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Posts Tagged ‘agricoltura’

Con questo pezzo inauguro la rubrica “Arte Contemporanea Italiana”, perché come ripetono Salvini & Meloni siamo il Paese delle “eccellenze”, siano esse zucchine di mare o 49 milioni di stracchini, ciliegie, arrosticini e paninazzi.

Dunque, la prima opera che vi presento si intitola “Maschio dominante con fragole” e viene dalla Lombardia.

maschio dominante con fragole

Il soggetto ritratto mentre Coldiretti lo premia, proprio per la sua eccellenza, è il sig. Gugliemo Stagno D’Alcontres, la cui azienda “StraBerry” è sotto sequestro per lo sfruttamento di braccianti africani. Costoro lavoravano 9 ore al giorno alla raccolta di fragole (ma molto onestamente la direzione ne faceva figurare 6 e mezza) per un compenso orario di 4,5 euro, con insulti – coglione, negro di merda, animale – e prevaricazioni e minacce come bonus.

Il signore raffigurato sopra spiega ridendo al telefono come queste siano strategie imprenditoriali di alto livello: “Questo deve essere l’atteggiamento perché con loro devi lavorare in maniera tribale, come lavorano loro, tu devi fare il maschio dominante, è quello il concetto, io con loro sono il maschio dominante… è così… io sono il maschio dominante!

Appena c’è uno che sbaglia mandalo subito a casa, così lo vedono gli altri, capito? Non lo fare parlare, perché se lui inizia parlare anche altri sentono, se loro vedono che tu lo mandi subito da capo, gli altri hanno paura di andare da capo dopo! hai capito? (la mancanza della “l” – sarebbe “dal capo” – è dovuta al fatto che Stagno D’Alcontres mima il linguaggio da burletta attribuito agli africani dal razzismo: “sì, badrone”, per intenderci).

Il concetto da dirgli è proprio questo, se troviamo una fragola fatta male se ne vanno a fare in culo, non è che c’è il perdono, non so se mi spiego.

Stamattina appena ho visto uno che parlava dopo un secondo l’ho mandato a casa, non è che gli ho dato la seconda possibilità…”Vai a casa!” E appena vedo uno con il cellulare io lo mando a casa! E’ il terrore di rispettare le regole!”

Ricordate per caso Antonio Calabrò, vicepresidente di Assolombarda?

https://lunanuvola.wordpress.com/2020/04/23/due-tormentoni/

Così egli ci ammoniva nell’aprile scorso (e ha continuato ad ammonirci ossessivamente anche dopo): “Un punto dev’essere fermo, nella coscienza generale: la ricchezza, il lavoro, il benessere sono frutto dell’attività d’impresa.”

Detesto le frasi monche e mal costruite. Enunciamo questa correttamente:

“Un punto dev’essere fermo, nella coscienza generale: la ricchezza e il benessere dell’imprenditore sono frutto dell’attività d’impresa condotta tramite il terrore; il lavoro per giungere a questo risultato lo fate voi poveracci: sottopagati, sfruttati, umiliati e cacciati a calci nel didietro se osate fare un pausa per bere o scambiate una parola con il vicino di filare.” (Non cito a caso, diversi braccianti hanno testimoniato esattamente quel che ho scritto.)

Maria G. Di Rienzo

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(“Repression Against Mapuche Hortaliceras by Chilean Police Continues”, di Aljoscha Karg per Cultural Survival, 14 maggio 2020. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

hortaliceras temuco

Il 4 maggio scorso le misure di isolamento per prevenire la diffusione del Covid-19 sono state tolte nella città cilena di Temuco, collocata nei territori ancestrali della gente Mapuche. Quella che, in effetti, doveva essere una facilitazione affinché segmenti della popolazione potessero giornalmente guadagnarsi da vivere, si è trasformata in una violenta repressione delle forze speciali della polizia cilena contro le hortaliceras (in immagine sopra). Le hortaliceras sono donne Mapuche che per tradizione, da molte generazioni, vendono frutta e vegetali coltivati in orti domestici nelle strade di Temuco. Come dice Rosa Martínez, presidente del gruppo di hortaliceras “Folil Mapu”: “Lavoriamo per tutta la nostra vita nel centro di Temuco, come le nostre madri e le nostre nonne.”

Non è stata la prima volta in cui la polizia cilena ha impiegato violenza contro le venditrici. “La repressione continua ormai da molto tempo – racconta Martínez – ed è il sindaco di Temuco Miguel Becker (del partito di centro-destra Chile Vamos) a darne mandato. Le forze speciali ci maltrattano e ci picchiano mentre gettano i nostri ortaggi nella spazzatura. Noi vogliamo mantenere la nostra cultura, la cultura Mapuche. Siamo piccole coltivatrici, che lavorano la terra seguendo la conoscenza ancestrale. Ora la violenza è peggiorata, le forze speciali ci hanno assalite anche la settimana scorsa.”

Nel mentre il sindaco Becker nega ogni opportunità di dialogo, alcune delle hortaliceras sono paradossalmente accusate di violenza contro la polizia cilena. Allo stesso tempo, non hanno le risorse economiche per assumere avvocati o denunciare gli agenti di polizia che usano forza eccessiva. Perciò, ricapitola Martínez, “Dobbiamo continuare a resistere con quel che abbiamo. Quel che vogliamo è che il nostro lavoro non vada perduto e che la nostra cultura continui a esistere, che si capisca la necessità di una forza lavoro come le hortaliceras o come i piccoli coltivatori che producono frutta e vegetali freschi e organici, e che l’opportunità di continuare a lavorare per noi non si sta avvicinando.”

rosa

(Rosa Martínez)

Alla domanda su cosa può essere fatto per aiutare la causa delle venditrici Martínez chiarisce che le hortaliceras chiedono “sostegno, sostegno morale, sostegno nel senso di comprensione di ciò che vogliamo, nel senso di non essere lasciate sole in questa lotta e che essa è una lotta mondiale.”

Gli atti repressivi della polizia cilena sono in netto contrasto con il fatto che il Cile è firmatario sia della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani sia della Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, in special modo perché quest’ultima asserisce i diritti dei popoli indigeni di proteggere sia le loro culture sia la loro autodeterminazione.

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(tratto da: “Meet Priscilla Achakpa, Nigeria”, profilo e intervista a cura di Nobel Women’s Initiative, ottobre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Priscilla Achakpa

L’insigne attivista ambientalista nigeriana Priscilla Achakpa è diventata moglie a 16 anni, madre e poi giovane vedova. Diseredata dalla famiglia del marito e dalla propria è tornata a scuola e ha conseguito lauree specialistiche in gestione d’impresa, amministrazione e sviluppo. Aveva iniziato una carriera come impiegata di banca, poi ha cambiato bruscamente direzione.

Oggi, dirige il Women Environmental Programme (WEP – Programma ambientalista delle donne), un’organizzazione nonprofit, apolitica e non religiosa che affronta le istanze ambientali che hanno impatto sulle vite delle donne stesse. Su tutte: il cambiamento climatico.

Come sei passata dalla banca all’attivismo ecologista?

Avevo la sensazione che qualcosa mancasse – sentivo il bisogno di trovare un lavoro che fosse più stimolante e che mi permettesse di tornare qualcosa alla comunità. Questa sensazione mi spinse ad avventurarmi all’esterno e cominciai a seguire corsi di studio sull’ambiente. Era una cosa completamente diversa, più complessa, più scientifica. Ma volevo una sfida. Volevo un lavoro che ispirasse la mia passione.

Nel 1997, due giornaliste ed io scoprimmo che le industrie tessili nello stato di Kaduna scaricavano rifiuti direttamente nell’ambiente. La maggior parte di essi finiva nel fiume Kaduna, sulle cui rive agricoltori poveri, in grande misura donne, stavano coltivando ortaggi. Cominciavano ad avere malattie della pelle e ne davano colpa alla stregoneria. Coinvolgemmo scienziati che presero campioni, effettuarono esami e scoprirono che tutto nell’area era diventato tossico. Alla fine portammo le industrie in tribunale – per me, fu l’inizio dell’attivismo. Nel 1998 diventammo il Women Environmental Programme, la prima organizzazione femminile nel nord del paese ad entrare nell’ambito dell’ambientalismo.

Perché hai scelto di concentrarti sul cambiamento climatico?

Il nostro programma è attivo in cinque aree tematiche: ambiente, amministrazione, cambiamento climatico, pace e trasformazione del conflitto. Le istanze di genere sono al centro di ogni cosa che facciamo. Includerle è cruciale se i programmi di sviluppo vogliono essere rilevanti e sostenibili.

Il cambiamento climatico è una delle istanze più urgenti della nostra epoca e ha già avuto impatto sulla Nigeria. Lo sconfinamento dei deserti cresce a un tasso sorprendente, il che ha generato crescenti tensioni sulla proprietà terriera, incluse lotte fra gli agricoltori e i pastori nomadi. Questi scontri hanno anche peggiorato le divisioni etniche. Siccità prolungate, ondate di calore e vento hanno interessato il nord, la nostra regione che produce cibo. Il lago Chad, uno dei laghi più grandi del mondo, che in passato forniva acqua e sosteneva le comunità di pescatori, si è ridotto del 95%. Le persone, specialmente le donne, sono state costrette a migrare, il che comporta ulteriori difficoltà. Nei campi per le persone sfollate le donne sono frequentemente molestate e persino stuprate. I fiumi si sono seccati e ciò significa che le donne devono viaggiare per chilometri cercando acqua.

I cambiamenti climatici sono duri di per sé, ma amplificano anche problemi e diseguaglianze che già esistono – inclusa la diseguaglianza di genere. Storicamente le donne hanno avuto minor accesso alle risorse, minor potere nella sfera decisionale: questo ci rende maggiormente vulnerabili ai rischi di estremi eventi climatici. E’ importante rendere il genere centrale nelle strategia di adattamento al clima nel mentre si lavora per migliorare la resilienza ai suoi impatti.

Come si concretizza questo nel lavoro di WEP?

Nella regione in cui lavoriamo, le agricoltrici non avevano la capacità di conservare grandi quantità di raccolti deperibili come i pomodori, i peperoni e altri vegetali. Circa tre mesi fa, siamo state in grado di installare una tenda essiccatrice solare, con tutti i materiali relativi ottenuti localmente. Abbiamo anche lavorato con la comunità, di modo che le donne fossero in grado di effettuare l’essiccazione da loro stesse, il che ha reso l’operazione sostenibile.

Nella comunità si sono formate cooperative per dare turnazione al lavoro. Risultati e testimonianze sono stati straordinari. Meno cibo va sprecato, le sostanze nutritive sono preservate e le agricoltrici possono vendere i prodotti essiccati, il che migliora le loro entrate. Noi abbiamo finanziato questo progetto da sole, come esperimento, ma ovviamente una sola tenda non è sufficiente. Stiamo cercando modi di ampliare la scala dell’intervento, non solo all’interno di questa comunità: abbiamo richieste da moltissime altre.

I ministri dell’agricoltura ne sono rimasti impressionati, ma si sa quanto i governi possano essere lenti ad agire. Stiamo cercando partner che sostengano più interventi di questo tipo.

Tu hai scritto saggi di alto livello accademico sul tuo lavoro e hai partecipato a incontri internazionali sul cambiamento climatico. Ma hai anche detto “il mio vero lavoro è sul campo”. Cosa intendevi?

Quando agiamo globalmente, dobbiamo tradurre quel che facciamo nel contesto locale. Noi lo stiamo facendo – e non solo in Nigeria. Abbiamo uffici Burkina Faso, Togo, Tunisia. Quando ascolto le voci delle donne locali, le donne comuni, donne che sono toccate ogni giorno dal cambiamento climatico e dal come prendersi cura delle proprie famiglie, ne sono ispirata.

Proprio in questo momento, WEP sta lavorando con organizzazioni locali che non avevano mai visto un finanziamento di 1.000 dollari (Ndt. 890 euro) in vita loro. Quando le sostieni, i risultati in quel che fanno sono eccezionali. Non si può sottolineare abbastanza la felicità e l’impegno che questi gruppi a livello di base portano a bordo. Quando ascolto le loro storie, sono spinta a fare di più.

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(“No Boys Have Been Born In This Polish Village For Over A Decade”, di Francesca Volpe per Bust, agosto 2019. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

all girls - foto di Kasia Strek

Quando un piccolo villaggio in Polonia ha inviato una squadra di sole ragazze alla gara regionale per giovani vigili del fuoco volontari, l’assenza dei ragazzi ha attratto l’attenzione dei media polacchi. Da allora, scienziati e troupe televisive sono sciamati a Miejsce Odrzanskie cercando risposte al perché nessun bimbo maschio sia nato nel villaggio da oltre 10 anni, come riporta il New York Times (Ndt.: le immagini di questo articolo sono particolari di quelle pubblicate sul NYT).

Miejsce Odrzanskie, una comunità agricola, si situa sul bordo della più piccola e meno popolata provincia della Polonia. Le ragioni per l’inusuale divario di genere nella popolazione restano ignote, mentre molti residenti considerano una semplice coincidenza la nascita di 12 bimbe dopo l’ultima nascita di un maschietto.

Il villaggio aveva approssimativamente 1.200 abitanti subito dopo la seconda guerra mondiale. Oggi la popolazione si è ridotta a 272. In aggiunta, il collasso del comunismo nel 1989 e l’integrazione del paese nell’Unione Europea nel 2004 hanno dato come risultato un largo numero di migranti polacchi in zone più popolate dell’Europa.

Nell’intervista concessa al New York Times, la sindaca Krystyna Zydziak fa notare che ogni famiglia del villaggio ha un parente che vive all’estero: “Alcuni sono preoccupati di chi andrà a riempire il fabbisogno di lavoro in agricoltura.”, aggiunge. Ma, per il momento, le numerose donne giovani e adulte che lavorano nei campi alleviano le preoccupazioni. La ventenne Adrianna Pieruszka (Ndt.: in immagine qui sotto) lavora nei campi di grano dei suoi genitori, guidando il trattore, durante le vacanze estive. Ad ogni modo, il suo interesse per l’agricoltura non si avvicina nemmeno alla sua passione per il dipartimento locale dei vigili del fuoco.

adrianna - foto di kasia strek

Il dipartimento volontario dei vigili del fuoco è diventato in qualche modo un aggregatore sociale, dato che non ci sono ristoranti o bar e neppure un supermercato nel villaggio. La brigata giovanile si è formata nel 2013 dopo che un gruppo di ragazze chiese al vigile del fuoco professionista Tomasz Golasz di addestrarle per una competizione. Ora, sei anni più tardi, la squadra ha vinto dozzine di gare in tutta la Polonia. “Queste ragazze vivono intensamente il loro impegno. C’è in loro così tanta passione e determinazione. – ha detto Golasz – Per due mesi, prima di ogni gara, vengono ad allenarsi ogni giorno o a giorni alternati dopo la scuola.”

Nel mentre il decennio di assenza di parti di bimbi maschi continua a rendere perplessi gli scienziati e l’opinione pubblica, alla maggior parte delle ragazze non fa ne’ caldo ne’ freddo. La decenne Malwina Kicler, che da tre anni si allena come vigile del fuoco volontaria, spiega al New York Times: “I ragazzi sono rumorosi e dispettosi. Almeno adesso abbiamo pace e tranquillità. I ragazzi puoi sempre incontrarli da qualche altra parte.” Touché.

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(“What to Do About Climate Change? Ask Women – They Have the Most to Lose”, di Winnie Byanyima – in immagine – direttrice esecutiva di Oxfam International, 18 dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

winnie byanyima

Il cambiamento climatico è sempre stato una questione politica. Alle sue radici vi sono enormi sbilanciamenti di potere e diseguaglianza, che si sono mostrati durante le recenti discussioni sul clima delle Nazioni Unite in Polonia. Questi sbilanciamenti definiscono chi è maggiormente vulnerabile agli impatti del cambiamento climatico, quali vite e mezzi di sostentamento saranno o sono già sottosopra. In nulla ciò è più palese che nel divario di genere: la lotta per la giustizia climatica e la giustizia di genere devono andare mano nella mano.

Il cambiamento climatico colpisce le donne in modi profondamente differenti dagli uomini. Cultura e tradizione in molti luoghi assegnano il ruolo di cura delle famiglie alle donne. Sono le donne, per esempio, a essere responsabili del raccogliere legna, dell’andare a prendere acqua e del coltivare cibo per nutrire bocche affamate. Perciò, mentre gli impatti del cambiamento climatico prendono controllo, sono le donne a dover stare sulla prima linea dell’adattarsi e trovare soluzioni: nuove fonti d’acqua; nuovi modi per sfamare le loro famiglie; nuove coltivazioni da far crescere e nuovi modi per farle crescere; nuovi modi di cucinare.

Nel mio paese, l’Uganda, le donne camminano già fino a sei ore al giorno per raccogliere acqua. Con le stagioni secche che stanno diventando più lunghe, le donne saranno costrette a camminare ancora di più. Come ho detto ai leader (in maggioranza uomini) del G7 a nome del Comitato consultivo sul genere quest’anno, chiunque dubiti delle fondamenta scientifiche che accertano il cambiamento climatico dovrebbe tentare di discuterne con le donne che camminano sempre più lontano ogni anno per andare a prendere l’acqua.

Le nazioni ricche sono state svergognate ai dibattiti sul clima perché hanno mancato di riconoscere l’urgenza del limitare gli impatti del cambiamento climatico. Mentre i paesi vulnerabili ad esso hanno chiesto un responso d’emergenza, una manciata di paesi ricchi principalmente esportatori di petrolio – inclusi il Kuwait, la Russia, l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti – ha negato la ragione scientifica che sta dietro a queste richieste di azioni urgenti.

Il cambiamento climatico ha effetti su tutti, ma le persone povere che vivono già ai margini ecologici sono colpite nel modo più duro. Spesso contano sulla pioggia per le loro coltivazioni, vivono in strutture fatiscenti e non hanno risparmi o assicurazioni su cui contare quando il disastro arriva.

Quando il disastro colpisce, come la carestia nel Sahel proprio ora, sono le bambine a essere tolte da scuola per aiutare le famiglie in difficoltà a far quadrare i conti. Sono le donne che restano senza niente quando non c’è abbastanza cibo per tutti. Le donne hanno meno beni su cui contare e sono largamente assenti dal processo decisionale, il che aggrava la loro vulnerabilità.

Quanto vulnerabile sei già per cominciare – quale è il tuo status nella nostra società diseguale – ha una grandissima influenza sul modo in cui il cambiamento climatico avrà impatto su di te. Per le donne, già vulnerabili, il cambiamento climatico inasprisce i loro fardelli già esistenti relativi alla cura.

Pochi negano che le donne siano le più colpite dal cambiamento climatico, ma vi è scarso accordo su cosa fare al proposito. C’è voluta una lunga lotta per aumentare l’importanza del genere nei dibattiti sul clima. L’anno scorso un Piano d’azione di genere fu approvato dopo un decennio di pressioni da parte di impegnate attiviste. Eppure, l’idea che la comunità internazionale debba prestare attenzione alle dinamiche di genere mentre sviluppa e implementa politiche sul cambiamento climatico resta assai delicata. I ripetuti sforzi, durante la prima settimana di negoziazioni in Polonia, di affrontare l’impatto sproporzionato della migrazione forzata sulle donne sono falliti, bloccati da un negoziatore del gruppo di paesi arabi. Sembra che menzionare i diritti umani, in particolare i diritti delle donne, sia troppo da tollerare per alcuni paesi: l’argomento è stato escluso dall’accordo.

Se vogliamo impedire al cambiamento climatico di calpestare i diritti delle donne e delle persone maggiormente vulnerabili, allora dobbiamo lottare per società più egualitarie. Ciò significa mettere in discussione i ruoli di genere, condividere più equamente il lavoro fra uomini e donne e aumentare la partecipazione delle donne al processo decisionale.

Significa anche che dobbiamo guardare alle nostre economie, che non danno valore ai contributi delle donne. Le nostre economie ignorano l’invisibile e non pagato lavoro di cura svolto da milioni di donne in tutto il mondo. C’è un’impressionante similitudine su come la nostra economia ignora il costo del cambiamento climatico fuori controllo: mancando di far pagare gli inquinatori. Queste sono entrambe conseguenze di un’economia corrotta. E’ un’economia che conta le cose sbagliate, cercando la crescita del PIL a ogni costo.

Le persone nei consigli d’amministrazione e nei governi che prendono le decisioni che alimentano il disastro climatico e la diseguaglianza sono in maggioranza uomini bianchi benestanti. I miliardari sono ricompensati a spese dei salari da fame per molti e a spese di un pianeta abitabile.

Ricordatelo, su 10 miliardari 8 sono maschi; la maggioranza dei poveri del mondo sono femmine. E’ un periodo favorevole per i miliardari e la loro sproporzionata quota di emissioni! A mia zia – contadina nell’Uganda rurale – ci vorrebbero 175 anni per produrre lo stesso tasso di emissioni di quelli che stanno nell’1%!

A Oxfam, e nel più vasto settore umanitario, crediamo in un mondo libero dall’ingiustizia della povertà, una lotta che non può essere separata da quella per la giustizia climatica e per l’eguaglianza di genere. Per arrivarci, abbiamo necessità di cambiamenti su vasta scala al nostro modello economico dominante e nel modo in cui conduciamo la politica. Dobbiamo riconoscere gli oneri e le discriminazioni poste sulle donne nelle case, nelle situazioni di crisi e nella nostra struttura economica e cominciare a considerare il genere quando affrontiamo gli impatti del cambiamento climatico. E poiché la comunità scientifica ci sta dicendo che abbiamo solo 12 anni per prevenire l’innalzamento globale fuori controllo delle temperature, abbiamo bisogno di cambiare velocemente.

Nei prossimi mesi, i governi devono seguire le indicazioni delle nazioni maggiormente vulnerabili e cominciare immediatamente a rafforzare i loro impegni all’azione incluso l’aggiungere le voci delle donne al processo.

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“Eilean a cheò” – “Isola delle Nebbie”

Chi ha orecchie o un cuore che batte nel proprio corpo

chi non canterà con me dei torti che ci hanno fatto?

Delle migliaia di sfollati, derubati

della loro terra, dei loro diritti, di tutto.

Dispersi oltre i mari sognando della

Verde Isola delle Nebbie

Ricordate che siete un popolo.

Sollevatevi per i vostri diritti.

C’è ricchezza sotto le colline su cui siete cresciuti.

C’è ferro e carbone là, grigio piombo e oro,

abbastanza da mantenerci nella Verde Isola delle Nebbie

Ricordate le vostre difficoltà,

mantenete in vita la lotta.

La ruota girerà in vostro favore

grazie alla forza del vostro braccio

e alla durezza del vostro pugno.

Il vostro bestiame sarà sui pascoli

e ognuno avrà un posto.

E la gente del Sud se ne andrà

dalla Verde Isola delle Nebbie.

Io mi asciugherò le guance,

frenerò le mie lacrime,

una nuova primavera è con noi,

molti sono venuti attraverso l’inverno.

Tutt’intorno, nuova erba sta spuntando.

I rami stanno tornando in vita

sulla Verde Isola delle Nebbie.

https://www.youtube.com/watch?v=ehpPLTaFvCc

Questo cantò sul cosiddetto “Ponte delle Fate”, a Skye (isola scozzese), Màiri Mhòr nan Òran e cioè La Grande Maria delle Canzoni (1821-1898) durante un raduno politico dei mezzadri sfrattati dalle terre che lavoravano – per le quali i proprietari chiedevano affitti sempre più esorbitanti – allo scopo di intraprendere produzioni agricole su vasta scala.

Le rimozioni forzate delle famiglie, le sollevazioni e gli scontri con le forze dell’ordine britanniche, i procedimenti legali andarono avanti in pratica per la maggior parte del secolo. Nel 1886 fu approvato il “Crofters Holdings (Scotland) Act”, ma tale legislazione non riuscì a risolvere tutte le dispute sui diritti terrieri, che continuarono durante gli anni fra le due guerre mondiali e nel ventesimo secolo.

Mary of the songs

Màiri Mhòr (Mary MacDonald, MacPherson da sposata – in immagine sopra) è stata un’organizzatrice e un’ispiratrice chiave delle lotte dei mezzadri scozzesi, ma è stata anche molte altre cose: contadina e allevatrice, tessitrice, infermiera e levatrice, domestica, poeta e cantante e narratrice nella sua propria lingua, il gaelico. Fu imprigionata per furto di abiti, attorno ai cinquant’anni, mentre da vedova lavorava come domestica: gli storici sono concordi nel ritenere che le accuse fossero infondate; in più, Màiri fu processata e interrogata in una lingua che non conosceva, l’inglese, e che nessuno si prese la briga di tradurle. La sentenza fu di quaranta giorni di carcere.

Il talento artistico che giaceva dormiente in lei si risvegliò durante la sua incarcerazione e la donna ne fece uno strumento per la liberazione propria e altrui. Nel 1882 fece ritorno permanentemente alla sua isola natale, Skye, e i suoi versi si scagliarono contro la violenza, l’ingiustizia e l’ipocrisia dei potenti. Ciò incluse il clero locale:

I predicatori si curano talmente poco

del maltrattamento del popolo della mia Isola, benché lo vedano,

e sono così silenziosi dal pulpito

da far sembrare che ad ascoltarli ci sia un branco di bestie selvagge.

Nel 19° secolo le donne erano una ristretta minoranza fra i poeti gaelici, tuttavia l’apprezzamento per il lavoro di Màiri attraversò le barriere sociali: nel mentre la sua arte aveva una significativa influenza sulla classe lavoratrice e i mezzadri, essa attirò pure l’attenzione di artisti e studiosi con cui la Grande Maria strinse relazioni d’amicizia.

Maria G. Di Rienzo

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(“In rural Paraguay, women are on the frontlines of a ‘race against time’ to save native seeds”, di Maria Sanz Dominguez – che ha anche scattato la foto di Ceferina Guerrero riprodotta qui – per Awid e Open Democracy 50.50, 11.9.2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

ceferina guerrero - immagine di maria sanz dominguez

A Chacore, a circa 200 chilometri di distanza dalla capitale del Paraguay Asunción, la 68enne Ceferina Guerrero cammina accanto a scaffali pieni di bottiglie di plastica e lattine accuratamente etichettate. Ognuna di esse contiene una varietà nativa di semi essenziali per la dieta delle comunità rurali.

Le etichette riportano i nomi in guarani, lingua indigena e seconda lingua ufficiale del Paraguay, così come in spagnolo. Guerrero presenta i semi con calore, come farebbe una madre con i propri figli: questo è un fagiolo, questa è una nocciolina, questo è mais.

Conosciuta come Ña Cefe nella sua comunità, Guerrero dice che il suo cognome (“guerriero” in spagnolo) le calza come un guanto. E’ una delle fondatrici del Coordinamento delle donne rurali e indigene in Paraguay (Conamuri).

Conamuri ha avuto inizio negli anni ’90 come piccolo gruppo. Oggi i suoi membri includono donne da più di 200 comunità rurali in Paraguay e l’associazione è anche collegata ai propri alleati in tutto il mondo come parte del movimento internazionale contadino La Via Campesina.

Pure, dice Guerrero, “non dobbiamo dimenticare il nostro principale obiettivo”: raccogliere e preservare semi nativi nell’intero paese. Lei descrive ciò come una corsa contro il tempo – e contro l’espansione dell’agricoltura industriale su larga scala.

“Attualmente abbiamo perso almeno il 60% delle varietà native. – mi ha detto – Ci sono persino comunità che non ne hanno affatto.”

Secondo l’organizzazione per il cibo e l’agricoltura delle Nazioni Unite (FAO), a livello globale il 60-80% del cibo nella maggioranza dei paesi in via di sviluppo, e metà del rifornimento mondiale di cibo, è piantato dalle donne.

Nel frattempo, il mondo ha perso il 75% del suo differente campionario di semi durante il ventesimo secolo. Ora, nove sole colture comprendono il 66% della produzione agricola globale. Unicamente tre di queste – grano, riso e mais – rappresentano circa la metà delle calorie giornaliere della popolazione mondiale.

Queste tendenze hanno allarmato ong, organizzazioni rurali e istituzioni internazionali. Mantenere la biodiversità, insiste la FAO, è “fondamentale” per la sicurezza alimentare e la capacità di adattarsi alla crescita della popolazione e al cambiamento climatico.

La perdita di biodiversità ha anche un “impatto specifico” sulle donne che “sono state per tradizione le custodi di una profonda conoscenza su piante, animali e processi ecologici”, hanno aggiunto nel 2016 gli esperti del comitato internazionale dell’IPES sui sistemi alimentari sostenibili.

In Paraguay, il mero 5% della popolazione possiede il 90% della terra. La maggioranza di quest’ultima è usata da grossi agribusiness per coltivare solo una manciata di varietà (incluse la soia, il grano, il riso e il mais) su vaste piantagioni a scopo di esporto internazionale.

L’anno scorso, il paese ha importato almeno 24.000 tonnellate di semi. La maggior parte era diretta a queste coltivazioni da esporto. Meno dell’1% erano semi di frutta o vegetali, per lo più patate. Il resto includeva il frutto nazionale del Paraguay: mburucuya (maracuja o frutto della passione).

Intanto, 28 coltivazioni geneticamente modificate (in gran parte varietà di soia, mais e cotone) sono state approvate dal governo dal 2001 in poi, quando la Monsanto ha cominciato a produrre qui la sua sua soia resistente al pesticida Roundup. Nel mezzo della pressione esercitata dalle corporazioni sull’agricoltura e la produzione di cibo, le donne che preservano le varietà native, come Guerrero a Chacore, sono “rare, come aghi nel pagliaio” dice Inés Franceschelli, una ricercatrice per l’ong Heñoi (‘germinare’). “E se il Paraguay è cosi dipendente (dalle compagnie straniere) per una faccenda così di base come il cibo – ha aggiunto – significa che questo è un paese subordinato.”

A seguito di un’intensa campagna di mega-fusioni partita nel 2016, un piccolo gruppo composto di tre corporazioni giganti (Bayer-Monsanto, DowDuPont e Chemchina-Syngenta) ora controlla più della metà del mercato mondiale dei semi. Questi semi e i giganti dell’agrochimica sono attivi anche in Paraguay, dove è stato loro permesso di piantare mais, cotone e soia transgenici.

Guerrero mi ha detto che i semi nativi crescono senza insetticidi, mentre alcuni semi transgenici possono “produrre una bella pianta, con bei frutti, ma se tu raccogli i semi e li pianti di nuovo, non germineranno. Non puoi riusare i loro semi e sei costretta a comprarli ancora e ancora.” Ciò che lei descrive suona come l’effetto di una controversa modifica genetica che produce semi sterili una volta che la pianta abbia dato i suoi frutti.

Alcuni li chiamano i “semi terminator”, alcune ong e organizzazioni rurali mettono in guardia sul fatto che l’uso delle Genetic Use Restriction Technologies (GURT) può rimpiazzare le varietà native e minacciare la sicurezza alimentare locale. Il Paraguay è anche uno dei paesi firmatari della Convenzione sulla diversità biologica delle Nazioni Unite, che nel 2000 raccomandava una moratoria de facto dei test sui campi e della vendita dei semi “terminator”.

Si crede che le maggiori compagnie mondiali abbiano brevetti per tali tecnologie, sebbene esse neghino di usarli. La Monsanto, per esempio, ha detto di “non aver mai commercializzato una biotecnologia che risultasse in semi sterili – o terminator” per i raccolti di cibo e di “non avere piani o ricerche che violerebbero questo impegno.”

In questo momento si sta anche facendo pressione affinché il Paraguay adotti il controverso accordo sui semi “UPOV 91”, come parte del trattato sul libero commercio che viene negoziato fra l’Unione Europea e il blocco commerciale sudamericano Mercosur.

Le organizzazioni rurali temono che questo renderebbe possibili azioni legali contro i contadini per la condivisione e lo scambio di semi nativi, poiché essi non sarebbero in grado di soddisfare i requisiti richiesti per la registrazione all’interno dell’accordo.

Durante l’ultimo decennio, Conamuri ha sviluppato le sue proprie proposte di legge per proteggere i semi nativi e “creoli” (che non sono nativi, ma si sono adattati nei secoli alle condizioni locali). Queste proposte sono state respinte nel 2012, dopo l’impeachment del Presidente Fernando Lugo (visto come qualcuno disponibile ad accettarle). “Abbiamo capito allora che il potere politico era instabile e che perciò dare al governo il controllo sui nostri semi non era una garanzia per la sovranità e la sicurezza alimentare.” – mi ha detto Perla Álvarez di Conamuri – I semi devono stare nelle mani della gente di campagna.”

“La gente di campagna ha potere nel proprio stile di vita tradizionale.”, aggiunge Franceschelli dell’ong Heñoi, dal potere di un’alimentazione sana e di una gestione sostenibile della terra a quello di “vivere senza essere dipendenti dalla corporazioni. La resistenza è situata nelle comunità rurali e indigene in tutto il mondo. E questa resistenza è più forte nelle donne.” In Paraguay, nel mezzo del diffondersi dell’agricoltura industriale, delle coltivazioni transgeniche e dei brevetti sui semi, donne come Guerrero sono in prima linea nella battaglia per salvare le varietà native, prima che sia troppo tardi.

Queste donne stanno producendo “fertilizzanti verdi” che aiutano la terra coltivabile a rinvigorirsi per la prossima stagione e insegnano ad altre persone la coltivazione agro-ecologica che tiene conto degli ecosistemi naturali e incoraggia a piantare una varietà di semi. Stanno accuratamente etichettando recipienti in cui immagazzinano le stesse varietà di mais che le loro nonne usavano per cucinare, molto tempo fa. Stanno anche riscoprendo e preservando i semi nativi che non sono stati usati per molti anni.

A Chacore, la Semilla Róga (la casa dei semi) è un progetto di Conamuri che ospita ogni mese contadini provenienti da tutto il Paraguay per lo scambio dei semi e per l’apprendimento alla preservazione di varietà native e creole. Qui, Guerrero insegna come far crescere cibo senza pesticidi o insetticidi. Ha anche il suo magazzino di semi a casa, in cui preserva 60 varietà di semi e li condivide con i suoi vicini. “Sin dall’inizio dell’agricoltura – dice – i semi nativi sono stati collegati alle donne, che sono state le prime a raccogliere, conservare e piantare semi.”

Il progetto Semilla Róga mira pure a preservare la conoscenza e le tradizioni delle comunità che usano i semi nativi. “Ciascuna varietà di mais è adatta a diversi tipi di cibo e appartiene a differenti gruppi di persone. – ha spiegato Álvarez – Per esempio, le genti indigene come gli avá gli mbya guaraní usano il mais colorato per i rituali, perciò questa pianta ha anche valore culturale.”

Le medicine naturali derivate dai semi crudi sono pure popolari in Paraguay, dove sono spesso usate come alternative meno costose alle medicine convenzionali. Il seme di coriandolo, per esempio, è usato per aumentare le difese naturali dopo una malattia.

“Se perdiamo il kuratu (coriandolo), se perdiamo l’andai (varietà locale di zucca), noi stiamo perdendo la medicina e stiamo perdendo il nostro cibo, una parte delle nostre tradizioni come gente di campagna e una parte della nostra cultura e della nostra identità.”, mi ha detto Guerrero. Tenendo in mano una grande foglia di mais rosso nativo, Guerrero spiega che dovrebbe essere raccolto durante la luna piena, quando l’atmosfera è meno umida. Mi mostra come raccogliere i piccoli semi da ambo le estremità per il cibo: quelli nel mezzo saranno immagazzinati per la semina della prossima stagione.

“Alcuni mi chiedono quanti dollari spendo al giorno. Io non capisco la domanda, perché produco quel di cui ho bisogno e per settimane intere non spendo un dollaro. – dice – Quando hai semi in casa, non avrai mai fame.”

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poonam ghimire

Quando aveva 11 anni, la nepalese Poonam Ghimire – in immagine – scrisse, mise in scena e diresse un pezzo teatrale che affrontava le diseguaglianze di genere nella scuola e chiedeva maggiore inclusione. Il suo lavoro riscosse un tal successo che la gente lo metteva spontaneamente in scena nelle strade: questo in un paese in cui solo il 66% delle ragazze frequenta le medie, poiché all’età in cui dovrebbero farlo sono già intrappolate in matrimoni precoci o lavoro forzato, oppure ne sono impedite dalla povertà o da proibizioni socioculturali.

In più, in molte regioni sono costrette a sottoporsi alla “tradizione” che le allontana dalle proprie case quando hanno le mestruazioni. Confinate in remote capanne, le ragazze sono spesso stuprate, si ammalano, muoiono di freddo e di fame.

Contro tutto questo, Poonam ha organizzato le sue amiche e ha fatto campagna per l’eguaglianza di genere. L’Unicef l’ha notata abbastanza presto da chiederle di scrivere per l’organizzazione, cosa che le ha fatto guadagnare un profilo internazionale.

Quando è stato il momento di andare all’università, Poonam ha scelto scienze forestali: è convinta che il cambiamento climatico e la diseguaglianza di genere siano connessi. Il cambiamento climatico ha impatto principalmente su bambine e donne, sostiene, giacché nelle comunità sfollate la percentuale di matrimoni forzati infantili cresce, gli agricoltori su piccola scala – che sono in maggioranza donne – vedono distrutte le loro possibilità di sopravvivere grazie al loro lavoro e molte bambine a cui è permesso studiare non riescono più neppure a raggiungere le scuole.

Garantire alle donne il diritto alla salute sessuale fornendo loro l’accesso al controllo delle nascite e fornire istruzione sul cambiamento climatico a donne e bambine sono due dei rimedi per cui la giovane attivista lavora assieme all’Associazione delle organizzazioni giovanili del Nepal (con cui ha anche affrontato le conseguenze del devastante terremoto del 2015, in prima linea negli sforzi per l’assistenza e la ricostruzione).

Durante la sua attività, Poonam ha visto altre connessioni: in Nepal solo il 37% delle persone può usufruire di impianti igienici e sanitari, e di nuovo ciò ha un impatto sproporzionato su donne e bambine, a cui è affidato il compito di fornire acqua potabile; inoltre, espone la popolazione al rischio di colera e altre malattie relative al consumo di acqua contaminata.

Poonam ha già prodotto lavori di ricerca sullo smaltimento sostenibile dei rifiuti, promuove un’agricoltura pure sostenibile, organizza concorsi di poesia sul cambiamento climatico e diffonde libri, tiene seminari sugli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite per i giovani, incoraggiandoli a fondare gruppi ambientalisti in tutta la nazione. Mentre viaggia per questi scopi, raccoglie dati locali sull’inquinamento dell’aria.

“Per molti, io sono una donna non sposata che lavora nel mondo degli uomini e non sa cucinare. – ha detto di recente alla stampa – Ma io sono una donna che ha sogni, aspirazioni e, cosa più importante di tutte, ho una voce.”

Maria G. Di Rienzo

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(“The Women Leading This Kenyan Environmental Group Are Thriving Where Men Failed”, di Daniel Sitole per News Deeply, 4 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Foresta di Kakamega, Kenya – Quando Maridah Khalawa ha dato inizio al Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione, circa un decennio fa, sapeva di voler trovare un modo di generare reddito per se stessa e altre donne che vivono nei pressi della foresta Kakamega nel Kenya occidentale, senza sfruttare le già risicate risorse dell’area.

Quel che non poteva sapere era che la loro piccola impresa comunitaria sarebbe cresciuta sino a contribuire al sostegno di centinaia di famiglie, avrebbe vinto riconoscimenti internazionali e si sarebbe dimostrata più efficace di molti dei gruppi di uomini che tentato di fare la stessa cosa.

La chiave dell’impresa sostenibile del gruppo di Muliru è il basilico canforato.

basilico canforato

La pianta indigena, Ocimum kilimandscharicum, chiamata “Mwonyi” nel locale dialetto Luhya, è stata a lungo usata dalla popolazione attorno alla foresta Kakamega per curare influenza e tosse, per tenere distanti i parassiti dal grano immagazzinato e come repellente per le zanzare.

A partire dal 1999, con il piccolo capitale iniziale e il lavoro gratuito fornito dai membri, più della metà dei quali sono donne, il gruppo di auto-aiuto di Muliru ha cominciato a coltivare e a trattare il basilico canforato per trasformarlo in un unguento da vendere localmente. L’idea era di attingere a un’abbondante e poco apprezzata risorsa della foresta Kakamega, l’ultima foresta pluviale del Kenya che ancora sopravvive, beneficiando nel contempo finanziariamente le comunità locali. Per giunta, una parte dei guadagni provenienti dall’iniziativa sarebbero andati alla ricerca per la preservazione ambientale.

“Uno dei nostri iniziali scopi relativi alla conservazione era l’agire andando oltre il metodo tradizionale, usando tecnologia moderna e abbracciando la cooperazione con altre organizzazioni interessate.”, dice Maridah Khalawa, 54enne, che non hai mai finito le scuole superiori perché i suoi genitori non potevano permettersi di pagare le tasse relative.

Muliru

(Muliru – Maridah Khalawa è a destra accanto al distillatore)

Lo sforzo del gruppo ha subito attirato i donatori. Nel 2.000, Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite ha dato al gruppo 4 milioni e mezzo di scellini kenyoti (poco più di 37.000 euro) per comprare macchinario da distillazione in grado di estrarre gli oli essenziali del basilico. In precedenza, la comunità era solita bollire la pianta come da medicina tradizionale. Cinque anni più tardi la Fondazione Ford, tramite il Centro Internazionale di Fisiologia e Ecologia degli Insetti, finanziò parzialmente la costruzione di due edifici per la produzione, lo stoccaggio e gli uffici amministrativi del gruppo.

Altri donatori seguirono, sebbene non senza incontrare resistenza da parte di alcuni membri dell’organizzazione: “Non è stato facile convincere altri abitanti del villaggio a pensare globalmente e ad accettare di lavorare con stranieri.”, dice ancora Khalawa. Ora il Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione è rinomato per il suo unguento erbaceo basato sul basilico canforato, che è sul mercato con il nome di Naturub ed è registrato come medicina in Kenya per la cura dei sintomi dell’influenza, come sollievo per il dolore e i morsi di insetti. Oltre all’unguento, il gruppo fa anche repellente per zanzare.

I prodotti sono venduti a negozi, supermercati e farmacie nel Kenya occidentale e distribuiti tramite agenti in altre parti del paese. James Ligale, l’addetto del gruppo alle pubbliche relazioni, dice che il valore dei loro beni patrimoniali ammonta a più di 15 milioni di scellini kenyoti (circa 124.000 euro), valore della terra compreso. Vendono annualmente 36.000 flaconi di unguento.

I benefici vanno ben oltre i membri di Muliru, di cui più del 40% riceve tutti i propri guadagni dal progetto. Il gruppo fornisce reddito regolare per 400 agricoltori che coltivano le piante per il materiale grezzo e che a loro volta impiegano circa 1.000 dipendenti.

Come integrazione ai propri guadagni, Muliru ospita turisti che pagano dai 12 ai 29 euro per apprendere le storie della conservazione della foresta di Kakamega, della pianta Ocimum e del processo di produzione di Naturub – dalle fattorie ai macchinari.

Il lavoro del gruppo ha vinto diversi premi, inclusi due dall’UNDP: l’Equator Prize nel settembre 2010, che fu conferito durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York e il Seed Award nel dicembre dello stesso anno.

“E’ l’impresa di preservazione ambientale più di successo e meglio amministrata diretta da una donna in Kenya. – dice l’esperto di conservazione di risorse naturali, ora in pensione, John Kimeto – Gli uomini hanno tentato di imitare Maridah ma hanno tutti fallito.”

Khalawa attribuisce il suo successo all’instancabile sostegno delle donne membri del gruppo. Dice che si è presa l’impegno di far spazio alle vedute e alle opinioni delle persone al di là della loro età, affiliazione politica o comprensione delle istanze, ma che non permetterà ai politici di professione di interferire nella gestione degli affari. “Le organizzazioni comunitarie sono soggette a manipolazioni politiche, e ai politici piace essere membri, patrocinatori o sponsor di tali gruppi. Io ho tenuto con fermezza i politici fuori da Muliru.”, spiega.

Nonostante la sua comprovata e forte esperienza, Muliru affronta ancora difficoltà nel mentre tenta di ingrandirsi ed espandersi. Cerca di guadagnare abbastanza per i costi del marketing o per assumere impiegati dalle specifiche abilità – come ingegneri di produzione o contabili – che facciano funzionare l’organizzazione. I membri più anziani trattano gli affari del gruppo essi stessi, a volte andando per tentativi e errori.

Tuttavia, Maridah Khalawa e la sua compagine si dedicheranno a dirigere l’impresa in modo sostenibile e per il beneficio della loro comunità locale il più a lungo possibile: “Quelli che volevano stare dalla parte “giusta” politicamente sono collassati, ma noi siamo qui per restare.”, dice.

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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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