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Posts Tagged ‘istruzione’

Il giovane Marco Rossi, giocatore del Monregale calcio, ha avuto qualche difficoltà “stradale” il mese scorso e ha ritenuto di doverne dare pubblicamente conto con un video. La trascrizione della sua testimonianza è questa:

In poche parole c’è una negra di merda che pensa di avere dei diritti, e tra l’altro ‘sta negra è pure donna, quindi già “donna” e “diritti” non dovrebbero stare nella stessa frase, in più se aggiungi un “negra”… quindi fa già ridere così, no? Però, in poche parole sto orangotango del cazzo ha avuto la brillante idea di denunciarmi per falsa testimonianza. Che però forse è vero, un po’ di falso l’ho dichiarato perché ero fuso e ubriaco, ci sta. Però per principio non mi devi rompere il cazzo anche perché you are black, diocan, negra di merda! E niente, bon, in poche parole io adesso dovrei pagare la macchina a una solo perché sa fare il cous cous: ma baciami il cazzo va’, puttana! Puttana! Troia! Poi ho preso la macchina di mia madre, ho preso l’autovelox, non ho pagato una lira e devo pagare la macchina a te diocan, sempre se si può chiamare macchina quella merda di triciclo che c’hai. Troia, lavami i pavimenti.”

Nelson Mandela la pensava così:

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire le persone in un modo che poche altre cose sanno fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport può creare speranza dove prima vi era solo disperazione. E’ più potente dei governi nell’abbattere le barriere razziali. Ride in faccia a ogni tipo di discriminazione.”

Vero, in teoria e in linea di massima. Poi nella pratica c’è qualche dissonanza come Marco Rossi. Perché gli strumenti – dallo sport ai video – sono in essenza l’uso che ne fai.

C’è un po’ di gente che sta chiedendo alla dirigenza del Monregale di buttare fuori il suo giocatore. Io dilazionerei la proposta. Tenetelo in squadra, per il momento, e fate un po’ di “rieducational channel” per tutti.

Cominciate con lo studio di questi tre testi: Costituzione della Repubblica Italiana, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, CEDAW – Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. Fase due: invitate Aboubakar Soumahoro e Leaticia Ouedraogo a tenere una lezione ai vostri calciatori sugli effetti del razzismo e del sessismo nelle loro vite.

Poi portate Rossi e compagnia in tour al campo di sterminio di Auschwitz.

Infine informateli: “Adesso non avete più scuse, non potete dire che non sapevate e che non avevate capito e che stavate scherzando eccetera. Vi abbiamo dato la possibilità di smettere di essere stupidi e crudeli. Il prossimo che fa/dice una stronzata razzista, sessista, omofoba eccetera se ne va a calci nel didietro.”

Maria G. Di Rienzo

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Flying Spaghetti Monster

Io preferirei davvero che tu evitassi di usare la Mia esistenza come motivo per opprimere, sottomettere, punire, sventrare e/o, lo sai, essere meschino con gli altri. Io non richiedo sacrifici e la purezza va bene per l’acqua potabile, non per le persone.

Io preferirei davvero che tu evitassi di giudicare le persone per come appaiono, o per come si vestono, o per come camminano o, comunque, di giocare sporco, va bene? Ah, e ficcati questo nella tua testa dura: Donna = Persona. Uomo = Persona. Tizio noioso = Tizio noioso…

R’amen! Questi sono un paio degli eccellenti otto comandamenti – condimenti emanati dallo Spaghetto Volante (con polpette, in immagine sopra) per i fedeli del Pastafarianesimo e mi servono come apertura per dirvi che il documentario “I, Pastafari” del regista Michael Arthur sarà disponibile online da martedì prossimo, 26 maggio.

https://www.ipastafaridoc.com/

Il documentario ripercorre la nota storia di come l’allora studente Bobby Henderson – era il 2005 – reagì alla possibilità che il creazionismo fosse insegnato nelle scuole del Kansas, chiedendo che lo stesso numero di ore fosse dedicato al Flying Spaghetti Monsterè il nome originale della divinità – e alla sua creazione del mondo, e passa a illustrare numerosi casi in cui i pastafariani sono comparsi nei tribunali di diverse nazioni affinché la loro religione ricevesse le tutele che tutte le altre fedi hanno… e quindi, anche per il diritto di farsi le foto per il passaporto con lo scolapasta in testa.

Il Pastafarianesimo è stato a lungo visto come nulla di più di uno scherzo, ma il documentario analizza i suoi messaggi dando ad essi il credito che meritano; per quel che mi riguarda, credo che le idee e i concetti si possano veicolare in mille maniere e che farlo ridendo sia sicuramente meglio che farlo urlando o minacciando.

La satira di Henderson e accoliti era ed è terribilmente seria: nelle stesse parole del fondatore include la necessità di “tenere la religione fuori dalle scuole pubbliche, tenere il denaro fuori dalla religione e questo genere di cose”. Quando la scienza diventa solo un’opinione come un’altra, sostengono i pastafariani, le opinioni dei potenti diventano fatti alternativi: “Sopprimere l’istruzione e nutrire l’ignoranza è il talento di ogni autoritario di successo. Questo si è verificato durante tutta la storia umana e ne stiamo testimoniando una rinascita oggi. Non tutto è perduto. L’antidoto ai fatti alternativi e alle fake news è la scienza. Non è più razionale accettare che assassinare gli infedeli garantisca l’accesso al paradiso. Se solo fossimo tutti abbastanza istruiti da pronunciare una semplice parola, PROVALO, è possibile che molti degli odierni titoli disturbanti sulle prime pagine dei giornali scomparirebbero. Solo quando condivideremo di nuovo una base comune per definire un “fatto” potremo smettere di battibeccare e cominciare a discutere di soluzioni realistiche per raddrizzare le disgrazie del mondo.”

Maria G. Di Rienzo

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Marylize

(“How can LGBTIQ people find solace in family or religion when these are the sources of our pain?”, di Marylize Biubwa per OpenDemocracy, testo raccolto da Arya Karijo, aprile 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Sono una difensora dei diritti umani. Sono un’attivista e sono una femminista nera, queer, radicale e intersezionale. Non ho un lavoro. Porto avanti un’iniziativa che non è un’organizzazione giacché non è finanziata. In effetti, la porto avanti con il crowdfunding e coinvolgendo le mie reti di relazioni. Mi appoggio grandemente a lezioni di facilitazione, all’attivazione di social media o al mettere insieme contenuti digitali per qualcuno.

La storia di molte persone queer è quella di chi non è riuscito neppure ad andare a scuola, perciò non hanno diplomi. Non li ho neppure io, ma mi sto arrangiando. Qualche volta la vita la devi arrangiare. Molte persone non hanno reddito. Molte persone si appoggiando ad altre persone. Molte persone hanno dovuto uscire allo scoperto. Stanno da soli. Hanno difficoltà. La gente sta usando metodi folli che nemmeno immaginereste, per sopravvivere qui fuori.

Perciò, quando il coronavirus colpisce, sei completamente destabilizzato. Non vuoi restare a casa tua, perché ciò rende la tua situazione di persona che non guadagna persino peggiore. Ma non puoi uscire in cerca di lavoro durante questo periodo in cui la gente pratica il distanziamento sociale ed è sotto quarantena. Molte persone LGBTIQ sono in difficoltà perché il coronavirus è arrivato con questo senso della famiglia e di gente che si sposta per essere accanto agli individui di cui si curano di più: familiari eccetera. Se il peggio si avvera, vuoi morire avendo almeno la tua famiglia vicina.

Ma per quel che riguarda la mia esperienza, e l’esperienza di molte persone LGBTIQ, la famiglia non è qualcosa che noi si abbia attualmente e ciò ha impatto sulla nostra salute mentale e in genere su come funzioniamo e operiamo in questo periodo.

Ci sono quelli che trovano sollievo nella religione. Ci sono quelli che trovano sollievo nella famiglia. Le persone LGBTIQ raramente trovano sollievo in questi modi, perché tanto per cominciare religione e famiglia sono le fonti della nostra sofferenza. La cosa triste dell’essere una persona queer in questo periodo è che hai la sensazione di non avere la meglio in qualsiasi cosa, sia la famiglia, sia il coronavirus, sia il governo, sia i sistemi. Puoi dover andare all’ospedale e l’omofobia strisciare all’interno della situazione. Era già abbastanza brutto prima del coronavirus e in un momento come questo non fa che amplificarsi.

La gente sta associando parecchio la morte al coronavirus. Io non sono spaventata dalla morte. Non perché la morte non sia spaventosa in sé. Se guardo indietro, so che c’è stato un periodo della mia vita che ho giudicato davvero spaventoso. Sono le esperienze che ho attraversato. E’ maneggiare il trauma. E’ sentirsi incline al suicidio. E’ tentare il suicidio. E’ l’arrivare in pratica a un punto in cui sei viva ma sai per certo che se non volessi essere viva ci sarebbe un’opzione, una via d’uscita da tutto questo.

Penso di continuo: qual è la cosa peggiore che può capitare se sei infettato dal coronavirus? Morire, giusto? Ma questo non è così terribile, alla fine. Voglio dire, tutti moriamo a un certo punto, no? Le nostre esperienze di vita, in special modo le esperienze traumatiche, ci uccidono da vivi comunque. In un dato momento avremmo dovuto vivere come esseri umani, ma siamo morti dentro.

(L’omosessualità è illegale in Kenya secondo il Codice Penale di era coloniale, il quale descrive le relazioni fra persone dello stesso sesso come “conoscenza carnale contraria all’ordine naturale” e prescrive sentenze che arrivano ai 14 anni di prigione. Nel 2019, la Corte Suprema del Kenya rifiutò di dichiarare incostituzionali queste clausole del Codice Penale.)

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(tratto da: “We Contribute to Diversity”, di Olowaili “Madre de las estrellas” – “Madre delle stelle” Green Santacruz, per Cultural Survival, dicembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice è ritratta qui sotto.)

madre delle stelle

Noi Guna siamo un popolo dalla doppia nazionalità con una comunità a Panama e due in Colombia – una in campagna e l’altra in città.

Io vivo nella regione Guna di Abya Yala. Ho vissuto a Medellín da quando avevo 7 anni e ora ne ho 26. Sto terminando l’ultimo semestre di studi sulla comunicazione audiovisiva e sono una produttrice di audiovisivi e una direttrice culturale: la mia compagnia, che si chiama sentARTE, lavora per promuovere la diversità etnica e di genere.

Nella nostra tradizionale spirituale Guna, gli dei hanno mandato un uomo e una donna, ma poi hanno mandato anche una terza persona, un essere non definito per genere.

Dall’età di 12 anni sapevo che la mia preferenza sessuale era diretta verso le donne. E’ stato molto difficile per me, perché in numerose comunità indigene c’è un bel po’ di machismo e si richiede alle donne di assumere ruoli determinati. All’inizio è stata dura, perché le mie preferenze non erano accettate. A 15 anni avevo una partner che mi ha aiutato molto e fu allora che decisi di parlare ai miei genitori di lei. I miei genitori mi hanno accettata, ma è stata dura anche per loro.

Dopo aver discusso la faccenda con la mia famiglia, non mi sono più preoccupata di quel che pensava la gente, anche se esercito discrezione per sostenere i miei parenti.

Definire me stessa è un atto politico e con esso è arrivato il desiderio di essere un’attivista. Questo non è facile per una donna perché i testi che definiscono l’identità culturale, e che ci sono imposti, contengono troppe oppressioni di genere. Sarà una lunga lotta, ma io sento di avere il compito di aiutare altre donne, in special modo le donne indigene, i cui ruoli prescritti le opprimono doppiamente. Io non ho problemi nell’identificarmi dentro il termine LGBTQIA+. Al di là di tutto, io sono un essere umano che vuole amare un altro essere umano.

Dobbiamo istruire la società affinché essa sia informata, perché noi non siamo gente “stramba”. Siamo uguali. I miti per cui saremmo i portatori dell’AIDS devono essere banditi. Tale istruzione deve cominciare a scuola, con i bambini. Bisogna instillare educazione per suscitare consapevolezza nella società. Gli uomini gay in Colombia sono raffigurati molto male, le lesbiche meno ma ad esse si appiccica la falsa aura della bisessualità, tipica delle fantasie sessiste.

La mia professione si adatta perfettamente alle lotte dei popoli indigeni. Il fatto che vivo in città, separata dalla comunità, è disprezzato però partecipo ancora agli incontri comunitari guidati dai caciques (capi). Come persona indigena urbanizzata ho incontrato grande ignoranza rispetto ai popoli indigeni: la mia compagnia è stata creata proprio per salvaguardarli e renderli visibili. Ho realizzato un documentario per la televisione che sarà trasmesso in gennaio e che parla del potere femminile nelle comunità.

Il mio lavoro contribuisce alla costruzione di una società maggiormente egualitaria. Contribuiamo alla visibilità delle nostre culture indigene e della diversità in generale.

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(tratto da: “Global gender equality will take another 100 years to achieve, study finds”, di Jessie Yeung, per CNN Business, 17 dicembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

italia

Molte di noi non vivranno per vedere l’eguaglianza di genere raggiunta in tutto il mondo, secondo un nuovo studio che predice come la pietra miliare sia distante almeno 100 anni.

L’annuale Global Gender Gap Report del World Economic Forum posiziona l’Islanda come il paese con maggior eguaglianza di genere per l’undicesimo anno consecutivo, seguito dai vicini nordici Norvegia, Finlandia e Svezia. Siria, Pakistan, Iraq e Yemen sono agli ultimi posti.

Il rapporto analizza 153 paesi nel loro progresso verso la parità di genere, concentrandosi su quattro temi principali: partecipazione economica, conseguimenti nell’istruzione, salute e sopravvivenza, potenziamento politico.

“L’inchiesta di quest’anno mette in luce la crescente urgenza di azione. – dice il rapporto – Con l’attuale tasso di cambiamento, ci vorrà circa un secolo per raggiungere la parità, una sequenza temporale che è semplicemente inaccettabile nel mondo globalizzato di oggi, in special modo fra le generazioni più giovani che palesano visioni sempre più progressiste sull’eguaglianza di genere.”

Alcuni dei quattro temi mostrano del progresso; per esempio, 35 paesi hanno già raggiunto l’eguaglianza di genere nell’istruzione e tutti i paesi dovrebbero raggiungerla entro 12 anni: progresso che è largamente dovuto ai recenti avanzamenti nei paesi in via di sviluppo, dice il rapporto. La salute e la sopravvivenza delle donne stanno anche migliorando, con 48 paesi oggetto della ricerca che hanno raggiunto quasi la piena eguaglianza.

Per altre aree, tuttavia, ci vorrà più tempo. La partecipazione e le opportunità economiche quest’anno per le donne sono regredite: “solo una manciata di paesi” si stanno appena avvicinando all’eguaglianza e il mondo avrà bisogno di 257 anni in più per ottenerla pienamente. Di media, solo poco più di metà delle donne adulte sono nel mercato del lavoro di fronte al 78% degli uomini, dicono gli autori del rapporto.

Il divario di genere nella rappresentazione politica pure ristagna: nessun paese ha completamente chiuso la differenza e, globalmente, la stima dà 95 anni per raggiungere l’eguaglianza.”

Potete leggere l’intero rapporto qui:

http://www3.weforum.org/docs/WEF_GGGR_2020.pdf

L’Italia arretra al 76° posto, surclassata da nazioni quali Bosnia Erzegovina, Montenegro, Kazakistan e Botswana. Se lo trovate consolante vi dirò che facciamo meglio del Suriname (77)…

Ma chissà, forse il prossimo anno raggiungeremo la posizione n. 41 come la Giamaica? Il ventesimo posto dell’Albania no, vedete ogni giorno quanto tempo ci vuole in Italia per trattare le donne da esseri umani.

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L’istruzione è l’arma più potente che si può usare per cambiare il mondo – Nelson Mandela

“Fano, frasi volgari all’alunna. Prof delle medie sotto processo. – L’accusa è maltrattamenti. Vittima una ragazzina di seconda media.”

Il professore è un “figo”, diciamolo: a cinquant’anni sembra appena il fratello maggiore dei suoi alunni. Mostra loro il tatuaggio sul braccio spiegando che lo eccita, gli fa ascoltare Fabri Fibra che inneggia al sesso e alla dodicenne che ha un pennarello in mano, appoggiato alle labbra, chiede a voce alta di fronte all’intera classe: “Stai cominciando gli allenamenti per fare i pompini?”.

I compagni della ragazzina ridono. Ai bulli è offerto un bersaglio legittimato dall’atteggiamento del docente: nei giorni seguenti ripetono ad oltranza la frase alla dodicenne, rendendo la sua vita scolastica così infernale da indurre la famiglia a farle cambiare istituto.

Adesso immaginatevi il professore coinvolto in qualche programma teso a contrastare la violenza di genere diretto ai suoi alunni. Farà un buon lavoro, vero? E’ solo uno a cui piace scherzare e se proprio si deve arrivare in tribunale, be’, allora lui non ha detto niente del genere e i bulletti sosterranno la sua versione:

“E’ stata ascoltata anche una mamma di una compagna di classe della 12enne: «Mi figlia mi disse la storia del pennarello, ma considerandolo uno scherzo». I difensori dell’imputato hanno annunciato la testimonianza di molti ragazzini che negherebbero la frase incriminata.”

Immagino che lo spiritoso e giovanile insegnante sia un po’ frastornato dalla faccenda: nella società italiana di cui fa parte è normale sessualizzare le bambine, è normale svilire ogni femmina – qualsiasi sia la sua età – ricordandole che è mero materiale da scopata ed è normale riderci sopra. A parte quelle stronze brutte sfatte delle femministe, non c’è nessuno che protesti per questo e si sa che quelle vacche protestano solo perché non trombano abbastanza…

campagna bologna

I genitori della vittima sono parimenti consci della situazione, al punto da non aver denunciato in proprio ne’ essersi costituiti parte civile al processo. Probabilmente pensano, non a torto, che la loro figlia abbia già sofferto abbastanza.

Il problema è che nello scenario già descritto la ragazza continuerà a subire assalti sessisti per l’intera sua esistenza. Come ognuna di noi.

L’istruzione è la chiave che apre il mondo, un passaporto per la libertà. – Oprah Winfrey

Maria G. Di Rienzo

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vida nueva

La “nuova vita” del titolo è il nome di una cooperativa artigiana di donne indigene messicane (alcune le vedete in immagine con i tappeti che producono) fondata nel 1996 da Pastora Asunción Gutiérrez Reyes. Il suo scopo era ed è dare opportunità economiche, diritti umani e sogni a donne in condizioni difficili – vedove, madri single e vittime di violenza domestica costrette a lottare ogni giorno con gli svantaggi posti su di loro da una società patriarcale e machista. Ma l’intento iniziale si è ovviamente ampliato con il tempo: a Vida Nueva vogliono che le bambine e le ragazze possano andare a scuola e che le donne abbiano abbastanza potere da decidere cosa vogliono fare delle loro esistenze, perciò investono energie, tempo e denaro in progetti comunitari diretti a tali fini: negli anni hanno per esempio fornito assistenza sanitaria gratuita e creato un sistema di riciclo rifiuti. Tessere a Teotitlán era loro originariamente proibito, in quanto “lavoro da uomini” (vedete quanto arbitrari sono gli stereotipi di genere?), ma per fortuna di tutti/e se ne sono fregate.

Global Citizen ha raccontato la loro storia in un documentario qui:

https://www.globalcitizen.org/en/connect/activate/episode1/

Inoltre, ha pubblicato in settembre una lunga intervista con una socia della cooperativa, Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes, di cui riporto un brano. (Silvia è l’unica del gruppo ad aver frequentato l’università ed è quella che nel 2004 parlò alle Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani subite da bambine e bambini indigene/i)

Global Citizen: Quante sfide avete affrontato da quando iniziaste?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Durante questi 22 anni abbiamo visto cambiamenti. Dapprima tutti ci criticavano e dicevano che eravamo pazze. Ci hanno anche chiamate prostitute e donnacce, ci hanno rigettate e guardate male. Ma ora, con tutto il lavoro che abbiamo fatto, abbiamo guadagnato il rispetto della gente nella comunità. Molte persone ora dicono che non pensavano le donne potessero portare alla comunità qualcosa di buono. Grazie a tutto il lavoro svolto ora le donne possono decidere, abbiamo imparato di più sui nostri diritti e abbiamo fatto in modo che ci rispettassero.

Global Citizen: In che modo percepisci che i cambiamenti hanno avuto impatto sulle vostre vite?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Ora possiamo dire forte e chiaro “NO” quando gli uomini ci dicono qualcosa di sbagliato. Abbiamo imparato a difendere le nostre idee e quel che vogliamo fare. Le nostre figlie stanno già studiando, un grande risultato considerato che nel passato non ricevevamo sostegno dalle nostre famiglie per studiare o viaggiare. La maggioranza delle donne di Vida Nueva non è andata a scuola e persino Pastora, la fondatrice, ha finito solo le elementari. Ora per noi è più facile creare documentazione, cercare sostegno, preparare i nostri seminari eccetera.

Global Citizen: I vostri prodotti artigianali non sono solo grande arte ma preservano anche il valore della cultura Oaxaca. Puoi darmi qualche dettaglio sul valore che sta dietro i vostri prodotti?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Il nostro lavoro si concentra sulle tecniche ancestrali. Ogni pezzo che produciamo ha un processo ancestrale, creativo e innovativo. Ciò che di certo rende il nostro lavoro speciale è che ancora ci basiamo sulle tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione. Usiamo tinture naturali che vengono da piante, frutti o insetti come la cocciniglia del carminio. Per innovare abbiamo lezioni di disegno e colorimetria e poi usiamo le nuove tecniche e le fondiamo con le antiche.

Ciò che dà un valore unico ai nostri pezzi è la qualità di cui cerchiamo di aver cura in ogni prodotto. L’intero processo prende approssimativamente tre mesi, perché elaboriamo il materiale grezzo, raccogliamo le piante o prepariamo i pigmenti. Ogni donna mette non solo il suo talento nel suo tappeto, ma anche il suo cuore e la forza di una donna che lotta per una nuova vita.

La cosa importante nel nostro lavoro, e per noi, è che ogni pezzo ha un significato speciale. E nella maggior parte dei casi, questi significati parlano di liberà, sogni e sfide che noi come donne vogliamo realizzare.

Maria G. Di Rienzo

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nonna e juliet

Juliet Acom (in immagine a destra, con la nonna), ugandese, è la fondatrice e presidente di R.E.S.T.O.R.E, un centro che risponde alle emergenze create nelle comunità dall’anemia falciforme e fornisce assistenza alle persone che vivono con questa condizione e a chi si prende cura di loro.

Fra le proprie passioni cita i diritti umani, la risoluzione dei conflitti, la sicurezza alimentare, la tutela dell’ambiente, l’istruzione: sono istanze, spiega, di cui discuteva con sua nonna da bambina. L’istruzione informale, sostiene Juliet, è vera e propria ricchezza: “Le lezioni che la mia nonna analfabeta mi ha impartito mi hanno permesso di dar forza alle donne e alle comunità e di contribuire agli obiettivi internazionali di sviluppo.”

Ecco alcuni esempi di “nonnesca” saggezza che anche noi potremmo trovare utili:

– Conservazione dell’ambiente: Quando mangi un frutto da un albero che cresce abbastanza grande da fare ombra, porta il seme con te. Quando giungi in un posto privo di alberi simili, mettilo nella terra così che persone e animali possano avere gli stessi frutti e la stessa ombra. (Ancora oggi Juliet viaggia con le tasche piene di semi.)

– Cibo per tutti: Non andare mai a letto sazia mentre i tuoi vicini di casa stanno morendo di fame. Se sono troppo orgogliosi per accettare la carità, proponi loro di coltivare il tuo giardino in cambio di cibo o denaro. E mentre lavorano la tua terra, unisciti a loro.

– Acqua e igiene: Non scaricare immondizia e non urinare nei pressi di una fonte d’acqua. Se trovi immondizia accanto alla sorgente non vergognarti di raccoglierla e di portarla altrove. E quando vieni a sapere di attività comunitarie per pulire il villaggio, sii la prima ad arrivare al punto di ritrovo.

– Risoluzione dei conflitti: Non prendere mai le parti di qualcuno che è chiaramente in torto – le lacrime degli oppressi sono la ragione per cui molte persone un tempo agiate hanno avuto una fine straziante. (Secondo la nonna, ottimista, i farabutti la pagano sempre: o devono rispondere della loro corruzione o si beccano ogni sorta di terribili disgrazie.)

– Sviluppo comunitario: Non sei stata benedetta con la conoscenza, l’abilità o le risorse per tenere tutto questo in magazzino. L’altruista condivide queste benedizioni con coloro che sono meno fortunati. Se condividi, il tuo cuore sarà sempre disposto alla felicità.

– Potenziamento economico femminile: Buon cibo, begli abiti, gioielli, un marito ricco? Ok, tutto questo può andar bene per una donna, ma per farcela nella vita, una donna deve leggere libri, imparare un mestiere, risparmiare soldi e unirsi a gruppi di risparmiatori e, soprattutto, ascoltare sua nonna!

Maria G. Di Rienzo

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Malala Yousafzai, Premio Nobel per la Pace, attivista pakistana per l’istruzione e l’eguaglianza di genere, sopravvissuta alla pallottola sparatale in testa da un talebano, ha oggi 21 anni e studia filosofia e economia a Oxford.

malala australia

Il 10 e 11 dicembre 2018 era in Australia (dopo essere passata da Canada, Libano e Brasile) per parlare agli/alle studenti di Sydney e Melbourne, incoraggiandoli a usare i loro studi come mezzo per trovare e seguire le loro passioni e abilità. Ha ringraziato una volta di più suo padre per aver rigettato il bando imposto dai talebani sull’istruzione femminile e per averla sempre incoraggiata a usare la propria voce; ha ringraziato il movimento #MeToo per aver sollevato le questioni relative al sessismo nei paesi occidentali: “In occidente la faccenda non era mai stata menzionata prima in tale modo. Spero che renderà le persone consapevoli che si tratta di un’istanza globale e metterà in luce la discriminazione che le donne affrontano. La minor rappresentanza politica (delle donne) e le diseguaglianze sono globali.”

E ha detto anche: “Io prendo posizione per i 130 milioni di bambine che non hanno istruzione perché sono stata una di loro. E’ l’istruzione che permette alle bambine di fuggire dalla trappola della povertà e di guadagnare indipendenza e uguaglianza.

Ho cominciato a farmi sentire quando avevo 11 anni. Voi potete cambiare il mondo, quali che siano la vostra età, il vostro retroscena, la vostra religione. Credete in voi stessi e potete cambiare il mondo.

Maria G. Di Rienzo

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Io chiaramente non sono un oggetto, per favore non trattarmi come se lo fossi

Io sono umana e perciò non diversa da te

E non ho bisogno che tu mi porti i libri a lezione, perché ai tuoi occhi le ragazze sono deboli:

io sono più che capace di sbrigarmela da me

Io sono una ragazza rivestita di forza e dignità e allegria senza paura per il futuro

Io sono femmina

Lucy, 12 anni, residente a Redcar, Yorkshire del Nord, Inghilterra.

La poesia di Lucy è stata letta al pubblico, l’11 ottobre scorso (Giorno Internazionale della Ragazza / Bambina), durante la presentazione dei risultati dei seminari tenuti con le alunne di due scuole dal progetto “Girl-Kind” – l’invito è qui sotto.

girl-kindLe ragazze avevano in precedenza nascosto nella sala piccole bottiglie di vetro con l’etichetta “Alla sconosciuta / Allo sconosciuto che trova questo”. I messaggi all’interno dicevano: “Sei amata/o”, “Sei splendida/o”, “Sii te stessa/o, sei straordinaria/o”.

Due delle organizzatrici dei seminari, Sarah Winkler-Reid, docente universitaria di Antropologia Sociale, e Sarah Ralph, docente universitaria di Studi su Media e Cultura, hanno scritto dell’esperienza per “The Conversation” il 25 ottobre u.s. e questo è un piccolo estratto:

“Non si può negare che crescere essendo femmina è sempre stato complicato. Oltre alle richieste provenienti dalla scuola, dalla famiglia e dagli amici, ci sono pure una miriade di aspettative su come le ragazze dovrebbero o non dovrebbero essere.

La preoccupazione per le vite delle giovani donne è un tema ricorrente sui media, nei dibattiti pubblici e fra i legislatori, ma non è che ne sentiamo parlare molto spesso dalle ragazze stesse.

Il progetto Girl-Kind si è sviluppato come risposta all’attuale rappresentazione negativa delle ragazze sui media del mainstream e più in generale al focus centrato sui “problemi” dei lavori con le ragazze, che presume dall’esterno quali istanze le ragazze affrontino senza chiederle a loro per prime.”

Maria G. Di Rienzo

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