(“Out of the ruins”, di Kalpona Akter, 14 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Il brano è contenuto in “Progress of the World’s Women 2015-2016”, rapporto dell’Agenzia Donne delle Nazioni Unite. Kalpona Akter, direttrice del “Centro per la solidarietà fra i lavoratori del Bangladesh”, ha cominciato a lavorare in fabbrica alla catena di montaggio all’età di 12 anni.)

Guardo spesso indietro a quel momento e continuo a pensare che quando mi sono svegliata, in quel fragrante giorno di primavera, non avevo idea di come la mia vita sarebbe cambiata, per sempre.
La mattina del 24 aprile 2013 cominciò come ogni altra per le migliaia di lavoratori nelle fabbriche del Bangladesh e per quelli che affollavano gli otto piani degli edifici commerciali a Rana Plaza, nella periferia della capitale del paese, Dhaka. Quando la giornata si chiuse, tuttavia, più di 1.100 lavoratori – in maggioranza donne – giacevano morti fra le rovine degli edifici collassati, che erano stati condannati come insicuri solo 24 ore prima.
Così tanti di noi hanno perso amici, familiari, madri, figlie e sorelle in quella tragedia. Le donne rappresentano l’80% della forza lavoro di 4 milioni e 200 persone impiegata nell’industria dell’esportazione di abiti in Bangladesh. Per molte donne, l’industria fornisce la prima opportunità di un livello minimo di indipendenza economica. Tale indipendenza viene tuttavia pagata a un prezzo considerevole, perché l’industria si è evoluta rapidamente e senza regolamenti appropriati, creando luoghi di lavoro che sono luoghi insicuri e di sfruttamento, e dove le donne hanno a che fare con paghe esigue, condizioni pericolose, molestie sessuali e violenze. La misura dei rischi e dell’ingiustizia patiti dalle lavoratrici tessili in Bangladesh è stata messa tragicamente in luce dagli eventi del 24 aprile 2013.
La portata della tragedia, che ha causato indignazione a livello nazionale e internazionale, ha inevitabilmente condotto alla richiesta di riforme, che il governo del Bangladesh non poté permettersi di ignorare. Una valanga di nuove leggi sul lavoro passarono sull’onda del disastro, inclusa la legislazione che alleggerisce le restrizioni sul formare sindacati dei lavoratori, nomina ispettori aggiuntivi per le fabbriche e aumenta il minimo orario per i lavoratori tessili a 77 centesimi.
Accordandosi ai cambiamenti legislativi, le compagnie tessili internazionali che hanno ditte in Bangladesh si sono incontrate con vari soggetti, inclusi i sindacati dei lavoratori, i movimenti di solidarietà con i lavoratori e le ong per creare il “Bangladesh Accord on Fire and Building Safety”. A tutt’oggi, circa 190 marche di più di venti paesi hanno firmato l’Accordo, interessando 1.500 fabbriche che impiegano approssimativamente due milioni di lavoratori.
L’Accordo protegge i diritti dei lavoratori rendendo le compagnie legalmente responsabili del creare fabbriche sicure e del dare la possibilità ai lavoratori di rifiutare lavori pericolosi o di entrare in edifici insicuri. L’Accordo fornisce ispezioni indipendenti sulla sicurezza delle fabbriche, fatte da una rete di 110 ingegneri i cui rapporti sono resi pubblici. Durante lo scorso anno, queste ispezioni hanno identificato più di 80.000 problemi di sicurezza e hanno sospeso la produzione in 17 fabbriche.
Io penso che il vero miglioramento, che differenzia questo Accordo dai precedenti tentativi mirati alla sicurezza dei lavoratori, sia che i suoi impegni sono legalmente vincolanti nelle nazioni delle compagnie che l’hanno firmato, e che mette i lavoratori al centro delle riforme su salute e sicurezza, fornendo una voce ai rappresentanti dei lavoratori nella sua struttura direttiva.
Le riforme legislative e l’Accordo rappresentano avanzamenti capitali nei diritti dei lavoratori tessili perché, in precedenza, l’industria non aveva mai permesso ai lavoratori di far sentire le loro voci collettivamente, dato che il focus era sempre il mantenere la crescita dell’industria e far felici i suoi principali clienti e cioè le corporazioni internazionali. E’ stato questo tipo di violazione dei diritti dei lavoratori che ha creato l’ambiente in cui il disastro di Rana Plaza è avvenuto. E’ stato il ridurre al silenzio le voci dei lavoratori che ha permesso ai proprietari delle fabbriche di ignorare gli avvertimenti e le richieste di misure di sicurezza e di costringere i lavoratori a tornare alle loro macchine.
Il disastro di Rana Plaza, tuttavia, ha creato una piattaforma per l’auto-organizzazione delle donne lavoratrici. In due anni, sono stati registrati circa 200 nuovi sindacati dei lavoratori tessili e in essi il 65% della leadership è femminile e la maggioranza dei membri sono donne. Queste donne hanno ora dato inizio alla contrattazione collettiva con le direzioni delle loro fabbriche. La sfida che rimane per chi è coinvolto nel salvaguardare i diritti delle lavoratrici tessili è estendere e sostenere questi risultati.
Nonostante le nuove leggi sul lavoro, solo il 5% del totale dei lavoratori è iscritto a un sindacato e i sindacati sono presenti in meno di 300 fabbriche. Una manciata di prominenti marchi statunitensi che rifiutano di firmare l’Accordo perché legalmente vincolante, hanno stabilito uno schema parallelo sulla sicurezza nei posti di lavoro, la “Alliance for Bangladesh Worker Safety”, e ciò può frammentare il sostegno al molto più consistente Accordo che fornisce meccanismi per assicurare la responsabilità delle corporazioni.
Ma non c’è dubbio che, emergendo dalle rovine di Rana Plaza, una voce collettiva delle lavoratrici tessili in Bangladesh è stata stabilita, a livello nazionale e globalmente. E’ un momento cruciale, ora. Le donne in catena di montaggio stanno cominciando a percepire che le loro voci sono finalmente ascoltate. Questo è un vero passo avanti e rappresenta una degna e duratura eredità delle donne che in Rana Plaza hanno perduto tragicamente le loro vite.
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