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Posts Tagged ‘storia delle donne’

sandi

Sandi Toksvig – in immagine – 62enne, è di origini danesi e lavora da quarant’anni come presentatrice televisiva, scrittrice e attrice comica in Gran Bretagna, dove si è trasferita da adolescente. E’ anche un’attivista per i diritti delle persone lgbt e una femminista da quando ha memoria: “A scuola ho organizzato uno sciopero quando avevo sei anni, perché ai maschi era stato permesso uscire a giocare sotto la pioggia e alle femmine no.”

Nel 2015 è stata fra le fondatrici del partito “Women’s Equality”. In occasione della stampa in formato tascabile del suo memoriale “Between the Stops” (“Tra le fermate”: il libro ha come filo conduttore un viaggio in autobus attraverso Londra), ha rilasciato qualche intervista. Le è stato chiesto, fra l’altro, della scarsa rappresentazione delle donne nei luoghi pubblici, giacché nel memoriale Sandi fa menzione dei monumenti e dei nomi delle vie che vede passando:

“Le donne sono state terribilmente ignorate e sottovalutate. E’ deprimente, perché c’è una considerevole sinfonia di donne fantastiche nella Storia. Eppure, le strade prendono per la maggior parte i nomi di uomini famosi. Le statue sono per lo più di uomini che hanno fatto cose meravigliose a cavallo. Metà dell’umanità è trascurata perciò, nel mio piccolo, suggerisco di guardare alle cose in modo diverso e di raccontare altre storie.”

Una domanda ricorrente riguarda le difficoltà che Sandi ha incontrato per il suo coming out:

“E’ stato duro riviverle ma era importante condividerle, perché le cose non vanno ancora bene per molte persone. Mia moglie (Debbie, psicoterapeuta) lavora per un’organizzazione di beneficenza che dà sostegno alle persone lgbt e ci sono tuttora storie dell’orrore, persone cacciate dalle loro famiglie o escluse nei luoghi di lavoro. Il fatto che abbiamo i matrimoni per persone dello stesso sesso non significa che là fuori non ci sia una tremenda omofobia. Ho sentito come dovere il dire alla gente che sebbene io sia in televisione a ridere, scherzare e passare piacevolmente il tempo, non è sempre stato così. E’ stato terribile e mi ha lasciato cicatrici, ma sono ancora qua. Puoi attraversarlo e farcela. Sperimento anche oggi l’omofobia, è una cosa continua. Vorrei solo che la gente si calmasse un po’: sono felicemente sposata e non intenzionata a causare pubblica indignazione – sicuramente dovrebbe bastare, no?”

Maria G. Di Rienzo

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Il giovane Marco Rossi, giocatore del Monregale calcio, ha avuto qualche difficoltà “stradale” il mese scorso e ha ritenuto di doverne dare pubblicamente conto con un video. La trascrizione della sua testimonianza è questa:

In poche parole c’è una negra di merda che pensa di avere dei diritti, e tra l’altro ‘sta negra è pure donna, quindi già “donna” e “diritti” non dovrebbero stare nella stessa frase, in più se aggiungi un “negra”… quindi fa già ridere così, no? Però, in poche parole sto orangotango del cazzo ha avuto la brillante idea di denunciarmi per falsa testimonianza. Che però forse è vero, un po’ di falso l’ho dichiarato perché ero fuso e ubriaco, ci sta. Però per principio non mi devi rompere il cazzo anche perché you are black, diocan, negra di merda! E niente, bon, in poche parole io adesso dovrei pagare la macchina a una solo perché sa fare il cous cous: ma baciami il cazzo va’, puttana! Puttana! Troia! Poi ho preso la macchina di mia madre, ho preso l’autovelox, non ho pagato una lira e devo pagare la macchina a te diocan, sempre se si può chiamare macchina quella merda di triciclo che c’hai. Troia, lavami i pavimenti.”

Nelson Mandela la pensava così:

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di ispirare, ha il potere di unire le persone in un modo che poche altre cose sanno fare. Parla ai giovani in un linguaggio che loro capiscono. Lo sport può creare speranza dove prima vi era solo disperazione. E’ più potente dei governi nell’abbattere le barriere razziali. Ride in faccia a ogni tipo di discriminazione.”

Vero, in teoria e in linea di massima. Poi nella pratica c’è qualche dissonanza come Marco Rossi. Perché gli strumenti – dallo sport ai video – sono in essenza l’uso che ne fai.

C’è un po’ di gente che sta chiedendo alla dirigenza del Monregale di buttare fuori il suo giocatore. Io dilazionerei la proposta. Tenetelo in squadra, per il momento, e fate un po’ di “rieducational channel” per tutti.

Cominciate con lo studio di questi tre testi: Costituzione della Repubblica Italiana, Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, CEDAW – Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne. Fase due: invitate Aboubakar Soumahoro e Leaticia Ouedraogo a tenere una lezione ai vostri calciatori sugli effetti del razzismo e del sessismo nelle loro vite.

Poi portate Rossi e compagnia in tour al campo di sterminio di Auschwitz.

Infine informateli: “Adesso non avete più scuse, non potete dire che non sapevate e che non avevate capito e che stavate scherzando eccetera. Vi abbiamo dato la possibilità di smettere di essere stupidi e crudeli. Il prossimo che fa/dice una stronzata razzista, sessista, omofoba eccetera se ne va a calci nel didietro.”

Maria G. Di Rienzo

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Toni Truesdale

“Storia e Mitologia hanno bisogno di includere senza restrizioni le storie di tutte le donne.

La prospettiva femminile dovrebbe riflettersi nell’estetica, nei valori, nella spiritualità e nella moralità.

Io sviluppo arte figurativa che mostra la naturale bellezza e intelligenza negli aspetti della vita multiculturale di sorelle, madri, figli, zie e nonne tutte: e celebro la nostra comunanza attraverso il tempo, la cultura comune delle donne che io chiamo il nocciolo invisibile.

Toni Truesdale (in immagine sopra), insegnante d’arte, disegnatrice e pittrice di murales, illustratrice contemporanea statunitense (trad. Maria G. Di Rienzo).

Tutto quel che vedete qui è opera sua.

eve out of africa

(Eva)

Harvest

(Il Raccolto)

toni murales

(Murale)

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rainbow cake

Come dice la torta (sì, questo posto è talmente magico che le torte parlano) siamo entrate/i nel mese del Pride. Poiché a causa della pandemia sarà impossibile organizzare le consuete manifestazioni, numerose organizzazioni stanno proponendo ovunque iniziative online di vario tipo. La chiave del Pride, comunque, è sempre la testimonianza. Vi offro perciò quella della britannica Beatrix Campbell – in immagine in calce – tratta da un suo più lungo articolo scritto per Woman’s Place UK il 22 aprile 2020, in occasione della “Settimana della visibilità lesbica”. Beatrix è giornalista, scrittrice, conduttrice radiofonica, commediografa e femminista. Di lei potete leggere anche:

https://lunanuvola.wordpress.com/2014/05/10/oggi-lo-sappiamo/

Ma tu non sembri una lesbica! Questo mi è stato spesso detto come gentilezza. Non sembro neppure una giornalista, o una giardiniera, o una ciclista, o una ricamatrice o una prozia… in effetti reputo di non somigliare a nulla – eccetto che a una donna.

Quando sono venuta allo scoperto come gay (un termine che prediligo), lesbica e donna potevano essere termini disagevoli ma difficilmente erano controversi. Non più. Perciò, voglio affermare il mio coming out per entrambi.

Venire allo scoperto come gay richiede sempre coraggio, e lo richiede di continuo, ma ci sono solo tre scuse per non farlo che hanno senso: vivi in luogo in cui potresti essere uccisa, o potresti essere licenziata o non sopporti l’idea di dirlo a tua madre.

Dirlo ai miei genitori fu peggio del dovergli dire che mi avevano beccata per taccheggio, peggio del dire loro che i miei voti a scuola non erano più i migliori (a me importava) e peggio dell’informarli che mi sarei sposata (con un uomo – nessun uomo andava abbastanza bene per loro).

E’ peggio perché le persone gay devono fare qualcosa a cui nessuna persona eterosessuale è costretta: attirare l’attenzione su qualcosa che tu non vuoi altri abbiano in mente, cioè la tua sessualità e la tua vita sessuale.

Nei primi anni ’70 dissi a mia madre che mi ero innamorata di una donna. Ero 23enne, sposata e inebriata dal Movimento di Liberazione delle Donne. Lei fu in gamba, come sapevo sarebbe stata. Ogni qualvolta qualcosa di omofobico era pronunciato in casa nostra – solo da mio padre – lei lo rimproverava: era un’infermiera, lavorava con persone gay ed esse erano parte del suo universo. Ciò con cui lottava era l’esistenza di un’altra persona amata nella mia vita che non era lei. (…)

La reazione a cui non ero preparata fu quella dei parenti comprensivi che si congratulavano con me perché non sembravo una lesbica e perché non ero zelante al proposito. Oh, ma io lo sono, pensavo – a rovinarmi era il fatto di essere beneducata. (…)

Alcune delle mie amiche lesbiche sono venute allo scoperto con chiunque – persino con i capi al lavoro – eccetto che con le loro madri. Una di loro è sopravvissuta a una crudele battaglia per la custodia dei figli nei giorni in cui le lesbiche perdevano sempre i loro bambini. E’ sopravvissuta a umiliazioni grottesche, è stata coraggiosa, perché amava e desiderava una donna. Ma non usò mai la parola “elle” con sua madre. Perché? Non poteva sopportare l’idea di perderla.

Adesso quella donna deve confrontarsi con un altro incubo: perdere il proprio linguaggio, la propria lingua madre, lesbica e donna. Ogni uomo o donna gay che conosco ha una storia di terrore e di coraggio che deriva non dall’essere figlio o figlia, ma dal desiderio – o meglio, dai corpi di chi desideriamo. (…) Gay è una relazione: non esiste senza il soggetto del tuo desiderio.

Perciò, sentiamo come questo si definisce per la visibilità lesbica: donne che amano donne.”

beatrix

Maria G. Di Rienzo

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… per me è una cosa seria.

writer

Da quando ho deciso che avrei scritto il quinto romanzo, ho buttato via 80.000 parole totali. Non c’è critico letterario al mondo che sappia trovare difetti nella mia scrittura meglio di me: è vero che essa tratta di sf e fantasy, ma la narrazione – oltre che corretta sotto il profilo linguistico – deve essere credibile, nel senso che chi legge dev’essere in grado di entrare in relazione con la storia e i personaggi senza trovare il tutto così improbabile da chiudere il libro e non riaprirlo più.

Una volta attraversato questo processo vado spedita… verso il nulla o verso l’autopubblicazione (vi terrò aggiornati). Non ho aspettative sull’editoria per così dire “ufficiale”, come sapete, perché sono semplicemente una scrittrice e non una persona famosa in altri campi che deve aggiungere libri di fuffa alle sue imprese. La situazione in Italia è questa e credo di non essere la sola ad averlo compreso: ieri me la ribadisce la recensione di un prodotto che viene definito “una sfida a George Orwell sul prato verde della distopia” e poche righe più sotto “un’anti-distopia ironica e distaccata”. Fate voi. Potrebbe persino essere un’utopia, un’eutopia, una cacotopia o un “anti” tutto ciò.

Baldini & Castoldi pubblicano infatti, con totale faccia di bronzo, qualcosa che si chiama “2084. La dittatura delle donne”, ci mettono un dipinto di Tamara de Lempicka in copertina (che fa sempre tanto “trasgressione”) e magari si aspettano che chi ha letto “1984” di Orwell corra in libreria, non vedendo l’ora di fare paragoni fra un gigante della letteratura e l’autore Gianni Clerici.

Costui è un ex tennista, giornalista sportivo (il recensore ricorda le sue “storiche dirette da Wimblendon” – sarebbe Wimbledon), che occasionalmente si avventura fuori dalla sua area di competenza – cosa legittima e non contestabile – con un testo che, anche se non tratta direttamente di tennis, usa il tennis come metafora, ispirazione, monito, similitudine eccetera.

So che ha sofferto di un ictus e che per fortuna ora sta bene, ma non so cosa gli abbia fatto male di recente: il #metoo? La richiesta di dar voce alle donne in Italia? Sta di fatto nel suo 2084 “le donne vanno al potere e invece del Grande Fratello c’è qualcosa che è una macchina chiamata Cerebrorobot. Le donne vanno al potere in seguito a una votazione mondiale in cui sono maggioranza.”

E, ovviamente, per chi le donne non le ascolta e non le vuole ascoltare, ciò può risultare solo in una banalissima dittatura rovesciata: “Gli uomini, i vires, sono messi maluccio, destinati alle mansioni più umili, i rapporti fra i sessi sono banditi e ogni forma di riproduzione è rigidamente controllata”. Giusto, perbacco: per cosa mai vogliamo entrare nella cabina di regia se non per vendicarci? Perché, andiamo, non è mica possibile che noi si reclami una cittadinanza a pieno titolo, diritti umani per tutte/i e si abbiano idee, proposte, capacità da condividere. Due secoli e passa di femminismo (indicato propriamente con tale nome) e questo è quel che Clerici – non solo lui – ha capito. Ma non dobbiamo preoccuparci: “nonostante presenze che si intuiscono autorevoli come la Leader Draga Merkel sr, (Nda: La Feroce Merkel Mangiauomini, ma per piacere! Questa l’ha concordata con Vittorio Feltri o con Salvini?) quello delle amazzoni è un potere vuoto, un simulacro. Su cui Clerici non manca di testare la proverbiale ironia.” Davvero, è un sollievo. E come fa? “Usa proprio il tennis. Facendo ricordare alle protagoniste un match di Serena e Venus Williams perso malamente contro un tennista numero 200 del mondo. “Era un incontro a cui ho assistito in Australia, con il tedesco Karsten Braasch che provava i cambi di campo. Mi pare le abbia battute a turno 6-1 e 6-2”.”

Ah okay, siamo inferiori, torniamo a ricamare le palline da tennis per i veri esseri umani – gli uomini. Cioè, basta la memoria delle Williams sconfitte in un match amichevole per far vacillare la “dittatura democratica” (Nda: questa invece potrebbe andar bene per i gilet arancioni) degli incubi di Clerici: “Come antifrasi non è male eh? – gongola l’autore – Sono due antitesi che contengono tutto”. Non comprendo dove sta l’ironia proverbiale. Ma si sa, le femmine sono stupide e le femministe sono prive di senso dell’umorismo eccetera eccetera eccetera, per cui è un problema mio e chiunque altro, purché dotato di scroto, sta probabilmente ghignando con aria saputa alle mie spalle. Perché poi basterà un uomo, “un padre”, per “sconvolgere il bucolico tran tran del mondo di “2084”.” Come? Clerici spiega: “La storia è quella della figlia di una pittrice che rimane incinta di un pittore di nome Vijay, nome molto comune in India, c’è stato anche un famoso tennista, Vijay Amritraj. Vuol dire vittoria’.”

Il metro di misura è quello. La vittoria. La vita è una guerra e bisogna vincere. Non importa in che modi, non importa quante vittime accidentali o volute ti lasci alle spalle, non importa cosa distruggi irreparabilmente nel processo. E’ il meccanismo alternativo alla “dittatura” dell’avere donne in posti di responsabilità, quello consueto e attuale: la sfida fra uomini. Be’, che se lo tenga Gianni Clerici. Io lavoro e scrivo con lo scopo di vivere in un mondo migliore di questo.

Il recensore, affinché noi non si abbia dubbi sulla statura dell’opera, ci rende noto che “nel pantheon letterario di Clerici ci sono Jack London, Ernest Hemingway, Andé Malraux, Graham Green, Joseph Conrad, James Joyce (…) Tra gli anglosassoni, Henry James, George Eliot, PG Wodehouse, Evelin Waugh (sic: si tratta in realtà di Evelyn Waugh – e nonostante il nome era un uomo)”: a quest’ultimo l’autore ci informa di essere stato persino paragonato. E qui c’è un ulteriore nodo da sciogliere, perché io ho letto tutto il suo pantheon e il mio è più grande di una scala cosmica (in senso metaforico e letterale), ma nessuno mi ha ancora paragonata alla regina Jindeok di Shilla per il mio interesse relativo a culture straniere e politica estera, a Aphra Behn per i miei scritti di teatro, a Hedvig Apollonia Löfwenskiöld per le mie (rare) poesie, a Florynce Kennedy per i testi relativi al femminismo e all’attivismo in genere, a Sofia Hagen per la satira e a Joan Slonczewski per la fantascienza. Purtroppo non sono nemmeno abbastanza cretina da augurarmelo o da crederci nel caso accada. Ho una consolazione, però: so di scrivere meglio di Clerici e del suo recensore. Maria G. Di Rienzo

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“Sono ancora viva perché qualsiasi cosa mi voglia morta non sa: che non puoi uccidere qualcuna che non ha più paura.”

Terisa Siagatonu

Terisa Siagatonu (in immagine), poeta, attivista e organizzatrice per il cambiamento sociale contemporanea; samoana per nascita e queer per autodefinizione.

La sua citazione spiega perché oggi compio di nuovo gli anni. Non era scontato, my friends. E poi, lo sapevate che condivido il compleanno con Filippa di Lancaster, Claudia de’ Medici, Alla Nazimova e Judith Malina? C’è da meditare, ne convengo. 😉

Maria G. Di Rienzo

TaraOBrien Bust Final

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“Se sei venuto qui per aiutarmi, stai perdendo il tuo tempo.

Ma se sei venuto perché la tua liberazione è legata alla mia, allora lavoriamo insieme.”

lilla watson

Lilla Watson, artista, attivista, femminista, accademica Murri (aborigena australiana) nata nel 1940. Sebbene la frase sia stata da lei pronunciata durante la Conferenza delle Nazioni Unite sulle Donne di Nairobi, nel 1985, Lilla preferisce ne sia data un’origine collettiva, che rimanda ai “gruppi di attivisti aborigeni durante gli anni ’70”.

Nothing about us

“Niente su di noi, senza di noi, è per noi”

Maria G. Di Rienzo

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carla

“Una memoria ha molte altre memorie, attaccate al tronco di un albero come rami scomposti ma pure armoniosi.”

Carla Capponi, 1918-2000, dalla prefazione al suo libro “Con cuore di donna”: partigiana, vice comandante del Gruppo d’Azione Patriottica centrale, Medaglia d’oro al valor militare, due volte eletta al Parlamento nelle liste del PCI, membro del Comitato di presidenza dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI) sino alla sua scomparsa.

libro capponi

La memoria è necessaria alla vita come il respiro. Maria G. Di Rienzo

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(“How to make yourself small or how to be black and survive” di Porsha Olayiwola, in immagine, trad. Maria G. Di Rienzo. Olayiwola è scrittrice, poeta, educatrice, futurista, femminista, lesbica, storica della “diaspora nera”, direttrice artistica… La lista sarebbe ancora più lunga, ma c’è una frase che può fungere da riassunto: questa giovane donna è un genio. Vederla su un palcoscenico, che stia recitando le sue poesie o mettendo in scena una performance teatrale, è illuminante e catartico.)

porsha

Come rimpicciolire te stessa o come essere nera e sopravvivere

Accovacciati giù

in basso

non stendere le tue membra per tutta la loro lunghezza

Fletti le ginocchia

lascia che le tue ossa si ripieghino o

si rompano

Avvizzisci

Lascia che la tua pelle ti abbracci

come una bara, tienila vicina

La tua lingua è fragorosa

per diluire il ruggito, dirotta i tuoi occhi

osserva solo il manto stradale

Così un’ombra massiccia spalanca per noi

una tomba

Vedi solo le formiche

minuscoli esseri di melanina

scorrazzarne via

indenni

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betty

“La paura è contagiosa, ma così lo è il coraggio.” E’ una delle frasi più celebri di Betty Williams, Premio Nobel per la Pace nel 1976 assieme a Mairead Maguire per lo straordinario lavoro delle due in contrasto alla violenza in Irlanda del Nord, il quale in una prima clamorosa mossa portò a marciare insieme decine – e poi centinaia – di migliaia di donne protestanti e cattoliche. Betty è morta a Belfast, all’età di 76 anni, il 18 marzo scorso.

Di ciò che Betty ha continuato a creare per la pace, nei trent’anni successivi al Nobel, restano “Peace People”, un’organizzazione dedicata alla diffusione della nonviolenza, i “World Centers of Compassion for Children International” (centri per la protezione dei diritti dei bambini fondati nel 1997 con il Dalai Lama) e le innumerevoli iniziative che ha portato avanti in tutto il mondo, Italia compresa.

Sulla sua storia, che comincia come testimone della morte di tre bambini (Mairead Maguire era la loro zia), esiste un bel documentario del 2018: “Betty Williams: Contagious Courage”. E’ il racconto della “rivoluzione quieta” con cui due donne comuni scossero il loro paese e il mondo intero.

Saluto Betty Williams in ritardo, ma con profondo rispetto e infinita gratitudine: ci ha mostrato, una volta di più, che ognuna/o di noi può fare la differenza.

Maria G. Di Rienzo

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