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8 marzo 2020, lettera aperta (trad. Maria G. Di Rienzo):

Ai capi di stato e di governo di tutto il mondo.

Noi siamo Hilda e Leonie, donne che stanno lottando in prima linea contro la crisi climatica e l’ingiustizia di genere.

Hilda e Leonie

(Hilda Flavia Nakabuye di “Fridays for Future Uganda” e Leonie Bremer di “Fridays for Future Germany”, particolare di un’immagine di Thomas Reuters Foundation.)

Hilda:

Io sono cresciuta in tre differenti luoghi dell’Uganda. Da mia zia, da mia mamma e da mio papà – e tutto quel che mi importava era andare a scuola, cosa che mi è sempre piaciuta. Tuttavia, è arrivato un momento in cui la mia famiglia non poteva più pagare le tasse scolastiche. Come risultato, ho saltato la scuola per tre mesi. La crisi climatica ha cominciato a reclamare il nostro orto, con forti piogge che lavavano via le sementi, costanti periodi di siccità che prosciugavano i torrenti e forti venti che hanno portato alla massiccia diffusione di insetti nocivi, così anche i soldi sono andati a finire. In modo ingiusto, i paesi che hanno contribuito di meno alla crisi del clima sono quelli colpiti più duramente.

Ho visto molta gente morire a causa della crisi climatica e ci sono persone che ne muoiono ogni giorno mentre la situazione continua a peggiorare. Tuttavia, nulla è stato fatto da chi è al potere per combattere o risolvere questa crisi. L’impatto della crisi climatica mi ricorda lo sfrenato razzismo e l’apartheid che i miei antenati hanno subito. Io sto costantemente soffrendo a causa dei gravi effetti che hanno su di me le azioni, le parole e l’avidità di chi è al potere, con poco aiuto o niente aiuto del tutto da parte dei paesi sviluppati. Invece, stanno contribuendo incondizionatamente all’aumentare delle emissioni grazie alle quali milioni di vite innocenti sono già state perdute nel Sud globale. In effetti, questo dovrebbe essere il momento in cui questi paesi rispondono al loro dovere morale e ripuliscono il loro caos.

Leonie:

Nel mentre Hilda è diventata un’attivista di Fridays for Future per l’impatto diretto del cambiamento climatico sulla sua vita, io avrei potuto non averne mai idea, giacché vivo in Germania dove la gente può ancora permettersi il lusso di ignorare l’attuale tremendo impatto della crisi climatica. Questo paese è abbastanza ricco da poter semplicemente compensare i danni fatti dalla siccità ai raccolti importando prodotti. La mia vita sino ad ora è stata senza problemi e non ho mai dovuto saltare la scuola, i pasti o le vacanze.

Sul treno verso la conferenza mondiale sul clima, Hilda si è confrontata con me con la sua storia e il fatto che il paese da cui provengo non sta agendo in base alle sue responsabilità. La Germania è spesso chiamata la pioniera della protezione del clima, il che è contraddittorio rispetto al fatto che è ha il quarto posto al mondo pro capite per emissioni di CO2 (CO2-Bericht des Joint Research Center).

E’ spaventoso che il più grande obiettivo della Germania sia un’economia funzionante al costo, al peggio, della vita delle persone. La crisi climatica è il risultato del sistema economico industrializzato diretto da una società patriarcale. Al contrario, nei gruppi di attivisti per il clima le donne sono predominanti, poiché sono quelle che soffrono di più per la crisi climatica.

Le donne devono essere in prima linea nella lotta contro la crisi climatica. Secondo le Nazioni Unite, l’80% delle persone disperse da questa crisi sono donne.

Hilda:

La crisi climatica ha un volto femminile.

Nel mio vicinato, la maggioranza delle coltivazioni sono maneggiate da piccole agricoltrici. La crisi climatica ha immediato impatto sulle condizioni di vita delle donne, causa fame e rischi per la salute e ha un effetto terribile sulle nostre famiglie. Siccità e inondazioni causano perdita di raccolti, ma i proprietari terrieri hanno la possibilità di ricevere compensazioni dallo stato. Alle donne, tuttavia, è tradizionalmente negata la proprietà della terra, il che conduce a una minaccia diretta per i nostri minimi mezzi di sussistenza.

Come donna africana, io sono spesso oppressa dal razzismo, dal sessismo, dalla cultura, dal classismo e ora la crisi climatica si aggiunge come cappello.

Questo è il motivo per cui noi, Leonie e Hilda, abbiamo fatto squadra. Dobbiamo tutti ascoltare l’uno il dolore dell’altro, la paura, la sofferenza e altre emozioni causate dalla crisi climatica.

Noi abbiamo capito che essa è il pericolo più grave per gli esseri umani e in special modo per le donne.

Dobbiamo unirci e lottare contro la crisi climatica oltrepassando i confini continentali. Dobbiamo lottare per la protezione del clima senza sessismo, razzismo e oppressione e costringere i governi a fare altrettanto.

Fridays for NOW! – Hilda & Leonie”

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nonna e juliet

Juliet Acom (in immagine a destra, con la nonna), ugandese, è la fondatrice e presidente di R.E.S.T.O.R.E, un centro che risponde alle emergenze create nelle comunità dall’anemia falciforme e fornisce assistenza alle persone che vivono con questa condizione e a chi si prende cura di loro.

Fra le proprie passioni cita i diritti umani, la risoluzione dei conflitti, la sicurezza alimentare, la tutela dell’ambiente, l’istruzione: sono istanze, spiega, di cui discuteva con sua nonna da bambina. L’istruzione informale, sostiene Juliet, è vera e propria ricchezza: “Le lezioni che la mia nonna analfabeta mi ha impartito mi hanno permesso di dar forza alle donne e alle comunità e di contribuire agli obiettivi internazionali di sviluppo.”

Ecco alcuni esempi di “nonnesca” saggezza che anche noi potremmo trovare utili:

– Conservazione dell’ambiente: Quando mangi un frutto da un albero che cresce abbastanza grande da fare ombra, porta il seme con te. Quando giungi in un posto privo di alberi simili, mettilo nella terra così che persone e animali possano avere gli stessi frutti e la stessa ombra. (Ancora oggi Juliet viaggia con le tasche piene di semi.)

– Cibo per tutti: Non andare mai a letto sazia mentre i tuoi vicini di casa stanno morendo di fame. Se sono troppo orgogliosi per accettare la carità, proponi loro di coltivare il tuo giardino in cambio di cibo o denaro. E mentre lavorano la tua terra, unisciti a loro.

– Acqua e igiene: Non scaricare immondizia e non urinare nei pressi di una fonte d’acqua. Se trovi immondizia accanto alla sorgente non vergognarti di raccoglierla e di portarla altrove. E quando vieni a sapere di attività comunitarie per pulire il villaggio, sii la prima ad arrivare al punto di ritrovo.

– Risoluzione dei conflitti: Non prendere mai le parti di qualcuno che è chiaramente in torto – le lacrime degli oppressi sono la ragione per cui molte persone un tempo agiate hanno avuto una fine straziante. (Secondo la nonna, ottimista, i farabutti la pagano sempre: o devono rispondere della loro corruzione o si beccano ogni sorta di terribili disgrazie.)

– Sviluppo comunitario: Non sei stata benedetta con la conoscenza, l’abilità o le risorse per tenere tutto questo in magazzino. L’altruista condivide queste benedizioni con coloro che sono meno fortunati. Se condividi, il tuo cuore sarà sempre disposto alla felicità.

– Potenziamento economico femminile: Buon cibo, begli abiti, gioielli, un marito ricco? Ok, tutto questo può andar bene per una donna, ma per farcela nella vita, una donna deve leggere libri, imparare un mestiere, risparmiare soldi e unirsi a gruppi di risparmiatori e, soprattutto, ascoltare sua nonna!

Maria G. Di Rienzo

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(“What to Do About Climate Change? Ask Women – They Have the Most to Lose”, di Winnie Byanyima – in immagine – direttrice esecutiva di Oxfam International, 18 dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

winnie byanyima

Il cambiamento climatico è sempre stato una questione politica. Alle sue radici vi sono enormi sbilanciamenti di potere e diseguaglianza, che si sono mostrati durante le recenti discussioni sul clima delle Nazioni Unite in Polonia. Questi sbilanciamenti definiscono chi è maggiormente vulnerabile agli impatti del cambiamento climatico, quali vite e mezzi di sostentamento saranno o sono già sottosopra. In nulla ciò è più palese che nel divario di genere: la lotta per la giustizia climatica e la giustizia di genere devono andare mano nella mano.

Il cambiamento climatico colpisce le donne in modi profondamente differenti dagli uomini. Cultura e tradizione in molti luoghi assegnano il ruolo di cura delle famiglie alle donne. Sono le donne, per esempio, a essere responsabili del raccogliere legna, dell’andare a prendere acqua e del coltivare cibo per nutrire bocche affamate. Perciò, mentre gli impatti del cambiamento climatico prendono controllo, sono le donne a dover stare sulla prima linea dell’adattarsi e trovare soluzioni: nuove fonti d’acqua; nuovi modi per sfamare le loro famiglie; nuove coltivazioni da far crescere e nuovi modi per farle crescere; nuovi modi di cucinare.

Nel mio paese, l’Uganda, le donne camminano già fino a sei ore al giorno per raccogliere acqua. Con le stagioni secche che stanno diventando più lunghe, le donne saranno costrette a camminare ancora di più. Come ho detto ai leader (in maggioranza uomini) del G7 a nome del Comitato consultivo sul genere quest’anno, chiunque dubiti delle fondamenta scientifiche che accertano il cambiamento climatico dovrebbe tentare di discuterne con le donne che camminano sempre più lontano ogni anno per andare a prendere l’acqua.

Le nazioni ricche sono state svergognate ai dibattiti sul clima perché hanno mancato di riconoscere l’urgenza del limitare gli impatti del cambiamento climatico. Mentre i paesi vulnerabili ad esso hanno chiesto un responso d’emergenza, una manciata di paesi ricchi principalmente esportatori di petrolio – inclusi il Kuwait, la Russia, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti – ha negato la ragione scientifica che sta dietro a queste richieste di azioni urgenti.

Il cambiamento climatico ha effetti su tutti, ma le persone povere che vivono già ai margini ecologici sono colpite nel modo più duro. Spesso contano sulla pioggia per le loro coltivazioni, vivono in strutture fatiscenti e non hanno risparmi o assicurazioni su cui contare quando il disastro arriva.

Quando il disastro colpisce, come la carestia nel Sahel proprio ora, sono le bambine a essere tolte da scuola per aiutare le famiglie in difficoltà a far quadrare i conti. Sono le donne che restano senza niente quando non c’è abbastanza cibo per tutti. Le donne hanno meno beni su cui contare e sono largamente assenti dal processo decisionale, il che aggrava la loro vulnerabilità.

Quanto vulnerabile sei già per cominciare – quale è il tuo status nella nostra società diseguale – ha una grandissima influenza sul modo in cui il cambiamento climatico avrà impatto su di te. Per le donne, già vulnerabili, il cambiamento climatico inasprisce i loro fardelli già esistenti relativi alla cura.

Pochi negano che le donne siano le più colpite dal cambiamento climatico, ma vi è scarso accordo su cosa fare al proposito. C’è voluta una lunga lotta per aumentare l’importanza del genere nei dibattiti sul clima. L’anno scorso un Piano d’azione di genere fu approvato dopo un decennio di pressioni da parte di impegnate attiviste. Eppure, l’idea che la comunità internazionale debba prestare attenzione alle dinamiche di genere mentre sviluppa e implementa politiche sul cambiamento climatico resta assai delicata. I ripetuti sforzi, durante la prima settimana di negoziazioni in Polonia, di affrontare l’impatto sproporzionato della migrazione forzata sulle donne sono falliti, bloccati da un negoziatore del gruppo di paesi arabi. Sembra che menzionare i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, sia troppo da tollerare per alcuni paesi: l’argomento è stato escluso dall’accordo.

Se vogliamo impedire al cambiamento climatico di calpestare i diritti delle donne e delle persone maggiormente vulnerabili, allora dobbiamo lottare per società più egualitarie. Ciò significa mettere in discussione i ruoli di genere, condividere più equamente il lavoro fra uomini e donne e aumentare la partecipazione delle donne al processo decisionale.

Significa anche che dobbiamo guardare alle nostre economie, che non danno valore ai contributi delle donne. Le nostre economie ignorano l’invisibile e non pagato lavoro di cura svolto da milioni di donne in tutto il mondo. C’è un’impressionante similitudine su come la nostra economia ignora il costo del cambiamento climatico fuori controllo: mancando di far pagare gli inquinatori. Queste sono entrambe conseguenze di un’economia corrotta. E’ un’economia che conta le cose sbagliate, cercando la crescita del PIL a ogni costo.

Le persone nei consigli d’amministrazione e nei governi che prendono le decisioni che alimentano il disastro climatico e la diseguaglianza sono in maggioranza uomini bianchi benestanti. I miliardari sono ricompensati a spese dei salari da fame per molti e a spese di un pianeta abitabile.

Ricordatelo, su 10 miliardari 8 sono maschi; la maggioranza dei poveri del mondo sono femmine. E’ un periodo favorevole per i miliardari e la loro sproporzionata quota di emissioni! A mia zia – contadina nell’Uganda rurale – ci vorrebbero 175 anni per produrre lo stesso tasso di emissioni di quelli che stanno nell’1%!

A Oxfam, e nel più vasto settore umanitario, crediamo in un mondo libero dall’ingiustizia della povertà, una lotta che non può essere separata da quella per la giustizia climatica e per l’eguaglianza di genere. Per arrivarci, abbiamo necessità di cambiamenti su vasta scala al nostro modello economico dominante e nel modo in cui conduciamo la politica. Dobbiamo riconoscere gli oneri e le discriminazioni poste sulle donne nelle case, nelle situazioni di crisi e nella nostra struttura economica e cominciare a considerare il genere quando affrontiamo gli impatti del cambiamento climatico. E poiché la comunità scientifica ci sta dicendo che abbiamo solo 12 anni per prevenire l’innalzamento globale fuori controllo delle temperature, abbiamo bisogno di cambiare velocemente.

Nei prossimi mesi, i governi devono seguire le indicazioni delle nazioni maggiormente vulnerabili e cominciare immediatamente a rafforzare i loro impegni all’azione incluso l’aggiungere le voci delle donne al processo.

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dorothy

Dorothy Nabakooza – in immagine – è una femminista e un’attivista ecologista, tra le altre cose fondatrice di Climate Change Fighters (“Combattenti contro il cambiamento climatico”) e tutor certificata per i corsi universitari gratuiti forniti online da Coursera (piattaforma creata da docenti di informatica dell’Università di Stanford, coinvolge centinaia di altre università e organizzazioni).

Come moltissime di noi – comprese quelle che si feriscono, si affamano, si ammalano e si uccidono per questo – non assomiglia a Barbie e gliel’hanno fatto notare abbastanza spesso:

“La violenza di genere prende molte forme. Nel contesto di cui parlo, è stata brutale nei miei confronti come donna larga. Secondo mia madre, sono nata minuscola e ho cominciato a prendere peso mentre crescevo. Ero l’unica paffuta in una famiglia con quattro bambini ma la cosa non mi ha mai preoccupato perché la mia famiglia mi amava com’ero.

Poi sono andata alle elementari, dove sono diventata più conscia del mio aspetto. Mi isolavo spesso dagli altri scolaretti, non mi sentivo a mio agio nella mia stessa pelle. Questo mi ha fatto davvero male, non avevo molti amici. Nessuno voleva diventare amico di una “ragazza grossa”. Ero molto sola e a volte odiavo me stessa perché ero grassa. C’è stato un periodo in cui non vedevo l’ora che le lezioni terminassero per scappare via da tutto quell’odio.

Ci sono ancora oggi persone maleducate che mi chiamano “grassa” (ndt.: a guisa di insulto) ma la cosa non mi dà lo stesso fastidio del passato. Alcune persone si riferiscono a me in questo modo quando stanno descrivendo ad altra gente chi sono io: per esempio, durante la conversazione dicono “Oh, intendi Dorothy, quella grassa!”.

C’è segregazionismo nei confronti delle persone larghe ovunque, persino nei trasporti pubblici; la gente non vuol sedersi vicina a me spiegando che essendo grassa li strizzerei. Una volta non ho ottenuto un impiego perché il direttore del personale disse che ero troppo grossa per rappresentare la sua azienda.

Nonostante le difficoltà, io continuo a sensibilizzare ogni ragazza larga in giro per il mondo a non prendersela a cuore. So che fa male, ma io ho raggiunto un punto in cui sono orgogliosa di me stessa e letteralmente non presto attenzione agli svergognatori. Incoraggio le ragazze a amare se stesse: “Smetti di odiarti per quel che non sei e comincia ad amarti per chi sei.”

Spesso resti grossa nonostante la ginnastica e le diete e tutto il duro impegno che ci metti, perciò, continuerai a disprezzare te stessa? Cambia mentalità, perché l’amarti comincia da te. E ci sono persone che ti ameranno per chi tu sei.

Ognuno è bello nella sua propria pelle, nel suo proprio modo; tu non hai bisogno della convalida di nessuno su chi sei e su quel che puoi fare. La vita è troppo breve.”

Maria G. Di Rienzo

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Sono solo quindici minuti di documentario, ma potremmo definirli un quarto d’ora di premi:

Miglior Film e Premio del pubblico all’International Cycling Film Festival (2016);

Premio della giuria al Bike Shorts Film Festival (2017);

Premio per il Messaggio Ispiratore all’Ektopfilm International Festival per i film sullo sviluppo sostenibile (2017);

Premio per il miglior “corto” al London Feminist Film Festival (2017)…

Si tratta di “Cycologic”, prodotto dall’abilità e dalla passione di tre registe/produttrici svedesi (Emilia Stålhammar, Veronica Pålsson e Elsa Löwdin) e della protagonista: la ciclo-attivista ugandese Amanda Ngabirano (in immagine).

amanda cycologic

Il documentario segue in particolare la campagna di Amanda per avere piste ciclabili nella sua città, Kampala, dove il traffico è caotico, pericoloso e altamente inquinante, mostrando allo stesso tempo – una volta di più – come in determinati luoghi il solo andare in bicicletta, per le donne, equivalga a rompere stereotipi e a rinegoziare il loro ruolo nella società. Anche queste cicliste sono seguite dalle registe. Potete dare un’occhiata a che succede qui:

https://vimeo.com/185684431

“La bicicletta non è roba da poveri. – dice Amanda nel trailer summenzionato – E’ per le persone indipendenti, libere, liberate. Tu scegli come e dove muoverti.” E notando l’assenza delle sue simili nel via vai di automobili, motociclette e motorini aggiunge ironicamente: “Dove sono le donne? Non hanno piedi, non hanno gambe, non hanno energia?” Li hanno eccome. Nel poco tempo trascorso dall’uscita del film, Amanda ha convinto a pedalare persino la polizia: si è fatta tramite con le forze dell’ordine olandesi, che hanno donato le biciclette “da ronda” ai loro colleghi. Maria G. Di Rienzo

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(“I was a child soldier. Now I’m pushing for more support for survivors like me”, di Polline Akello per The Guardian, 12 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Si tratta di una versione condensata della testimonianza di Polline di fronte a una Commissione del Parlamento inglese.)

polline

Ho trascorso sette anni nella boscaglia in Uganda, una bambina-soldato, tenuta prigioniera da un gruppo armato e costretta a diventare la “moglie” di un comandante ribelle. La mia migliore amica è stata uccisa davanti a me. Il mio bambino è morto prima di nascere. Ma mi sono salvata e credo che parlare apertamente delle mie esperienze sia il miglior modo di aiutare altri che stanno soffrendo allo stesso modo.

Ci sono bambini in guerra proprio in questo momento, gente che è stata rapita e forzata a combattere per una causa che non comprende: è perciò che oggi, 12 febbraio, è il Giorno della Mano Rossa, una commemorazione annuale che vuole attirare attenzione sul fato dei bambini-soldati.

Molte bambine sono nella stessa situazione che ho attraversato io ed è doloroso vederla ripetersi. Paura e vergogna spesso rendono i bambini che tornano dal conflitto incapaci di parlare delle loro esperienze. A me è stato detto, da membri della mia comunità, di restare zitta. Ma se i sopravvissuti fanno questo nessuno li aiuterà. E’ molto importante portare le cose alla luce del sole, solo parlando i sopravvissuti potranno ottenere l’aiuto di cui hanno bisogno.

Io avevo 12 anni quando fui rapita. Nel campo le ragazze ci sono per essere usate da qualsiasi uomo le voglia. Ai soldati non è permesso innamorarsi. Se uno di loro è scoperto mentre corteggia una ragazza viene ucciso.

Io sono rimasta incinta a 16 anni. Durante il travaglio sono stata costretta a camminare per miglia e miglia perché i ribelli stavano tentando di evitare l’esercito ugandese. Mio figlio è morto prima di nascere e ho dovuto subire un’operazione per rimuoverlo, senza anestesia. Se il tuo bimbo muore, non si suppone che tu sia in lutto per lui. Se ti vedono piangerlo, ti uccidono. Quando torni, devi far finta che nulla sia accaduto. Ma io non ho mai perso la speranza.

La mia salute peggiorò dopo l’operazione e loro mi permisero di essere curata in un ospedale del Kenya, dove un’infermiera mi aiutò a scappare. Mentre facevo i bagagli non provavo paura. Tutto quel che sapevo è che non sarei tornata in quel posto.

Troppo spesso, quando le ragazze tornano a casa le loro famiglie le abbandonano, specialmente se tornano con dei figli. I parenti non sono preparati a prendersi la responsabilità per quel bambino quando non non ne conoscono il padre. Ciò lascia le sopravvissute alla violenza sessuale per le strade.

Quando sono tornata io, l’unico sostegno che mi è stato dato consisteva di un materasso e una coperta. Una coperta ti può tenere calda, ma l’istruzione è una costruzione per la vita. Le comunità devono sostenere i loro figli quando costoro tornano dalla guerra e incoraggiarli a parlarne. Quando una mia amica tornò fu buttata fuori di casa dalla sua famiglia. Io andai da loro e spiegai le mie esperienze, dissi che non era stata una scelta della loro figlia avere quei bambini e che era stata presa con la forza. Le famiglie necessitano aiuto per dare il benvenuto ai loro figli che tornano nel modo in cui sono dopo essere stati rilasciati o essere fuggiti dai gruppi armati. La famiglia si riprese la mia amica e ora vivono felicemente insieme.

L’assistenza locale è invece più importante dell’intervento intenzionale a breve termine, per aiutare a lungo termine la guarigione, la stabilità e il cambiamento dei bambini-soldati. La gente ha bisogno che il suo governo si faccia avanti e aiuti in modo visibile. A volte, prima che una comunità si renda conto che qualcosa sta accadendo, quel qualcosa è già accaduto. I ribelli sono abili nel ridurre al silenzio le comunità, ma se si agisce per aumentare la consapevolezza è possibile diminuire questo danno.

Alcune persone che sono state rilasciate o sono fuggite da gruppi armati hanno paura di intraprendere azioni, perché ciò causa loro troppo dolore. Non riescono a prendere decisioni giuste. Ma la comunità può operare cambiamenti positivi se le persone comunicano. Mentre parlavo con un altro ex bambino-soldato, lui mi disse che la cosa peggiore che poteva fare era discutere della sua esperienza. Voglio essere un’avvocata per gli altri sopravvissuti, affinché parlino apertamente.

Non appena sono arrivata a casa, volevo davvero tornare a scuola. Avevo perso sette anni, ma con l’aiuto dell’organizzazione War Child – http://www.warchild.org/sono stata in grado di rimettermi in pari. Ora sono all’università e ho viaggiato sino ad arrivare in Downing Street e ho parlato a David Cameron, William Hague e Angelina Jolie Pitt per ottenere aiuto per i sopravvissuti come me. Questo mostra che qualcosa di positivo può venire persino da qualcosa di terribile.

rebirth di moonshine90(Rinascita)

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Sylvia

La prof. Sylvia Tamale, nata in Uganda nel 1967, è una delle più attive femministe africane. E’ docente di Diritto all’Università di Makerere ed è stata la prima donna a diventare preside della Facoltà di Legge nel suo paese. Ha pubblicato saggi su legge e sessualità, giurisprudenza femminista e donne in politica e ha insegnato in diverse istituzioni accademiche e pro diritti umani in giro per il mondo: “Le leggi hanno aspetti oppressivi e aspetti che possono essere attrezzi per la liberazione: spiegando questo, io faccio politica.”

Sylvia ha anche avuto un bel po’ di riconoscimenti relativi al suo impegno nella difesa dei diritti delle donne e dei gruppi marginalizzati, come le minoranze sessuali e i rifugiati. A causa del suo adamantino attivismo, nel 2003 il maggior quotidiano ugandese la definì “la donna peggiore dell’anno”: per capire cosa questo comportasse, sulla colonna accanto alla sua “l’uomo peggiore dell’anno” era Joseph Kony (il capo del Lord’s Resistence Army ricercato dalla Corte penale internazionale de l’Aja per crimini di guerra). Ma mentre i crimini di quest’ultimo sono omicidi, mutilazioni, stupri, rapimenti di bambini ecc., il crimine di Sylvia Tamale era il non comportarsi secondo il ruolo di genere prescritto alle donne.

Di recente Sylvia è stata intervistata in video dal progetto “Above the Parapet”, con cui si cerca di rendere visibili al grande pubblico le esperienze di donne che danno forma alla vita pubblica, affinché siano d’ispirazione alle più giovani. Commentando l’episodio del 2003 ha detto: “La gente usa le tradizioni molto selettivamente e altrettanto selettivamente le interpreta. Le culture non sono ferme, si evolvono, prendono a prestito le une delle altre. La religione per esempio, sia cristianesimo o islam, non fa parte per nulla dei nostri costumi, non è una tradizione culturale africana. Dire che qualcosa è contrario alle tradizioni culturali serve principalmente a negare diritti alle donne e alle minoranze.”

Alla richiesta di mandare un messaggio alle ragazze che volessero in futuro intraprendere la sua stessa carriera accademica, ha risposto così: “Numero 1. Il mondo tenterà il più possibile di definire ciò che voi siete: non lasciate che lo faccia. Siate sempre voi a definire quello che siete. Numero 2. Non dovete, mai e poi mai, restringervi e rimpicciolirvi per adattarvi alle aspettative degli altri. Questa pressione sarà sempre presente, cercate di evitarla. Numero 3. Dovete essere consapevoli che durante questo viaggio, soprattutto se sarete delle attiviste oltre che delle docenti, sarete ferite e criticate. E va bene sentire il dolore e leccarsi le ferite, ma dovete rialzarvi, prendere il toro per le corna e controbattere. Infine, impegnatevi al massimo, perché non avrete quel che volete senza lavorarci sopra.” Maria G, Di Rienzo

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(“Times of Peace”, di Marva Zohar, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice è una giovane israeliana, attivista femminista, che è diventata “doula” (assistente e consigliera per le partorienti) a 17 anni e levatrice a 22. Attualmente sta studiando all’Università Bar-Ilan e preparando una tesi di laurea sulla poesia che documenta la violenza di genere. I suoi versi e i suoi saggi sono stati pubblicati da Ilanot Review, Brickplight, Cactus Heart Press, Tule Review, Gag, Ynet e Midwifery Today Magazine. La poesia che ho tradotto si riferisce al periodo in cui Marva ha prestato servizio volontario come levatrice in Uganda, nel 2010.)

doula

TEMPI DI PACE

Quel pomeriggio sotto il mango

mentre riempivamo certificati di nascita

per bambini con padri sconosciuti,

burocrazia confusa dal caos della guerra,

e tu hai osservato che non conoscevi la tua data di nascita

perché i documenti bruciarono quando i ribelli

diedero fuoco alla capanna,

le tue sorelline troppo piccole per essere schiave sessuali,

il tuo fratellino troppo piccolo per diventare un bambino-soldato,

e tua madre,

intrappolati all’interno,

io mi sono strozzata

non sulle tue parole, ma sul lezzo di sudore sulfureo

che aleggiava dai tuoi pori,

l’odore stesso della paura

e tu hai detto

adesso dobbiamo fare tutta la strada sino al fiume

perché i ribelli hanno pisciato nel pozzo

quel giorno, e ogni giorno in cui sono venuti,

e il vomito mi è salito in bocca

e l’ho inghiottito

allo stesso modo

di quella notte

in cui ebbi a che fare con i ribelli a casa mia

e non erano ribelli per niente

ma uomini, semplicemente uomini che stuprano

in tempi di pace.

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(“Aquagasm”, di Beverley Nambozo Nsengiyunva, poeta ugandese. Beverly è anche scrittrice, biografa e attrice. Ha costituito una fondazione e un premio letterario per incoraggiare le donne del suo paese ad esprimersi tramite la poesia. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Beverley

Lei inti-intinge le dita dei piedi nell’Oceano,

colpi-colpisce le onde con i seni,

lec-lecca la sabbia con le dita,

pun-punta al cielo con il naso.

– la sua prima storia d’amore con l’Oceano Indiano.

Lei sen-sente le increspature sulle cosce,

si conto-contorce quando le entra acqua negli occhi,

vorre-vorrebbe che le barche scomparissero,

non può condividere questo aquagasmo con nessuno.

– la sua prima storia d’amore con l’Oceano Indiano.

Ocean Goddess Pleasure di Katherine Skaggs

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Dopo l’emanazione di una legge anti-pornografia in Uganda, definita malamente dal Ministro Simon Lokodo come qualcosa che avrebbe combattuto i “vestiti indecenti” (18 febbraio 2014), molti cittadini del paese si sono sentiti autorizzati ad assaltare in gruppo le donne per strada. Se questi uomini stimano “indecente” l’abito indossato da qualcuna, la aggrediscono e la spogliano completamente. Le immagini si riferiscono alle proteste delle donne ugandesi al proposito, tenutesi nei giorni successivi.

Togli gli occhi dalle mie cosce e metti a posto l'economia

Togli gli occhi dalle mie cosce e metti a posto l’economia

Ieri, una mia amica viaggiava in metropolitana leggendo un libro. Un uomo le ha chiesto di leggere ad alta voce per lui. La mia amica ha rifiutato gentilmente ma l’uomo, ora molto seccato, ha cominciato col dire che stava “solo cercando di essere gentile” ed ha proseguito con un sfilza di insulti. Per il resto del viaggio ha inveito contro le “femmine” che “chiamano la polizia quando vi facciamo cagare addosso dalle botte e vi stupriamo”. L’orrenda interazione è finita quando il tizio è arrivato alla sua fermata, ma non prima di aver tirato un calcio alla mia amica mentre scendeva. Il secondo incidente, lo stesso giorno, è accaduto ad un’altra amica mia, avvocata, a cui uno sconosciuto ha chiesto soldi per comprarsi un hamburger. Come la maggior parte delle persone, la mia amica ha scosso la testa e ha continuato a camminare, ma all’uomo non è bastato. L’ha seguita per l’intero quartiere urlando, assieme agli insulti, che nessun uomo vorrà mai venire a letto con lei. (Britni Danielle, giornalista e scrittrice, Los Angeles, 19 febbraio 2014.)

Il problema è quassù, non quaggiù

Il problema è quassù, non quaggiù

Secondo un reportage del Kenyan Post, il reverendo Njohi ha detto alle donne che frequentano la sua chiesa a Nairobi che è loro proibito presenziare alle funzioni indossando reggiseni e mutande. Njohi ha spiegato che quando la gente va in chiesa dev’essere “libera nel corpo e nello spirito” per poter ricevere Cristo. Tuttavia, gli uomini possono raggiungere dio senza problemi e con eleganza nella chiesa di Njohi, perché a loro non è richiesto di far nulla di simile. Il pastore, secondo un altro articolo su Metro, ha aggiunto che ci saranno gravi conseguenze se le parrocchiane non obbediscono e ha invitato le madri a controllare le figlie prima dell’ingresso in chiesa. (Rebecca Rose per Jezebel, 3.3.2014)

Perché non lo prendi come un complimento? Troppe volte, nella mia esperienza, la situazione si è evoluta da gesti e sguardi espliciti ad aggressive avance sessuali, dalle “carinerie” alle urla furiose di “troia”, “cagna”, “puttana”. Una volta sono stata inseguita lungo la strada. Un’altra, sono stata intrappolata contro un muro. Un’altra ancora il mio pube è stato afferrato all’improvviso, con scioccante e velenoso senso di possesso. Durante l’ultima, uno dei due molestatori mi ha guardato i seni prima di girarsi con nonchalance verso l’altro. Mi aspettavo i soliti “Guarda quelle tette” o “Non direi di no”. Ma quello che invece ha detto effettivamente mi ha tolto il respiro: “Ci pianterei un coltello, in quella roba”. L’altro uomo si è messo a ridere e tutti e due se ne sono andati senza badare più a me. In sintesi, ecco perché non posso prenderli come complimenti. Perché non sono complimenti. Sono attestazioni di potere. Sono il modo di farmi sapere che ogni uomo ha diritti sul mio corpo: il diritto di discuterlo, di analizzarlo, di valutarlo e di far sapere a me o a chiunque si trovi nelle vicinanze il suo verdetto, che a me questo piaccia o no. (Laura Bates, fondatrice di “Everyday Sexism”, londinese, 28 febbraio 2014)

Le mie cosce non sono televisione, non guardarle

Le mie cosce non sono televisione, non guardarle

Insomma, basta essere una donna e ti fanno sentire benone ovunque tu viva o vada. Maria G. Di Rienzo

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