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Posts Tagged ‘povertà’

(tratto da: “The stranded babies of Kyiv and the women who give birth for money”, un lungo e dettagliato servizio di Oksana Grytsenko per The Guardian, 15 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt: Kyiv è la capitale dell’Ucraina che siamo soliti chiamare Kiev, con la sua pronuncia russa.)

hotel venice

(Neonati partoriti da madri surrogate ucraine all’Hotel Venice a Kyiv. Particolare di una foto di Sergei Supinsky/AFP.)

Alcuni stanno piangendo nelle loro culle; altri sono cullati o nutriti con il biberon dalle bambinaie. Questi neonati non sono nella nursery di un reparto maternità: stanno in fila fianco a fianco in due grandi sale da ricevimento di un albergo dall’improbabile nome “Hotel Venezia” situato alla periferia di Kyiv e protetto da mura esterne e filo spinato.

Sono bambini di coppie straniere nati da madri surrogate ucraine nel Centro per la riproduzione umana della BioTexCom che ha base a Kyiv ed è la più grande clinica di questo tipo al mondo. Sono arenati nell’albergo perché i loro genitori biologici non sono stati in grado di viaggiare fuori o dentro l’Ucraina da quando, in marzo, i confini sono stati chiusi a causa della pandemia Covid-19. (…)

La BioTexCom ha rilasciato materiale video dall’hotel a metà maggio per sottolineare il doloroso dilemma dei genitori e per fare pressione affinché la chiusura dei confini sia mitigata. La situazione critica dei neonati ha fatto scalpore in tutto il mondo ma, a distanza di un mese, circa 50 bambini restano nell’albergo e la saga sta gettando una dura luce sull’etica e sulle dimensioni della crescente industria commerciale delle gravidanze in Ucraina.

Mykola Kuleba, il difensore civico dei bambini per l’Ucraina, dice ora che riformare il sistema da lui descritto come una violazione dei diritti dei minori non è stato sufficiente e che i servizi di maternità surrogata per le coppie straniere in Ucraina dovrebbero essere banditi.

Tuttavia, in un’economia impoverita, dove lo stipendio medio è di trecento sterline al mese e la guerra con la Russia e i suoi sostenitori continua, molte donne indigenti – in special modo nelle piccole città e nelle zone rurali – si stanno ancora mettendo in fila per restare incinte per denaro, anche se stanno pagando, come gli attivisti credono, un alto prezzo psicologico e in termini di salute.

A Vinnytsia, una città a sudovest di Kyiv, Liudmyla sta ancora aspettando il saldo della sua parcella per aver partorito una bimba a febbraio per conto di una coppia tedesca. Manda regolarmente messaggi all’agenzia (non la BioTexCom) che, sostiene, le deve 6.000 euro: “Continuano a rispondermi che non possono mandarmi l’intera somma a causa del lockdown.”

Sebbene Liudmyla, 39enne, abbia ricevuto il trasferimento di embrione a Kyiv e abbia passato la maggior parte della sua gravidanza a Vinnytsia, l’agenzia le ha chiesto di partorire in Polonia, di modo che la neonata fosse registrata là. Il personale ospedaliero non sapeva che Liudmyla era una madre surrogata, perché la maternità surrogata è bandita in Polonia, come nella maggioranza degli stati europei.

“Non volevo darla via, piangevo.”, ricorda Liudmyla. Dice che dopo essersi presa cura di lei per due giorni nel reparto maternità, lasciarla andare è stato uno strazio. Commessa e madre single, Liudmyla ha faticato per anni per trovare una casa per se stessa e i suoi tre figli che fosse migliore della singola stanza in cui vivevano in un ostello. Perciò nel 2017 andò a una clinica per la maternità surrogata e con il denaro ricevuto fu in grado di accendere un mutuo per un appartamento. Anche se finì in terapia intensiva a causa delle complicazioni relative alla gravidanza, Liudmyla decise di avere un secondo bambino surrogato per poter pagare la maggior parte del mutuo.

Non esistono statistiche ufficiali, ma si stima che diverse migliaia di bambini nascano ogni anno in Ucraina da madri surrogate. L’80% di questi bambini sono per coppie straniere, le quali scelgono l’Ucraina perché il procedimento è legale e a buon mercato.

Il prezzo di un pacchetto per la maternità surrogata in Ucraina parte da 25.000 sterline, con la madre surrogata che ne riceve minimo 10.000. Ai genitori promessi è generalmente richiesto di essere coppie eterosessuali sposate e di documentare la propria diagnosi di sterilità. Le cliniche e le agenzie mettono i loro annunci sui giornali, sui trasporti pubblici e sui social media.

Tetiana Shulzhynska, 38enne, scrive a questi ultimi tentando di persuadere le donne a stare distanti dalla maternità surrogata, poiché pensa che alcune di loro finiranno per pagarla con la propria salute o persino con le loro vite. “Nei contratti proteggono solo i bambini, non si curano di noi.”, dice seduta sul letto nella sua piccola casa di legno a Chernihiv, nel nord dell’Ucraina.

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(Tetiana Shulzhynska sfoglia i suoi referti medici nella sua casa di Chernihiv, nell’Ucraina del nord. Foto di Anastasia Vlasova.)

Shulzhynska, una madre di due figli che lavorava come autista di filobus, andò a una clinica per la maternità surrogata nel 2013, perché aveva disperato bisogno di ripagare un prestito bancario. Era così in bolletta che la clinica le mandò i soldi per pagarsi il biglietto fino a Kyiv.

Si accordò per restare incinta a beneficio di una coppia italiana e dopo due mesi si trovò ad avere quattro embrioni vivi in grembo. La famiglia biologica decise di tenerne solo uno e il resto fu rimosso chirurgicamente. Nel maggio 2014, Shulzhynska partorì una bimba che diede ai genitori. Ricevette un compenso di 9.000 euro.

Sette mesi più tardi andò all’ospedale con terribili dolori di stomaco. I medici le diagnosticarono il cancro cervicale. Le ci è voluto quasi un anno per raccogliere i soldi necessari all’intervento chirurgico. Shulzhynska sospetta che il cancro sia stato causato dalla sua maternità surrogata, anche se non ha prove. Di recente ha ordinato le stampelle perché i suoi medici hanno in programma di amputarle la gamba sinistra, ora affetta dal cancro che si propaga. Nel 2015, Shulzhynska ha denunciato la BioTexCom per i danni causati alla sua salute, il che ha dato avvio a indagini penali ancora in corso.

Yuriy Kovalchuk, un ex pubblico ministero il cui ufficio ha trattato una serie di indagini penali sulla

BioTexCom nel 2018 nel 2019, dice che almeno tre donne si presentarono alla polizia per aver subito la rimozione dell’utero subito dopo aver condotto gravidanze surrogate organizzate dalla compagnia commerciale. Racconta che altre indagini riguardavano accuse di frode e persino, nel 2016, di traffico di esseri umani dopo che una coppia italiana aveva scoperto nel 2011 che i bambini che si erano portati a casa non avevano con loro relazione genetica. Kovalchuk è stato rimosso dal suo incarico l’anno scorso e crede che ciò abbia avuto il risultato di arrestare le indagini sulla BioTexCom. In maggio ha scritto all’ufficio del difensore civico dettagliando le sue preoccupazioni sulla clinica.

All’ “Hotel Venezia” Albert Tochilovsky, il proprietario della BioTexCom, non nega che ci siano stati scambi negli embrioni durante le procedure attuate nel 2011 che hanno condotto all’indagine per traffico di esseri umani. Dà la colpa dell’errore alla mancanza di esperienza, giacché la clinica allora aveva solo un anno. “Non penso che solo noi si abbia commesso errori in questo campo. Se qualcuno cominciasse a controllare i DNA ci sarebbero un bel po’ di scandali.”

Tochilovsky sostiene che in almeno tre casi i genitori hanno rifiutato i bambini surrogati perché erano nati con problemi di salute. Il caso più noto è quello di Bridget, la figlia di una coppia americana che è nata nel 2016 e ora vive in un orfanotrofio a Zaporizhia, nell’Ucraina orientale. (…)

Le madri surrogate si stanno organizzando sui social media, dove condividono consigli e avvisi sulle agenzie. Svitlana Sokolova, ex madre surrogata e ora attivista dell’ong “Forza delle Madri”, che aiuta le madri surrogate, dice che ha cominciato a ricevere più lamentele su supposti maltrattamenti durante la quarantena per il Covid. Un gruppo di donne ha raccontato che il loro contratto le obbliga all’impianto di embrioni per un anno sino a che restano incinte. “Tramite questo contratto le donne diventano una sorta di proprietà privata.”, dice Sokolova.

Maryna Lehenka, avvocata de “La Strada – Ucraina”, dice che l’organizzazione di beneficenza riceve circa 100 chiamate l’anno da madri surrogate che lamentano lo stress di cui fanno esperienza dopo aver consegnato i bambini, o i problemi causati dagli ormoni che assumono per aumentare le probabilità di restare incinte. Lehenka menziona il caso di una donna che entrò in clandestinità in un villaggio, perché non voleva dar via il neonato surrogato.

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(“In Fiji, lesbian feminist activist Noelene Nabulivou strives for world ‘liberated and free’”, di Hugo Greenhalgh per Thomson Reuters Foundation, 13 maggio 2020. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Noelene

Crescere essendo lesbica nelle Fiji, stato insulare dell’Oceania, durante gli anni ’70 sembrava abbastanza impossibile, dice la femminista e attivista “climatica” Noelene Nabulivou.

Una cultura machista, basata sulla chiesa, ha significato per Nabulivou – lei stessa figlia di un pastore metodista – non dichiararsi sino al compimento dei 35 anni, non molto dopo l’inizio del nuovo millennio.

“L’ho chiamato il mio obiettivo di sviluppo del millennio.”, dice ridendo su Skype, riferendosi alla lista di ambiziosi obiettivi delle Nazioni Unite, che includevano il dimezzare la povertà estrema e il mettere fine alla diffusione dell’Hiv/Aids entro il 2015.

Ora 52enne, Nabulivou ha una moglie e una figlia di due anni ed è conosciuta in tutto il mondo come attivista contro il cambiamento climatico e come attivista per l’eguaglianza di genere e i diritti delle persone LGBT+ nel suo Paese.

Tuttavia, fa ancora esperienza di discriminazione e abusi, e ha ricordi dolorosi di come è cresciuta in una piccola città vicina a Suva, la capitale dell’arcipelago che conta circa 900.000 abitanti.

“Semplicemente sentivi che (essere apertamente gay) non era una possibilità alla tua portata. Non c’erano modelli di riferimento, in particolare per la mia generazione.”, ha detto a Thomson Reuters Foundation dalla sua casa di Suva.

Le Fiji sono una delle sole otto nazioni che menzionano esplicitamente l’orientamento sessuale e l’identità di genere nelle loro Costituzione, ma in pratica i diritti degli individui LGBT+ sono limitati. I matrimoni fra persone dello stesso sesso e l’adozione da parte di coppie gay restano illegali – Nabulivou e sua moglie si sono sposate a New York – e l’attitudine omofoba persiste.

“Mi hanno sputato addosso; mia moglie ed io siamo state molestate in pubblico; ci hanno tirato pietre sul tetto di notte. Ci sono stati molti episodi durante gli anni. Un quotidiano mi ha fatto l’outing. Ho dovuto lottare contro la chiesa metodista alla radio e in televisione, il che è stato davvero duro per me, che sono una persona molto riservata.”, racconta Nabulivou.

Le Fiji sono state colpite il mese scorso dal forte ciclone tropicale Harold, che ha ucciso due persone e ha distrutto più di 3.000 abitazioni. Il ciclone ha esacerbato l’impatto economico dell’epidemia di coronavirus e le due crisi hanno ulteriormente aggravato la difficile situazione che le persone LGBT+ vivono, dice l’attivista.

Nel mentre il tasso di disoccupazione nelle Fiji, relativo al 2019, si attestava più o meno al 4,5%, secondo le stime del Fondo Monetario Internazionale, Nabulivou dice che circa il 62% di lesbiche, bisessuali e transgender o non hanno un lavoro o ce l’hanno precario.

E’ questo tipo di diseguaglianza che Nabulivou combatte nel suo ruolo di consigliera politica e addetta a progetti speciali dell’organizzazione figiana per i diritti umani “Diverse Voices and Action (DIVA) for Equality”, che lei stessa ha contribuito a fondare nel 2011: “E’ cominciato con un gruppo di giovani che sono venuti da me e dalla mia partner e hanno detto: Okay, ci discriminano. Cosa possiamo fare insieme?

Un decennio più tardi, il gruppo sostiene il lavoro di nove sezioni in tutto il Paese, affrontando questioni come visibilità e povertà nonché omofobia e transfobia, ha detto Nabulivou. La parte chiave del suo lavoro, ha aggiunto, è tentare di contrastare le “proporzioni epidemiche” della violenza contro le donne – siano esse lesbiche, bisessuali, transessuali o eterosessuali – nelle Fiji e in altre nazioni del Pacifico: “L’84% delle donne LBT e delle persone “non conformi” al genere (che non assumono i ruoli tradizionali ascritti a maschi o femmine) hanno denunciato violenze da parte dei propri partner, contro i due terzi delle donne eterosessuali.”

Oltre che sui diritti delle persone omosessuali e sulla violenza domestica, Nabulivou organizza campagne su istanze climatiche ed ecologiche, dicendo che molte di queste sfide sono collegate.

“Noi siamo donne che devono lottare contro la povertà, ma vogliamo anche parlare del bullismo nelle scuole o delle esperienze di sviluppo ecologico nel Pacifico. Come esseri umani abbiamo tante cose diverse a cui teniamo. – spiega Nabulivou, che si definisce maniaca del lavoro e dice di aver ottenuto nuova ispirazione dalla sua bambina – Voglio per lei un mondo meraviglioso, in cui possa essere emancipata e libera.”

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Marylize

(“How can LGBTIQ people find solace in family or religion when these are the sources of our pain?”, di Marylize Biubwa per OpenDemocracy, testo raccolto da Arya Karijo, aprile 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Sono una difensora dei diritti umani. Sono un’attivista e sono una femminista nera, queer, radicale e intersezionale. Non ho un lavoro. Porto avanti un’iniziativa che non è un’organizzazione giacché non è finanziata. In effetti, la porto avanti con il crowdfunding e coinvolgendo le mie reti di relazioni. Mi appoggio grandemente a lezioni di facilitazione, all’attivazione di social media o al mettere insieme contenuti digitali per qualcuno.

La storia di molte persone queer è quella di chi non è riuscito neppure ad andare a scuola, perciò non hanno diplomi. Non li ho neppure io, ma mi sto arrangiando. Qualche volta la vita la devi arrangiare. Molte persone non hanno reddito. Molte persone si appoggiando ad altre persone. Molte persone hanno dovuto uscire allo scoperto. Stanno da soli. Hanno difficoltà. La gente sta usando metodi folli che nemmeno immaginereste, per sopravvivere qui fuori.

Perciò, quando il coronavirus colpisce, sei completamente destabilizzato. Non vuoi restare a casa tua, perché ciò rende la tua situazione di persona che non guadagna persino peggiore. Ma non puoi uscire in cerca di lavoro durante questo periodo in cui la gente pratica il distanziamento sociale ed è sotto quarantena. Molte persone LGBTIQ sono in difficoltà perché il coronavirus è arrivato con questo senso della famiglia e di gente che si sposta per essere accanto agli individui di cui si curano di più: familiari eccetera. Se il peggio si avvera, vuoi morire avendo almeno la tua famiglia vicina.

Ma per quel che riguarda la mia esperienza, e l’esperienza di molte persone LGBTIQ, la famiglia non è qualcosa che noi si abbia attualmente e ciò ha impatto sulla nostra salute mentale e in genere su come funzioniamo e operiamo in questo periodo.

Ci sono quelli che trovano sollievo nella religione. Ci sono quelli che trovano sollievo nella famiglia. Le persone LGBTIQ raramente trovano sollievo in questi modi, perché tanto per cominciare religione e famiglia sono le fonti della nostra sofferenza. La cosa triste dell’essere una persona queer in questo periodo è che hai la sensazione di non avere la meglio in qualsiasi cosa, sia la famiglia, sia il coronavirus, sia il governo, sia i sistemi. Puoi dover andare all’ospedale e l’omofobia strisciare all’interno della situazione. Era già abbastanza brutto prima del coronavirus e in un momento come questo non fa che amplificarsi.

La gente sta associando parecchio la morte al coronavirus. Io non sono spaventata dalla morte. Non perché la morte non sia spaventosa in sé. Se guardo indietro, so che c’è stato un periodo della mia vita che ho giudicato davvero spaventoso. Sono le esperienze che ho attraversato. E’ maneggiare il trauma. E’ sentirsi incline al suicidio. E’ tentare il suicidio. E’ l’arrivare in pratica a un punto in cui sei viva ma sai per certo che se non volessi essere viva ci sarebbe un’opzione, una via d’uscita da tutto questo.

Penso di continuo: qual è la cosa peggiore che può capitare se sei infettato dal coronavirus? Morire, giusto? Ma questo non è così terribile, alla fine. Voglio dire, tutti moriamo a un certo punto, no? Le nostre esperienze di vita, in special modo le esperienze traumatiche, ci uccidono da vivi comunque. In un dato momento avremmo dovuto vivere come esseri umani, ma siamo morti dentro.

(L’omosessualità è illegale in Kenya secondo il Codice Penale di era coloniale, il quale descrive le relazioni fra persone dello stesso sesso come “conoscenza carnale contraria all’ordine naturale” e prescrive sentenze che arrivano ai 14 anni di prigione. Nel 2019, la Corte Suprema del Kenya rifiutò di dichiarare incostituzionali queste clausole del Codice Penale.)

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(tratto da: “People Aren’t Bad for the Planet—Capitalism Is”, di Izzie Ramirez per Bitch Media, 27 marzo 2020, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Izzie Ramirez – in immagine – è una reporter freelance e la caporedattrice di NYU Local.)

Izzie

C’è una brutta china nei commenti che giustificano i decessi umani per preservare l’ambiente. Come l’attivista per il clima Jamie Margolin ha spiegato in un tweet “Dire ‘I deboli moriranno ma va bene perché ciò aiuta il clima’ non è giustizia climatica. Questo è ecofascismo.” L’ecofascismo è definito da governi che esercitano il loro potere per la protezione dell’ambiente a costo delle vite individuali.

Nel loro articolo del 2019 “Overpopulation Discourse: Patriarchy, Racism, and the Specter of Ecofascism,” Jordan Dyett e Cassidy chiarirono come l’ecofascismo prese piede nel 19° e 20° secolo in Germania, dove “una serie di preoccupazioni ecologiche cominciarono ad interagire con la xenofobia, il nazionalismo e il razzismo presenti nella regione.”

All’epoca, le autorità fasciste tedesche erano solite giustificare determinate politiche di esclusione collegando l’ambiente alla salute. La retorica tipica includeva il controllo della popolazione, misure anti-sovrappopolazione e nozioni per cui i gruppi minoritari erano specie invasive che costituivano una minaccia all’ambiente stesso. Questa è ideologia comune ai suprematisti bianchi, in particolare, e a quelli che commettono omicidi di massa. Per esempio, l’assassino responsabile degli omicidi di un gran numero di persone a El Paso, Texas, nel 2019 citò la degradazione ambientale come una delle sue ragioni. “Se riusciamo a sbarazzarci di abbastanza gente, allora il nostro stile di vita diventerà più sostenibile”, scrisse nel suo manifesto.

Nel contesto odierno, comunque, persone comuni stanno argomentando che il Covid-19 sarebbe il vaccino della Terra contro gli esseri umani mentre il virus sta gettando il mondo nello scompiglio e sta uccidendo migliaia di persone, molte delle quali appartengono alla classe lavoratrice, non hanno accesso alla sanità e sono costrette a continuare a lavorare perché sono considerate forza lavoro essenziale. Per come le cose stanno ora, l’ecofascismo – visto attraverso tali conversazioni sui social media – sta asserendo che la gente povera, la gente disabile e la gente anziana dovrebbero sacrificarsi per far vivere il resto di noi. Ciò non è solo moralmente riprovevole ma è l’incomprensione del problema più vasto: il coronavirus non è un “detox” per la Terra, è una perturbazione dei sistemi che potenziano il capitalismo.

Persino chi cerca di sfidare il capitalismo è forzato a vivere al suo interno, giacché dobbiamo sopravvivere in un’economia capitalista concentrata sul beneficio immediato anziché sulle conseguenze future. Perciò le persone salgono in autobus per andare ai loro impieghi salariati, montano in auto per andare in fabbrica e condividono veicoli per far quadrare i conti. Queste persone non hanno molte alternative economiche, perché hanno bocche da sfamare e bollette da pagare. La loro adesione per sopravvivenza al capitalismo non li rende egoisti o sacrificabili. In effetti, se voi siete preoccupati per il cambiamento climatico, queste sono le esatte persone per cui dovreste preoccuparvi.

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question

(brano tratto da un intervento del 19 marzo 2020 di Teresa Anderson e Niclas Hällström, per Action Aid, su cambiamento climatico e coronavirus. Teresa Anderson è la coordinatrice delle politiche sul clima per Action Aid International, Niclas Hällström è il direttore di WhatNext?, un forum svedese sulle istanze globali sociali e ambientali. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

EGUAGLIANZA: I governi devono proteggere le donne, i poveri e i vulnerabili dalle crisi e dal loro impatto, dando uguale valore a ogni vita umana al di là di nazionalità, status economico, genere, etnia o età. Allo stesso modo, non è accettabile che una generazione continui a “fare come prima” sapendo di essere relativamente al sicuro, nel mentre aumenta il rischio e l’impatto per un’altra generazione.

PROTEZIONI SOCIALI: Sanità pubblica e gratuita, congedo pagato per malattia e benefici relativi alla disoccupazione per i lavoratori, nelle economie formali e informali, sono necessari in modo urgente, così che le persone non debbano scegliere se proteggere i loro mezzi di sussistenza o proteggere la società durante la pandemia.

SOLIDARIETÀ: Nessun Paese può “farcela da solo”. I governi devono lavorare insieme ed evitare di ritirarsi in approcci nazionalisti e competitivi. Le nazioni ricche devono contribuire con una giusta parte e aumentare il sostegno finanziario e tecnologico per le nazioni in cui i redditi sono più bassi. La vera solidarietà significa anche adottare e condividere soluzioni.

LA MANO INVISIBILE DEL MERCATO NON AGGIUSTERÀ QUESTE COSE:

Crisi climatica e pandemia mostrano la necessità di profondi cambiamenti di sistema. Queste emergenze rivelano le ingiustizie delle economie neo-liberiste, in cui potenti corporazioni economiche danno priorità ai profitti rispetto al bene comune e fanno tutto quel che possono per evitare di essere regolamentate.

Le risposte dei governi alla pandemia richiedono di prendere decisioni di ordine pubblico, incluse forti misure restrittive, nell’interesse dei cittadini piuttosto che dei loro finanziatori politici delle corporazioni.

NON E’ MAI TROPPO TARDI PER AGIRE: Ogni giorno che passa conta. Ogni azione che limita il danno ha valore. Anche se siamo stati più lenti a uscire dai blocchi di partenza di quanto avremmo dovuto, diamoci dentro ora. Rinunciare non è un’opzione, al di là di quanto grave la situazione possa apparire.

FATE QUEL CHE SERVE, MA NON ABUSATE DEL POTERE: Nel mentre molti governi sono stati lenti nel prendere misure severe per fermare la pandemia, i cittadini hanno chiesto misure più forti per contenere la crisi. La società ha mostrato la sua volontà di accettare svantaggi, forti interventi governativi, protezione sociale e sì, meno shopping e meno voli aerei, se ciò significa proteggere milioni di vite a rischio.

I governi devono tener conto di questo. Ma non devono abusare del loro potere, ne’ cementare misure prese durante le emergenze in limiti autoritari alla libertà dopo che la crisi è passata.

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Tempi duri? Le bussole politiche sono tutte impazzite e vi sembra che l’Italia vada alla deriva? Più che battere moneta con i “minibot” vorreste battere la testa di qualcuno o la vostra sul muro? Vi capisco, ma non c’è bisogno di disperarsi, ne’ di ferire o ferirsi.

Possiamo ripartire anche subito, con tre piccoli passi iniziali e rispettando i nostri tempi e le nostre necessità: assemblate le vostre analisi, figuratevi un orizzonte, caricatevi di quel che vi rende felici. La strada è lunga, faticosa e bellissima come voi. Buona giornata, “complici” miei, Maria G. Di Rienzo

ANALISI

“C’è una relazione intrinseca fra il modo in cui trattiamo il mondo naturale e il modo in ci trattiamo gli uni con gli altri. Dualismo e gerarchia sono i tratti del patriarcato, che implica l’oppressione delle donne e la distruzione dei sistemi naturali. Colonialismo, razzismo, disparità economica sono gli altri tragici risultati della gerarchia patriarcale. Razzismo e povertà servono a mantenere in essere il sistema patriarcale politicamente, economicamente e psicologicamente – nonché per giustificare e amplificare la distruzione dei sistemi naturali.” – Madronna Holden

ORIZZONTE

Tutte le specie, i popoli e le culture hanno valore connaturato.

La comunità della Terra è una democrazia di tutto ciò che vive.

Le culture, in una democrazia della Terra, nutrono la vita.

La democrazia della Terra globalizza pace, cura e compassione. – Vandana Shiva (“Earth democracy” / “Il bene comune della Terra”)

GIOIA

totoro

“A più di trent’anni dalla sua uscita, “Il mio vicino Totoro” è uno dei film più amati e celebrati di Miyazaki. Totoro entra in risonanza con noi perché trasforma situazioni paurose in situazioni leggere. Rappresenta lo spirito che possiamo evocare per sollevarci e uscire dai periodi bui.

Il suggerimento del film è che essere coraggiosi non significa avere la faccia dura, ma canalizzare l’immaginazione, l’umorismo e la speranza di uno spirito della foresta (molto buffo, peloso e adorabile). Totoro incoraggia le bambine protagoniste del film a parlare a voce alta e a rendere palesi i propri sentimenti.

Come spirito della foresta Totoro rappresenta anche la magia della natura. Insegna alle bambine che possono appoggiarsi alla natura per avere conforto. Abbiamo bisogno della natura per avere rifugio e protezione, ma non possiamo dare la relazione con la natura per scontata: è come un’amicizia da tesoreggiare e di cui avere cura.” – Brano tratto da: “My Neighbor Totoro: Why We Need Totoro”, di Susannah e Debra, youtubers.

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want you to panic

L’installazione che vedete sopra è dell’artista Sophie Thomas. Su ambo i pannelli campeggia in rosso la frase di Greta Thunberg “Voglio che andiate in panico” e sullo sfondo si intrecciano i commenti sul cambiamento climatico di “scettici” famosi.

“Facendo le mie ricerche per creare il pezzo – ha detto Sophie alla stampa – ho esaminato alcune delle voci che durante il passato decennio abbiamo udito negare il cambiamento climatico in modo assai chiassoso: sono molto maschili.”

Attualmente l’opera fa parte della mostra organizzata a Londra presso Protein Studios dal gruppo ambientalista “Do The Green Thing” (“Fai la cosa verde”) ed è costruita sulla loro convinzione che “il cambiamento climatico sia una crisi creata dall’uomo in ogni senso, con la cultura dominata dagli uomini che alimenta i comportamenti dannosi mentre donne e bambine ne pagano sproporzionatamente il prezzo”.

“Il cambiamento climatico è sessista: colpisce molto di più le donne e le bambine proprio perché esse sono già marginalizzate nelle nostre società. – ha spiegato Ashley Johnson, membro di “Do The Green Thing” – Ci sono conseguenze di genere, ci sono cause di genere e ci sono soluzioni di genere. Volevamo esplorare questa idea e offrire all’arte una possibilità di rispondervi.”

Perché è presto detto:

* Le Nazioni Unite hanno calcolato che l’80% degli sfollati durante disastri climatici sono donne, tuttavia le donne sono una minoranza in ogni commissione del maggior gruppo decisionale NU sul clima, la Framework Convention on Climate Change. “Le donne spesso non sono affatto coinvolte nelle decisioni sulle risposte al cambiamento climatico, – ha detto alla BBC la scienziata ambientalista Diana Liverman – così il denaro relativo arriva agli uomini piuttosto che alle donne.”

E in effetti le iniziative guidate dalle donne su base comunitaria di frequente non ottengono finanziamenti perché i loro progetti sono considerati non abbastanza “grandi”: nonostante le piccole coltivatrici abbiano dimostrato che quando è garantito loro l’accesso allo stesso credito e alla stessa attrezzatura forniti agli uomini sono in grado di coltivare il 20/30% in più di cibo sullo stesso ammontare di terreno e di tagliare le emissioni di due milioni di tonnellate entro il 2050.

* Le donne muoiono in disastri “naturali” 14 volte di più degli uomini per una serie di cause legate al sessismo: ad esempio non ricevono gli avvisi e gli allarmi, giacché le informazioni sono sovente trasmesse da uomini ad altri uomini in spazi pubblici, mentre le donne sono a casa (dove la “cultura” e le “tradizioni” le vogliono), oppure non hanno imparato a nuotare non per propria volontà, ma perché sarebbe stato indecoroso per una femmina il farlo.

* Mano a mano che siccità e stagioni secche aumentano e fonti di acqua potabile scompaiono o si esauriscono, sono le donne delle comunità rurali che sono costrette a percorrere lunghe distanze per fornire acqua alle loro famiglie, mettendo a rischio la loro incolumità e la loro salute.

* Poiché le donne sono anche la maggioranza dei poveri al mondo, è per esse più difficile riprendersi dopo un disastro: sono quelle che hanno più possibilità di non riavere i propri impieghi, sono sovraccariche di responsabilità domestiche e la situazione le rende maggiormente vulnerabili a forme di schiavitù sessuale e sfruttamento.

“In un mondo patriarcale – dicono le donne di “Do The Green Thing” – il cambiamento climatico semplicemente ingigantisce le diseguaglianze esistenti nella nostra società.”

Maria G. Di Rienzo

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(“What to Do About Climate Change? Ask Women – They Have the Most to Lose”, di Winnie Byanyima – in immagine – direttrice esecutiva di Oxfam International, 18 dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

winnie byanyima

Il cambiamento climatico è sempre stato una questione politica. Alle sue radici vi sono enormi sbilanciamenti di potere e diseguaglianza, che si sono mostrati durante le recenti discussioni sul clima delle Nazioni Unite in Polonia. Questi sbilanciamenti definiscono chi è maggiormente vulnerabile agli impatti del cambiamento climatico, quali vite e mezzi di sostentamento saranno o sono già sottosopra. In nulla ciò è più palese che nel divario di genere: la lotta per la giustizia climatica e la giustizia di genere devono andare mano nella mano.

Il cambiamento climatico colpisce le donne in modi profondamente differenti dagli uomini. Cultura e tradizione in molti luoghi assegnano il ruolo di cura delle famiglie alle donne. Sono le donne, per esempio, a essere responsabili del raccogliere legna, dell’andare a prendere acqua e del coltivare cibo per nutrire bocche affamate. Perciò, mentre gli impatti del cambiamento climatico prendono controllo, sono le donne a dover stare sulla prima linea dell’adattarsi e trovare soluzioni: nuove fonti d’acqua; nuovi modi per sfamare le loro famiglie; nuove coltivazioni da far crescere e nuovi modi per farle crescere; nuovi modi di cucinare.

Nel mio paese, l’Uganda, le donne camminano già fino a sei ore al giorno per raccogliere acqua. Con le stagioni secche che stanno diventando più lunghe, le donne saranno costrette a camminare ancora di più. Come ho detto ai leader (in maggioranza uomini) del G7 a nome del Comitato consultivo sul genere quest’anno, chiunque dubiti delle fondamenta scientifiche che accertano il cambiamento climatico dovrebbe tentare di discuterne con le donne che camminano sempre più lontano ogni anno per andare a prendere l’acqua.

Le nazioni ricche sono state svergognate ai dibattiti sul clima perché hanno mancato di riconoscere l’urgenza del limitare gli impatti del cambiamento climatico. Mentre i paesi vulnerabili ad esso hanno chiesto un responso d’emergenza, una manciata di paesi ricchi principalmente esportatori di petrolio – inclusi il Kuwait, la Russia, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti – ha negato la ragione scientifica che sta dietro a queste richieste di azioni urgenti.

Il cambiamento climatico ha effetti su tutti, ma le persone povere che vivono già ai margini ecologici sono colpite nel modo più duro. Spesso contano sulla pioggia per le loro coltivazioni, vivono in strutture fatiscenti e non hanno risparmi o assicurazioni su cui contare quando il disastro arriva.

Quando il disastro colpisce, come la carestia nel Sahel proprio ora, sono le bambine a essere tolte da scuola per aiutare le famiglie in difficoltà a far quadrare i conti. Sono le donne che restano senza niente quando non c’è abbastanza cibo per tutti. Le donne hanno meno beni su cui contare e sono largamente assenti dal processo decisionale, il che aggrava la loro vulnerabilità.

Quanto vulnerabile sei già per cominciare – quale è il tuo status nella nostra società diseguale – ha una grandissima influenza sul modo in cui il cambiamento climatico avrà impatto su di te. Per le donne, già vulnerabili, il cambiamento climatico inasprisce i loro fardelli già esistenti relativi alla cura.

Pochi negano che le donne siano le più colpite dal cambiamento climatico, ma vi è scarso accordo su cosa fare al proposito. C’è voluta una lunga lotta per aumentare l’importanza del genere nei dibattiti sul clima. L’anno scorso un Piano d’azione di genere fu approvato dopo un decennio di pressioni da parte di impegnate attiviste. Eppure, l’idea che la comunità internazionale debba prestare attenzione alle dinamiche di genere mentre sviluppa e implementa politiche sul cambiamento climatico resta assai delicata. I ripetuti sforzi, durante la prima settimana di negoziazioni in Polonia, di affrontare l’impatto sproporzionato della migrazione forzata sulle donne sono falliti, bloccati da un negoziatore del gruppo di paesi arabi. Sembra che menzionare i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, sia troppo da tollerare per alcuni paesi: l’argomento è stato escluso dall’accordo.

Se vogliamo impedire al cambiamento climatico di calpestare i diritti delle donne e delle persone maggiormente vulnerabili, allora dobbiamo lottare per società più egualitarie. Ciò significa mettere in discussione i ruoli di genere, condividere più equamente il lavoro fra uomini e donne e aumentare la partecipazione delle donne al processo decisionale.

Significa anche che dobbiamo guardare alle nostre economie, che non danno valore ai contributi delle donne. Le nostre economie ignorano l’invisibile e non pagato lavoro di cura svolto da milioni di donne in tutto il mondo. C’è un’impressionante similitudine su come la nostra economia ignora il costo del cambiamento climatico fuori controllo: mancando di far pagare gli inquinatori. Queste sono entrambe conseguenze di un’economia corrotta. E’ un’economia che conta le cose sbagliate, cercando la crescita del PIL a ogni costo.

Le persone nei consigli d’amministrazione e nei governi che prendono le decisioni che alimentano il disastro climatico e la diseguaglianza sono in maggioranza uomini bianchi benestanti. I miliardari sono ricompensati a spese dei salari da fame per molti e a spese di un pianeta abitabile.

Ricordatelo, su 10 miliardari 8 sono maschi; la maggioranza dei poveri del mondo sono femmine. E’ un periodo favorevole per i miliardari e la loro sproporzionata quota di emissioni! A mia zia – contadina nell’Uganda rurale – ci vorrebbero 175 anni per produrre lo stesso tasso di emissioni di quelli che stanno nell’1%!

A Oxfam, e nel più vasto settore umanitario, crediamo in un mondo libero dall’ingiustizia della povertà, una lotta che non può essere separata da quella per la giustizia climatica e per l’eguaglianza di genere. Per arrivarci, abbiamo necessità di cambiamenti su vasta scala al nostro modello economico dominante e nel modo in cui conduciamo la politica. Dobbiamo riconoscere gli oneri e le discriminazioni poste sulle donne nelle case, nelle situazioni di crisi e nella nostra struttura economica e cominciare a considerare il genere quando affrontiamo gli impatti del cambiamento climatico. E poiché la comunità scientifica ci sta dicendo che abbiamo solo 12 anni per prevenire l’innalzamento globale fuori controllo delle temperature, abbiamo bisogno di cambiare velocemente.

Nei prossimi mesi, i governi devono seguire le indicazioni delle nazioni maggiormente vulnerabili e cominciare immediatamente a rafforzare i loro impegni all’azione incluso l’aggiungere le voci delle donne al processo.

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Jólakötturinn

Una strana creatura del folklore islandese è Jólakötturinn (che si traduce come “Gatto del Solstizio d’Inverno” ed è poi divenuto semplicemente il “Gatto di Natale”).

Jólakötturinn è un gatto enorme, vive nelle montagne assieme alla gigante Grýla ed è una specie di incallito e terribile fashionista: scende a valle durante le festività invernali per mangiare i bambini che non hanno avuto in dono, per esse, abiti nuovi.

Sebbene la storia affondi nell’antichità, non abbiamo sue versioni scritte datate prima del 19° secolo: la spiegazione accademica è che sia stata usata come “incentivo” per mettere fretta ai pastori affinché terminassero in tempo la tosatura delle pecore, di modo che i nuovi abiti fossero tessuti e che loro stessi avessero abbastanza denaro per trascorrere felicemente il Natale.

Per quel che sappiamo dalla tradizione orale, all’inizio Jólakötturinn si limitava a spazzar via il cibo di quelli senza vestiti nuovi e la sua percezione come mangiatore-di-carne-umana si deve principalmente alla poesia che porta il suo nome e fu scritta da uno dei più amati poeti islandesi, Jóhannes úr Kötlum (Jóhannes Bjarni Jónasson, 1899-1972).

La teoria popolare è che la storia del gatto vendicatore avesse la funzione di dare una spintarella all’altruismo, di modo che ai bambini più poveri fossero donati abiti di lana nella stagione più fredda. Allo stesso modo la vicenda è stata letta dalla cantautrice e compositrice Björk (Björk Guðmundsdóttir) che nel 1987 registrò una canzone tradizionale su Jólakötturinn – nella quale, tra l’altro, la creatura è identificata sia al maschile sia al femminile. Le strofe finali recitano:

“Se lei esista ancora io non lo so

ma il suo viaggio sarebbe inutile

se tutti per il prossimo Natale

avessero qualche abito nuovo.

Potresti voler tenere in mente

di dare aiuto ove ve ne sia bisogno

perché da qualche parte possono esserci bimbi

che non ricevono nulla del tutto.

Forse il curarsi di coloro che soffrono

per mancanza di luci copiose

ti darà una stagione felice

e un allegro Natale.”

Alcune pratiche tradizionali prevedono di lasciar fuori del cibo per il/la Jólakötturinn durante l’inverno e anche questo può iscriversi nella cornice del favorire la compassione e la condivisione (in più, in questo modo la bestia non ti entra in casa di soppiatto per fregare l’arrosto dal tavolo natalizio…). La mia Jólakötturinn attuale è molto meno spaventosa dell’originale: è bianca, con gli occhi azzurri e non so se abbia un proprietario – se lo ha, se ne cura molto poco e Björk dixit non avrà un Natale allegro – tuttavia vado a darle una piccola colazione di cibo per gatti ogni mattina.

La cosa mi rende felice di per sé e non ho certo bisogno di ricompense, ma è consolante sapere che gli islandesi mi augurano implicitamente uno splendido Solstizio d’Inverno (21 dicembre, ore 23.23) e io giro gli auguri a ognuna/o di voi.

Maria G. Di Rienzo

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“Il neoliberismo è la filosofia politica (della sinistra e della destra) che si è sviluppata in occidente durante gli anni ’80 a guisa di “buon senso” populista. Ha diversi problemi:

1) vede l’individuo come agente autonomo, motivato principalmente dall’interesse personale;

2) ci dice che l’economia del libero mercato priva di regole allevia le diseguaglianze sociali;

3) descrive la libertà personale nei termini della capacità dell’individuo di “scegliere” in un mercato di scelte.

Cosa c’è di sbagliato nella visione neoliberista ed economicistica dell’essere umano? E’ riduttiva. Oltre a essere agenti individuali, gli esseri umani sono collocati in contesti psicologici, sociali e politici che rendono la nostra autonomia e le relazioni reciproche con altri assai più complesse di quanto questa ideologia permetta. (…) Il neoliberismo, con il suo focus sull’individualismo e la scelta personale ignora l’esistenza del patriarcato come struttura sociale.”

Heather Brunskell-Evans, consulente accademica su genere e sessualità; portavoce dell’organizzazione pro diritti umani delle donne FiLiA; membro del consiglio d’amministrazione di OBJECT, gruppo attivista femminista.

Il neoliberismo ne ignora volutamente parecchie, di strutture sociali – in primis le divisioni di classe e la piramide della proprietà privata: perciò, come l’accademica sottolinea, riduce la condizione umana alle “scelte” che il singolo essere umano compie. Di conseguenza, se sei povero/a, disoccupato/a, sottopagato/a, eccetera, è colpa tua. Non ti sei orientato bene nel pescare il pasticcino dal vaaaaasto plateau che la società ti offriva.

Da questa ignoranza salta fuori il “navigator” del Ministro del Lavoro Di Maio, il cui principale impegno politico sembra essere il mostrare ossessivamente la propria smagliante dentatura in tv e autoscatti (non si è ancora accorto che un “sorriso” perenne non produce fiducia nell’osservatore, ma inquietudine). Dalla stampa:

“Chi si rivolgerà ai centri dell’impiego avrà dall’altra parte la figura del “Navigator” che “lo prenderà in carico”, spiega il ministro. Una figura che “selezioneremo con un colloquio” e “deve essere in grado di seguire chi ha perso il lavoro, formarlo e reinserirlo nel mondo del lavoro”. La platea dei beneficiari del reddito di cittadinanza, secondo Di Maio, ammonterà a 5 milioni di persone.

“La figura del Navigator”, in sostanza, “si prenderà in carico” la persona in cerca di lavoro.”La formerà e la orienterà in modo che l’azienda la possa assumere senza doverla formare”. “La formazione – ha dichiarato – non necessariamente deve essere formata nei centri per l’impiego; può esserlo in un centro privato, in una azienda. L’importante è che la persona che orienta il disoccupato venga pagato in base al numero delle persone orientate”. (…)

In poche parole, spiega il ministro, il “tutor o Navigator” associato a un individuo che abbia diritto al reddito di cittadinanza “lo raggiungerà dovunque egli sia”, lo spingerà a seguire le prassi necessarie per trovare un lavoro o formarsi e “prenderà un bonus se farà assumere quella persona”.

Lo stesso “tutor o Navigator” poi, “sarà lui a farmi la scheda, come ministro del Lavoro”, per segnalare eventuali inadempimenti. Naturalmente, riconosce Di Maio, per creare la platea sufficiente di “tutor o Navigator” per seguire i percettori della misura, “ovviamente faremo un piano di assunzioni straordinarie”.”

Lo sradicamento della povertà a livello globale è il primo degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. La “data di scadenza” è il 2030 – una marea di commentatori / commentatrici di politica, economia, finanza ecc. dichiara (ovviamente) l’obiettivo irraggiungibile per tale data. I dati che la scheda delle NU fornisce al proposito sono questi:

– 783 milioni di persone vivono sotto la linea internazionale della povertà di un dollaro (Usa) e novanta centesimi al giorno.

– Nel 2016, circa il 10% dei lavoratori ha vissuto con le proprie famiglie sulla base di meno di un dollaro e novanta a persona al giorno.

– Globalmente, ci sono 122 donne fra i 25 e i 34 anni che vivono in povertà estrema per ogni 100 uomini dello stesso gruppo d’età.

– La maggioranza delle persone che vivono sotto la linea di povertà appartengono a due regioni: Asia del sud e Africa sub-sahariana.

– Alte percentuali di povertà si trovano spesso in piccole, fragili nazioni affette da conflitti.

– Un bimbo su quattro sotto i cinque anni, in tutto il mondo, ha un’altezza inferiore a quella che dovrebbe avere alla sua età.

– Sino al 2016, solo il 45% della popolazione mondiale era in effetti tutelata da almeno un beneficio finanziario di protezione sociale.

– Nel 2017, le perdite economiche dovute a disastri ambientali, inclusi i tre grandi uragani negli Usa e nei Caraibi, sono state stimate a oltre 300 miliardi di dollari.

Le cose che ho scelto di sottolineare sono il “moto perpetuo” della povertà, ciò che le permette di esistere, allargarsi, persistere.

1. Gente che il lavoro ce l’ha, ma che l’economia neoliberista non paga abbastanza per vivere decentemente – ciò è necessario a gonfiare i conti in banca di un mucchietto di stronzi, i quali sono arrivati dove sono non grazie alle proprie avvedute scelte, ma alle ricchezze di famiglia e alle protezioni di consessi finanziari e istituzioni politiche. Non partiamo tutti dagli stessi blocchi e se qualcuno vince la corsa perché ha regolarmente mezzo chilometro di vantaggio è vergognoso dire a quelli dietro di allenarsi di più.

Il nostro governo ha visto questo? Come no, flat tax.

2. La diseguaglianza di genere non è un’invenzione lagnosa delle vecchie brutte femministe zitelle ecc., tiene effettivamente le donne a distanza anche dalle minori opportunità loro offerte.

Poiché le donne sono spesso escluse per intero dai processi decisionali che le riguardano – e ciò è una violazione dei loro diritti umani – la diseguaglianza si amplia costantemente.

Il nostro governo ha visto questo? Aspettate i burlesque e le mimose dell’8 marzo.

3. Il razzismo ha un ruolo chiave nel tenere a distanza dall’accesso a lavoro, beni e servizi determinati gruppi etnici.

Il nostro governo ha visto questo? Chiedete al sig. Salvini.

4. e 5. Guerre e devastazioni ambientali generano innanzitutto morte – ma il loro principale “beneficio” è il profitto economico che il gruppetto di stronzi in cima alla piramide della proprietà privata incassa. A costoro non può fregare di meno delle conseguenze che ricadono su chi sopravvive ai disastri da loro creati (sfollamento, migrazione, fame, perdita di casa – lavoro – famiglia, aumentata vulnerabilità alla violenza di genere, ecc.).

Il nostro governo ha visto questo? Interverrà sul commercio di armi, metterà in sicurezza almeno il proprio di territorio? Ok, le risposte le sapete, non prendiamoci in giro.

Io credo che il sig. Di Maio il suo “navigator” lo abbia perso da tempo. Sembra girare a vuoto. Ma vedete, andando a spanne senza bussola ha guadagnato cariche politiche. Dobbiamo davvero chiederci cosa stiamo facendo, italiane e italiani.

Maria G. Di Rienzo

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