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Posts Tagged ‘documentario’

Flying Spaghetti Monster

Io preferirei davvero che tu evitassi di usare la Mia esistenza come motivo per opprimere, sottomettere, punire, sventrare e/o, lo sai, essere meschino con gli altri. Io non richiedo sacrifici e la purezza va bene per l’acqua potabile, non per le persone.

Io preferirei davvero che tu evitassi di giudicare le persone per come appaiono, o per come si vestono, o per come camminano o, comunque, di giocare sporco, va bene? Ah, e ficcati questo nella tua testa dura: Donna = Persona. Uomo = Persona. Tizio noioso = Tizio noioso…

R’amen! Questi sono un paio degli eccellenti otto comandamenti – condimenti emanati dallo Spaghetto Volante (con polpette, in immagine sopra) per i fedeli del Pastafarianesimo e mi servono come apertura per dirvi che il documentario “I, Pastafari” del regista Michael Arthur sarà disponibile online da martedì prossimo, 26 maggio.

https://www.ipastafaridoc.com/

Il documentario ripercorre la nota storia di come l’allora studente Bobby Henderson – era il 2005 – reagì alla possibilità che il creazionismo fosse insegnato nelle scuole del Kansas, chiedendo che lo stesso numero di ore fosse dedicato al Flying Spaghetti Monsterè il nome originale della divinità – e alla sua creazione del mondo, e passa a illustrare numerosi casi in cui i pastafariani sono comparsi nei tribunali di diverse nazioni affinché la loro religione ricevesse le tutele che tutte le altre fedi hanno… e quindi, anche per il diritto di farsi le foto per il passaporto con lo scolapasta in testa.

Il Pastafarianesimo è stato a lungo visto come nulla di più di uno scherzo, ma il documentario analizza i suoi messaggi dando ad essi il credito che meritano; per quel che mi riguarda, credo che le idee e i concetti si possano veicolare in mille maniere e che farlo ridendo sia sicuramente meglio che farlo urlando o minacciando.

La satira di Henderson e accoliti era ed è terribilmente seria: nelle stesse parole del fondatore include la necessità di “tenere la religione fuori dalle scuole pubbliche, tenere il denaro fuori dalla religione e questo genere di cose”. Quando la scienza diventa solo un’opinione come un’altra, sostengono i pastafariani, le opinioni dei potenti diventano fatti alternativi: “Sopprimere l’istruzione e nutrire l’ignoranza è il talento di ogni autoritario di successo. Questo si è verificato durante tutta la storia umana e ne stiamo testimoniando una rinascita oggi. Non tutto è perduto. L’antidoto ai fatti alternativi e alle fake news è la scienza. Non è più razionale accettare che assassinare gli infedeli garantisca l’accesso al paradiso. Se solo fossimo tutti abbastanza istruiti da pronunciare una semplice parola, PROVALO, è possibile che molti degli odierni titoli disturbanti sulle prime pagine dei giornali scomparirebbero. Solo quando condivideremo di nuovo una base comune per definire un “fatto” potremo smettere di battibeccare e cominciare a discutere di soluzioni realistiche per raddrizzare le disgrazie del mondo.”

Maria G. Di Rienzo

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betty

“La paura è contagiosa, ma così lo è il coraggio.” E’ una delle frasi più celebri di Betty Williams, Premio Nobel per la Pace nel 1976 assieme a Mairead Maguire per lo straordinario lavoro delle due in contrasto alla violenza in Irlanda del Nord, il quale in una prima clamorosa mossa portò a marciare insieme decine – e poi centinaia – di migliaia di donne protestanti e cattoliche. Betty è morta a Belfast, all’età di 76 anni, il 18 marzo scorso.

Di ciò che Betty ha continuato a creare per la pace, nei trent’anni successivi al Nobel, restano “Peace People”, un’organizzazione dedicata alla diffusione della nonviolenza, i “World Centers of Compassion for Children International” (centri per la protezione dei diritti dei bambini fondati nel 1997 con il Dalai Lama) e le innumerevoli iniziative che ha portato avanti in tutto il mondo, Italia compresa.

Sulla sua storia, che comincia come testimone della morte di tre bambini (Mairead Maguire era la loro zia), esiste un bel documentario del 2018: “Betty Williams: Contagious Courage”. E’ il racconto della “rivoluzione quieta” con cui due donne comuni scossero il loro paese e il mondo intero.

Saluto Betty Williams in ritardo, ma con profondo rispetto e infinita gratitudine: ci ha mostrato, una volta di più, che ognuna/o di noi può fare la differenza.

Maria G. Di Rienzo

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(due poesie di Alejandra Pizarnik (1936-1972) dalla raccolta “Árbol de Diana”, trad. Maria G. Di Rienzo. Alejandra faceva parte di una famiglia ebrea ucraina in fuga dal nazismo e nacque in Argentina. A partire dall’adolescenza cominciò ad averi problemi con la propria immagine – si sentiva orribilmente “brutta” – e divenne assuefatta alle amfetamine nel tentativo di rendere il proprio corpo rispondente ai canoni di “bellezza” femminile. E’ morta suicida. Nonostante ciò, i suoi lavori riflettono costantemente lo spirito sfrontato e indomabile che aveva mostrato sin da bambina. Durante la dittatura in Argentina la lettura delle sue poesie era proibita. Un documentario sulla vita di Alejandra, del 2013, è visibile in lingua spagnola e sottotitoli in inglese qui: https://vimeo.com/62036418 )

ed mell - dust rose

(23, senza titolo)

Uno sguardo dal tombino

può diventare una visione del mondo

La ribellione consiste nell’osservare una rosa

sino a che i tuoi occhi si riducono in polvere

(Orologio)

Signora piccolissima

inquilina nel cuore di un uccello

esce all’alba per pronunciare una sola sillaba

NO

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China 2009

“La Dabu, la matriarca che guida la famiglia Mosuo. Questo ruolo chiave è tenuto dalle donne più anziane fra i parenti. Lei è quella da cui discendono nome e proprietà, maneggia il danaro e organizza le cerimonie religiose.”

Credo sia una buona cosa il riuscire ancora a interessarsi di storia, arte, fotografia ecc. in questo momento così pieno di incertezza e sofferenza: il vostro interesse per “Grande cuori, mani forti” (28 febbraio u.s.) merita dunque una risposta.

Dove sono le altre società matriarcali? (Ovunque.) Sono tutte di antica origine? (No.) Raffigurano semplicemente l’oppressione di genere rovesciata? (Niente di più lontano dalla realtà.) Andate in miniera, allora, e poi vediamo (Questo è lo scemo di turno: adesso gli spiego tutto anche se è probabilmente inutile, così – in caso capisca qualcosa – almeno può uscire dalla garitta dove sta di vedetta contro l’invasione “femminazista” e andare a casa).

Il tratto comune a tutte le società matriarcali è che i figli/le figlie sono primariamente connessi alla madre: portano il suo nome e/o vivono nella casa del suo clan anche quando raggiungono l’età adulta. Spesso eredità e beni passano da madre a figlia. Molte società matriarcali sono agricole, laiche, costruite in modo orizzontale e non gerarchico, basate sull’eguaglianza di genere. In quelle ancora esistenti le donne giocano un ruolo centrale sul piano sociale, economico e (non sempre) politico.

La fotografa cecoslovacca-algerina Nadia Ferroukhi (le immagini qui presenti sono particolari di sue istantanee) ne ha girate parecchie e ha dato testimonianza delle sue esperienze qui:

http://nadia-ferroukhi.com/v4/sets/matriarcat/

Si tratta della serie “Nel Nome della Madre”, a cui ha dato un contributo significativo l’antropologa, etnologa e femminista francese Françoise Héritier (1933-2017).

Nadia ha vissuto con i Mosuo in Cina, i Tuareg in Algeria, i Minangkabau in Indonesia e i Navajo negli Usa – che sono le realtà di segno matriarcale più note, ma ha trovato società simili in Kenya, in Guinea-Bissau, nelle Comore, in Messico. Ritrarre le comunità in modo congruo e dettagliato non è stato facilissimo, spiega la fotografa: “La gente si aspetta da questo risultati spettacolari. Ma in effetti io ho fotografato la vita quotidiana.” Una vita quotidiana lontana dagli stereotipi e dai pregiudizi, in cui un’organizzazione sociale dà valore a ogni suo membro.

Riportare e tradurre tutto il lavoro di Nadia renderebbe questo articolo così lungo da divenire faticoso, perciò ho scelto degli “assaggi” che si accordano al mio incipit.

Comoros 2017

“Una giovane sposa sull’isola di Grande Comore. Dopo il matrimonio, il marito si trasferisce nella casa costruita per lei dalla sua famiglia, dove è considerato un ospite del clan matrilineare.”

NUOVO DI ZECCA:

E’ il villaggio di Tumai in Kenya, nato nel 2001 per fornire rifugio alle donne della tribù Samburu che erano state vittime di violenza domestica / violenza di genere. Simile a Umoja e a Jinwar

(https://lunanuvola.wordpress.com/2019/03/01/jinwar/) – la fondatrice Chili viene in effetti da Umoja – accoglie le divorziate, ha messo fuorilegge le mutilazioni genitali e non ammette gli uomini sopra i 16 anni d’età. Tumai è completamente autosufficiente. Tutte le decisioni sono prese per voto di maggioranza fra le donne, che allevano capre, costruiscono da sole le loro case, vanno a caccia se serve e tengono rituali sacri (allevamento a parte, le altre attività non sarebbero loro permesse in circostanze “normali”).

DIFFERENTI, NON SPECULARI:

Guinea-Bissau – “Lo stile di vita negli arcipelaghi, in particolare sull’isola di Canhabaque (3.500 persone) è stato scarsamente influenzato, quando per nulla del tutto, dalla civiltà moderna. Qui, le case sono di proprietà delle donne e sono gli uomini a trasferirsi dalle loro mogli. Sebbene il padre passi il suo cognome ai figli, è la madre che sceglie il primo nome ed è al suo clan che essi sono affiliati. L’isola è governata da una regina. C’è anche un re (che non è il marito della regina) ma il suo ruolo è limitato: è un semplice portavoce. Ogni villaggio è amministrato da un consiglio di donne, elette a vita.”

Messico – “Juchitán, una città di 78.000 abitanti nello stato messicano di Oaxaca è il luogo dove è nata la madre della pittrice Frida Kahlo. Durante i secoli, uomini e donne hanno sviluppato forme chiaramente identificate di autonomia. Le donne maneggiano il commercio, l’organizzazione di festival, la casa e la strada. Agricoltura, pesca e politica sono responsabilità degli uomini. Questo è uno dei pochi luoghi in Messico dove la lingua e i dialetti Zapotec sono ancora parlati. Usato negli scambi fra donne del vicinato e donne di passaggio, questo linguaggio ha costruito fra le donne una notevole solidarietà. Nome, casa e eredità si trasmettono in linea femminile. Perciò, la nascita di una figlia è fonte di grande gioia.”

Indonesia “La più grande società matrilineare al mondo, composta dai Minangkabau, si trova sulle colline della costa occidentale di Sumatra in Indonesia. Secondo il loro sistema sociale, tutte le proprietà ereditarie passano da madre a figlia. Il padre biologico non è tutore del bambino; è il mamak, il più anziano fra gli zii materni, ad assumere tale ruolo. Durante la cerimonia matrimoniale, la moglie va a prendere il marito nella casa di lui, accompagnata dalle donne della sua famiglia. L’adat, o “legge ordinaria”, determina una serie di regole tradizionali non scritte su questioni matrimoniali e proprietarie. In accordo a queste regole, qualora vi sia un divorzio il marito deve lasciare la casa e la donna mantiene la custodia dei figli e l’abitazione.”

QUESTE IN MINIERA CI VANNO GIA’:

Stati Uniti d’America – “La vita sociale della nazione Navajo è organizzata attorno alle donne, secondo un sistema matrilineare in cui titoli, nomi e proprietà si trasmettono in linea femminile. Quando una ragazza Navajo raggiunge la pubertà deve passare attraverso la Kinaaldá, una cerimonia di quattro giorni che segna il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questa cerimonia è collegata al mito Navajo della Donna Cangiante, la prima donna sulla Terra in grado di avere bambini. Nella riserva, le donne sono in genere più attive degli uomini. Non è insolito per loro tornare a studiare tardi durante le loro vite, persino dopo aver avuto figli.”

Usa 2011

Queste donne Navajo lavorano in una miniera di carbone, assicurandosi in tal modo totale indipendenza finanziaria.

Maria G. Di Rienzo

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E’ uscito “Big Heart, Strong Hands” – “Grande cuore, mani forti” della fotografa norvegese Anne Helene Gjelstad (35 sterline, 256 pagine, Dewi Lewis Publishing), che documenta vita quotidiana, azioni e visioni delle donne in quella che è considerata l’ultima società matriarcale in Europa.

Si tratta delle isole estoni Kihnu e Manija nel Mar Baltico, dove sono le anziane a curarsi di tutto quel che riguarda la terra e a prendere decisioni in merito, mentre gli uomini vanno per mare.

Anne Helene Gjelstad ha dedicato numerosi anni al progetto, che vede come il proprio “contributo a dar testimonianza di questa cultura unica e a preservarne il futuro”.

Due particolari delle sue fotografie e il testo relativo:

lohu hella

“Lohu Ella è una delle maestre artigiane più rispettate di Kihnu. Sempre pronta a dare una mano, amichevole e gentile, con un gran cuore e un sorriso amabile, è una delle donne con cui ho passato più tempo e ho fotografato di più. Da lei ho appreso la cultura dell’abbigliamento delle donne: come fanno i loro copricapi, come mettono le loro gonne speciali, cosa indossano per dormire e come tengono al sicuro i loro tesori. Lohu Ella sta costantemente creando qualcosa. Ha persino confezionato per me un bellissimo costume Kihnu.”

virve

“Järsumäe Virve ha sempre amato gli animali e tutte le creature viventi. Non sa quanti gatti ha di preciso e persino i gatti delle vicine vengono da lei per mangiare. Ha due cani e un cavallo che corrono liberi nella sua proprietà durante la stagione calda. Quando diventammo amiche aveva anche due capre e le piaceva bere direttamente dal recipiente subito dopo averle munte. Mi spiegò quanto era salutare farlo e gentilmente condivise con me il latte tiepido.”

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “We Contribute to Diversity”, di Olowaili “Madre de las estrellas” – “Madre delle stelle” Green Santacruz, per Cultural Survival, dicembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice è ritratta qui sotto.)

madre delle stelle

Noi Guna siamo un popolo dalla doppia nazionalità con una comunità a Panama e due in Colombia – una in campagna e l’altra in città.

Io vivo nella regione Guna di Abya Yala. Ho vissuto a Medellín da quando avevo 7 anni e ora ne ho 26. Sto terminando l’ultimo semestre di studi sulla comunicazione audiovisiva e sono una produttrice di audiovisivi e una direttrice culturale: la mia compagnia, che si chiama sentARTE, lavora per promuovere la diversità etnica e di genere.

Nella nostra tradizionale spirituale Guna, gli dei hanno mandato un uomo e una donna, ma poi hanno mandato anche una terza persona, un essere non definito per genere.

Dall’età di 12 anni sapevo che la mia preferenza sessuale era diretta verso le donne. E’ stato molto difficile per me, perché in numerose comunità indigene c’è un bel po’ di machismo e si richiede alle donne di assumere ruoli determinati. All’inizio è stata dura, perché le mie preferenze non erano accettate. A 15 anni avevo una partner che mi ha aiutato molto e fu allora che decisi di parlare ai miei genitori di lei. I miei genitori mi hanno accettata, ma è stata dura anche per loro.

Dopo aver discusso la faccenda con la mia famiglia, non mi sono più preoccupata di quel che pensava la gente, anche se esercito discrezione per sostenere i miei parenti.

Definire me stessa è un atto politico e con esso è arrivato il desiderio di essere un’attivista. Questo non è facile per una donna perché i testi che definiscono l’identità culturale, e che ci sono imposti, contengono troppe oppressioni di genere. Sarà una lunga lotta, ma io sento di avere il compito di aiutare altre donne, in special modo le donne indigene, i cui ruoli prescritti le opprimono doppiamente. Io non ho problemi nell’identificarmi dentro il termine LGBTQIA+. Al di là di tutto, io sono un essere umano che vuole amare un altro essere umano.

Dobbiamo istruire la società affinché essa sia informata, perché noi non siamo gente “stramba”. Siamo uguali. I miti per cui saremmo i portatori dell’AIDS devono essere banditi. Tale istruzione deve cominciare a scuola, con i bambini. Bisogna instillare educazione per suscitare consapevolezza nella società. Gli uomini gay in Colombia sono raffigurati molto male, le lesbiche meno ma ad esse si appiccica la falsa aura della bisessualità, tipica delle fantasie sessiste.

La mia professione si adatta perfettamente alle lotte dei popoli indigeni. Il fatto che vivo in città, separata dalla comunità, è disprezzato però partecipo ancora agli incontri comunitari guidati dai caciques (capi). Come persona indigena urbanizzata ho incontrato grande ignoranza rispetto ai popoli indigeni: la mia compagnia è stata creata proprio per salvaguardarli e renderli visibili. Ho realizzato un documentario per la televisione che sarà trasmesso in gennaio e che parla del potere femminile nelle comunità.

Il mio lavoro contribuisce alla costruzione di una società maggiormente egualitaria. Contribuiamo alla visibilità delle nostre culture indigene e della diversità in generale.

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vida nueva

La “nuova vita” del titolo è il nome di una cooperativa artigiana di donne indigene messicane (alcune le vedete in immagine con i tappeti che producono) fondata nel 1996 da Pastora Asunción Gutiérrez Reyes. Il suo scopo era ed è dare opportunità economiche, diritti umani e sogni a donne in condizioni difficili – vedove, madri single e vittime di violenza domestica costrette a lottare ogni giorno con gli svantaggi posti su di loro da una società patriarcale e machista. Ma l’intento iniziale si è ovviamente ampliato con il tempo: a Vida Nueva vogliono che le bambine e le ragazze possano andare a scuola e che le donne abbiano abbastanza potere da decidere cosa vogliono fare delle loro esistenze, perciò investono energie, tempo e denaro in progetti comunitari diretti a tali fini: negli anni hanno per esempio fornito assistenza sanitaria gratuita e creato un sistema di riciclo rifiuti. Tessere a Teotitlán era loro originariamente proibito, in quanto “lavoro da uomini” (vedete quanto arbitrari sono gli stereotipi di genere?), ma per fortuna di tutti/e se ne sono fregate.

Global Citizen ha raccontato la loro storia in un documentario qui:

https://www.globalcitizen.org/en/connect/activate/episode1/

Inoltre, ha pubblicato in settembre una lunga intervista con una socia della cooperativa, Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes, di cui riporto un brano. (Silvia è l’unica del gruppo ad aver frequentato l’università ed è quella che nel 2004 parlò alle Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani subite da bambine e bambini indigene/i)

Global Citizen: Quante sfide avete affrontato da quando iniziaste?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Durante questi 22 anni abbiamo visto cambiamenti. Dapprima tutti ci criticavano e dicevano che eravamo pazze. Ci hanno anche chiamate prostitute e donnacce, ci hanno rigettate e guardate male. Ma ora, con tutto il lavoro che abbiamo fatto, abbiamo guadagnato il rispetto della gente nella comunità. Molte persone ora dicono che non pensavano le donne potessero portare alla comunità qualcosa di buono. Grazie a tutto il lavoro svolto ora le donne possono decidere, abbiamo imparato di più sui nostri diritti e abbiamo fatto in modo che ci rispettassero.

Global Citizen: In che modo percepisci che i cambiamenti hanno avuto impatto sulle vostre vite?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Ora possiamo dire forte e chiaro “NO” quando gli uomini ci dicono qualcosa di sbagliato. Abbiamo imparato a difendere le nostre idee e quel che vogliamo fare. Le nostre figlie stanno già studiando, un grande risultato considerato che nel passato non ricevevamo sostegno dalle nostre famiglie per studiare o viaggiare. La maggioranza delle donne di Vida Nueva non è andata a scuola e persino Pastora, la fondatrice, ha finito solo le elementari. Ora per noi è più facile creare documentazione, cercare sostegno, preparare i nostri seminari eccetera.

Global Citizen: I vostri prodotti artigianali non sono solo grande arte ma preservano anche il valore della cultura Oaxaca. Puoi darmi qualche dettaglio sul valore che sta dietro i vostri prodotti?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Il nostro lavoro si concentra sulle tecniche ancestrali. Ogni pezzo che produciamo ha un processo ancestrale, creativo e innovativo. Ciò che di certo rende il nostro lavoro speciale è che ancora ci basiamo sulle tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione. Usiamo tinture naturali che vengono da piante, frutti o insetti come la cocciniglia del carminio. Per innovare abbiamo lezioni di disegno e colorimetria e poi usiamo le nuove tecniche e le fondiamo con le antiche.

Ciò che dà un valore unico ai nostri pezzi è la qualità di cui cerchiamo di aver cura in ogni prodotto. L’intero processo prende approssimativamente tre mesi, perché elaboriamo il materiale grezzo, raccogliamo le piante o prepariamo i pigmenti. Ogni donna mette non solo il suo talento nel suo tappeto, ma anche il suo cuore e la forza di una donna che lotta per una nuova vita.

La cosa importante nel nostro lavoro, e per noi, è che ogni pezzo ha un significato speciale. E nella maggior parte dei casi, questi significati parlano di liberà, sogni e sfide che noi come donne vogliamo realizzare.

Maria G. Di Rienzo

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jennifer 42

Uscirà nell’aprile del prossimo anno, ma merita di essere segnalato con largo anticipo: si tratta del documentario d’animazione britannico “Jennifer, 42”.

Potete averne un assaggio di circa sette minuti qui:

https://vimeo.com/jennifer42doc

Le voci che sentite commentare e descrivere le scene in sottofondo sono quelle dei tre figli della protagonista, la quarantaduenne Jennifer Magnano. Dopo quindici anni di abusi sempre crescenti da parte del marito, questa donna architetta un piano di fuga rocambolesco e riesce ad allontanarsi assieme ai bambini.

“Da questo momento – spiegano le autrici del filmato – Jennifer ha fatto tutto quello che ci si aspettava da lei e tutto quello che le è stato detto di fare: ma è finita assassinata. E’ stata uccisa di fronte ai figli sui gradini d’ingresso di casa.”

Il film non è un giallo in cui dobbiamo scoprire l’assassino: fu il marito di Jennifer a premere il grilletto. E’ una ricostruzione degli eventi che hanno preparato l’omicidio e un’indagine approfondita degli stessi, ovvero la disamina del regime di controllo coercitivo che l’uomo aveva imposto alla sua famiglia – la complicata, minuziosa violenza di orari, silenzi, rituali, preparazione di pasti… il tutto senza una logica, senza relazione causa/effetto, a capriccio del marito-padre-padrone che minaccia e punisce in caso di “infrazioni”: conosco il genere per esperienza e vi assicuro che è infernale.

Le regole sono stabilite con il solo scopo di farti sentire costantemente in ansia e in colpa, vulnerabile, fragile. “Quando uscivi dalla tua stanza per andare a scuola non potevi rientrarci – ricorda per esempio una delle figlie – nemmeno se avevi lasciato indietro qualcosa che ti sarebbe servito.”

Lo staff che ha creato il documentario d’animazione è composto da donne e uomini di grande abilità, con brillanti successi precedenti e un impegno costante contro la violenza di genere, fra cui la regista Elle Kamihira, la criminologa Laura Richards (con un decennio di lavoro per Scotland Yard alle spalle), la produttrice Katie Hyde e la direttrice dell’animazione Yulia Ruditskaya (che ha offerto gratuitamente i suoi talenti anche a Unicef e Amnesty International).

Maria G. Di Rienzo

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currano

La fotografia ritrae la dott. Ellen Currano, docente associata di paleobotanica (studio dei resti fossili vegetali) all’Università del Wyoming. Il suo abbigliamento è quello del lavoro sul campo, ma in effetti Ellen ha qui dotato il suo equipaggiamento di un accessorio nuovo: la barba.

Il fatto è che la scienziata, nonostante faccia le identiche cose dei suoi colleghi di sesso maschile, ottiene da sempre ascolto zero. La sua pazienza è giunta al limite quando uno di questi colleghi è stato accreditato e lodato per le idee che lei aveva espresso pochi minuti prima. Ovviamente la dott. Currano non è la sola donna a sperimentare di continuo situazioni simili nell’ambito scientifico e a quel punto ha deciso che avrebbe tentato di darne conto all’esterno di esso.

“Confidò all’amica regista Lexi Jamieson Marsh – scrivono Kate Ryan e Belinda Goldsmith per Thomson Reuters Foundation – di essere stanca di sentirsi invisibile e di vedere che erano sempre gli scienziati maschi a essere intervistati in televisione quando c’era necessità di un esperto: “Ho detto: se mi mettessi addosso una barba, allora forse ascolterebbero quel che ho da dire.” Marsh ha aggiunto che quell’osservazione colpiva nel segno e ha ispirato “The Bearded Lady Project: Challenging the Face of Science” – “Il Progetto Signora Barbuta: Sfida al Volto della Scienza”, un’ironica celebrazione delle donne che dedicano le loro vite alle geoscienze. “Con qualche pelo ben messo, ogni donna scienziata può essere percepita come egualmente vigorosa, tosta e determinata.”, attesta il Progetto sul proprio sito web.”

bearded lady project

Il progetto include due documentari e una mostra itinerante con i ritratti di 100 paleontologhe (tre sono qui sopra) dotate di barba finta che condividono le loro storie di lotta per la parità salariale, per le opportunità di lavoro sul campo e per le promozioni. Ogni ricavo della mostra finisce in un fondo per le future paleontologhe. Un filmato più lungo è in post-produzione e potete vederne il trailer qui: https://vimeo.com/user32129629

Maria G. Di Rienzo

P.S.: Che barba per noi donne dover continuare a rivendicare la nostra stessa esistenza!

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“La mia carne può essere stata portata via,

ma non potrò mai essere privata del mio cuore.”

Abida Dawud

sara regista

La giovane donna in immagine qui sopra è la regista egiziana Sara Elgamal. In collaborazione con il Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione ha creato “A piece of me” – “Un pezzo di me”, una serie di tre film brevi che raccontano le storie di Zahra, Abida e Khadija che, sopravvissute alla mutilazione genitale, sono diventate straordinarie attiviste nelle loro comunità per metter fine alla pratica.

Quando, l’anno scorso, Sara ricevette la proposta di realizzare i documentari non sapeva granché delle MGF. “Perciò feci le mie ricerche – racconta la regista – e nel processo scoprii che la mia stessa madre, le mie zie e la maggior parte delle donne anziane nella mia famiglia sono state soggette alla mutilazione. E’ stato estremamente disturbante venire a sapere che così tante donne a me vicine avevano subito una pratica così crudele e che le loro vite erano state prive di piacere sessuale.”

La cosa che le fu subito chiara, mentre tentava di definire che tipo di impostazione avrebbe avuto il suo lavoro, è che non avrebbe raffigurato le donne come vittime impotenti: “Ho deciso di rappresentare le donne nel modo in cui io comprendevo chi fossero nonostante i loro traumi: dignitose, potenti, belle, complesse. Ho deciso di creare una campagna che le celebrasse. L’approccio che ho usato nel girare i filmati, di proposito, è esteticamente molto simile a un servizio di moda. Volevo sfidare la nozione di ciò che vediamo come “supermodelle” o come eroi e portare il lavoro a un livello di visuale cinematografica che normalmente non è associato alle campagne delle Nazioni Unite.”

Ottenere un simile livello di produzione è stata una sfida. Sara e i suoi collaboratori lavoravano in una regione semi-desertica dell’Etiopia dove si trovano i villaggi rurali di Zahra, Abida e Khadija, le tre guide e maestre comunitarie che hanno rifiutato di sottoporre alle mutilazioni genitali le loro figlie e che educano altre persone a seguire questo esempio. L’equipaggiamento ha dovuto essere adeguato all’ambiente, la regista ha dovuto partecipare a incontri diplomatici con i capi dei villaggi per ottenere il permesso di effettuare le riprese e così via: “Non l’avevo mai fatto prima in nessuna delle mie precedenti produzioni, ma era necessario affinché tutti capissero i nostri scopi. Le cose sono diventate sempre più facili mano a mano che la gente vedeva come stavamo mettendo il cuore nel nostro progetto. Alla fine, uno dei capi ci disse che tutto il nostro duro lavoro e il nostro atteggiamento lo avevano indotto a riflettere su che tipo di impegno vuol mettere a favore della sua comunità.”

Sara voleva una storia che trascendesse la narrativa della vittimizzazione: “Desideravo raccontare la vicenda di donne splendide e forti che sono state in grado di ridefinire la loro propria versione della passione e dell’amore, nonostante i traumi subiti nel passato – e spero di essere riuscita ad ottenere questo con Un pezzo di me.”

Maria G. Di Rienzo

Potete dare un’occhiata a due brani della serie qui:

Khadija Mohammed – https://vimeo.com/336139069

Zahra Mohammed Ahmed – https://vimeo.com/336131676

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