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“Il dominio e lo sfruttamento del patriarcato e del capitalismo predatorio hanno permeato ogni aspetto della nostra società per troppo tempo. Noi tutte/i sappiamo di averne avuto abbastanza. Siamo solo insicure/i rispetto al sentiero che abbiamo di fronte e i modelli a cui far riferimento scarseggiano.

Lo sradicamento di questa oppressione richiede il ripensamento sulla maggior parte delle cose che sono diventate “normali” per noi anche se ciò è doloroso o disagevole. Se vogliamo un mondo migliore, dobbiamo disegnare la via che ci condurrà là. Possiamo imparare da ciò che ha funzionato in passato e rivolgere il nostro cuore alla saggezza e all’intuizione, agli ideali di cooperazione, inclusione, compassione e negoziazione per nutrire interconnessioni sane.

Dobbiamo rigettare il dominio e lo sfruttamento e la superficialità del consumismo. Lavoriamo insieme per trasformare noi stesse/i e il nostro mondo in un più sostenibile futuro di prosperità, pace, eguaglianza e gioia.”

Karen Tate, scrittrice, conferenziera, trainer, attivista per la giustizia sociale, giornalista radiofonica (trad. Maria G. Di Rienzo). Karen è una delle figure più influenti del movimento che si rifà alla “spiritualità della dea”: ha pubblicato sei libri al proposito (in immagine sotto la copertina di uno di essi).

karen book

 

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betty

“La paura è contagiosa, ma così lo è il coraggio.” E’ una delle frasi più celebri di Betty Williams, Premio Nobel per la Pace nel 1976 assieme a Mairead Maguire per lo straordinario lavoro delle due in contrasto alla violenza in Irlanda del Nord, il quale in una prima clamorosa mossa portò a marciare insieme decine – e poi centinaia – di migliaia di donne protestanti e cattoliche. Betty è morta a Belfast, all’età di 76 anni, il 18 marzo scorso.

Di ciò che Betty ha continuato a creare per la pace, nei trent’anni successivi al Nobel, restano “Peace People”, un’organizzazione dedicata alla diffusione della nonviolenza, i “World Centers of Compassion for Children International” (centri per la protezione dei diritti dei bambini fondati nel 1997 con il Dalai Lama) e le innumerevoli iniziative che ha portato avanti in tutto il mondo, Italia compresa.

Sulla sua storia, che comincia come testimone della morte di tre bambini (Mairead Maguire era la loro zia), esiste un bel documentario del 2018: “Betty Williams: Contagious Courage”. E’ il racconto della “rivoluzione quieta” con cui due donne comuni scossero il loro paese e il mondo intero.

Saluto Betty Williams in ritardo, ma con profondo rispetto e infinita gratitudine: ci ha mostrato, una volta di più, che ognuna/o di noi può fare la differenza.

Maria G. Di Rienzo

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(“Mother says there are locked rooms inside all women”, poesia e prosa di Nebila Abdulmelik – in immagine – trad. Maria G. Di Rienzo. Nebila, etiope, si definisce una “cantastorie femminista che usa creatività e arte per parlare di pace, affrontare diseguaglianza e oppressione, archiviare le storie del vivere quotidiano a beneficio delle generazioni a venire”. Oltre a essere scrittrice, poeta, editrice e fotografa, Nebila è assai nota ed efficace come attivista: solo per fare un esempio, la sua campagna #JusticeForLiz, relativa all’ottenere giustizia per una donna vittima di stupro, raggiunse quasi 2 milioni di firme.)

nebila

Ero solita pensare fosse l’oscurità

a darti gli incubi

Solo ora arrivo a capire

come le luci che inondano la tua esistenza

sembrino perseguitarti

Non appena arrivano

tu cerchi i punti che la luce non raggiunge

per poterci strisciare dentro, coperta dal calore e dal rifugio del buio

Nel mentre quasi tutti bramano movimento e suono,

tu sei saziata dal vuoto e dalla pienezza dei silenzi

Da sola, negozi fra le differenti donne che ti compongono

Indisturbata,

filtri l’orchestra di pensieri

in mutevoli ottave

permettendo a ciascuna di esse di cantare la propria canzone

*****

Mia madre dice che ci sono stanze chiuse all’interno di tutte le donne. Che le donne diverse che le abitano sono le sole a poter schiudere quelle porte. Tu devi essere paziente. Devi sederti con ognuna di esse, una alla volta. Parlare le loro lingue. Ascoltare le loro storie. Intrecciare i loro capelli. Percepire il loro tipo di pelle – ruvida, liscia, grezza. Fasciare le loro ferite. Ridere con loro. Capire le loro lacrime. Massaggiare i loro piedi. Conversare con loro. Dar loro riconoscimento. Essere presente per le loro paure. Essere presente per loro. Stare con loro.

Mia madre dice che alcune le evochi tu e altre evocano te. Che una porta con sé la propria rabbia, un’altra il delirio. Che non devi mai ignorare la più silenziosa, quella che non bussa mai. Lei è la più potente. Devi cercarla, persuaderla a uscire dalla stanza con gentilezza.

Mia madre dice che non devi pensare a come soddisfare quella che bussa sino a che le sanguinano le nocche e le mani le dolgono. Lei non è una di cui dovresti preoccuparti perché indossa tutte le proprie emozioni e tu saprai subito se ci sono guai in arrivo.

Una ha buttato giù la porta l’altro giorno – mamma dice che è perché era soffocata dalla propria angoscia – e si è succhiata via tutta l’aria nella stanza, lasciandola annaspare in cerca d’aria che non poteva fabbricare. Lei è quella a cui non sottoponi problemi. Lei li nutrirà sino a farli crescere come erbacce, senza lasciare spazio alcuno alla bellezza. O al respiro.

Ognuna ha il suo posto e il suo scopo. Tutte creano te. Senza di esse, saresti vuota. Un guscio. Loro ti danno colore, carattere, stile. Persino quella furibonda ti dà acume. Lascia che siano.

Mia madre dice che è solo quando ti danno le chiavi, solo allora sarai in grado di aprire tutte le porte e fare pace, di riunirle insieme così che possano cantare i loro sogni e narrare i loro ricordi l’una all’altra. E a te.

Solo allora, quando le loro sofferenze saranno intessute nelle storie che raccontano, i sogni che osano e i segreti che sussurrano saranno liberati e libereranno il tuo respiro.

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E’ uscito il mese scorso il rapporto “Peoples under Threat 2019: The role of social media in exacerbating violence” – “Popoli minacciati 2019: il ruolo dei social media nell’esacerbare la violenza”, a cura di due organizzazioni pro diritti umani britanniche: Ceasefire – Centre for Civilian Rights e Minority Rights Group International.

report 2019

https://reliefweb.int/sites/reliefweb.int/files/resources/PUT-2019-Briefing-with-spread.pdf

Di seguito, un brano tratto dalla presentazione del lavoro (trad. Maria G. Di Rienzo).

“In molte parti del mondo, atrocità a vasto spettro e altri abusi dei diritti umani continuano a minacciare le popolazioni, in special modo quelle che appartengono a gruppi minoritari e genti indigene. Mentre il raggio dei social media si espande sempre più dilagando globalmente, così fa il suo impatto in contesti ove genocidio, omicidi di massa o violenta repressione sistemica accadono o sono a rischio di accadere.

La situazione delle nazioni in cima all’indice di “Peoples under Threat 2019” illustra come, caso per caso, i social media giochino un ruolo importante nell’incoraggiare l’assassinio. Le piattaforme social ora occupano un posto centrale nel stigmatizzare i gruppi indicati come bersaglio, nel legittimare la violenza e nel reclutare gli assassini.

La disinformazione deliberata, false accuse e disumanizzazione dei gruppi presi di mira comprese, è stata nei secoli una caratteristica durevole del conflitto. Ma nell’era dei social media, il processo è accelerato a un livello senza precedenti.

Il facile accesso ai social media ha dato a ogni razzista violento una potenziale piattaforma pubblica, e l’anonimato dei social media ha dato agli Stati la capacità di incubare e incitare odio attraverso i confini. Narrative di conflitto, teorie di cospirazione e visioni estremiste trovano velocemente una casa sulle piattaforme dove ogni voce compete per avere attenzione e le voci moderate e il linguaggio misurato necessari per la costruzione di pace sono sovrastate.

Leader politici, gruppi ribelli, attivisti e comuni cittadini hanno tutti usato i social media come attrezzo comunicativo. Persino nelle società più fragili e divise ove l’accesso a internet resta minimo, come il Sudan del Sud, il ruolo dei social media sta crescendo, mentre gli scenari mediatici tradizionali si trasformano rapidamente. Il devastante conflitto in Siria, d’altra parte, in cui le piattaforme social sono usate da tutte le parti in causa e video caricati su YouTube hanno ricevuto milioni di visualizzazioni, è stato ripetutamente descritto come “guerra di social media”.

I social media promettono di influenzare sempre di più come il conflitto e gli episodi di violenza sono percepiti, le loro traiettorie e i modi in cui si risponde a essi. Nessuna società divisa o contesto di conflitto può essere compreso senza considerare come i social media sono usati da una gamma di attori statali e non statali. In effetti, i critici hanno accusato le ditte proprietarie dei social media di accettare scarsa responsabilità quando l’uso delle loro tecnologie serve a fomentare divisione e violenza in società instabili o interessate da conflitti.

Molti indicano il Myanmar – dove le Nazioni Unite hanno chiesto alle autorità di rispondere alle accuse di genocidio – come l’esempio più crudo del collegamento fra i social media e il commettere atrocità. Là il linguaggio disumanizzante e l’aperto incitamento all’omicidio di massa furono amplificati via Facebook e Twitter, contribuendo alla vasta presa di mira della comunità musulmana Rohingya. Nello scorso novembre. Facebook rilasciò un rapporto che aveva commissionato in relazione all’uccisione dei Rohingya, il quale concludeva che “Facebook è diventato un attrezzo per coloro che cercano di diffondere odio e causare danni.” Ma mentre la compagnia riconosceva che “possiamo e dovremmo fare di più”, Facebook e altre corporazioni proprietarie di social media continuano a fare affidamento sull’auto-regolamentazione, basandosi quasi del tutto sulla moderazione in linea con “gli standard comunitari” – un approccio che si è dimostrato miseramente inefficace quando ha dovuto confrontarsi con campagne organizzate, e a volte sancite ufficialmente, di odio violento.

“Peoples under Threat” attira la dovuta attenzione su numerosi altri casi in cui, nel contesto di spaccature sociali, instabilità politica e insicurezza, i social media rischiano di esacerbare o di pavimentare la via a violenta repressione sistemica e omicidi di massa. In molti dei paesi ove il rischio di atrocità di massa è più pronunciato, la gioventù che ci fare con internet supera il resto della popolazione. Dove infuriano mortali conflitti armati, dalla Libia all’Afghanistan, i combattenti spesso hanno un fucile in una mano e un cellulare nell’altra: gli obiettivi fotografici di quest’ultimo sono trasformati in armi nella guerra di propaganda che unisce i campi di battaglia e il cyberspazio.

(…)

Ma i social media possono anche giocare un ruolo positivo. Nel far circolare informazioni di valore, possono fornire un servizio pubblico. Molte piattaforme sorvegliano i movimenti di eserciti e insorgenti, come il gruppo FB libanese “Sentiero Sicuro” che indirizza chi lo usa a evitare determinate strade su cui si danno combattimenti. In questo stesso modo i civili possono essere guidati verso località in cui ricevere aiuto umanitario.

Il dialogo che oltrepassa le divisioni sociali può essere facilitato dai social media, che possono spostare attitudini, promuovere la comprensione fra gruppi che non hanno altro modo di comunicare, effettuare un’operazione di ingegneria inversa sulle condizioni di ostilità e violenza.

Fornendo l’opportunità a basso costo per l’acquisizione, la confezione e la circolazione delle informazioni, i social media sono cruciali per portare e condividere testimonianza, per dare documentazione delle violazioni delle leggi umanitarie internazionali e diffondere ampiamente contenuti che incitano all’azione gruppi per i diritti umani e organizzazioni internazionali. I social media possono giocare un ruolo nel mettere fine alla passività e all’impunità, assicurando responsabilità e riparazione per le violazioni. (…)

Il sostegno di lunga data alla libertà di espressione è stato sovvertito in un’estesa accettazione sociale delle espressioni dell’estremismo violento. I governi si sono dimostrati universalmente non all’altezza dei loro obblighi di proteggere non solo la libertà di espressione ma anche di proibire ogni “patrocinio dell’odio nazionale, razziale o religioso che costituisca incitamento alla discriminazione, all’ostilità o alla violenza”, come richiesto dalla Convenzione Internazionale sui Diritti Civili e Politici (Articolo 20(2)).”

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birthday of the world

“Al compleanno del mondo

comincio a considerare

ciò che ho fatto e lasciato

da fare, ma quest’anno

non molta ricostruzione

della mia perennemente danneggiata

psiche, il puntellare amicizie

consumate, lo smaltimento

di monconi di vecchi risentimenti

che rifiutano di marcire per conto proprio.

No, quest’anno voglio chiamare

me stessa alla sfida su quanto

ho fatto e non ho fatto

per la pace. Quanto ho

osato nell’oppormi?

Quanto ho rischiato

per la libertà?

Per la mia e quella altrui?

Mentre queste libertà sono sbucciate,

affettate e fatte a dadini, dove

ho parlato apertamente? Chi

ho tentato di convincere? In

questa sacra stagione, io dichiaro

me stessa colpevole di ignavia

in un periodo in cui le bugie strozzano

la mente e la retorica

piega la ragione in striscianti

pitoni strangolatori. Qui

io mi ergo davanti ai cancelli

che si stanno aprendo, con il fuoco che abbaglia

i miei occhi, e mentre avvicino

ciò che mi giudica, giudico

me stessa. Datemi armi

di distruzione minima. Fate che

le mie parole si mutino in scintille.”

(Marge Piercy, “The Birthday of the World”, tratto da The Crooked Inheritance, 2006. https://margepiercy.com/ Trad. Maria G. Di Rienzo)

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(“Meet Suhad Babaa, Israel/Palestine”, Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

suhad

Suhad Babaa è la direttrice esecutiva di “Just Vision” – “Solo Visione”, un’organizzazione che usa il mezzo del documentario per riformare le narrazioni sull’occupazione israeliana della Palestina e sostenere il lavoro della società civile palestinese e israeliana. Recentemente, Suhad è stata la produttrice del film di Just Vision del 2017 “Naila and the Uprising” (“Naila e la Sollevazione”), che segue la vita e il lavoro di Naila Ayesh e altre donne leader della Prima Intifada.

Come hai sviluppato interesse nel costruire pace in Palestina e Israele?

Io dico sempre che la mia storia mi precede: mio padre è palestinese, mia madre è coreana, e entrambi sono cresciuti nel mezzo di guerra, conflitto e dopoguerra. Crescendo in California, in una casa dove convivevano fedi diverse, ho sempre faticato un po’ con le questioni relative all’identità e con l’impatto di guerra e conflitto sulla nostra famiglia, all’interno di uno scenario fatto di razza, etnia e religione.

Dopo l’11 settembre, ho osservato il governo statunitense cominciare a lanciare la sorveglianza sulle comunità musulmane in tutto il paese. E’ stato allora che mi sono posta domande sul modo in cui ciò che stava accadendo nel Medioriente aveva un impatto sulle nostre stesse pratiche e ancor di più sulle storie che stavamo ricevendo e che influenzavano il modo in cui l’opinione pubblica e il governo avrebbero agito.

Ho finito per trasferirmi in Israele e Palestina dopo l’università e ho lavorato sul campo con incredibili attivisti. Ma le loro voci negli Usa non si sentivano, ne’ erano amplificate localmente. Volevo davvero sostenere il loro lavoro, perciò è stato logico che io sia arrivata a Just Vision, ove il nostro mandato è amplificare le voci dei leader della società civile palestinese e israeliana.

Puoi parlarci del movimento per la pace in Palestina e Israele e del ruolo che in esso hanno le donne?

C’è una lunga eredità di resistenza nonviolenta in Palestina, inclusa la mobilitazione di massa della Prima Intifada – la prima sollevazione che accadde alla fine degli anni ’80. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il nostro film documentario più recente sull’istanza, “Naila e la Sollevazione”, ci siamo imbattuti in qualcosa di importante.

Mentre andavamo in profondità, abbiamo capito che parte del motivo per cui il movimento aveva avuto tanto successo era che le donne giocavano un ruolo determinante nel processo decisionale. Sapevamo che la Prima Intifada era stata così efficace, in parte, perché era stata in grado di organizzarsi trasversalmente a genere, classe, partiti politici ed età in Israele e in Palestina. Ma non sapevamo che non solo le donne erano le partecipanti: erano in effetti quelle che chiamavano all’azione.

Le donne sono sempre state in prima linea in Palestina, che si trattasse della Prima Intifada o di Budrus, dove c’era una grande rappresentanza di donne. E perciò la questione per noi, come organizzazione, era assicurarci che fossero visibili. Perché noi crediamo che la loro visibilità conduca alla legittimazione il che nel tempo, alla fine, conduce all’aumento dei loro ruoli guida.

Perché è importante per le donne essere narratrici?

Io penso che sia sempre importante che le comunità possano raccontare le proprie storie. Just Vision è una squadra guidata da donne, sia per intenzione sia per caso. Ma mette in moto le nostre capacità di dar copertura a storie come quella che abbiamo narrato nel documentario “Budrus” e di capire il ruolo che le donne hanno svolto nella città di Budrus. Le donne sono spesso al timone dei movimenti storici, pure restano invisibili nei libri di Storia. E questo ha profonde conseguenze su come vediamo e comprendiamo la Storia, il nostro presente, il nostro futuro e chi sono i nostri leader.

In che modo aumentate la copertura giornalistica e il sostegno ai movimenti per la pace della società civile in Palestina e Israele?

C’è un bel po’ di copertura giornalistica su Israele e Palestina, ma sovente queste storie rinforzano una narrativa di violenza o di sforzi falliti dall’alto in basso. Ciò rende invisibili o criminalizza gli attivisti sul campo e la questione sembra quindi intrattabile. Semplicemente, non è vero. Quando esaminiamo la diseguaglianza, alcune delle oppressioni più profondamente radicate, sappiamo che quel che ci vuole è il potere popolare: comunità galvanizzate per far pressione sui loro leader politici che o non hanno agito o hanno fatto sistematicamente le cose sbagliate. Questo è anche il caso di Israele e Palestina.

Il lavoro di Just Vision consiste nell’essere complementare alla copertura dei media mainstream e nello sfidarla, presentando storie che sono poco documentate, critiche e che, allo stesso tempo, hanno il potere di ispirare, mobilitare e motivare le persone.

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Pace

Lisa

(“Peace”, di Lisa Suhair Majaj (nata nel 1960, in immagine). Lisa è una poeta e scrittrice palestinese-americana. E’ cresciuta in Giordania e vive a Cipro. “In tempi difficili, – sostiene – poeti e scrittori hanno sempre fornito salvagenti.”)

PACE

La pace sono due bambini (1) che camminano l’uno verso l’altro da

differenti lati di una barricata. Alle loro spalle ci sono le baracche

di latta dove vivono con i loro genitori nella rabbia e nella

disperazione e nella perdita. Alla barricata solennemente

si mostrano l’un l’altro cos’hanno portato. Un bambino ha una

vanga, l’altro bambino ha un annaffiatoio. Ognuno di loro ha un seme.

Scavano la terra, piantano i semi, spruzzano acqua

con attenzione, poi vanno a casa. Ogni giorno si incontrano di nuovo alla

barricata per vedere se i semi sono cresciuti. Quando i primi

minuscoli germogli emergono loro battono le mani gioiosamente attraverso il

recinto. Quando un bocciolo spunta ridono forte. Quando un

fiore si apre alla luce, petali vellutati come il calore del sole, loro vanno

a casa canticchiando una canzone sul fiore, ognuno nella sua propria

lingua.

kids and flower

(1) “children” può qui indicare indifferentemente due femmine, due maschi, una femmina e un maschio.

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rasha

(“Meet Rasha Jarhum, Yemen” – Women Nobel’s Initiative, maggio 2018 – trad. Maria G. Di Rienzo. L’attivista yemenita per i diritti umani Rasha Jarhum, in immagine, vive attualmente a Ginevra. E’ la fondatrice di Peace Track Initiative – https://peacetrack.wordpress.com/

che intende creare spazi nei processi di pace per il contributo delle organizzazioni di donne, di giovani e della società civile.)

Tua madre, Hooria Mashhour, è un’attivista di lungo corso; dopo la sollevazione del 2011 in Yemen divenne la prima Ministra per i Diritti Umani del paese. E’ giusto dire che sei cresciuta in mezzo alla lotta?

Mia madre era una fiera sostenitrice dei diritti delle donne. Lavorò nel Comitato nazionale delle donne per almeno un decennio, e dopo la sollevazione fu la prima funzionaria di governo a dare le dimissioni come atto di protesta per il feroce uso della forza contro manifestanti pacifici. Più tardi, fu selezionata come portavoce del consiglio delle forze rivoluzionarie: per la prima volta nella storia yemenita una donna parlava a nome di un movimento politico. Io sono stata privilegiata ad averla come guida. Sin da quando ero bambina l’ho seguita in seminari e campagne – lei è la ragione per cui sono diventata un’attivista. Abbiamo i nostri disaccordi politici, e apprezzo il fatto che non tenta mai di far pressione su di me affinché io cambi le mie posizioni.

Da tua madre hai anche imparato che l’attivismo può costare caro.

Questa è una cosa che la mia intera famiglia capisce. Il padre di mio marito, che fu il primo a denunciare l’ex presidente yemenita Ali Abdullah Saleh per appropriazione indebita di denaro statale, è stato assassinato. Durante la guerra in corso, che è cominciata nel 2014, abbiamo perso familiari e beni e siamo stati minacciati e pedinati. Il nome di mia madre è stato messo nella lista degli “infedeli ricercati” e uomini armati sono penetrati nel suo ufficio. A questo punto è partita per cercare asilo politico in Germania.

Perché anche tu hai lasciato lo Yemen?

Dopo il 2011, quando il presidente Saleh si dimise, credevo che saremmo stati in grado di costruire uno stato civile e moderno in Yemen. Per conto delle Nazioni Unite lavoravo in un programma per motivare le persone, incluse le donne, affinché andassero a votare. Volevo che gli yemeniti gustassero il futuro della democrazia.

Ma avevo già attraversato due devastanti guerre precedenti, nel 1986 nello Yemen del sud e quella del 1994 fra nord e sud, e avevo due figli piccoli. Durante la sollevazione fummo testimoni del conflitto armato a Sana’a e nel timore, per i nostri bambini, che il conflitto crescesse, mio marito e io cominciammo a cercare opportunità fuori dal paese. Nel 2012, lui ebbe un’offerta di lavoro in Libano e andammo a stare a Beirut per cinque anni. Da là ho continuato a sostenere le organizzazioni della società civile e ho lavorato con Oxfam al programma “Crisi dei rifugiati siriani e giustizia di genere”. Quando cominciò la guerra nel 2014, in Yemen, sapevo che sarebbe stata lunga e orribile.

Qual è lo scopo della Peace Track Initiative (Iniziativa Traccia di Pace)?

L’Iniziativa lavora per localizzare processi di pace e assicurare ad essi inclusività, con la sottesa premessa che quelli direttamente toccati dalla guerra sono quelli con la posta in gioco più alta nella costruzione di pace. Si compone di due gruppi: uno si concentra sullo Yemen e l’altro sull’intero medioriente e la regione nordafricana. Per lo Yemen, sostengo le organizzazioni guidate da donne a livello comunitario e i gruppi di donne nelle attività di costruzione di pace. Troppe di queste donne sono invisibili al mondo.

Cosa stanno facendo le donne locali per promuovere la pace in Yemen? Perché la comunità internazionale non sa di loro?

Storicamente parlando, la situazione per le donne in Yemen era pessima. Le donne non avevano libertà decisionale di lavorare, viaggiare, sposarsi. Norme legislative, istituzionali e sociali hanno tutte ostacolato le donne. Ma le donne hanno guidato la rivoluzione nel 2011 e oggi le donne yemenite sono di nuovo in prima linea. Nelle aree assediate, le donne camminano per chilometri per portare beni di primo soccorso alle loro famiglie, mettono in moto convogli di rifornimenti, portano di nascosto medicine negli ospedali.

Le stime dicono che un terzo dei combattenti in Yemen sono bambini e le donne stanno affrontando la questione del reclutamento di minori. Le donne sono impegnate su questioni complicate come il rilascio dei detenuti, il contrasto al terrorismo tramite lavoro di coesione sociale e la de-radicalizzazione della gioventù. Le donne stanno lavorando per rivitalizzare l’economia tramite collettivi di risparmio, agricoltura e imprese sociali.

Quando le donne sono coinvolte nei processi di pace, noi ci concentriamo sulla condivisione di responsabilità anziché sulla condivisione del potere. La partecipazione delle donne al dialogo nazionale nel 2011 condusse alla creazione di una delle più forti piattaforme di diritti e libertà in tutta la storia yemenita. Ma le agenzie umanitarie che lavorano in Yemen ritraggono le donne solo come vittime passive. Le storie della loro resilienza e della loro leadership non arrivano alle notizie. Parte del problema può essere che diverse donne locali lavorano come individui o in coalizioni che non hanno una registrazione formale, e perciò sono private delle opportunità di finanziamento. Inoltre, molte donne yemenite non parlano inglese.

Il 4 dicembre del 2017 l’ex presidente Saleh è stato ucciso e la situazione in Yemen sembra essere peggiorata.

Per anni, lo Yemen è stato il peggior paese in cui le donne potessero vivere. Con questa guerra, la nostra crisi umanitaria è aumentata. Ora noi abbiamo un milione di donne incinte a rischio di denutrizione e circa due milioni di donne e bambine a rischio di violenza di genere, stupro incluso.

Ma quando tocchi il fondo c’è un solo modo di muoversi: verso l’alto. Io credo che una pace reale, sostenibile e inclusiva possa essere raggiunta in Yemen. E penso che la soluzione stia davvero nelle mani delle donne.

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(“Thanks to My Mother, I Am an Advocate for Peace”, di Ngwa Damaris Ngum per World Pulse, 27 novembre 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice – in immagine – è un’attivista del “Movimento globale delle donne per la pace”.)

Ngwa Damaris Ngum

Ero tutt’uno con il mondo sino a che la razza mi ha separata dal resto del mondo.

Le razze si manifestano dalla necessità della natura di esprimere l’esistenza umana in diversi gruppi, rendendo la vita più colorata e più bella. Solo perché io sono nera, tu sei bianca e lei è gialla, ciò non ci rende differenti.

Ero tutt’uno con il mondo sino a che i confini non mi hanno separata dal resto del mondo.

I confini sono linee artificiali che definiscono aree geografiche. I confini furono creati come mezzi per gestire più facilmente gruppi sociali, ma sono ora divenuti una fonte di conflitto anziché un metodo per preservare ordine e pace. I paesi si combattono perché sentono di essere differenti. Che io venga dall’Africa e tu dall’Europa, dall’Asia o dall’America non mi rende differente da me.

Ero tutt’uno con il mondo sino a che la religione mi ha separata dal resto del mondo.

La religione è un sistema particolare di fede, credenze e culto. I gruppi religiosi lottano l’uno contro l’altro e i leader religiosi fanno molto poco per portare pace. La religione, che si suppone essere la più amabile e armoniosa delle piattaforme, è ora divenuta una dei maggiori perpetratori di odio e conflitto. Che io sia cristiana e tu musulmana, induista, buddista, non mi rende differente da te.

Ero tutt’uno con il mondo sino a che la lingua mi ha separata dal resto del mondo.

Le lingue sono semplicemente sistemi di comunicazione. Non sono intese a separarci. Che io parli inglese e tu francese, tedesco o cinese non mi rende differente da te.

Ero tutt’uno con il mondo sino a che la ricchezza mi ha separata dal resto del mondo.

La ricchezza è abbondanza di possedimenti materiali o danaro. Io non dovrei essere trattata malamente perché sono povera e tu gentilmente perché sei ricca. Che io abbia mille franchi e tu ne abbia un milione non mi rende differente da te.

Ero tutt’uno con il mondo sino a che l‘istruzione mi ha separata dal resto del mondo.

L’istruzione è intesa come mezzo che ci rende possibile sviluppare e chiamare a raccolta le nostre forze individuali e collettive; non dovrebbe essere un mezzo di divisione e ostilità. Che io abbia una laurea di primo livello e tu un dottorato di ricerca non ci rende differenti.

Questa è la mia filosofia di pace.

So di essere eguale a ogni altra persona da quando sono nata, ma poi la società mi ha fatto sapere che sono nera e perciò dovrei disprezzare i bianchi. Sono cristiana e dovrei deprecare i non cristiani. Sono africana, sono una femmina, sono…

Per lungo tempo, mi sono sentita inferiore agli altri e perciò ho odiato coloro che erano diversi da me. Ho costruito ideologie su divisione e odio. Ma poi mia madre ha infuso in me i valori dell’eguaglianza, dell’amore, della pace e dell’unità.

A causa del potere di una singola donna, io mi ergo oggi nel mio piccolo angolo di Terra come avvocata della pace. Io sono la conferma di come la voce di una donna possa cambiare una persona.

Mia madre mi ha insegnato che nessun essere umano è diverso o migliore di un altro essere umano sulla Terra. Mi ha insegnato che per avere la pace, io devo provare amore e compassione per me stessa e per chiunque abbia attorno.

Mi ha insegnato a non permettere a nessuno di farmi sentire una nullità. Mi ha insegnato a rispettare ogni essere umano, a fronteggiare i bulli e a sollevare chi la società ha abbattuto.

Oggi, io ringrazio mia madre e chiedo a ogni donna di cantare la sua canzone di pace ai propri figli. Poiché siamo donne, ci viene detto di restare zitte. Alziamo invece le nostre voci insieme, per creare la futura generazione di custodi della pace. Il tempo che passiamo sulla Terra è breve e il nostro compito è aiutare la prossima generazione a vivere in un mondo pacifico e unito.

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(tratto da: Children of Peace: Stories and Dreams of Conflict-displaced Children, di Krizia Kaye Viray e Julie Christine Batula (immagini) – Un Migration Agency, 30 novembre 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

le gemelle

E’ come vedere doppio. Dagli occhi espressivi alla straordinaria carnagione dorata, sino ai più minuscoli manierismi e gesti, è difficile discernere chi è chi fra le due ragazze. Il modo più facile di distinguere le gemelle Sampang è che Farhiya indossa un ‘turung’ (hijab o fazzoletto da testa) e Ferwina no: “Può diventare davvero bollente e mi fa venire mal di testa.”, spiega quest’ultima.

Nonostante siano gemelle identiche, le ragazze sono l’una l’opposto dell’altra in diverse maniere. A Farhiya piacciono le lezioni d’inglese, Ferwina preferisce la matematica e vi eccelle. Nel tempo libero, a Farhiya piace cantare mentre ascolta i suoi artisti locali preferiti, mentre Ferwina preferisce disegnare.

Ma quando chiedi loro come immaginano il loro futuro le gemelle rispondono all’unisono – come se le parole provenissero da una sola persona. E’ un responso istantaneo, fermo e forte: “Sogniamo la pace.” Entrambe vogliono diventare mediche.

Il 9 settembre 2013 un gruppo armato attaccò la città di Zamboanga sull’isola di Mindanao, nelle Filippine. Il conflitto fra le forze governative e il gruppo armato durò più di tre settimane. L’assedio alla città fece di 100.000 suoi residenti degli sfollati, creando una crisi umanitaria che ha preso anni per essere risolta.

Il conflitto ha reso i bambini / le bambine particolarmente vulnerabili. Persino nei casi in cui erano stati in grado di fuggire e di trovare luoghi sicuri, un futuro sconfortante era davanti a loro, in special modo se non ottenevano sufficiente sostegno, inclusa la possibilità di tornare a scuola.

Da un’evacuazione all’altra le famiglie sfollate sono state trasferite a Masepla, dove è stato creato uno spazio di apprendimento per i bambini e dove le gemelle si trovano.

“Non è stato facile. – dice la preside della Masepla Composite Learning School, Cristina Santos – Prima di tornare a leggere libri, recitare alfabeti e cantare filastrocche abbiamo dovuto lavorare sull’attitudine dei piccoli e sul loro atteggiamento verso la vita. La violenza li aveva portati qui e noi abbiamo voluto assicurarci che non fosse la violenza a definirli.”

Gli alunni di questa scuola salutano con radianti sorrisi e non sono diversi dagli altri scolari che conoscete. Sono energici, curiosi, spensierati. E un’altra cosa è evidente. I sogni non svaniscono facilmente. Per fare un esempio, qui abbiamo incontrato bambine e ragazze che chiamano orgogliosamente se stesse “Figlie / Bambine delle Pace”. La pace non è per loro un barlume di speranza, è il motore che le spinge in avanti: “Ci impegneremo nello studio. Promuoveremo la pace. L’istruzione sarà la nostra arma per un futuro migliore.”, ci ha detto una delle ragazze prima di correre via a giocare con le amiche.

children of peace

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