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Posts Tagged ‘bangladesh’

(tratto da: “The Double X Economy by Linda Scott review – the need to empower women”, di Gaby Hinsliff per The Guardian, 18 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Il libro di cui si tratta è edito da Faber.)

Linda Scott

Il nuovo libro di Scott (in immagine), The Double X Economy, ruota attorno all’ormai relativamente nota idea che al fianco di quella che è vista come l’economia principale si svolga un’economia ombra di lavoro fatto dalle donne, penalizzate dai limiti sociali posti per esse e dalle barriere erette contro la loro partecipazione, e che potenziare coloro che vi sono intrappolate sarebbe di più largo beneficio per la società intera.

Ciò che lei porta a questo argomento un po’ usurato è una prospettiva globale, attingendo ad aneddoti spesso affascinanti sui villaggi africani e del Bangladesh in cui ha lavorato, ma anche un’entusiasmante presa di posizione contro il biasimare le donne per cose di cui non hanno colpa.

Cercare costantemente modi in cui le donne possano essere “aggiustate”, in modo che finalmente guadagnino gli stessi benefici economici degli uomini è, argomenta lei, mancare di vedere che sono spesso gli uomini – o più specificatamente le dinamiche che certe volte sorgono da gruppi di uomini – che hanno necessità di essere aggiustate.

“Le donne sono pagate meno non perché siano meno istruite, meno motivate, meno ambiziose, meno propense a chiedere più soldi, più deboli, più codarde, più pigre, destinate a essere madri che stanno a casa, o qualsiasi altra delle centinaia di scuse sputate fuori dalla cultura popolare che biasimano le donne. – è uno dei passi brucianti del libro – Sono pagate meno perché uomini ostili e le istituzioni che essi creano continuano a trovare maniere per frustrare l’eguaglianza di genere.” (…)

Il punto centrale di Scott è che lo stesso schema di eguaglianza economica femminile accoppiata alla minaccia di violenza maschile è identificabile su tutto il pianeta: è davvero possibile che le donne ovunque abbiano preso le stesse decisioni fallimentari ripetutamente, o piuttosto c’è qualcosa che le ostacola e le ferma? Il vantaggio delle lenti non occidentali da lei usate per questo argomento consiste nel rendere più facile vedere ingiustizie palpabili quando sono portate all’estremo – in società dove le donne ancora non possono di diritto avere proprietà, scegliere chi sposare o rifiutarsi di fare sesso – piuttosto di quando sono in casa tua. (…)

“Nessuna scusa giustifica la sofferenza sopportata dalle donne – scrive Linda Scott – ma questo non impedisce alla gente di continuare a provarci.”

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Nadiya

L’immagine ritrae la 34enne Nadiya Hussain, originaria del Bangladesh, una delle chef più note in Gran Bretagna. Questa settimana esce la sua autobiografia “Finding My Voice”, il decimo libro che ha scritto in soli tre anni. E’ un testo particolare perché dà conto della violenza sessuale che Nadiya subì a cinque anni, da parte di un amico di un familiare, e di cui ha parlato ai suoi parenti solo di recente. L’abuso le ha lasciato uno strascico di problemi di salute mentale che si è trascinato sino ai giorni nostri, nel mentre lottava per trovare la propria voce e il proprio posto partendo da una posizione scomoda per chiunque, in qualsiasi paese e classe sociale: essere nata femmina.

Quando Nadiya venne al mondo, suo padre ne fu così deluso da urlare “bastarda” alla moglie che aveva appena partorito: “Perciò, io spesso pensavo Non piaccio ai miei genitori perché sono una femmina… Nella nostra società, una bambina è un fardello. Io ho deciso di crescere i miei figli, due maschi e una femmina, in modo diverso, trattandoli esattamente alla pari.”

Nel condividere la sua storia di sofferenza e resistenza tramite il libro, Nadiya spera di raggiungere bambine e ragazze che attraversano le stesse traversie e di incoraggiarle a parlarne: “Se non avessi menzionato l’abuso sessuale sarei stata parte del problema, e non parte della soluzione. Accade continuamente e non ne stiamo parlando. Io sono privilegiata perché sono sotto i riflettori, ma a cosa serve questo se non ne faccio niente di utile?”

Così, Nadiya Hussain invia a tutte voi giovani donne là fuori il suo “mantra”, augurandosi che lo seguirete: “Spingerò i gomiti in fuori e mi farò spazio”.

Maria G. Di Rienzo

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spice

(immagine da “The Guardian”, 20 gennaio 2019)

Le macchiniste che lavorano all’Interstoff Apparels di Gazipur, in Bangladesh, cuciono gli indumenti per 35 pence all’ora (euro 0,399). Le loro giornate lavorative possono arrivare a 16 ore e gli straordinari sono obbligatori: ciò che guadagnano non è comunque sufficiente per vivere e tutte hanno debiti. La direzione abusa di loro non solo sulle paghe: gli ambienti sono invivibili, le richieste sono impossibili (tipo 2.000 pezzi al giorno) e se sei incinta, vomiti dalla fatica e svieni sul pavimento ti indicano la porta – a insulti.

Le macchiniste non sanno che le magliette che cuciono sono state commissionate dalle Spice Girls – nella maggioranza dei casi non sanno neppure chi siano queste ultime – ne’ che sono inviate per nave alla Repubblica Cecoslovacca, dove un’altra ditta ci stampa sopra lo slogan #IWannaBeASpiceGirl (“Voglio essere una Spice Girl”).

Le Spice Girls hanno annunciato che i proventi delle magliette andranno a Comic Relief, un’organizzazione umanitaria il cui scopo è “creare un mondo giusto libero dalla povertà” e ha quattro aree di intervento: bambini, salute mentale, giustizia di genere, persone senza casa (sfollati, rifugiati, senzatetto, ecc.). La campagna a cui la raccolta fondi tramite magliette è diretta è quella per “l’eguaglianza delle donne”. Le Spice Girls appaiono in tv lo scorso novembre a promuovere la loro iniziativa.

Il marchio belga Stanley/Stella, che sovrintende al processo produttivo, riceve approssimativamente 5 euro a t-shirt dalla piattaforma di vendita statunitense Represent, che è stata incaricata dalle Spice Girls di produrre le magliette. Represent le mette in vendita a 19.40 sterline (circa 22 euro) a cui vanno aggiunte le spese di imballaggio e spedizione.

A seguito del servizio del Guardian che ha scoperchiato la pentola (‘Inhuman conditions’: life in factory making Spice Girls T-shirts, di Simon Murphy con l’assistenza di Redwan Ahmed) la dirigenza di Comic Relief ha dichiarato di ricevere 11.60 sterline (circa 13 euro) a maglietta, nonché di essere sotto shock e preoccupata. Anche le Spice Girls sono “sconvolte”. Gli altri attori sulla scena al meglio “indagheranno” e al peggio (Interstoff Apparels) negano tutto.

Spesso ho detto, e lo ripeto, che sono disposta a dare il mio appoggio a qualunque iniziativa vada nella direzione giusta anche se ho riserve sulle organizzazioni che la lanciano o su dettagli specifici – e quando una canzone delle Spice Girls è stata usata per l’attivismo pro diritti umani delle ragazze ne sono stata lieta – ma qui abbiamo passato il limite. Il femminismo non è un baraccone da circo in cui esibirsi, non è “le donne che scelgono” di diventare Spice Girls e se proprio queste ultime volevano donare alla “causa” potevano mettersi direttamente le mani in tasca e risparmiarsi questa manfrina del “io faccio beneficenza – e intanto sto sotto i riflettori – però la paghi tu”, che tra l’altro abbiamo visto infinite volte e che è sempre patetica. In questo caso è persino complice di violazioni di diritti umani: all’origine può esserci semplicemente superficialità da milionarie ma andiamo, Spice Girls, nessun medico vi ha prescritto tanta stupidità.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “If I am to live through an afterlife it should be as a churel demon, so I can seek vengeance on behalf of mistreated women across the globe”, di Sarah Khan per “Wear Your Voice”, 2 agosto 2017. Sarah, scrittrice-editrice, vive a Toronto in Canada e, nelle sue stesse parole, è “una femminista rompiballe e una groucho-marxista”. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

churel

Come per tutte le altre culture, l’Asia del Sud ha la sua propria serie di mostri ultraterreni atti a spaventare bambini (e anche qualche adulto). Nessuno di essi ha mai realmente spaventato me, perché tutti sembrano avere una ragione per essere quel che sono. Quella che mi affascina di più fra loro è la churel.

La leggenda della churel, a quanto si dice, ha avuto inizio in Persia, ma attualmente è più presente nell’Asia del Sud, in modo particolare in India, Pakistan e Bangladesh. Si narra che sia lo spirito di una donna a cui è stato fatto torto, di solito una donna morta di parto o subito dopo il parto. Una donna può anche tornare come churel se è stata maltrattata dai parenti durante la sua vita o se non ha mai avuto soddisfazione sessuale.

La churel è una creatura dall’aspetto orrendo di base, ma può prendere qualsiasi forma le aggradi. In Pakistan, alla sua leggenda è aggiunto il particolare che non può cambiare però i suoi piedi, che sono volti all’indietro. Generalmente, la churel prende la forma di una donna “tradizionalmente bella” per attirare gli uomini in zone isolate delle foreste. La maggior parte del folklore narra che lo fa per vendetta, torna per uccidere i maschi della famiglia, a cominciare da quelli che hanno abusato di lei quando era viva. A causa della paura della churel, le famiglie sentivano di dover avere buona e speciale cura delle parenti donne, come le nuore, e in particolar modo di quelle incinte. La churel diventa la ragione per cui le donne sono trattate da esseri umani nelle loro famiglie.

Il fatto che delle persone abbiano necessità di essere terrorizzate da una leggenda urbana per essere decenti con le donne nella loro famiglia è in se stesso scioccante, ma a me piace pensare che la leggenda sia stata creata dalle donne, per indurre gli uomini – tramite il timore – a trattarle da esseri umani. Le donne sono state considerate cittadine di seconda classe e poco più di incubatrici per bambini per lungo tempo, perciò non mi sento di biasimarle per aver potenzialmente creato una demone terrificante.

L’idea di una demone-strega che può cambiare forma e attirare gli uomini verso la loro dipartita esiste in una cultura così vistosamente misogina da risultare tonificante. Come creatura probabilmente fittizia (dico “probabilmente” perché a livello personale vorrei così tanto crederla reale), la churel sta facendo ciò che molte donne (e uomini) viventi non sono in grado di fare: reclamare per se stesse/i un trattamento umano ed egualitario.

Sebbene io sia stata trattata davvero bene dalla mia famiglia durante la mia vita, se avrò esistenza nell’aldilà una parte di me desidera che tale esistenza sia quella di una demone churel, per poter vendicare le donne maltrattate su tutto il pianeta.

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(brano tratto da: “If You See a Woman Being Harassed and Do Nothing You Are Part of the Problem”, di Anjali Sarker – in immagine – per World Pulse, 11 aprile 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Anjali, che non ha ancora trent’anni, è Vice Direttrice di un laboratorio per l’innovazione sociale, l’inventrice di “Toilet+” – una soluzione sanitaria sostenibile per i poveri delle zone rurali, ha una laurea in amministrazione aziendale ottenuta nel suo paese, il Bangladesh, e una laurea in innovazione sociale presa all’Università di Lund in Svezia. La sua passione per i diritti delle donne e per l’impresa sociale e sostenibile, racconta Anjali, ha avuto una spinta decisiva quando compì sette anni; quel giorno, i suoi genitori le portarono a casa quel che lei descrive come “il più bel regalo possibile”, una sorellina appena nata che lei vide e festeggiò come un “piccolo angelo”. Presente c’era anche un suo zio, che presentò le sue condoglianze al padre di Anjali per quella “maledizione”: un’altra femmina invece di un prezioso maschio.)

Anjali

Qualche anno fa, un mio amico maschio mi schiaffeggiò e mi strattonò tenendomi per i vestiti in una strada affollata di Dhaka, mentre stavamo discutendo. Era un comune ragazzo della mia età e frequentavamo la stessa università. Ma poiché lui era un maschio, ha osato abusare fisicamente di me in piena luce del giorno e di fronte a una folla.

Prima di farlo mi aveva sottratto il cellulare, per assicurarsi che io non potessi chiamare la mia famiglia. Ero paralizzata dalla paura. I miei sensi smisero di funzionare. Con la coda dell’occhio vidi un gruppo di guardie giurate che stavano a qualche metro di distanza, a guardare la scena. Nessuno si scomodò per interromperla e dire “Che diavolo sta succedendo qui?”.

Ora, ogni volta in cui noto un uomo adulto camminare verso di me, la mia mente entra in uno speciale modulo d’allerta. Comincio a valutare la sua espressione, struttura fisica, età, movimento e velocità di camminata per determinare cosa fare se mi verrà troppo vicino. Il mio cervello ha messo in moto questo algoritmo così tante volte che mi basta una frazione di secondo per avere un risultato e agire: a volte attraverso la strada, altre volte comincio a correre. So che nessuno interverrà per aiutarmi.

Non sono un caso isolato. In quel di Nuova Delhi, il 40% delle donne sono state molestate in spazi pubblici come autobus o parchi durante lo scorso anno. Circa due terzi delle donne in Gran Bretagna attestato di essere state vittime di attenzione sessuale indesiderata in pubblico. La cifra è ancora più alta per le donne israeliane. Quel che è peggio, ci sono spesso testimoni agli abusi ma sono troppo scioccati, spaventati o indifferenti per intervenire.

Il 20 marzo 2016, una 19enne è stata brutalmente stuprata e uccisa a Comilla, una piccola città del Bangladesh. Dieci giorni prima, una donna aveva subìto uno stupro di gruppo su un autobus in India, e il suo figlioletto di 14 giorni era stato ucciso dagli stupratori davanti agli occhi dell’altra sua bimba di tre anni. In tutto il mondo, moltissime donne si chiedono ogni giorno se saranno in grado di tornare a casa sane e salve. Sembra che per donne e bambine la sicurezza non sia un diritto, ma un privilegio. (…)

Spesso le persone non sanno cosa fare quando sono testimoni delle molestie o temono per la propria sicurezza. Ma ci sono modi per ridurre i rischi. Grazie a internet, idee creative che motivano i testimoni a farsi avanti distano solo un click. Distrazione e interventi indiretti, come il chiedere informazioni o che ore sono, parlare ad alta voce al telefonino, o semplicemente schiarirsi la gola per fare rumore, sono modi facili per stare al fianco della vittima. Gruppi di donne come Polli Shomaj in Bangladesh e le Gulabi Gangs in India hanno mostrato con successo che i passanti possono davvero fare la differenza. Ogni volta in cui uno uomo comincia a indirizzare messaggi lascivi a una donna e gli altri girano le teste, a lui arriva un incoraggiamento: “Goditela. Nessuno ti fermerà.” A questo punto può sentirsi più baldanzoso e fare un passo oltre: lo sguardo osceno può diventare il fischio, il fischio la palpata, la palpata il tentativo di stupro.

Quando un assalto ha come risultato l’omicidio e diventa una notizia sensazionale sui media, la gente prova shock e compassione per la vittima. Ma questa stessa gente dimentica che il perpetratore non è diventato uno stupratore nel giro di una notte. Quando aveva 10 anni e ha cominciato a fischiare alle ragazze che passavano per strada, forse nessuno gli ha detto che quel comportamento era sbagliato. E oggi qualcuna ne paga il prezzo.

Donne, uomini, vittime, perpetratori, testimoni – siamo tutti parte del discorso e abbiamo un ruolo da giocare in esso. Tuttavia, spesso la discussione si concentra solamente sulle liste di cose da fare / non fare per le donne e getta su di loro il fardello della colpa. Se noi siamo nella posizione di poter agire e non agiamo, il sangue macchia anche le nostre mani.

Perciò, invece di puntare il dito contro le donne, per favore, potremmo porci questa semplice domanda? “La prossima volta in cui vedrò qualcuno subire molestie, cosa intendo fare?”.

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bangladesh 8 marzo 2017

Sii audace. Abbi il coraggio di mettere in questione tutte le argomentazioni basate su autorità, storia, religione e costume. Non dare nulla per scontato. Assicurati di analizzare quel che viene detto e fai un mucchio di domande. Contesta “l’unica versione”. Sii critica sulla realtà, ma anche con te stessa. Leggi, leggi molto.

filippine 8 marzo 2017

Sii creativa. I problemi potrebbero essere complessi, perciò preparati a pensare fuori dagli schemi! Immagina nuovi modi di trattare le istanze su cui stai lavorando. Inventa nuovi modi di vedere, di avvicinarsi, disegna nuove lenti per guardare la realtà.

italia2 - 8 marzo 2017

Sii persistente. Per favore, non mollare. Abbi cura di te stessa e impara a scegliere le tue battaglie, ma torna sempre più forte e più fiera! Il non agire è comunque una posizione politica che favorisce lo status quo, per cui prendi il controllo e credi nel potenziale di dar forma a soluzioni nuove e migliori.

istanbul 8 marzo 2017

Testo di Lucía Berro Pizzarossa, 30 anni, uruguaiana, attivista per i diritti riproduttivi. (Trad. Maria G. Di Rienzo.) Le immagini, dall’alto in basso, ritraggono lo sciopero globale delle donne dell’8 marzo 2017 in: Bangladesh, Filippine, Italia, Turchia e Usa.

new york 8 marzo 2017 - foto di kristen blush

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Immaginate di fare una passeggiata in centro città, in un bel giorno di primavera, e di vedere autobus e taxi decorati di splendidi disegni con queste frasi:

LA VERGOGNA E’ DELLO STUPRATORE, NON DELLA VITTIMA

QUANDO INSULTI UNA DONNA, INSULTI LA NAZIONE

NON C’È AMORE SENZA CONSENSO

DOBBIAMO PROTESTARE PER FERMARE I CRIMINI CONTRO LE DONNE

Io personalmente ne sarei deliziata. E’ quanto hanno fatto una cinquantina di attiviste del Bangladesh, appartenenti all’ong femminista “Meye” (“Ragazza”), ai risciò della loro capitale, Dacca.

rickhsaw

I caratteristici veicoli sono da sempre dipinti con i soggetti più disparati, che vanno dalle immagini religiose alle star dello spettacolo, e sovente servono come “lavagna” per gli umori popolari sulle questioni più dibattute in campo politico e sociale.

Il Bangladesh ha un problema serio di violenza di genere: l’87% delle donne sposate, secondo i dati delle inchieste governative, soffrono della violenza loro inflitta dai mariti, le molestie in strada sono comuni e assai pesanti, i casi di stupro continuano ad aumentare.

Non è la prima volta in cui le donne di “Meye” rispondono con un’esplosione di arte a un’esplosione di violenza. Nel 2015 reagirono agli assalti perpetrati contro le donne durante le celebrazioni del primo dell’anno occupando il campus dell’Università di Dacca con dipinti, striscioni, musica, racconti e poesie.

L’evento di quest’anno con i risciò si è tenuto il primo di aprile e si chiamava “Rongbaji”, il cui significato letterale è “giocare con i colori”, ma come spiega una delle organizzatrici Trishia Nashtaran: “Nel linguaggio colloquiale la parola si riferisce ai marmocchi viziati che sono soliti stazionare sui marciapiedi per molestare e insultare le donne. Lo abbiamo scelto sia per il significato letterale, sia per il tono sarcastico di quello colloquiale.”

artista bangladesh

Il manifesto di “Rongbaji” invitava a partecipare femmine e maschi, perché “come siamo uniti quando festeggiamo, così dobbiamo essere uniti quando è il momento di protestare contro un’ingiustizia.”

Noi ora speriamo che gli artisti dei risciò continueranno ciò che noi abbiamo iniziato, ovvero il riportare i messaggi delle donne. Grazie alle ruote in movimento dei risciò i nostri slogan continueranno a raccontare le nostre storie per tutta Dacca. – dice ancora Trishia – Altre organizzazioni hanno deciso di diffondere la loro protesta in questo modo. Le parole sciameranno in molti luoghi e troveranno la via per incontrare i pensieri delle persone, guidandoci verso un domani migliore.” Maria G. Di Rienzo

alcune delle pittrici

(Le immagini sono di Sabrina Aman Reevy e di Navida Ameen Nizhu.)

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(“Out of the ruins”, di Kalpona Akter, 14 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Il brano è contenuto in “Progress of the World’s Women 2015-2016”, rapporto dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite. Kalpona Akter, direttrice del “Centro per la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh”, ha cominciato a lavorare in fabbrica alla catena di montaggio all’età di 12 anni.)

Akter

Guardo spesso indietro a quel momento e continuo a pensare che quando mi sono svegliata, in quel fragrante giorno di primavera, non avevo idea di come la mia vita sarebbe cambiata, per sempre.

La mattina del 24 aprile 2013 cominciò come ogni altra per le migliaia di lavoratori nelle fabbriche del Bangladesh e per quelli che affollavano gli otto piani degli edifici commerciali a Rana Plaza, nella periferia della capitale del paese, Dhaka. Quando la giornata si chiuse, tuttavia, più di 1.100 lavoratori – in maggioranza donne – giacevano morti fra le rovine degli edifici collassati, che erano stati condannati come insicuri solo 24 ore prima.

Così tanti di noi hanno perso amici, familiari, madri, figlie e sorelle in quella tragedia. Le donne rappresentano l’80% della forza lavoro di 4 milioni e 200 persone impiegata nell’industria dell’esportazione di abiti in Bangladesh. Per molte donne, l’industria fornisce la prima opportunità di un livello minimo di indipendenza economica. Tale indipendenza viene tuttavia pagata a un prezzo considerevole, perché l’industria si è evoluta rapidamente e senza regolamenti appropriati, creando luoghi di lavoro che sono luoghi insicuri e di sfruttamento, e dove le donne hanno a che fare con paghe esigue, condizioni pericolose, molestie sessuali e violenze. La misura dei rischi e dell’ingiustizia patiti dalle lavoratrici tessili in Bangladesh è stata messa tragicamente in luce dagli eventi del 24 aprile 2013.

La portata della tragedia, che ha causato indignazione a livello nazionale e internazionale, ha inevitabilmente condotto alla richiesta di riforme, che il governo del Bangladesh non poté permettersi di ignorare. Una valanga di nuove leggi sul lavoro passarono sull’onda del disastro, inclusa la legislazione che alleggerisce le restrizioni sul formare sindacati dei lavoratori, nomina ispettori aggiuntivi per le fabbriche e aumenta il minimo orario per i lavoratori tessili a 77 centesimi.

Accordandosi ai cambiamenti legislativi, le compagnie tessili internazionali che hanno ditte in Bangladesh si sono incontrate con vari soggetti, inclusi i sindacati dei lavoratori, i movimenti di solidarietà con i lavoratori e le ong per creare il “Bangladesh Accord on Fire and Building Safety”. A tutt’oggi, circa 190 marche di più di venti paesi hanno firmato l’Accordo, interessando 1.500 fabbriche che impiegano approssimativamente due milioni di lavoratori.

L’Accordo protegge i diritti dei lavoratori rendendo le compagnie legalmente responsabili del creare fabbriche sicure e del dare la possibilità ai lavoratori di rifiutare lavori pericolosi o di entrare in edifici insicuri. L’Accordo fornisce ispezioni indipendenti sulla sicurezza delle fabbriche, fatte da una rete di 110 ingegneri i cui rapporti sono resi pubblici. Durante lo scorso anno, queste ispezioni hanno identificato più di 80.000 problemi di sicurezza e hanno sospeso la produzione in 17 fabbriche.

Io penso che il vero miglioramento, che differenzia questo Accordo dai precedenti tentativi mirati alla sicurezza dei lavoratori, sia che i suoi impegni sono legalmente vincolanti nelle nazioni delle compagnie che l’hanno firmato, e che mette i lavoratori al centro delle riforme su salute e sicurezza, fornendo una voce ai rappresentanti dei lavoratori nella sua struttura direttiva.

Le riforme legislative e l’Accordo rappresentano avanzamenti capitali nei diritti dei lavoratori tessili perché, in precedenza, l’industria non aveva mai permesso ai lavoratori di far sentire le loro voci collettivamente, dato che il focus era sempre il mantenere la crescita dell’industria e far felici i suoi principali clienti e cioè le corporazioni internazionali. E’ stato questo tipo di violazione dei diritti dei lavoratori che ha creato l’ambiente in cui il disastro di Rana Plaza è avvenuto. E’ stato il ridurre al silenzio le voci dei lavoratori che ha permesso ai proprietari delle fabbriche di ignorare gli avvertimenti e le richieste di misure di sicurezza e di costringere i lavoratori a tornare alle loro macchine.

Il disastro di Rana Plaza, tuttavia, ha creato una piattaforma per l’auto-organizzazione delle donne lavoratrici. In due anni, sono stati registrati circa 200 nuovi sindacati dei lavoratori tessili e in essi il 65% della leadership è femminile e la maggioranza dei membri sono donne. Queste donne hanno ora dato inizio alla contrattazione collettiva con le direzioni delle loro fabbriche. La sfida che rimane per chi è coinvolto nel salvaguardare i diritti delle lavoratrici tessili è estendere e sostenere questi risultati.

Nonostante le nuove leggi sul lavoro, solo il 5% del totale dei lavoratori è iscritto a un sindacato e i sindacati sono presenti in meno di 300 fabbriche. Una manciata di prominenti marchi statunitensi che rifiutano di firmare l’Accordo perché legalmente vincolante, hanno stabilito uno schema parallelo sulla sicurezza nei posti di lavoro, la “Alliance for Bangladesh Worker Safety”, e ciò può frammentare il sostegno al molto più consistente Accordo che fornisce meccanismi per assicurare la responsabilità delle corporazioni.

Ma non c’è dubbio che, emergendo dalle rovine di Rana Plaza, una voce collettiva delle lavoratrici tessili in Bangladesh è stata stabilita, a livello nazionale e globalmente. E’ un momento cruciale, ora. Le donne in catena di montaggio stanno cominciando a percepire che le loro voci sono finalmente ascoltate. Questo è un vero passo avanti e rappresenta una degna e duratura eredità delle donne che in Rana Plaza hanno perduto tragicamente le loro vite.

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ActionAid, un’organizzazione umanitaria britannica, ha menzionato in un rapporto recente che il 90% delle prostitute in Bangladesh sono assuefatte all’Oradexon, uno steroide usato per il bestiame.

“La sostanza è intesa per ingrassare le mucche, ma è diventata la droga preferita nei bordelli del paese. Le tenutarie dei bordelli la danno alle ragazzine minorenni per mascherare la loro vera età, di modo che appaiano più vecchie, ma la danno anche alle prostitute “stagionate” per farle apparire paffute e voluttuose.”, ha spiegato Anushay Hossain, attivista del Bangladesh.

lisa

Il magnaccia di Lisa, nella foto, l’ha marchiata con un tatuaggio all’interno delle labbra. La cosa è accaduta a San Diego, Usa. Naturalmente Lisa non è la sola ad aver fatto questa esperienza (il suo sfruttatore impone il marchio a tutte le prostitute che controlla) e detto magnaccia non è un’eccezione: nei tribunali statunitensi stanno passando in questi giorni le fotografie del gruppo di donne controllato da un altro farabutto che le ha tatuate tutte – su guance, seni, cosce, natiche – con l’acronimo C.R.E.A.M (Crema) = Cash Rules Everything Around Me = Il contante governa ogni cosa attorno a me, ma anche il simbolo del dollaro è popolare come marchio di possesso.

“Si fanno chiamare imprenditori. – dice il Ten. Andre Dawson del Dipartimento traffico di esseri umani della polizia di Los Angeles – Fra loro parlano di come fare 300.000 dollari l’anno a ragazza. Il marchio fa parte del processo di indottrinamento: non importa quel che dici o quel che vuoi, addosso hai il mio nome.” “Le ragazze sono riusabili ogni giorno. – aggiunge la procuratrice Sanders Gordon – Per questi tizi sono solo dei prodotti ed è più facile vendere una donna che vendere droga: quando la droga l’hai venduta devi procurartene ancora, ma quando hai una ragazza la puoi usare di continuo.”

polso spagna

Questa ragazza di 19 anni era una delle schiave di una gang di magnaccia in Spagna, donne bastonate e minacciate affinché si prostituissero. Come le altre, è stata marchiata sul polso con una sorta di codice a barre e con la somma che doveva consegnare per essere liberata, nel suo caso 2.000 euro.

“In maggioranza i clienti non sanno o non gli importa sapere se stanno comprando sesso da una che si è messa in affari in modo indipendente o da una che è stata forzata a vendere il proprio corpo. Le donne nella prostituzione devono fingere di essere felici, che si tratti di compiacere il compratore – di modo che diventi un cliente abituale – o che si tratti di compiacere il magnaccia, di modo che non le picchi. Qualsiasi sia la piattaforma tramite cui i corpi delle donne sono comprati e venduti, la prostituzione perpetua una forma di violenza estrema contro le donne. Il tasso di omicidi “sul posto di lavoro” è 50 volte più alto di quello delle donne che lavorano in rivendite di liquori. E’ un mestiere in cui dal 60 all’80% delle “lavoratrici” fa regolarmente esperienza di abusi fisici e sessuali. Il tasso di infezione da Hiv è 14 volte più alto fra le prostitute rispetto alle altre donne. Il fatto è che la stragrande maggioranza delle donne che “scelgono” la prostituzione lo fanno solo perché altre opportunità economiche sono loro inaccessibili. In una società dove le donne continuano a dover affrontare discriminazione, povertà e violenza, ogni occasione di guadagnare denaro può sembrare una scelta.” Helen Rubenstein, legale di Advocates for Human Rights, 7.9.2014.

Due notizie sui quotidiani italiani del 25 settembre (oggi) – la prima è data con titoli di questo tipo: Arrestato per pedofilia allenatore di calcio giovanile di Roma, Arrestato allenatore giovanile di calcio: “Abusi sessuali su ragazzini dai 13 ai 15 anni” e gli articoli relativi sono (giustamente) zeppi di “tutelare i minori”, rilevano “la spregiudicatezza e l’elevata capacità manipolatoria dell’adulto”, “un soggetto pericoloso socialmente, che reitera le proprie azioni, senza mai desistere dai propri comportamenti, ormai divenuti abituali e non manifesta alcun ravvedimento né pentimento”. Il mister “comprava” i ragazzini con “somme di denaro, ricariche telefoniche e regali di ogni sorta, che costringevano le facili prede a ricambiarlo, assecondando le sue richieste sessuali.”

La seconda notizia riguarda un giro di prostituzione minorile femminile, a Milano. I titoli parlano di “tre nuove inchieste”, di “via vai di clienti da un appartamento”, di “vastissimo giro” e sparano negli occhielli frasi del tipo: “Sul litorale, una gang ne gestiva dieci” – di cosa? Be’, di quelle che TUTTI i titoli definiscono “baby prostitute” o “baby squillo”. Qua la tutela dei/delle minori non appare, le facili prede neppure, la spregiudicatezza e l’elevata capacità manipolatoria di magnaccia e clienti neanche. Anzi, ci si stupisce che le quindicenni femmine si lasciassero comprare per così poco: “Il compenso? Poche decine di euro, a volte qualche grammo di cocaina, un ingresso in discoteca, un drink pagato al bar.”, anche se l’equivalenza con le “regalie” dell’allenatore ai giovanissimi calciatori è evidente.

No, non mi sto chiedendo perché. Mi sto chiedendo se in Italia possiamo smettere di prenderci in giro con “il libero scambio sessuale a pagamento fra adulti consenzienti”, e “la felice prostituta liberata” e il “civilissimo puttaniere liberato” e il “buon intermediario liberato che fa soldi sulla prostituta liberata”, perché non si tratta più di essere solo ridicoli: soprattutto nei confronti delle minori questo atteggiamento è infame. Maria G. Di Rienzo

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khadija

Khadija viene da una famiglia molto povera che vive in un villaggio del Bangladesh chiamato Gorashal. Era una bambina con ambizioni rispetto allo studio, ma è stata costretta a lasciare la scuola prima di aver finito la quinta elementare: è andata a fare la domestica, per aiutare economicamente i suoi parenti. Non è una storia “eccezionale”, visto che il 55% dei bambini, in Bangladesh, non completa il ciclo dell’istruzione primaria.
Khadija, tuttavia, aveva altri interessi relativi all’apprendimento. Per esempio, come riparare le cose. E scoprì che i corsi d’addestramento gratuiti forniti da BRAC (acronimo di Bangladesh Rural Advancement Committee – Comitato del Bangladesh per l’avanzamento rurale, oggi semplicemente Brac perché trasformatosi in un’agenzia di sostegno umanitario dal più ampio spettro) potevano fare al caso suo. Imparare ad aggiustare motociclette le sembrò particolarmente promettente: nel suo paese, a livello di guadagno, è un buon mestiere.
“Ma è un lavoro da uomini!”, dissero alla ragazzina. E Khadija rispose che non le importava.
“Ma non sei nemmeno mai salita su una motocicletta!” E Khadija fece orecchie da mercante.
“Ah, non ce la farai mai. Una meccanica, figuriamoci!” E Khadija tirò diritto per la sua strada.
Perché aveva visto giusto. Grazie al suo successo, il gruppo di sostegno sta addestrando un intero di gruppo di ragazze che vogliono imitarla.
“Khadija regge le sua chiave a tubo, o il girabacchino, come fosse un microfono e lei stesse per dar prova di se stessa in un programma di star.”, hanno scritto i giornali, riferendosi anche alla foto che avete visto in cima all’articolo. E’ un paragone che trovo inadeguato, per difetto. Quella chiave è molto di più di un modo per essere vista e udita, quell’attrezzo è il simbolo concreto delle sue aspirazioni, della forza con cui ha abbattuto le barriere di genere, del modo in cui ha rovesciato sottosopra la propria vita.
Sogno di fermarmi in moto (che non ho!) alla tua piccola officina con la scusa di chiederti un controllo del mezzo, Khadija, e di sfruttare l’occasione per fare quattro chiacchiere, conoscerti e imparare qualcosa da te. Maria G. Di Rienzo

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