(“Japan – Saying #MeToo in Japan in a Culture of Silence on Sexual Assault”, di Shiori Ito – in immagine – per Politico, 1.2.2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Nello scorso maggio, durante una conferenza stampa presso il tribunale distrettuale di Tokyo, ho reso noto pubblicamente di essere stata stuprata.
In Giappone è inconcepibile che una donna faccia questo, ma non mi sentivo coraggiosa – sentivo solo di non avere altra scelta.
Il 4 aprile 2015, mentre riprendevo conoscenza in una stanza d’albergo a Tokyo, sono stata stuprata da Noriyuki Yamaguchi, ex capo agenzia di Washington, D.C. per il sistema radiotelevisivo di Tokyo e giornalista che ha stretti legami con il Primo Ministro Shinzō Abe.
Incontrai Yamaguchi la sera prima per discutere opportunità di lavoro. Il mio ultimo ricordo della serata è il sentirmi stordita in un ristorante sushi. Mentre attraversavo le procedure legali relative alla denuncia, sono giunta a capire come il sistema giapponese lavori per danneggiare le sopravvissute all’assalto sessuale.
L’indagine fu condotta con fretta precipitosa. Ciò è accaduto, come io e altri sospettiamo, in parte per la pressione politica, ma anche a causa di un sistema medico, investigativo, legali e in ultima analisi sociale che marginalizza e abbandona le vittime di crimini sessuali. Io ho dovuto lottare a ogni singolo punto della procedura.
Quando mi sono fatta avanti, il mio caso era stato chiuso e avevo appena presentato appello affinché fosse riaperto. L’appello è stato respinto in settembre.
Ho reso la mia vicenda pubblica per dire che l’intero meccanismo con cui si maneggiano i crimini sessuali deve cambiare e per chiedere alla Dieta, com’è chiamato il nostro Parlamento, di smettere di ritardare gli emendamenti alla legge giapponese sullo stupro che è vecchia di 110 anni. Sto dicendo che la violenza sessuale è una realtà di cui dobbiamo parlare.
Dai professionisti in campo medico alla polizia, ho incontrato una mancanza di comprensione rispetto alla violenza sessuale e inadeguato sostegno per chi vi sopravvive.
Dopo essere fuggita dall’albergo, nel mentre diventavo sempre più conscia del dolore fisico, ho pienamente compreso cos’era accaduto. Il ginecologo a cui mi rivolsi fornì scarsa assistenza. Chiamai il numero dell’unico centro emergenza per lo stupro di Tokyo che funziona 24 ore al giorno, per chiedere in quale ospedale dovevo recarmi (i kit medici per lo stupro sono disponibili solo in determinati ospedali in 14 delle 47 prefetture del Giappone). Mi fu risposto che dovevo presentarmi per un’intervista preliminare prima di poter ricevere alcuna informazione. Io ero troppo devastata per muovermi.
Cinque giorni dopo, sono andata alla polizia. Stavo cominciando a lavorare come giornalista e sebbene fossi spaventata non volevo nascondere la verità.
Inizialmente, i funzionari di polizia tentarono di scoraggiarmi dal presentare una denuncia, dicendo che la mia carriera ne sarebbe stata rovinata e che “questo tipo di cose accadono spesso, ma è difficile indagare su questi casi”. Li convinsi a ottenere il filmato delle telecamere di sicurezza dell’albergo. La testimonianza dell’autista del taxi rivelò che ero stata portata incosciente all’interno dell’albergo. Alla fine, la polizia accettò la denuncia.
Ho dovuto ripetere le mie dichiarazioni a numerosi funzionari di polizia. Un investigatore mi disse che se non piangevo, o se non agivo come una “vittima”, loro non potevano sapere se stavo dicendo la verità. A un certo punto ho dovuto ricostruire l’accaduto con un pupazzo a grandezza naturale nella stazione di polizia di Takanawa, mentre gli agenti fotografavano. E’ stato traumatizzante e umiliante. Una ex collega una volta si riferì a questa procedura come a un “secondo stupro”, poiché costringe la vittima a rivivere la violenza.
All’inizio di giugno, nel 2015, i funzionari della stazione di polizia di Takanawa ottennero un mandato di arresto per Yamaguchi che faceva riferimento a quello che viene chiamato un “quasi”-stupro.
L’arresto era pianificato per avvenire all’aeroporto di Narita l’8 giugno, ma in una mossa altamente inusuale l’allora capo delle indagini criminali della polizia metropolitana di Tokyo lo cancellò. Il mio caso fu trasferito a quel dipartimento, dove mi fu detto di risolvere la cosa andando in tribunale. I pubblici ministeri presentarono istanze contro Yamaguchi ma nel luglio 2016 lasciarono cadere ogni accusa, citando l’insufficienza di prove.
Quando l’arresto fu cancellato, pensai che la mia unica risorsa era parlare ai media. Ho parlato con giornalisti di cui mi fidavo. Nessun organo di stampa, a eccezione del settimanale Shukan Shincho all’inizio di quest’anno, ha riportato la storia. Le circostanze erano politicamente “sensibili”, ma i media giapponesi in genere sono silenziosi sui crimini sessuali – essi non “esistono” davvero.
E’ tabù persino usare la parola “stupro”, che viene spesso rimpiazzata da “violata”, o “ingannata” se la vittima è minorenne. Ciò contribuisce alla pubblica ignoranza.
Il mio farmi avanti (ndt.: durante la conferenza stampa del maggio 2017) è diventato una notizia di portata nazionale e ha sconvolto l’opinione pubblica.
Il contraccolpo mi ha colpita duramente. Sono stata diffamata sui social media e ho ricevuto email e chiamate d’odio da numeri sconosciuti. Sono stata chiamata “troia” e “prostituta” e mi è stato detto che dovrei “essere morta”.
Ci sono state discussioni sulla mia nazionalità effettiva, perché una vera donna giapponese non parlerebbe mai di tali cose “vergognose”. Storie false sulla mia vita privata sono spuntate dappertutto, corredate da fotografie della mia famiglia. Ho persino ricevuto messaggi da donne che mi criticavano per aver fallito nel proteggere me stessa.
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