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Posts Tagged ‘nazioni unite’

(“Indigenous, Afro-Honduran communities join together to fight pandemic”, 11 maggio 2020, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, trad. Maria G. Di Rienzo.)

garifuna - unfpa

Tegucigalpa, Honduras – Nel mentre le nazioni lottano con la pandemia del Covid-19, le comunità indigene e di discendenza africana sono fra le più vulnerabili con molte persone che fronteggiano povertà, scarso accesso alle cure sanitarie e informazioni limitate. In Honduras, membri di queste comunità si stanno unendo per assicurarsi che informazioni e risorse raggiungano i più esposti.

“Dobbiamo essere creativi di questi tempi.”, dice Yimene Calderón, a capo dell’Organizzazione per lo Sviluppo Etnico, che sta lavorando con la comunità Garífuna per aumentare la conoscenza delle misure di controllo dell’infezione e per fornire sostegno alle famiglie in stato di bisogno.

I Garífuna si stanno “mostrando resilienti, facendo affidamento sulla medicina e sul cibo tradizionali, e cercando aiuto e solidarietà per ricevere assistenza dal governo: non individualmente, ma collettivamente, operando come un network.”, lei dice.

Sino ad ora, più di 1.800 casi della malattia sono stati confermati in Honduras. L’esplosione è concentrata lungo la costa nord del paese, dove vive la maggioranza della popolazione Garífuna. Questa comunità ha le sue radici sia in gruppi indigeni sia in gruppi di origine africana. Molte famiglie hanno a capo donne e nonne, con uno o entrambi i genitori che lavorano all’estero per mandare soldi a casa. Come in ogni altra comunità afro-honduregna e indigena, in alcuni quartieri e case manca l’elettricità, l’accesso a internet e l’acqua corrente. L’insicurezza alimentare è comune e molti non sono in grado di accedere a cure sanitarie per la distanza o perché non se le possono permettere.

Molte fonti di reddito – incluse le rimesse, il turismo e il piccolo commercio – sono state gravemente ridimensionate. I più vulnerabili possono non essere in grado di osservare il distanziamento sociale o frequenti lavaggi delle mani e altre misure di prevenzione della malattia. Ma queste comunità si sono anche dimostrate forti e flessibili.

Comunità afro-honduregne e indigene hanno unito i loro sforzi per contenere la diffusione del Covid-19. Lavorando con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e con la Pan American Health Organization, hanno tradotto le informazioni sulla prevenzione dell’infezione nella lingua

Garífuna, così come nelle lingue Misquito, Tawahka e Chortí. Queste informazioni sono usate dai lavoratori della sanità, dalle reti delle radio comunitarie, da programmi televisivi e da attivisti per la gioventù al fine di promuovere comportamenti sicuri.

I membri della comunità si stanno anche facendo da soli le mascherine di stoffa. “Abbiamo coordinato numerosi gruppi di discussione con medici, infermieri e personale sanitario nella comunità.”, dice Suamy Bermúdez, un dottore Garífuna che sta lavorando con altri per sviluppare una campagna allo scopo di raggiungere case isolate con accesso limitato alle cure sanitarie.

La campagna fornirà informazioni sulla prevenzione del contagio e le medicine tradizionali, disseminate nelle chat, durante conferenze e con manuali. La campagna affronterà anche la questione dei diritti dei popoli indigeni.

“Storicamente, le popolazioni più vulnerabili dell’Honduras hanno subito segregazione e mancanza di investimento nella sanità. – dice Kenny Castillo, portavoce del Direttorato dei popoli indigeni e afro-honduregni del Ministero per lo Sviluppo e l’Inclusione Sociale – Abbiamo aperto canali per affrontare la situazione, includendovi il dialogo per affrontare non solo l’istanza Covid-19 ma lo scenario posteriore ad essa, dove le comunità dovrebbero avere una posizione forte nel richiedere investimenti su salute e istruzione.”

In aggiunta al suo sostegno all’azione comunitaria, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sta lavorando con altri per sostenere politiche che assicurino alle donne indigene e di discendenza africana i diritti a servizi e informazioni su salute sessuale e riproduttiva, all’empowerment e alla prevenzione della violenza.

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Valeria Valente, avvocata, senatrice del PD, Presidente della Commissione d’inchiesta sul Femminicidio, 6 aprile 2020:

“E’ giusto condividere scelte e responsabilità che riguardano il futuro prossimo di tutti e le prospettive stesse del nostro Paese. Ma perché la ripartenza sia anche un’occasione di rinascita, di cambiamento e di innovazione, un’opportunità per correggere quei limiti dell’economia e dell’organizzazione sociale che questa crisi straordinaria sta mettendo in evidenza, è assolutamente prioritario che la cabina di regia sia contaminata in modo virtuoso da un pensiero femminile e femminista. Non solo per una questione di parità e di giustizia sociale, ma per il futuro stesso dell’Italia.

Come ha sottolineato Linda Laura Sabbadini, in questo momento il lavoro delle donne sta sorreggendo il sistema Italia. I due terzi delle donne occupate, 6 milioni 440 mila su 9 milioni 872 mila, stanno continuando a prestare la propria opera perché impegnate in settori strategici, come il Sistema sanitario nazionale (dove i 2/3 sono donne) e la cura domiciliare di anziani non autosufficienti, la scuola, la vendita di alimenti, i servizi bancari e assicurativi, i servizi nella Pa. Sono fermi, invece, proprio i comparti a più alta densità di presenza maschile, come l’industria e le costruzioni.”

Susanna Camusso, sindacalista, ex Segretaria generale della Cgil, 8 aprile 2020:

“Nell’emergenza – che non è superata – si sono già fatte delle scelte, alcune delle quali possono già dare indicazioni per il “dopo”. Due sopra di tutte: finanziare e potenziare il servizio sanitario nazionale, e fronteggiare le diseguaglianze perché non si allarghi la voragine. Emerge quindi la necessità di uno sguardo sociale, e si rende evidente la non sufficienza della logica “produrre, produrre” senza guardare cosa succede alle persone nella loro dimensione collettiva ed individuale.

(…) La politica ha il dovere di avere al centro del suo pensiero il come prende in carico la società, composta dalle persone, deve considerare la qualità del vivere perché le soluzioni siano per i molti e non per i pochi. Per sintetizzare, deve uscire dalla dimensione gratuita la “cura”; che non è attitudine femminile “dovuta e scontata”, marginale e non economica, ma è, invece, tratto necessario in un mondo che è giunto ai suoi limiti e va reso sostenibile socialmente, economicamente, ambientalmente.

Nessuna di queste dimensioni può essere isolata, non c’è quello che resta nelle mura di casa e quello che riguarda il palcoscenico pubblico. Occorre affrontare quella gerarchia di valore del lavoro, che già oggi è stravolta, ma che nessuno vuole nominare esplicitamente. (…)

Forse la politica non conosce davvero le tante sapienze del mondo femminile e femminista, eppure ha la straordinaria occasione di scoprirle, di non fermarsi al noto ed abituale. Coraggio e capacità politica si misurano dal saper scommettere e scegliere di innovare.”

Rossella Muroni, ecologista, deputata di Liberi e Uguali, ex presidente Nazionale di Legambiente, 9 aprile 2020:

“(…) Questa crisi deve essere anche un’occasione per non tornare a fare i soliti errori, per superare i limiti delle nostre organizzazioni sociali e per provare davvero a realizzare la parità di genere. Non solo per una questione di giustizia sociale, ma anche perché conviene a tutte e tutti. Se già prima di questa fase difficile l’incapacità di valorizzare l’intelligenza, le competenze e la partecipazione delle donne era uno dei principali fattori di arretratezza, ora non ci possiamo più permettere di fare a meno di noi donne.”

equiterra

Questo è un disegno di Equiterra, come immaginata nel marzo scorso alle Nazioni Unite. Si tratta di un luogo dove tutte e tutti hanno eguali diritti ed eguali opportunità. I bambini, maschi e femmine, non sono inondati di stereotipi che limiterebbero i loro sogni e le loro capacità e possono aspirare ad ogni tipo di carriera. Infatti, a Equiterra ci sono sempre uomini e donne in ogni sede decisionale. Le donne non subiscono molestie al lavoro o per strada, non esiste il femminicidio. In Equiterra le donne hanno valore e sono rispettate.

10 aprile 2020: escono le prime notizie sulla “task force” che “in vista dell’allentamento dell’emergenza coronavirus deve capire come ricostruire il Paese” e dialogare con il comitato tecnico-scientifico. Il caposquadra (passatemela) Vittorio Colao, voluto dal Presidente del Consiglio Conte, è definito dai giornali un “supermanager” (amministratore delegato, presidente, vice questo e quello soprattutto nella telefonia). I membri che ho contato sino ad ora – ignoro se ne saranno aggiunti altri – sono 16: commercialisti, psichiatri, sociologi, di tutto un po’.

Su questi sedici, le donne sono quattro:

Elisabetta Camussi, professoressa di Psicologia sociale, Università degli Studi di Milano “Bicocca”;

Filomena Maggino, consigliera di Conte per il benessere equo e sostenibile e la statistica – Docente di Statistica sociale, Università di Roma “La Sapienza”;

Mariana Mazzucato, consigliera economica di Conte – Director and Founder, Institute for Innovation and Public Purpose, University College London;

Raffaella Sadun, professor of Business Administration, Harvard Business School.

Nessuna delle quattro si occupa in modo specifico di eguaglianza di genere, violenza di genere, diritti umani di donne e bambine.

Per la cabina di regia che deve immaginare il futuro, oggi è tutto.

Maria G. Di Rienzo

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Gaza Palestine

(Murales a Gaza, Palestina)

“La pace non è solo assenza di guerra. Molte donne durante il lockdown per il Covid-19 fronteggiano violenza dove dovrebbero essere più al sicuro: nelle loro case. Oggi faccio appello per la pace nelle case di tutto il mondo. Chiedo con urgenza ai governi di mettere la sicurezza delle donne al primo posto nel mentre rispondono alla pandemia.”

António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, 6 aprile 2020

(Un esempio? In Turchia la quarantena è cominciata l’11 marzo. Nei seguenti 20 giorni sono state assassinate da partner, mariti, fidanzati ecc. 21 donne.)

Maria G. Di Rienzo

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(“UNFPA study shows limits on women’s reproductive decision-making worldwide – one quarter of women cannot refuse sex” – sito del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, 1° aprile 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

unfpa sdg 5 - 6

Circa un quarto delle donne non possono rifiutare il sesso o prendere le loro proprie decisioni sull’accesso ad appropriate cure sanitarie, lo ha scoperto un importante studio internazionale. Il Fondo delle NU per la popolazione, l’Agenzia delle NU per la salute sessuale e riproduttiva, ha rilasciato oggi una nuova ricerca all’avanguardia che rivela quanto avanti si è spinto il mondo nel permettere alle donne e alle ragazze di compiere scelte informate rispetto ai loro diritti riproduttivi.

La maggior parte delle nazioni ha leggi forti che assicurano alle donne di poter accedere alla loro salute sessuale e riproduttiva e ai loro diritti. Ma la realtà che le donne affrontano è spesso assai differente.

Il Fondo delle NU per la popolazione ha misurato il processo decisionale delle donne sulla riproduzione in 57 paesi e la legislazione su salute e diritti in 107 e i risultati mostrano, fra le altre tendenze, che in oltre il 40% delle nazioni i diritti riproduttivi delle donne stanno regredendo.

“Una donna su quattro, nei paesi che abbiamo esaminato, non è in grado di prendere decisioni proprie sull’accesso alle cure sanitarie. Questo è sconvolgente e inaccettabile. – ha detto la dott. Natalia Kamen, direttrice esecutiva del Fondo – Questa nuova ricerca offre un’esauriente quadro dello stato dei diritti sessuali e riproduttivi nel mondo, sia per quel che riguarda la legge sia per la realtà vissuta da donne e ragazze. Ci aiuterà a capire meglio cosa funziona e a definire con precisione le sfide rimanenti a un livello dettagliato che non avevamo in precedenza.

I nuovi dati ci aiutano a misurare il progresso verso l’ottenimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 5 (OSS 5), equità di genere e potenziamento delle donne. Più precisamente, essi coprono due indicatori dell’OSS 5 per raggiungere l’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti relativi (Target 5.6). L’indicatore 5.6.1 misura l’autonomia riproduttiva delle donne e l’indicatore 5.6.2 misura le cornici legali e di regolamentazione che esistono nei paesi per permettere l’accesso a salute sessuale e riproduttiva e diritti.

Le risultanze chiave della ricerca includono:

* Solo il 55% delle donne può prendere le proprie decisioni su salute sessuale e riproduttiva e diritti.

* Un quarto delle donne non è in grado di prendere le proprie decisioni rispetto all’accesso alle cure sanitarie.

* Le nazioni di media hanno il 73% delle leggi e delle norme in funzione necessarie per garantire eguale accesso a salute sessuale e riproduttiva e diritti.

* Quasi il 100% delle leggi e delle norme delle nazioni garantisce l’accesso a consulenza volontaria e test per l’HIV e protegge l’anonimato delle persone che vivono con l’HIV.

* Numerosi stati impongono restrizioni legali che impediscono l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti per determinati gruppi – specificatamente per donne e adolescenti.

Questa ricerca sarà una risorsa cruciale per il Fondo delle NU per la popolazione, i governi e gli associati per rispondere efficacemente ai bisogni più pressanti di donne e ragazze in tutto il mondo. Per la prima volta, ci consente di identificare la problematiche che paesi diversi ancora fronteggiano verso la piena realizzazione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti che le cornici legali possono non comprendere.

Potete avere accesso alla ricerca qui: https://www.unfpa.org/sdg-5-6

Per maggiori informazioni, per favore contattate Eddie Wright: ewright@unfpa.org; +1 917 831 2074

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Beijing Poster

(“As Cities Around the World Go on Lockdown, Victims of Domestic Violence Look for a Way Out”, di Melissa Godin per Time, 18 marzo 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Dall’Europa all’Asia, milioni di persone sono state messe in isolamento, mentre il coronavirus ha infettato più di 183.000 persone. Anita Bhatia, la vice direttrice dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite, dice a Time che “la stessa tecnica che stiamo usando per proteggere la gente dal virus può avere un perverso effetto sulle vittime di violenza domestica”. Ha aggiunto che “nel mentre sosteniamo assolutamente la necessità di seguire queste misure di distanziamento sociale e quarantena, riconosciamo anche che ciò fornisce un’opportunità per chi abusa di scatenare maggior violenza”.

Una donna su tre al mondo fa esperienza di violenza fisica o sessuale, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità, rendendo ciò “la violazione dei diritti umani più diffusa ma meno denunciata”. Sebbene anche gli uomini facciano esperienza di violenza domestica, le donne sono la maggioranza delle vittime, con gli individui LGBTQ che affrontano tassi elevati della stessa violenza. Ma durante i periodi di crisi – come disastri naturali, guerre e epidemie – il rischio di violenza di genere cresce.

In Cina, il numero dei casi di violenza domestica denunciati alla polizia locale è triplicato in febbraio in confronto all’anno precedente, secondo Axios. Le attiviste dicono che questo è un risultato della chiusura forzata. “Noi sappiamo che la violenza domestica ha le sue radici nel potere e nel controllo. – dice Katie Ray-Jones, presidente della National Domestic Violence Hotline – In questo momento, abbiamo tutti la sensazione di una mancanza di controllo sulle nostre vite e un individuo che non riesce a maneggiare ciò lo scaricherà sulla sua vittima.” Ray-Jones dice che mentre il numero dei casi di abuso potrebbe non salire durante la crisi coronavirus, le persone che già si trovano in una situazione di abuso potrebbero doversi trovare a fronteggiare violenza più estrema, senza più poter sfuggire andando al lavoro o da amici.

La crisi attuale rende anche più difficile per le vittime cercare aiuto. Le strutture mediche in tutto il mondo si stanno sforzando per rispondere al coronavirus, i sistemi sanitari stanno diventano sovraccarichi e ciò rende più arduo per le vittime aver accesso a cure mediche o terapeuti. “Nella migliore delle circostanze, le donne hanno già difficoltà a essere ascoltate.”, dice Bhatia.

(Il numero (gratuito) antiviolenza da chiamare in Italia è 1522.)

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(Le dimostranti gettano vernice sulla porta del palazzo presidenziale – Città del Messico, 14 febbraio 2020)

Trasformate le nostre morti in uno spettacolo”: questa frase, detta dalle donne messicane durante la manifestazione illustrata sopra, è la chiave di volta attorno a cui ruota l’intero sistema della rappresentazione femminile nei media.

La vicenda sullo sfondo è quella della 25enne Ingrid Escamilla, uccisa a coltellate dal convivente – Erik Francisco, 46 anni – che immediatamente dopo l’omicidio squarta e spella in parte il cadavere.

Due quotidiani, La Prensa e Pasala, pubblicano foto esplicite del corpo macellato: il primo due volte, anche dopo la prima reazione online delle donne che hanno inondato i social di immagini di Ingrid che inneggiavano alla vita; il secondo con il titolo “E’ stata colpa di Cupido”.

A La Prensa si sono difesi dicendo che loro coprono crimini su cui il governo preferisce tacere (“Oggi comprendiamo che ciò non è stato sufficiente e stiamo entrando in un processo di profonda revisione.”) e dichiarando di essere aperti alla discussione sugli standard di pubblicazione. In altre parole, la manifestazione li ha spaventati, ma non hanno ancora capito dove hanno sbagliato.

Pasala, almeno sino a ieri, non ha risposto alle richieste di commento da parte dei colleghi messicani e stranieri.

Sull’assassinio di Ingrid è intervenuta anche l’Agenzia Donne delle Nazioni Unite: “Chiediamo azioni esaurienti per eliminare la violenza contro donne e bambine. Chiediamo completo accesso alla giustizia e non-rivittimizzazione per tutte. Ingrid non è un caso isolato.” Di media infatti, dicono le statistiche ufficiali, in Messico muoiono di femminicidio 10 donne al giorno. L’anno scorso la cifra ha segnato un nuovo record: 1.006 casi contro i 912 del 2018.

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(Le dimostranti in piedi davanti alla porta del palazzo presidenziale. Si leggono le parole “Ingrid” e “Stato femminicida” – Città del Messico, 14 febbraio 2020)

Le donne in piazza hanno denunciato l’inerzia del governo al proposito ma hanno ripetuto che della situazione “la stampa è complice”. E non è solo complice quando sbatte in prima pagina budella estratte da un cadavere accoppiandoci le alette di Cupido. E’ complice quando si arrampica sugli specchi per giustificare e coccolare gli assassini (stressati, abbandonati, disoccupati, depressi, vittime del raptus, “giganti buoni”), quando scarica la responsabilità sulle vittime (lo aveva lasciato, voleva lasciarlo, non ha denunciato: Ingrid lo aveva fatto, tra l’altro), quando inserisce di forza queste ultime nell’unica cornice in cui le donne possono apparire sui media: la “bellezza”.

Ingrid Escamilla, la bellezza che sopravvive

Ingrid Escamilla aveva 25 anni e grandi occhi neri

Il sorriso perduto di Ingrid

Sono tutti prodotti italiani: sorriso, grandi occhi e bellezza che sopravvive sospesa in aria, sopra un corpo atrocemente mutilato – le nostre preoccupazioni su come affrontare e sconfiggere la violenza scompaiono, Ingrid era bella, sarà bella per sempre, che sollievo!

In Messico, come in Italia, come ovunque, femministe, attiviste, artiste, scrittrici, ecc. regolarmente chiedono conto del modo in cui la violenza di genere è riportata dalla stampa.

In ambito internazionale (Nazioni Unite) da anni si firmano protocolli e si sottoscrivono impegni sulla rappresentazione mediatica delle donne.

Abbiamo tonnellate di studi e ricerche che spiegano perché e come essa giochi un ruolo cruciale nel creare e mantenere la violenza contro le donne.

La signora Nessuno, io, riesce a raggiungere tutte queste informazioni con incredibile facilità e si domanda costantemente perché alle redazioni esse sembrino non arrivare affatto.

Si domanda anche perché per essere viste e ascoltate – spesso solo di striscio e solo per un giorno – sia necessario spalmare vernice rossa su edifici pubblici e venire alle mani con la polizia (o la cosa è eclatante e potenzialmente strumentalizzabile o col piffero che i media si attivano).

Si domanda infine perché, però, alla prima modella / influencer / velina / cantante che frigna sulla cattiveria e sulla frustrazione delle femministe, quegli stessi media diano taglio alto e titoloni senza pensarci un attimo, senza contestualizzare niente, senza essere nemmeno curiosi di quel che il femminismo è e di quel che in tutto il pianeta, quotidianamente, fa: nulla vogliono saperne e nulla vogliono ne sappiano i loro lettori e le loro lettrici.

Se poi si tratta di analizzare la violenza contro le donne, è tutto affare delle donne stesse: denunciate, c’è il Codice Rosso, reagite.

15 febbraio 2020, Sassari – Donna uccisa a coltellate dopo una lite: fermato il compagno.

“Ha ucciso la sua ex compagna, una donna di 41 anni di nazionalità ceca, dopo aver violato la misura restrittiva, un divieto di avvicinamento, che gli impediva di andare a Sorso, il paese in cui viveva la donna, nei confronti della quale aveva già usato violenza. L’uomo è stato fermato dai carabinieri ed ora è sotto interrogatorio.”

Okay: denunciato, ottenuta misura restrittiva, morta. Cosa devo fare adesso?

Maria G. Di Rienzo

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La prossima volta in cui alla denuncia di farneticazioni discriminatorie e ignoranti, di insulti gratuiti, di allusioni pecorecce, qualcuno squittirà “e fatevela una risata ogni tanto”, “basta con il politically correct”, eccetera, rispondete GIULIA. Perché quel che è accaduto a lei e che accade sempre di più alle persone come lei – i crimini dell’odio in Italia sono raddoppiati dal 2014 al 2018, dati OSCE – è frutto dell’atmosfera sociale in cui si percepisce il completo sdoganamento e persino l’esaltazione di odio e violenza. E le parole, dette o scritte, sussurrate viscidamente o urlate in modo sguaiato, sono ciò che crea tale atmosfera.

Giulia

“17 gennaio 2020 – Potenza, presa a calci e pugni perché lesbica. Giulia Ventura, trentenne, su FB: (…) vedo due ragazzini che attraversano la strada e si mettono di fronte a me, intralciandomi il passaggio. Chiedo loro che problemi avessero e dopo due spintoni che mi hanno atterrata, ancora cosciente, sento una frase: “Le persone come te devono morire, vuoi fare il maschio? E mo ti faccio vede come abbuscano i maschi”. Non ho il tempo di rispondere che il primo pugno mi rompe il labbro, il secondo il naso, il terzo l’occhio.”

Ogni strombazzata e stupida falsità sull’ideologia gender, ogni ululato idiota sulla difesa della famiglia tradizionale, ogni stereotipo e pregiudizio infamante sulle donne in generale e sulle donne lesbiche in particolare hanno costruito l’aggressione a Giulia. I due ragazzini sono stati il logico risultato e il “braccio armato” del clima che la propaganda dell’odio ha creato.

“In tutto il mondo, stiamo osservando una disturbante ondata di xenofobia, razzismo e intolleranza. I social media e altre forme di comunicazione sono sfruttate come piattaforme per il bigottismo.

Il discorso pubblico è usato come arma per profitto politico, tramite retorica incendiaria che stigmatizza e disumanizza minoranze, migranti, rifugiati, donne e qualsiasi cosiddetto “altro”.

Questo non è un fenomeno isolato ne’ si tratta di voci chiassose di pochi individui ai margini della società. L’odio sta diventando l’opinione corrente – nelle democrazie liberali così come nei sistemi autoritari.

Il discorso d’odio è una minaccia ai valori democratici, alla stabilità sociale e alla pace. In linea di principio, le Nazioni Unite devono combattere il discorso d’odio a ogni piè sospinto. Il silenzio segnalerebbe indifferenza al bigottismo e all’intolleranza, persino quando la situazione si inasprisce e i vulnerabili diventano vittime.

Contrastare il discorso d’odio non significa limitare o proibire la libertà di parola. Significa impedire l’escalation delle parole d’odio in maggior pericolo, in particolare nell’incitamento alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza, che sono proibite dal diritto internazionale.”, dal discorso con cui António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha presentato nel maggio 2019 il “Piano d’azione” contro l’hate speech.

Da anni, molto tempo della politica italiana è speso nel farneticare attorno al concetto di “sicurezza”: ma si tratta appunto di un concetto astratto, la “sicurezza della nazione”, che si basa anche sul trascurare o minare la sicurezza di coloro che sono socialmente – economicamente – politicamente marginalizzati o stigmatizzati, il che spiega perché ne’ Giulia ne’ qualsiasi altra donna, lesbica o no, è al sicuro mentre cammina semplicemente per le strade della sua città. I crimini generati dalla misoginia e dall’omofobia sono continuamente “scusati” sui media con ogni sorta di razionalizzazioni e attestati di simpatia per i perpetratori – e conseguente nuova vittimizzazione delle persone che li hanno subiti, mentre chi dovrebbe proteggerle (forze dell’ordine e tribunali) troppo spesso minimizza l’accaduto, colpevolizza le vittime e emette per gli aggressori sentenze ridicolmente miti o assolutorie. Occuparsi davvero della sicurezza di un Paese significherebbe riorientare impegni e risorse nel dare valore a ogni individuo che in quel Paese vive, cercando di proteggerli tutti da ogni forma di violenza.

Per quel che riguarda nello specifico la comunità lgbt, la propaganda dell’odio ha effetti devastanti. Solo per dirne uno, le probabilità che un adolescente gay maschio o femmina tenti il suicidio sono cinque volte tanto quelle dei suoi pari eterosessuali. “Le persone come te devono morire”, no? NO.

Perciò, al prossimo “ma sulle lesbiche scherzavo, voi femministe non avete il senso dell’umorismo”, la mia risposta sarà GIULIA. Io non posso ridere delle vostre stronzate infami, perché il loro esito è quel che è stato fatto a lei.

Maria G. Di Rienzo

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survivors

Da sinistra, nell’immagine di Elizabeth Pratt dell’ong “Too Young to Wed” – “Troppo giovane per sposarsi”, potete vedere Rosillah, Nachaki, Modestar, Eunice e Monicah. Sono sopravvissute a mutilazioni genitali e matrimoni precoci. La fotografia è stata scattata nel novembre scorso a Nairobi in Kenya, dove le ragazze hanno partecipato al summit per il 25° anniversario della Conferenza de Il Cairo (ove, nel 1994, 179 governi adottarono un Programma d’azione per donne e bambine), sostenute da “Too Young to Wed”, dalla “Samburu Girls Foundation” e dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.

Monicah è stata mutilata a 10 anni. Subito dopo, il fratello l’ha data in moglie a un uomo di 32: “Voleva le capre e le mucche che sarebbero arrivate come pagamento del prezzo della sposa. – ha raccontato alla platea dei delegati – Sono rimasta con il mio allora marito per una settimana, poi il capo villaggio e gli agenti di polizia sono venuti a prendermi.” Mutilazioni genitali e matrimoni di bambine sono infatti fuorilegge in Kenya, ma il 21% delle donne del paese comprese fra i 15 e i 49 anni le hanno subite, così come il 23% di quelle fra i 20 e i 24 si sono sposate prima dei 18 anni.

Dopo essere stata soccorsa, Monicah ha ricevuto una borsa di studio dalle ong summenzionate ed è rapidamente diventata una delle migliori studenti nella sua classe. E’ anche diventata un’attivista che lavora con altre sopravvissute per mettere fine alle violazioni dei diritti umani da lei stessa subite: globalmente, si stimano oggi in circa 200 milioni le bambine e le donne che vivono con le mgf, mentre una ragazza su cinque diventa una moglie ben prima di essere maggiorenne.

Eunice aveva parimenti 10 anni quando fu costretta a sposare un 75enne: “Forse qualcuno ha ricevuto ispirazione dalla mia storia e potrebbe cominciare a cambiare le cose aiutando le ragazze che stanno attraversando le difficoltà che ho attraversato io.”

Il summit di Nairobi si è concluso con oltre 400 impegni presi e sottoscritti da politici e organizzazioni presenti per mettere fine ai matrimoni precoci e alle mutilazioni genitali femminili.

“Ma devono lavorare con passione – ha sottolineato Eunice – non solo per avere riconoscimento o addirittura per avere soldi: devono lavorare per sostenere i diritti umani delle donne… e per conquistare a questo il mondo intero.”

Monicah è completamente d’accordo e ha aggiunto: “Credo che le ragazze possano fare qualsiasi cosa.”

Maria G. Di Rienzo

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the wishing well di kathy kehoe bambeck

E’ passato un quarto di secolo dalla “Quarta conferenza mondiale sulle Donne: azione per l’eguaglianza, lo sviluppo e la pace” delle Nazioni Unite, da cui uscì la nota Piattaforma di Pechino firmata da 189 Paesi. All’epoca mi era stato commissionato un articolo al proposito, per cui il mio primo ricordo di quel settembre 1995 è uno scassato telefono viola in cui riverso domande in inglese, fra mille disturbi sulla linea, a una gentile delegata che si trova in Cina. Il risultato finale della Conferenza consentì un minimo di entusiasmo, potendo essere riassunto così: “L’avanzamento delle donne e il raggiungimento dell’eguaglianza fra donne e uomini sono materia di diritti umani e condizione per la giustizia sociale e non dovrebbero essere visti come un’istanza isolata delle donne. L’empowerment delle donne e l’eguaglianza fra donne e uomini sono prerequisiti per raggiungere sicurezza politica, sociale, economica, culturale e ambientale fra tutti i popoli.”

Gli impegni presi e sottoscritti nella dichiarazione di chiusura includevano l’eliminare la violenza contro le donne, l’assicurare a tutte le donne l’accesso alla pianificazione familiare e alla cura della salute riproduttiva, il rimuovere le barriere alla partecipazione delle donne ai processi decisionali, il fornire alle donne impieghi decenti e salario uguale per uguale lavoro. Il documento chiedeva anche ai governi di affrontate l’impatto della degradazione ambientale sulle donne e di ascoltare le donne indigene in ogni materia relativa allo sviluppo sostenibile, di riconoscere lo sproporzionato fardello posto sulle donne dal lavoro non pagato di cura e di impegnarsi per una migliore rappresentazione delle donne nei media.

Venticinque anni dopo, nessuna nazione ha tenuto completamente fede alle promesse. Ci sono stati miglioramenti e progressi, ma viviamo ancora in un mondo in cui una donna su tre subisce violenza fisica e/o sessuale durante la sua vita, in cui le donne sono pagate meno degli uomini pur svolgendo le stesse mansioni lavorative e centinaia di migliaia di donne muoiono ancora ogni anno per complicazioni relative alla gravidanza e al parto collegate allo scarso o inesistente accesso a risorse e strutture, eccetera, eccetera. Inoltre, in molte zone del pianeta i diritti umani delle donne hanno fatto o stanno facendo passi indietro: l’avanzamento di destre, partiti religiosi fondamentalisti, movimenti sovranisti / populisti coincide ovunque con un peggioramento dello status femminile.

L’inerzia o la vera e propria misoginia della politica si intrecciano al vissuto sociale e il 2019, in Italia, va al suo termine con notizie di questo tipo:

30 dicembre 2019: “Feriva la compagna con i coltelli come il suo idolo Joker: arrestato 38enne romano – L’uomo, benestante residente nella Capitale, da alcune settimane soggiornava in strutture ricettive dei Castelli. Una sera di 20 giorni fa, i militari sono dovuti intervenire in un locale di Nemi dove il 38enne era andato in escandescenza e aveva iniziato a picchiare la compagna, la 40enne con cui aveva una relazione da qualche mese. (…) Appassionato di coltellini da caccia che usava con la stessa disinvoltura del suo idolo, spesso la minacciava di colpirla e le procurava tagli sulle gambe.”

Sorelle (e fratelli alleati), non aspettate il cambiamento e continuate a crearlo, perché il cambiamento siete voi. Siamo noi. Affido questo al pozzo dei desideri. Vi voglio bene e ogni bene vi auguro per il prossimo anno.

Maria G. Di Rienzo

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“Ogni giorno, persone muoiono come risultato di incidenti sul lavoro o malattie collegate al lavoro: più di 2 milioni e 780.000 decessi per anno. In aggiunta, ci sono circa 374 milioni di infortuni sul lavoro non mortali che comportano più di quattro giorni di assenza. Il costo umano di questa avversità quotidiana è enorme e il fardello economico dovuto a pratiche insufficienti di tutela della sicurezza e della salute sul lavoro è stimato attorno al 3,94% annuale del PIL globale. (…) Un lavoro decente è un lavoro sicuro.” Organizzazione Internazionale del Lavoro, 2019.

“Non solo gli infortuni sono in aumento, ma sono in aumento soprattutto le morti. Questa è una strage: se uno guarda i dati degli ultimi dieci anni sono 17 mila le persone che sono morte sul lavoro (in Italia) contando anche quelli morti mentre andavano o tornavano dal lavoro.”, Maurizio Landini, Segretario CGIL, 13 ottobre 2019 – Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro.

La sicurezza di chi lavora è una priorità sociale ed è uno dei fattori più rilevanti per la qualità della nostra convivenza. Non possiamo accettare passivamente le tragedie che continuiamo ad avere di fronte. Le istituzioni e la comunità nel suo insieme devono saper reagire con determinazione e responsabilità. Sono stati compiuti importanti passi in avanti nella legislazione, nella coscienza comune, nell’organizzazione stessa del lavoro. Ma tanto resta da fare per colmare lacune, per contrastare inerzie e illegalità, per sconfiggere opportunismi. Punto di partenza è un’azione continua, rigorosa, di prevenzione.” Sergio Mattarella, Presidente della Repubblica, 13 ottobre 2019 – Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro.

Safety and Health at Work

Questo è l’unico “albero” che posso associare oggi al Natale (pubblicizzava un’iniziativa internazionale su lavoro e sicurezza), perché non riesco a smettere di pensare a Giuseppina Marcinnò, deceduta sul lavoro il 22 dicembre u.s. – a 66 anni e alla vigilia della pensione – e a Stefano Strada, 45 anni, deceduto sul lavoro due giorni dopo. Lasciano in uno scioccante dolore figlie e figli, amati, amici – e persino una sconosciuta come me: l’una schiacciata da una pressa, l’altro folgorato in una cabina elettrica, la loro fine ha raggiunto probabilmente le prime pagine proprio per la concomitanza con le festività natalizie.

Il numero 17.000 ci dice però che non sono eccezioni a una regola. Se il giornalismo italiano non fosse una barzelletta di sicurezza sul lavoro e di lavoro in genere darebbe conto quotidianamente (lavoro, non le pagliacciate sugli/sulle influencer e i resoconti sui pasti di un ex ministro che non ha mai lavorato un giorno in vita sua). L’Italia non è fatta di culi al vento, scarpine trendy e “vipperia” varia: le eccezioni sono loro – noi, noi italiani siamo un popolo intero invisibile ai media e da essi considerato mero target pubblicitario. La richiesta implicita in tale trattamento è che noi ci si accapigli sulla stupidaggine del momento (presepi o seni rifatti o biscotti alla Nutella) e si muoia in silenzio: da me, NO e tanti auguri per un veloce risveglio alla realtà.

Maria G. Di Rienzo

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