle nazioni maggiormente vulnerabili e cominciare immediatamente a rafforzare i loro impegni all’azione incluso l’aggiungere le voci delle donne al processo.

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kazuna yamamoto

Kazuna Yamamoto, in immagine, ha 21 anni e studia relazioni internazionali (scienze politiche) alla International Christian University di Tokyo. Nello scorso dicembre, la rivista settimanale “Spa!” ha pubblicato un servizio che consisteva nella classifica di cinque università giapponesi basata su questo criterio di “eccellenza”: quanto ci vuole a convincere, durante feste e festini con alcolici, le studentesse di ciascun ateneo a fare sesso. L’articolo ha avuto “grande diffusione”, dice il resto della stampa.

Kazuna ha risposto con una petizione online che chiedeva la rimozione del pezzo e che ha ricevuto 40.000 firme in sei giorni. Questa settimana la casa editrice della rivista si è “scusata”, sostenendo che stava solo cercando di sottolineare una sorta di “fenomeno sociale” per cui gli uomini sono disposti a pagare le universitarie affinché partecipino alle loro allegre bevute e che, nel farlo, ha probabilmente usato termini “non corretti”. Un suo portavoce si è detto persino disposto a incontrare Kazuna Yamamoto – non sappiamo se per chiederle quanto vuole per andare a festeggiare al bar con la redazione.

La giovane ha comunque rigettato le scuse: “Non sono sul merito. – ha detto in un’intervista telefonica a Thomson Reuters Foundation – Dicono che sono dispiaciuti per le parole fuorvianti, ma non si stanno scusando per l’idea in se stessa, per il modo in cui stanno trattando le donne e oggettivando le donne. In Giappone l’oggettivazione e la sessualizzazione delle donne sono ancora così normali che la gente non comprende davvero perché ciò è un problema.”

L’anno scorso, sempre nell’ambito universitario giapponese, un’indagine scoprì che una facoltà di medicina manipolava i test d’ingresso delle applicanti femmine per tenerle fuori e aumentare il numero di medici maschi. Nell’ultima valutazione (2018) del “Global Gender Gap report” (rapporto sul divario di genere redatto dal World Economic Forum), il Giappone si situa al 110° posto su 149 nazioni prese in esame: il che significa alta discriminazione, alto tasso di violenza domestica e violenza di genere, alto divario sui salari ecc. – ovvero i risultati normali del rappresentare normalmente le donne come giocattoli sessuali invece che come esseri umani.

Noi non abbiamo di che stare allegre: l’Italia, nella medesima lista, si situa all’82^ posizione. Per fortuna, giovani attiviste come Kazuna stanno spuntando dappertutto.

Maria G. Di Rienzo

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Dopo l’uscita (walkout) dagli uffici del suo personale in cinquanta città di tutto il mondo, Google ha annunciato che cambierà la propria politica sulle molestie sessuali sul lavoro, basata in precedenza su negoziazioni forzate, udienze segrete e richieste di firme su accordi di confidenzialità.

L’oltraggio è diventato pubblico quando un’indagine del New York Times ha rivelato che Google aveva pagato una buonuscita di 90 milioni di dollari a un alto dirigente, avendo giudicato credibili le accuse di molestie avanzate nei suoi confronti: ecco perché la seconda donna da sinistra, nell’immagine qui sotto, regge il cartello “Felice di mollare il lavoro per 90 milioni di dollari – Non sono richieste molestie sessuali”.

google walkout

L’amministratore delegato di Google, Sundar Pichai, ha dichiarato di riconoscere che “non abbiamo fatto sempre le cose giuste in passato e siamo davvero spiacenti per questo. E’ chiaro che dobbiamo operare alcuni cambiamenti.” Nello specifico, intende migliorare i processi di indagine, condividere i dati sulle denunce di molestie e sui risultati dei suddetti processi, fornire sistemi di sostegno per le persone che denunciano e far passare la negoziazione privata da obbligatoria a facoltativa.

E’ pur sempre un primo passo per la compagnia che quest’anno ha cercato di ridurre al silenzio la sua impiegata Loretta Lee, ingegnera programmatrice di software, che aveva denunciato legalmente le molestie subite. Lee aveva descritto una cultura di complicità fra uomini, all’interno dell’azienda, che permetteva e incoraggiava giornalmente “commenti osceni, scherzi volgari e persino violenza fisica”.

Tuttavia, la Tech Workers Coalition (TWC), un’organizzazione sindacale che include impiegati di Google, fa notare che “chi è impiegato a part-time, i fornitori e i lavoratori autonomi continuano a non avere protezione adeguata dall’aggressione sessuale”: questo ampio segmento di forza lavoro è composto in modo sproporzionato da donne e persone di colore, non ha ricevuto la mail con cui Pichai annunciava il cambiamento ed è stato deliberatamente escluso da un incontro pubblico al proposito. La TWC dice che “ciò dimostra il sistema di caste dispiegato da Google, che non è in grado di proteggere i suoi impiegati e nostri colleghi. E’ impressionante come un’azienda che ama innovare manchi così tanto di prospettiva nel garantire a tutta la sua forza lavoro una dignità di base.”

Irrisolta appare pure la questione della discriminazione salariale, che è un problema crescente per le donne all’interno di Google, sebbene la compagnia avesse allegramente dichiarato in passato di aver “chiuso il divario di genere”: lo ha chiuso talmente bene che è in atto un’azione legale collettiva contro di essa (e chi sta facendo le indagini ritiene che le querelanti abbiano fornito prove sostanziali delle loro affermazioni).

Le organizzatrici e gli organizzatori del “walkout” vogliono in effetti che Google si occupi anche di questo. “Chiediamo una vera cultura di eguaglianza – ha dichiarato alla stampa una di loro, Stephanie Parker – e la dirigenza di Google può ottenerla mettendo un rappresentante dei lavoratori nel consiglio d’amministrazione e dando pieni diritti e tutele ai lavoratori a contratto, che sono i più vulnerabili e che in maggioranza sono donne di colore.” Non sappiamo come affronterà la seconda questione, ma sappiamo che sulla prima Pichai ha fatto orecchie da mercante.

Maria G. Di Rienzo

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L’Italia sul podio: medaglia di cartone bucato per l’80° posto nella classifica del “Global Gender Gap Index 2012” (su 135 paesi). Il rapporto sul divario di genere nelle nazioni, misurato dal World Economic Forum sin dal 2006, ha lo scopo di provvedere una fotografia di “dove gli uomini e le donne si situano rispetto a diritti di base come la salute, l’istruzione, la partecipazione economica e politica”. L’Italia è scivolata indietro di ben 6 posizioni rispetto al 2011 e uno degli aspetti peggiorati notevolmente è il divario salariale (be’, non occorre vi dica chi guadagna meno fra uomini e donne, vero?).

 

Tanto per fare un esempio, sono messi meglio di noi nel garantire equità di genere Cipro (79), Botswana (77) e Brunei (75), ma possiamo consolarci – siamo almeno più bravi di Malta (88), perdinci! I primi quattro posti, come al solito, ruotano fra i paesi del nord Europa; quest’anno sono Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia. Credo che un grande plauso per aver garantito l’arretramento delle donne in ogni settore della vita pubblica vada al benemerito governo Berlusconi e alla sua Ministra per le P.O. (Povere Oche) Carfagna, e che degnamente lo abbiano seguito il governo Monti e la sua Ministra per i P.O. (Piagnistei Ostentati) Fornero. Adesso andate a votare Cinquestelle, mi raccomando, dove le tre donne che ci sono si definiscono “attivisti” e dove probabilmente pensano che il “gender gap” sia un complotto della massoneria. Maria G. Di Rienzo

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