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Posts Tagged ‘nonne’

Toni Truesdale

“Storia e Mitologia hanno bisogno di includere senza restrizioni le storie di tutte le donne.

La prospettiva femminile dovrebbe riflettersi nell’estetica, nei valori, nella spiritualità e nella moralità.

Io sviluppo arte figurativa che mostra la naturale bellezza e intelligenza negli aspetti della vita multiculturale di sorelle, madri, figli, zie e nonne tutte: e celebro la nostra comunanza attraverso il tempo, la cultura comune delle donne che io chiamo il nocciolo invisibile.

Toni Truesdale (in immagine sopra), insegnante d’arte, disegnatrice e pittrice di murales, illustratrice contemporanea statunitense (trad. Maria G. Di Rienzo).

Tutto quel che vedete qui è opera sua.

eve out of africa

(Eva)

Harvest

(Il Raccolto)

toni murales

(Murale)

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(“Indigenous, Afro-Honduran communities join together to fight pandemic”, 11 maggio 2020, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, trad. Maria G. Di Rienzo.)

garifuna - unfpa

Tegucigalpa, Honduras – Nel mentre le nazioni lottano con la pandemia del Covid-19, le comunità indigene e di discendenza africana sono fra le più vulnerabili con molte persone che fronteggiano povertà, scarso accesso alle cure sanitarie e informazioni limitate. In Honduras, membri di queste comunità si stanno unendo per assicurarsi che informazioni e risorse raggiungano i più esposti.

“Dobbiamo essere creativi di questi tempi.”, dice Yimene Calderón, a capo dell’Organizzazione per lo Sviluppo Etnico, che sta lavorando con la comunità Garífuna per aumentare la conoscenza delle misure di controllo dell’infezione e per fornire sostegno alle famiglie in stato di bisogno.

I Garífuna si stanno “mostrando resilienti, facendo affidamento sulla medicina e sul cibo tradizionali, e cercando aiuto e solidarietà per ricevere assistenza dal governo: non individualmente, ma collettivamente, operando come un network.”, lei dice.

Sino ad ora, più di 1.800 casi della malattia sono stati confermati in Honduras. L’esplosione è concentrata lungo la costa nord del paese, dove vive la maggioranza della popolazione Garífuna. Questa comunità ha le sue radici sia in gruppi indigeni sia in gruppi di origine africana. Molte famiglie hanno a capo donne e nonne, con uno o entrambi i genitori che lavorano all’estero per mandare soldi a casa. Come in ogni altra comunità afro-honduregna e indigena, in alcuni quartieri e case manca l’elettricità, l’accesso a internet e l’acqua corrente. L’insicurezza alimentare è comune e molti non sono in grado di accedere a cure sanitarie per la distanza o perché non se le possono permettere.

Molte fonti di reddito – incluse le rimesse, il turismo e il piccolo commercio – sono state gravemente ridimensionate. I più vulnerabili possono non essere in grado di osservare il distanziamento sociale o frequenti lavaggi delle mani e altre misure di prevenzione della malattia. Ma queste comunità si sono anche dimostrate forti e flessibili.

Comunità afro-honduregne e indigene hanno unito i loro sforzi per contenere la diffusione del Covid-19. Lavorando con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e con la Pan American Health Organization, hanno tradotto le informazioni sulla prevenzione dell’infezione nella lingua

Garífuna, così come nelle lingue Misquito, Tawahka e Chortí. Queste informazioni sono usate dai lavoratori della sanità, dalle reti delle radio comunitarie, da programmi televisivi e da attivisti per la gioventù al fine di promuovere comportamenti sicuri.

I membri della comunità si stanno anche facendo da soli le mascherine di stoffa. “Abbiamo coordinato numerosi gruppi di discussione con medici, infermieri e personale sanitario nella comunità.”, dice Suamy Bermúdez, un dottore Garífuna che sta lavorando con altri per sviluppare una campagna allo scopo di raggiungere case isolate con accesso limitato alle cure sanitarie.

La campagna fornirà informazioni sulla prevenzione del contagio e le medicine tradizionali, disseminate nelle chat, durante conferenze e con manuali. La campagna affronterà anche la questione dei diritti dei popoli indigeni.

“Storicamente, le popolazioni più vulnerabili dell’Honduras hanno subito segregazione e mancanza di investimento nella sanità. – dice Kenny Castillo, portavoce del Direttorato dei popoli indigeni e afro-honduregni del Ministero per lo Sviluppo e l’Inclusione Sociale – Abbiamo aperto canali per affrontare la situazione, includendovi il dialogo per affrontare non solo l’istanza Covid-19 ma lo scenario posteriore ad essa, dove le comunità dovrebbero avere una posizione forte nel richiedere investimenti su salute e istruzione.”

In aggiunta al suo sostegno all’azione comunitaria, il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione sta lavorando con altri per sostenere politiche che assicurino alle donne indigene e di discendenza africana i diritti a servizi e informazioni su salute sessuale e riproduttiva, all’empowerment e alla prevenzione della violenza.

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Galina Angarova

“Come in molte altre culture indigene, il sacro femminino gioca un ruolo centrale nella visione cosmologica della mia gente, i Buryat (Buriati – Russia), ed è espresso tramite le nostre relazioni, le nostre storie e i nostri modi di vivere. Io provengo da quella che originariamente era conosciuta come società matrilineare. Eravamo le famose guerriere della foresta, riverite come eccezionali cacciatrici e combattenti. Molti di questi tratti sono ancora visibili oggi nelle donne del mio clan. Forti, indipendenti, determinate, indefesse lavoratrici – e anche, a volte, cocciute e chiassose.

Io sono cresciuta con le storie di mia nonna, che nella nostra lingua incapsulavano la saggezza dei nostri antenati. Ognuna insegnava un aspetto della vita: relazioni con le entità naturali come le piante, i fiumi e le montagne, o con esseri come animali, spiriti, antenati, o come maneggiare la condizione umana.

Oggi, viviamo in un mondo in cui maschile e femminile sono sbilanciati. Questo sbilanciamento si manifesta nel modo in cui ci rapportiamo l’un l’altra, nel modo in cui governiamo, nel modo in cui cresciamo i bambini, nel modo in cui facciamo affari. Poiché il sacro femminino è stato disprezzato, assalito e violato, stiamo fronteggiando le conseguenze dello sbilanciamento: ingiustizie, diseguaglianza di genere e etnica, povertà, cambiamento climatico.

Dobbiamo restaurare l’equilibrio fra il mascolino e il femminino. Nella visione del mondo dei Buryat il nostro pianeta, i nostri terreni e il nostro ambiente sono la manifestazione definitiva del sacro femminino. Senza un cambiamento nella nostra consapevolezza continueremo a ripetere gli stessi errori, a sfruttare e distruggere la Madre Terra senza capire che ne siamo parte. Tutti veniamo dal suo grembo, tutti veniamo dal sacro femminino ed è nostro dovere rispettarlo e proteggerlo.”

Galina Angarova (in immagine), direttrice esecutiva di Cultural Survival, organizzazione non profit che lavora per i diritti dei popoli indigeni (trad. Maria G. Di Rienzo), gennaio 2020.

Sempre suoi i seguenti brani tratti dal podcast “Why Preserving Cultural and Language Diversity is Vital to Protecting Biodiversity: An Interview with Galina Angarova”, di Kamea Chayne per Green Dreamer, 23 marzo 2020.

“La diversità di linguaggio è estremamente importante per la protezione della biodiversità, perché quei termini esistono nelle lingue native. La sapienza tradizionale sulla protezione della biodiversità esiste in quelle lingue. Se le perdiamo, la conoscenza scompare con esse.”

“La semplificazione del concetto di ricchezza ha condotto al convincimento che il danaro sia l’unica soluzione, ma vi sono molteplici soluzioni per mantenere il nostro spazio su questo pianeta essendo in relazione e in equilibrio con esso. Noi diamo valore all’avere una moltitudine di relazioni.

Questo è il motivo per cui quando preghiamo, preghiamo per tutte le nostre connessioni e relazioni nel mondo. Preghiamo non solo con gli esseri umani ma con il mondo naturale. Noi non oggettiviamo la natura: animali, pietre, uccelli e fiumi sono partecipanti in questa vita e hanno un’indiretta relazione con noi.”

“Abbiate cura di voi stessi. Ascoltate il vostro corpo e il vostro cuore. Noi, come persone, tendiamo a vivere nelle nostre teste, ma è importante affondare dalla testa al cuore e lasciare che sia il cuore a dirigere: è così che accadono i miracoli.

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(tratto da: “Translation and the Family of Things”, di Crystal Hana Kim, giovane scrittrice contemporanea, per Guernica, 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

earth and sky di kathleen marver

Alle letture del mio primo romanzo, “If You Leave Me”, la gente mi ha spesso chiesto se i miei genitori erano orgogliosi di avere una scrittrice in famiglia. Ma io non ero l’unica scrittrice. Il mio posto è stato creato dalle donne che sono venute prima di me. Mia madre cominciò a scrivere poesie in coreano quando io mi stavo diplomando. Sono stata connessa al linguaggio da lei – e anche da sua madre.

Mia nonna è sempre stata una narratrice, ma era anche una donna che aveva vissuto la colonizzazione giapponese e la guerra di Corea e che non aveva mai ricevuto un’istruzione superiore. Pensava che nessuno a parte i suoi figli e i figli di costoro avrebbe desiderato ascoltare le sue storie.

Quando aveva 17 anni fu costretta ad accettare un matrimonio da una suocera che le aveva promesso un’istruzione, solo per rimangiarsi tutto al termine della cerimonia. Alla morte del primo marito rimase con un bimbo e senza un soldo. Quando implorò la sua stessa madre di tenerle il bambino così che potesse frequentare un corso per parrucchiere, fu respinta.

Questi aneddoti hanno riempito la mia infanzia. Non mi sono mai scocciata con lei nel modo in cui mi scocciavo con i miei genitori. Forse era perché siamo separate da una generazione o forse, dato che lei parla solo coreano, ho accettato il fardello della traduzione. E poi, nel maggio del 2019, la mia nonna 84enne ha pubblicato le sue prime poesie in Corea.

Due anni prima, la mia nonna si era iscritta a corsi per cittadini anziani a Hoengseong, dove vive. Si è unita a un coro, a un gruppo di suonatori d’armonica e a una classe in cui si insegna poesia. Ha cominciato a scrivere i suoi versi nel centro comunitario locale. L’insegnante, impressionata dalla qualità del suo lavoro, ha inviato le poesie a un giornale letterario. Tre sono state scelte per la pubblicazione, sorprendendo noi tutti. “Nel crepuscolo della mia vita, ho ricevuto un regalo meraviglioso.”, mi disse mia nonna.

Mia zia mi spedì la rivista letteraria non appena uscì. Ho accarezzato la copertina color verde sbiadito e poi ho trovato le poesie di mia nonna all’interno. Le ho lette una volta, due, tre. Non capivo. Quando mia nonna ed io parlavamo, stavamo sullo stesso terreno: salute, cibo, il nostro affetto reciproco, i suoi malanni. Mi ha raccontato ripetutamente le stesse storie piene di pathos. Ma le poesie erano imagiste (1), liriche e piene di metafore. Rivelavano un intelletto e un’immaginazione che non avevo mai considerato. Mi sentivo imbarazzata dalla mia stessa miopia.

Copiai le poesie della nonna in un documento Word e restai a fissare le parole. Avrei tradotto quei versi, sino a che avessi capito. Volevo che il linguaggio mi collegasse alla mia famiglia, anziché agire come una barriera. Volevo comprendere pienamente quanto poco sapevo, con che superficialità avevo immaginato le menti di mia madre e di mia nonna.

Più tentavo di tradurre le poesie, più diventavo intimidita. Volevo essere precisa e rigorosa, ma inerente alla traduzione è l’interpretazione, l’agire proprio del traduttore. Mi preoccupavo. Dovevo aderire alle parole o ai ritmi, ai suoni o ai significati? La poesia doveva risultare facile nella lingua della traduzione, o doveva conservare alcune delle indicazioni sintattiche dell’originale? (…)

Sorprendentemente, mentre lavoravo da sola alle strofe nei giorni seguenti, scoprii che mi piacevano di più quando le parole non si concatenavano chiaramente l’una con l’altra. Lo spazio sfocato tra le lingue dava la sensazione di un’apertura. Alla fine, tradussi i versi di mia nonna come:

Porta un passo al successivo, dalla Terra al Cielo,

intreccia la scala vermiglia di luce dell’autunno,

così che noi si possa testimoniare per sempre.

Vermiglia. Testimoniare. Ho fatto queste scelte basandomi sul suono, il ritmo e il tono. Ma ho anche considerato quel che sapevo di mia nonna. Lei parlava della morte ossessivamente. Ma cos’altro potrebbe riempire i tuoi pensieri se tu avessi attraversato la fame, la colonizzazione, la guerra, la povertà? Questo è il suo modo di esercitare controllo su ciò che è incontrollabile. Ma quando parla a me del morire lo fa in termini semplici: che tipo di ritratto funebre vuole, come dev’essere vestita nella bara, io che dovrei avere figli perché lei morirà presto. Pratica, utilitarista. Ma nella poesia la sua ossessione si trasforma. C’è un certo splendore nel considerare il passaggio della morte come una scala di luce vermiglia.

(1) da Imagismo, corrente letteraria dell’inizio del Novecento con centro a Londra e diffusione in Irlanda e Usa, dichiarava la necessità di immediatezza e concisione nel linguaggio poetico. Inusuale per l’epoca, le maggiori figure imagiste erano donne.

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nonna e juliet

Juliet Acom (in immagine a destra, con la nonna), ugandese, è la fondatrice e presidente di R.E.S.T.O.R.E, un centro che risponde alle emergenze create nelle comunità dall’anemia falciforme e fornisce assistenza alle persone che vivono con questa condizione e a chi si prende cura di loro.

Fra le proprie passioni cita i diritti umani, la risoluzione dei conflitti, la sicurezza alimentare, la tutela dell’ambiente, l’istruzione: sono istanze, spiega, di cui discuteva con sua nonna da bambina. L’istruzione informale, sostiene Juliet, è vera e propria ricchezza: “Le lezioni che la mia nonna analfabeta mi ha impartito mi hanno permesso di dar forza alle donne e alle comunità e di contribuire agli obiettivi internazionali di sviluppo.”

Ecco alcuni esempi di “nonnesca” saggezza che anche noi potremmo trovare utili:

– Conservazione dell’ambiente: Quando mangi un frutto da un albero che cresce abbastanza grande da fare ombra, porta il seme con te. Quando giungi in un posto privo di alberi simili, mettilo nella terra così che persone e animali possano avere gli stessi frutti e la stessa ombra. (Ancora oggi Juliet viaggia con le tasche piene di semi.)

– Cibo per tutti: Non andare mai a letto sazia mentre i tuoi vicini di casa stanno morendo di fame. Se sono troppo orgogliosi per accettare la carità, proponi loro di coltivare il tuo giardino in cambio di cibo o denaro. E mentre lavorano la tua terra, unisciti a loro.

– Acqua e igiene: Non scaricare immondizia e non urinare nei pressi di una fonte d’acqua. Se trovi immondizia accanto alla sorgente non vergognarti di raccoglierla e di portarla altrove. E quando vieni a sapere di attività comunitarie per pulire il villaggio, sii la prima ad arrivare al punto di ritrovo.

– Risoluzione dei conflitti: Non prendere mai le parti di qualcuno che è chiaramente in torto – le lacrime degli oppressi sono la ragione per cui molte persone un tempo agiate hanno avuto una fine straziante. (Secondo la nonna, ottimista, i farabutti la pagano sempre: o devono rispondere della loro corruzione o si beccano ogni sorta di terribili disgrazie.)

– Sviluppo comunitario: Non sei stata benedetta con la conoscenza, l’abilità o le risorse per tenere tutto questo in magazzino. L’altruista condivide queste benedizioni con coloro che sono meno fortunati. Se condividi, il tuo cuore sarà sempre disposto alla felicità.

– Potenziamento economico femminile: Buon cibo, begli abiti, gioielli, un marito ricco? Ok, tutto questo può andar bene per una donna, ma per farcela nella vita, una donna deve leggere libri, imparare un mestiere, risparmiare soldi e unirsi a gruppi di risparmiatori e, soprattutto, ascoltare sua nonna!

Maria G. Di Rienzo

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A poco a poco

(“bit by bit”, di Leonarda Carranza – in immagine – poeta e scrittrice contemporanea di origine salvadoregna. Fa parte del Collettivo “Pages on Fire” con cui tiene seminari sulla scrittura creativa e organizza eventi e letture pubbliche. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

leonarda

A poco a poco e passo dopo passo

Nonna mi insegna

i colori

A poco a poco

e passo dopo passo lei insegna

e io imparo

l’aspetto dell’indifferenza

come ci si sente a non essere volute

a non essere abbracciate o sostenute

a non sedersi nel suo grembo

A poco a poco

e passo dopo passo io apprendo

a non aspettarmi un sorriso

a non percepirla

Non vado da lei quando ho paura

Non chiedo di lei quando sono malata

E lei insegna

come le madri

e le bisnonne che sono venute prima le hanno insegnato

a stare indietro

a guardare

mentre lei offre se stessa e il suo amore a

corpi bianchi e di pelle chiara

E a poco a poco

e passo dopo passo

io imparo il colore

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le nonne protestano

Forse pensavano che piazzandolo in un villaggio agricolo con poco più di 80 residenti non avrebbero incontrato alcuna resistenza: sto parlando del THAAD – Terminal High Altitude Area Defense, una sistema antimissilistico messo a punto contro gli Scud nel lontano 1991, durante la guerra del Golfo, che oggi ha ovviamente un’efficacia limitata. Tuttavia, ogni THAAD costa 800 milioni di dollari e la sua costruzione, in carico alla Lockheed Martin Space Systems, prevede subappalti a ditte come Aerojet, BAE Systems, Boeing, Honeywell, MiltonCAT, Oliver Capital Consortium, Raytheon, Rocketdyne… bisognerà pure far funzionare l’economia statunitense: facendolo pagare ai governi “alleati”, ovviamente.

Così, la decisione di installare il sistema a Soseong-ri in Corea del Sud, presa dalla deposta Presidente precedente, è oggi avallata dal Presidente in carica (che durante la campagna elettorale aveva detto al proposito di avere tutt’altra intenzione). L’unico fattore che nessuno aveva preso in considerazione studiando il progetto sono le vecchiette. Non sono tante, sapete, una dozzina circa. Hanno dai 60 agli oltre 80 anni e bloccano l’unica strada che porta all’area dell’installazione 24 ore su 24, costringendo l’esercito Usa a trasportare in loco i materiali tramite elicotteri.

soseong-ri

Affrontano la polizia faccia a faccia. Agitano ombrelli e bastoni da passeggio contro gli elicotteri che passano sulle loro teste, urlando loro di andarsene. Sono pronte, dicono, a continuare la lotta ad oltranza. Sono delle feroci comunarde altamente politicizzate? No, vogliono la tranquillità che avevano prima, e che considerano giustamente un loro diritto.

“Non posso dormire. – racconta ai giornalisti l’87enne Na Wi-bun, che vive a un chilometro dall’installazione – Prendo sonniferi, ma riesco a dormire solo due ore. Il rumore del generatore non si ferma mai.”

“Prima, di giorno eravamo nei campi e negli orti e la sera andavamo al centro civico comunale dove noi nonne passavamo il tempo insieme. – conferma l’81enne Do Geum-ryeon – Ora per noi non esistono più giorno e notte.” Lo scorso aprile la polizia ha malmenano quest’anziana, mentre con altre cercava di contrastare il passaggio dei camion militari statunitensi attraverso il villaggio. I lividi non l’hanno dissuasa: “Anche con il mio ultimo respiro intendo dire a queste persone che il THAAD devono portarselo via.”

“Sì, se ne deve andare. – dice la 67enne Kim Jeom-sook, una coltivatrice di meloni il cui nonno morì nella guerra di Corea (1950-1953) – A volte guardo in alto e sono terrorizzata all’idea che quelle casse appese agli elicotteri ci cadano in testa. Inoltre, il sistema non serve a niente: se la Corea del Nord volesse bombardarci potrebbe colpire ovunque e creare un mare di fuoco.”

Pace, ripetono instancabili le vecchiette. Pace nel nostro villaggio e pace fra le Coree e pace nel mondo intero. Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Intergenerational Resistance”, di Soraya Membreno per Bitch Media, 1° febbraio 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Soraya Membreno è figlia di migranti nicaraguensi e vive negli Usa. E’ poeta, saggista ed editrice.)

il-posto-di-una-donna

(Il posto di una donna è nella rivoluzione)

Mia nonna ha compiuto 75 anni questo fine settimana. Le ho augurato buon compleanno al telefono mentre stava seduta nella sua cucina di Miami, con il resto della mia famiglia che parlava a voce alta sullo sfondo. Come accade con le nonne, la conversazione è caduta su di me molto velocemente. La nonna aveva sentito dire che avevo partecipato a proteste negli ultimi anni e ha chiesto se lo stavo facendo ancora. Io ho risposto di sì, preparandomi a sentire il discorso già fattomi da mia madre con crescente frequenza sulla sicurezza e le misure precauzionali.

Invece, ho avuto un risolino e uno scorcio inaspettato in una storia condivisa di cui ignoravo l’esistenza. “Quindi sarai una marciatrice anche tu, allora.”, disse, più l’attestazione di un dato di fatto che una domanda.

Non avevo mai sentito mia nonna pronunciare la parola “politica”, ma quel giorno mi narrò la storia della sua prima marcia. Era una studente all’Universidad Nacional Autonoma de Nicaragua (Università Nazionale Autonoma del Nicaragua – detta “la UNAN”), la prima università del paese ad ottenere l’autonomia del governo che, sino a quel momento aveva avuto totale giurisdizione su docenti, curriculum e bilancio. L’università ottenne tale indipendenza nel 1958, nel 22° anno del regime di Somoza che vide un dittatore arricchirsi a spese del resto della nazione. Dopo le elezioni chiaramente truccate del 1947 e con la vicina rivoluzione cubana che apriva la strada, il clima politico cominciò a cambiare.

La UNAN divenne l’epicentro del dissenso e l’origine delle dimostrazioni organizzate dagli studenti. Dopo poco meno di un anno, tuttavia, una protesta attirò l’attenzione della guardia nazionale che immediatamente entrò nel campo universitario, aprendo il fuoco contro quattro studenti. Mia nonna ricorda di essere stata al fianco di uno di essi, ricorda ancora come cadde sotto il peso del corpo di lui. Al telefono lo menziona solo di passaggio: devi capire, mi ha spiegato più tardi, che quello era solo il primo di molti cadaveri. La scintilla fu accesa quel giorno, ma il regime di Somoza non sarebbe stato rovesciato sino al 1979, dopo essere stato al potere per 43 anni. (…)

“Ho 75 anni, – mia nonna scrolla le spalle, calma e totalmente impassibile – ho visto di peggio. La cosa che devi ricordare è questa: se credi in quel che vuoi dire, devi trovare un modo di dirlo. La situazione non è peggiore di altre, è solo il tuo turno.”

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(tratto da: “In the Manner of Water or Light”, raccolta di racconti di Roxane Gay, giornalista e scrittrice. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Water Light

Mia madre fu concepita in quello che sarebbe diventato il Fiume Massacro. L’odore pungente del sangue l’ha seguita sin da allora. Quando si trasferì negli Stati Uniti, lesse il dizionario da cima a fondo. Il suo vocabolario divenne vasto velocemente. La sua parola preferita è “soffuso”, il diffondersi alla maniera dell’acqua o della luce. Quando tenta di spiegare come è tormentata dall’odore del sangue, dice che i suoi sensi sono “soffusi” di esso.

Mia nonna stette con mio nonno per meno di un giorno.

Tutto quel che so della storia della mia famiglia, lo so a frammenti. Siamo custodi di segreti. Siamo segrete noi stesse. Tentiamo di proteggerci l’un l’altra dalla geografia di così tanto dolore. Non so se ci riusciamo.

Da giovane, mia nonna lavorava in una piantagione di canna da zucchero a Dajabón, la prima città sul confine tra Haiti e Repubblica Dominicana. Viveva in una baracca con cinque altre donne, tutte estranee, e dormiva su un materasso di paglia sotto cui teneva il suo rosario, un medaglione con l’immagine dei suoi genitori e una foto di Clark Gable. Parlava poco lo spagnolo, perciò se ne stava per conto proprio. Le sue giornate erano lunghe e sotto il sole cocente la sua pelle bruciò sino a diventare ebano, e i suoi capelli si schiarirono sino a diventare bianchi. Quando tornava alle baracche alla fine di ogni giornata, percepiva il modo in cui la gente la guardava e mormorava. Erano terrorizzati dall’assenza di luce attorno a lei e in lei. Pensavano fosse un demone. La chiamavano la demonia negra.

Dopo aver detto le sue preghiere, dopo aver vagheggiato di Port-au-Prince e di pigri pomeriggi sulla spiaggia e del cinema doveva aveva visto “L’ammutinamento del Bounty”; dopo aver immaginato il caldo abbraccio di Clark Gable, mia nonna faceva a pezzi i suoi vestiti vecchi, riducendoli a lunghe strisce per poter fasciare meglio i tagli e i graffi che si buscava durante la lunga giornata nei campi di canna da zucchero. Dormiva un sonno senza sogni, che serviva a raccogliere il coraggio di cui avrebbe avuto bisogno per svegliarsi la mattina dopo. In un tempo differente, era stata amata dai suoi genitori e aveva vissuto una vita decente, ma quando costoro erano morti si era trovata senza nulla e come molti haitiani aveva attraversato il confine nella speranza che la sua fortuna cambiasse.

Mio nonno lavorava nella stessa piantagione. Era un lavoratore indefesso, un uomo alto e forte.

Mia nonna, quando di notte non riesce a dormire, siede con un bicchiere di rum e coca cola, e parla di come le sue mani ricordano le corde spesse di muscoli nelle spalle e nelle cosce di lui. Il suo nome era Jacques Bertrand. Avrebbe voluto fare cinema. Aveva un sorriso smagliante che lo avrebbe reso una star.

Anche mia nonna è tormentata dagli odori. Non può sopportare l’odore di nulla di dolce. Se annusa dolcezza nell’aria chiude strette le labbra e si succhia i denti, scuotendo la testa. Non può sopportare neppure la vista di campi di canna da zucchero. Quando li vede, un dolore acuto le si irradia dalle spalle lungo tutta la schiena. Il suo corpo non riesce a dimenticare le fatiche che ha conosciuto.

Oggi, il Fiume Massacro è basso abbastanza da essere attraversato a piedi, ma nell’ottobre del 1937 le acque di quello che era il Fiume Dajabón correvano forti e profonde. I disordini duravano da giorni: soldati dominicani, determinati a spazzar via dal loro paese la piaga haitiana andavano da piantagione a piantagione con furia omicida. Mia nonna fece la sola cosa che poteva fare, bruciata dal lungo giorno nei campi, il tempo segnato dall’alzarsi e dall’abbassarsi del suo machete: pregò che i guai la evitassero.

Fu il generale Rafael Trujillo che ordinò di buttar fuori tutti gli haitiani dal suo paese, che disse ai soldati di interrogare chiunque avesse la pelle troppo scura, chiunque apparisse come proveniente dall’altro lato del confine. Era il generale che prese una pagina del Libro dei Giudici per esaltare il genocidio da lui compiuto e che portò l’industria tedesca nella sua isola.

I soldati arrivarono alla piantagione dove mia nonna lavorava. Avevano fucili. Erano crudeli, parlavano in toni alti e arrabbiati, si prendevano libertà. Una delle donne con cui mia nonna divideva la baracca la tradì, rivelando dov’era nascosta. Non parliamo mai di quel che accadde subito dopo. I dettagli orrendi sono intrappolati tra i frammenti della nostra storia familiare. Noi stesse siamo segreti.

Mia nonna finì nel fiume. Trovò un posto dove l’acqua era abbastanza bassa. Tentava di trattenere il respiro, mentre si nascondeva dai soldati che pattugliavano ambo le rive fangose del fiume. Ci fu un momento in cui giacque sulla schiena, immergendosi sino ad essere interamente coperta d’acqua, soffusa nei pori della sua pelle. Non si sollevò a respirare sino a che il ronzio nelle orecchie divenne insopportabile. La luna era alta e la notte era fredda. Odorava sangue nell’acqua. Indossava solo un vestito leggero che le si era incollato addosso. Aveva i piedi nudi. Quando un cadavere gonfio la oltrepassò fluttuando, e poi un braccio, e una gamba, e qualcosa che non riuscì a riconoscere, si coprì la bocca con la mano. Urlò all’interno della propria pelle, invece che al vuoto attorno a lei.

Il fiume oggi

Il fiume oggi

Jacques Bertrand, che lavorava sodo e voleva fare cinema, trovò la propria strada per il fiume. Si mosse nell’acqua sino a che trovò mia nonna. Le batté la mano sulla spalla e lei, invece di fuggire, si voltò e aprì quella parte di sé che non era intorpidita dal terrore. Trovò conforto nella paura che gli occhi di lui riflettevano a specchio. Aveva il petto nudo e lei premette la guancia sul suo sterno. Rallentò il respiro per pareggiarlo a quello di lui. Ascoltò il battito del suo cuore che echeggiava fra le costole della cassa toracica. “Ho pensato che fosse un angelo. – mi disse – Un angelo venuto a portarmi via da quel posto scuro e terribile.”

I miei nonni si strinsero l’uno all’altra tremando violentemente. Jacques Bertrand, stringendo le braccia attorno a mia nonna, le raccontò la storia della sua vita in un sussurro balbettante. “Voglio essere ricordato.”, le disse. Lei seguì in punta di dita il tessuto cicatriziale che formava ponti sulla schiena di lui, gli accarezzò il mento con i pollici, e gli sfiorò le labbra con le sue: “Sarai ricordato.”, gli rispose. Gli raccontò a sua volta la storia della sua vita. Anche lei chiese di essere ricordata.

Mia nonna sente ancora le grida dei morenti di quella notte. Ricorda il suono sordo, umido, dei machete che si fanno strada fra la carne e le ossa. L’unica cosa che azzittiva quegli orrori era un uomo che lei aveva visto, ma di cui non conosceva i ponti di cicatrici sulla schiena. Non conosco i dettagli intimi, ma mia madre fu concepita. Al mattino, circondati dal puzzo e dal silenzio della morte, i miei nonni strisciarono fuori dal fiume che, durante la notte, era diventato una bara liquida che conteneva 25.000 cadaveri. Il Fiume Massacro si era guadagnato il suo nome.

I due, zuppi e sgocciolanti, con i corpi irrigiditi e febbricitanti, arrivarono a Ouanaminthe. Erano a casa. Erano molto distanti da casa. Cercarono rifugio in una chiesa abbandonata, ma quando la notte cadde di nuovo i soldati dominicani attraversarono il confine ed entrarono a Ouanaminthe, un luogo a cui non appartenevano. Mio nonno fu ucciso. Salvò la vita di mia nonna lottando contro tre soldati, creando un varco attraverso cui mia nonna potesse fuggire.

Jacques Bertrand era morto volendo essere ricordato, perciò mia nonna restò in quel posto di dolore, e trovò lavoro come domestica per il direttore di una scuola elementare. La notte dormiva in una delle classi vuote. Mise al mondo mia madre e più tardi sposò il direttore della scuola che crebbe mia madre come fosse sua. La notte, mia nonna portava mia madre al fiume e le raccontava del modo in cui era stata portata all’esistenza. Mia nonna si inginocchiava sulla riva, le sue ossa affondate nel fango, mentre portava manciate d’acqua alle labbra. Beveva i ricordi, in quell’acqua.

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