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China 2009

“La Dabu, la matriarca che guida la famiglia Mosuo. Questo ruolo chiave è tenuto dalle donne più anziane fra i parenti. Lei è quella da cui discendono nome e proprietà, maneggia il danaro e organizza le cerimonie religiose.”

Credo sia una buona cosa il riuscire ancora a interessarsi di storia, arte, fotografia ecc. in questo momento così pieno di incertezza e sofferenza: il vostro interesse per “Grande cuori, mani forti” (28 febbraio u.s.) merita dunque una risposta.

Dove sono le altre società matriarcali? (Ovunque.) Sono tutte di antica origine? (No.) Raffigurano semplicemente l’oppressione di genere rovesciata? (Niente di più lontano dalla realtà.) Andate in miniera, allora, e poi vediamo (Questo è lo scemo di turno: adesso gli spiego tutto anche se è probabilmente inutile, così – in caso capisca qualcosa – almeno può uscire dalla garitta dove sta di vedetta contro l’invasione “femminazista” e andare a casa).

Il tratto comune a tutte le società matriarcali è che i figli/le figlie sono primariamente connessi alla madre: portano il suo nome e/o vivono nella casa del suo clan anche quando raggiungono l’età adulta. Spesso eredità e beni passano da madre a figlia. Molte società matriarcali sono agricole, laiche, costruite in modo orizzontale e non gerarchico, basate sull’eguaglianza di genere. In quelle ancora esistenti le donne giocano un ruolo centrale sul piano sociale, economico e (non sempre) politico.

La fotografa cecoslovacca-algerina Nadia Ferroukhi (le immagini qui presenti sono particolari di sue istantanee) ne ha girate parecchie e ha dato testimonianza delle sue esperienze qui:

http://nadia-ferroukhi.com/v4/sets/matriarcat/

Si tratta della serie “Nel Nome della Madre”, a cui ha dato un contributo significativo l’antropologa, etnologa e femminista francese Françoise Héritier (1933-2017).

Nadia ha vissuto con i Mosuo in Cina, i Tuareg in Algeria, i Minangkabau in Indonesia e i Navajo negli Usa – che sono le realtà di segno matriarcale più note, ma ha trovato società simili in Kenya, in Guinea-Bissau, nelle Comore, in Messico. Ritrarre le comunità in modo congruo e dettagliato non è stato facilissimo, spiega la fotografa: “La gente si aspetta da questo risultati spettacolari. Ma in effetti io ho fotografato la vita quotidiana.” Una vita quotidiana lontana dagli stereotipi e dai pregiudizi, in cui un’organizzazione sociale dà valore a ogni suo membro.

Riportare e tradurre tutto il lavoro di Nadia renderebbe questo articolo così lungo da divenire faticoso, perciò ho scelto degli “assaggi” che si accordano al mio incipit.

Comoros 2017

“Una giovane sposa sull’isola di Grande Comore. Dopo il matrimonio, il marito si trasferisce nella casa costruita per lei dalla sua famiglia, dove è considerato un ospite del clan matrilineare.”

NUOVO DI ZECCA:

E’ il villaggio di Tumai in Kenya, nato nel 2001 per fornire rifugio alle donne della tribù Samburu che erano state vittime di violenza domestica / violenza di genere. Simile a Umoja e a Jinwar

(https://lunanuvola.wordpress.com/2019/03/01/jinwar/) – la fondatrice Chili viene in effetti da Umoja – accoglie le divorziate, ha messo fuorilegge le mutilazioni genitali e non ammette gli uomini sopra i 16 anni d’età. Tumai è completamente autosufficiente. Tutte le decisioni sono prese per voto di maggioranza fra le donne, che allevano capre, costruiscono da sole le loro case, vanno a caccia se serve e tengono rituali sacri (allevamento a parte, le altre attività non sarebbero loro permesse in circostanze “normali”).

DIFFERENTI, NON SPECULARI:

Guinea-Bissau – “Lo stile di vita negli arcipelaghi, in particolare sull’isola di Canhabaque (3.500 persone) è stato scarsamente influenzato, quando per nulla del tutto, dalla civiltà moderna. Qui, le case sono di proprietà delle donne e sono gli uomini a trasferirsi dalle loro mogli. Sebbene il padre passi il suo cognome ai figli, è la madre che sceglie il primo nome ed è al suo clan che essi sono affiliati. L’isola è governata da una regina. C’è anche un re (che non è il marito della regina) ma il suo ruolo è limitato: è un semplice portavoce. Ogni villaggio è amministrato da un consiglio di donne, elette a vita.”

Messico – “Juchitán, una città di 78.000 abitanti nello stato messicano di Oaxaca è il luogo dove è nata la madre della pittrice Frida Kahlo. Durante i secoli, uomini e donne hanno sviluppato forme chiaramente identificate di autonomia. Le donne maneggiano il commercio, l’organizzazione di festival, la casa e la strada. Agricoltura, pesca e politica sono responsabilità degli uomini. Questo è uno dei pochi luoghi in Messico dove la lingua e i dialetti Zapotec sono ancora parlati. Usato negli scambi fra donne del vicinato e donne di passaggio, questo linguaggio ha costruito fra le donne una notevole solidarietà. Nome, casa e eredità si trasmettono in linea femminile. Perciò, la nascita di una figlia è fonte di grande gioia.”

Indonesia “La più grande società matrilineare al mondo, composta dai Minangkabau, si trova sulle colline della costa occidentale di Sumatra in Indonesia. Secondo il loro sistema sociale, tutte le proprietà ereditarie passano da madre a figlia. Il padre biologico non è tutore del bambino; è il mamak, il più anziano fra gli zii materni, ad assumere tale ruolo. Durante la cerimonia matrimoniale, la moglie va a prendere il marito nella casa di lui, accompagnata dalle donne della sua famiglia. L’adat, o “legge ordinaria”, determina una serie di regole tradizionali non scritte su questioni matrimoniali e proprietarie. In accordo a queste regole, qualora vi sia un divorzio il marito deve lasciare la casa e la donna mantiene la custodia dei figli e l’abitazione.”

QUESTE IN MINIERA CI VANNO GIA’:

Stati Uniti d’America – “La vita sociale della nazione Navajo è organizzata attorno alle donne, secondo un sistema matrilineare in cui titoli, nomi e proprietà si trasmettono in linea femminile. Quando una ragazza Navajo raggiunge la pubertà deve passare attraverso la Kinaaldá, una cerimonia di quattro giorni che segna il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questa cerimonia è collegata al mito Navajo della Donna Cangiante, la prima donna sulla Terra in grado di avere bambini. Nella riserva, le donne sono in genere più attive degli uomini. Non è insolito per loro tornare a studiare tardi durante le loro vite, persino dopo aver avuto figli.”

Usa 2011

Queste donne Navajo lavorano in una miniera di carbone, assicurandosi in tal modo totale indipendenza finanziaria.

Maria G. Di Rienzo

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E’ uscito “Big Heart, Strong Hands” – “Grande cuore, mani forti” della fotografa norvegese Anne Helene Gjelstad (35 sterline, 256 pagine, Dewi Lewis Publishing), che documenta vita quotidiana, azioni e visioni delle donne in quella che è considerata l’ultima società matriarcale in Europa.

Si tratta delle isole estoni Kihnu e Manija nel Mar Baltico, dove sono le anziane a curarsi di tutto quel che riguarda la terra e a prendere decisioni in merito, mentre gli uomini vanno per mare.

Anne Helene Gjelstad ha dedicato numerosi anni al progetto, che vede come il proprio “contributo a dar testimonianza di questa cultura unica e a preservarne il futuro”.

Due particolari delle sue fotografie e il testo relativo:

lohu hella

“Lohu Ella è una delle maestre artigiane più rispettate di Kihnu. Sempre pronta a dare una mano, amichevole e gentile, con un gran cuore e un sorriso amabile, è una delle donne con cui ho passato più tempo e ho fotografato di più. Da lei ho appreso la cultura dell’abbigliamento delle donne: come fanno i loro copricapi, come mettono le loro gonne speciali, cosa indossano per dormire e come tengono al sicuro i loro tesori. Lohu Ella sta costantemente creando qualcosa. Ha persino confezionato per me un bellissimo costume Kihnu.”

virve

“Järsumäe Virve ha sempre amato gli animali e tutte le creature viventi. Non sa quanti gatti ha di preciso e persino i gatti delle vicine vengono da lei per mangiare. Ha due cani e un cavallo che corrono liberi nella sua proprietà durante la stagione calda. Quando diventammo amiche aveva anche due capre e le piaceva bere direttamente dal recipiente subito dopo averle munte. Mi spiegò quanto era salutare farlo e gentilmente condivise con me il latte tiepido.”

Maria G. Di Rienzo

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Oggi siamo in piazza con Fridays For Future in 160 città italiane. Il cambiamento climatico dev’essere affrontato ora o in tempi assai brevi non avremo proprio l’occasione di affrontare nient’altro.

water

L’immagine che vedete è dell’artista e reporter Aïda Muluneh. Fa parte della sua ultima serie “Water Life”, attualmente in mostra a Londra e realizzata su richiesta dell’ong WaterAid.

L’acqua è il primo elemento tramite cui possiamo avvertire gli effetti del cambiamento climatico. Le temperature più alte e le conseguenti condizioni meteorologiche insolite e imprevedibili sono causa di siccità, alluvioni, scioglimento dei ghiacciai, deterioramento o scomparsa delle fonti d’acqua potabile e così via.

Per quelli che “il clima no perché viene prima la lotta di classe”: a soffrire principalmente di questa situazione sono le comunità più povere. A livello globale una persona su dieci non ha accesso ad acqua pulita e indovinate pure di che classe sociale fa parte.

Per quelli che “non c’è nesso fra migrazione e clima”: da queste comunità senz’acqua, impossibilitate a lavorare e vivere, le persone fuggono. O pretendiamo che restino a morire di sete e di malattia in silenzio, così non ci disturbano?

Per quelli che “cosa c’entra il femminismo”: l’accesso all’acqua potabile pesa sulle spalle delle donne in tutte le regioni devastate e impoverite del mondo. Il cambiamento climatico le costringe a percorrere distanze incredibilmente lunghe per trovare acqua, tragitti durante i quali sono spesso vittime di violenze sessuali. Le bambine non vanno a scuola per aiutare le madri a raccogliere acqua, le ragazze vieppiù non ci vanno quando hanno le mestruazioni. Vi basta?

In Etiopia, che è il paese di origine di Aïda Muluneh, ogni fottuta ora muoiono quattro bambini per malattie collegate alla scarsità e all’inquinamento dell’acqua. E poi la gioventù nostrana che manifesta oggi starebbe inscenando “una bigiata di massa”? Sig. Salvini, non ci sono bambini solo sui suoi palcoscenici, sa.

Maria G. Di Rienzo

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L’Apparenza delle Cose

Milk and Sap - 2017 - Jocelyn Lee

(Latte e Linfa, 2017)

Le immagini che vedete sono parte di una mostra intitolata “The Appearance of Things” – “L’Apparenza delle Cose”, attualmente allestita al Center for Maine Contemporary Art di Rockland, nel Maine.

La celebrata e premiata Autrice è la 56enne Jocelyn Lee (nata a Napoli) e da dieci anni sta lavorando a questo ultimo progetto che, nelle sue stesse parole, opera “uno spostamento di prospettiva in cui un corpo – un ritratto – diventa un paesaggio; una natura morta diventa un ritratto e un paesaggio diventa un corpo.”

July burn - 2016 - Jocelyn Lee

(Bruciore di Luglio, 2016)

La critica d’arte del New Yorker, Rebecca Bengal, nella sua recensione della mostra scrive: “Al posto dello scambio fra macchina fotografica e soggetto, queste fotografie pittoriche rivelano una simbiosi fra forme umane e forme naturali, ove ogni forma esalta la bellezza prodigiosa e costantemente mobile dell’altra.”

Riding the apple tree - 2016 - Jocelyn Lee

(A cavallo del melo, 2016)

Maria G. Di Rienzo

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alejandra - foto di ada luisa trillo

L’immagine qui sopra appartiene a una rassegna fotografica che ha cominciato a girare le mostre in questo luglio 2017. Ritrae Alejandra, la quale dovrebbe essere già morta, secondo la tardiva diagnosi di cancro al colon non curato, ma ha superato di due anni la data che i medici avevano ipotizzato per il suo decesso. Alejandra è ritratta nel suo “luogo di lavoro” – come direbbe qualche idiota – ovvero un bordello di Ciudad Juárez, in Messico.

La fotografa si chiama Ada Luisa Trillo ed è riuscita a entrare in dozzine di stanze come questa, assieme all’amica Blanca Cerceda che l’ha aiutata registrare le storie delle donne coinvolte, grazie a una sopravvissuta alla tratta sessuale, Maria Lourdes Aguero: costei ha fatto da tramite con i magnaccia e gli spacciatori, che hanno concesso 15 minuti per ogni visita. Ada e Blanca, in un periodo di tre anni, hanno fatto in modo di ripetere le visite ad alcune delle donne. Il patto prevedeva ovviamente che la fotografa non riprendesse nessuno degli sfruttatori e degli “utilizzatori finali” dei suoi soggetti, ma essi restano invisibili solo a questo livello perché le storie che le donne hanno raccontato sono appese accanto alle loro fotografie. Ada ha immortalato circa un centinaio di loro: oggi ne sopravvivono una manciata.

Muoiono uccise dai “clienti” o dai papponi – come Sandra, strangolata l’anno scorso, o Lupita, uccisa a colpi di pistola, o dai cocktail di alcool e oppiacei che usano soprattutto come sostituti dei medicinali per le malattie che hanno contratto prostituendosi. Sylvia, che nel bordello ha sofferto una ferita alla schiena e camminerà con le stampelle per il resto della sua vita, per controllare i dolori assume una mistura di solventi, marijuana e crack.

La maggior parte di queste donne sono state trafficate all’età di 14/15 anni. Alcune riportano di aver subito stupri da bambine da parte di patrigni o di altri uomini che avrebbe dovuto aver cura di loro. Con una sola eccezione, sono tutte di etnie indigene.

“Nessuna delle donne che ho fotografato definisce se stessa una ‘trabajadora sexual’ (‘sex worker’). – ha detto Ada Luisa Trillo alla stampa – Si sono fatte beffe del termine e dicevano caí en la prostitución o caí en esto, che significa “Sono caduta nella prostituzione”. Spesso si domandavano: Come sono finita qui?

Così, al termine di un lungo e dettagliato articolo Taina Bien-Aime, una delle direttrici della Coalizione contro il traffico di Donne (CATW) commenta la mostra: “Le magnifiche immagini di Trillo ci rendono testimoni. Nessuna bambina sogna un lavoro in cui rischiare l’amputazione di un arto per malattie provocate da droghe o la possibilità di morire per mano di un compratore di sesso siano la sua fatica giornaliera per il pane. Nessuna ragazza immagina di finire per credere, un giorno, che i suoi amati figli stanno meglio senza di lei. E nemmeno dovremmo farlo noi.”

Maria G. Di Rienzo

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María Aparicio Puentes

Costei è María Aparicio Puentes, nata a Santiago in Cile nel 1981. Le immagini che vedrete di seguito appartengono a una serie di sue opere del 2014 – in collaborazione con le fotografe Tatjana Radičević e Ksenija Jovišević e il fotografo Lukasz Wierzbowski – che vanno sotto il titolo “Sii brillante”. L’Artista allestisce mostre dal 2011 ma di recente sta ottenendo consensi e grande popolarità soprattutto sul web.

María “ricama” le immagini con filo metallico dopo averle analizzate per “geometrie, ritmi, tensioni… per ogni cosa” con il desiderio di descrivere “le persone e la loro relazione con l’ambiente”. E come per magia, le persone diventano costellazioni, gli spazi sottolineati dal filo raccontano storie diverse e profonde, e ogni figura umana sembra respirare libertà su scala cosmica.

Non è bello iniziare la giornata con queste sensazioni? Siate brillanti!

Maria G. Di Rienzo

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Diversamente da altre città statunitensi, a New Orleans la “Super Domenica” non si riferisce alla finale del campionato di football americano ma al Carnevale: nella domenica più vicina al 19 marzo circa 50 gruppi di origine nativa sfilano in sgargianti costumi, rigorosamente fatti a mano, cantando e danzando e tenendo rituali. Si crede che l’orgine di questa celebrazione risalga al periodo in cui gli schiavi fuggitivi di colore trovavano rifugio presso le tribù indiane, adattandosi ai loro usi e costumi e passando queste conoscenze alle generazioni successive.

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Circa tre anni fa, la fotografa Akasha Rabut si trovava a New Orleans per seguire la “Super Domenica” e notò due donne in motocicletta. Costoro le dissero di far parte di un club, fondato nel 2005 e chiamato “Caramel Curves” (“Curve color caramello”): “Il mondo dei club di motociclisti – racconta la fotografa – è generalmente un dominio maschile, per cui ho trovato davvero interessante che donne afro-americane vi fossero coinvolte. Ho cominciato a fotografarle perché volevo documentare questo fenomeno culturale.”

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Le “Caramel Curves”, scoprì Akasha, sono delle celebrità locali e usano le loro parate per raccogliere fondi destinati a scopi sociali come la costruzione di centri comunitari. Anche la loro capacità organizzativa ha affascinato la fotografa: “Sono in 28, e ciascuna di loro ha la sua propria vita e il suo proprio lavoro, ma in qualche modo riescono puntualmente ad incontrarsi ogni domenica.”

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Tanto per far capire subito chi sta guidando le motociclette in corsa, le “Caramel Curves” verniciano la gomma delle ruote, così da produrre fumo rosa al loro passaggio.

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Non vi dico altro se non di dare una buona lunga occhiata alle fotografie di Akasha Rabut. Personalmente trovo le “Curve color Caramello” fantastiche e adorabili. Maria G. Di Rienzo

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soltan

La donna nell’immagine è Soltan Achilova, 67 anni, giornalista corrispondente dal Turkmenistan per Radio Free Europe / Radio Liberty, mentre mostra i lividi dovuti all’attacco da lei subito il 25 ottobre scorso. Soltan stava fotografando un supermercato nella capitale del paese, Ashgabat, quando assalitori rimasti “ignoti” l’hanno picchiata – subito dopo essere uscita da un interrogatorio durato ore, da parte della polizia, su quel che stava facendo – e le hanno rubato la borsa e la macchina fotografica. Il supermercato è di proprietà dello stato e Soltan stava riprendendo le lunghe file di persone che attendevano di potervi accedere.

Nel 2014, la stessa cosa accadde mentre stava riprendendo immagini di un mercato: anche in questo caso gli aggressori sono rimasti “ignoti”, nonostante dopo averla malmenata l’avessero portata in una centrale di polizia, dove la sua macchina fotografica fu sequestrata e le immagini in essa cancellate.

L’8 novembre 2016 la faccenda si è ripetuta. La giornalista si trovava in una clinica per motivi di salute. Ha dapprima dovuto testimoniare un attacco a un’altra anziana (Soltan pensa che le due assalitrici l’abbiano scambiata per lei), gettata a pugni sul pavimento e lì pestata al grido “Questo è quel ti meriti per le fotografie!”. Più tardi, in serata, le assalitrici hanno trovato Soltan alla caffetteria della clinica e si sono scagliate contro di lei urlando: “Questa è quella che fa le fotografie e getta fango sul Turkmenistan!”. La giornalista ha subito il pestaggio e anche questa volta le delinquenti non hanno un nome.

Radio Free Europe / Radio Liberty ha potuto dar conto della vicenda solo il 14 novembre, venendone a conoscenza da parte di terzi, perché dal giorno dell’ultimo assalto ne’ il telefono ne’ la connessione internet di Soltan Achilova hanno funzionato per due settimane: probabilmente erano immersi in quel fango putrido che è la violenza.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Keeping women in their place: Objectification in advertising”, un più lungo articolo di Jennifer Moss, 11 luglio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Jennifer Moss  è una programmatrice e creatrice di software, una giornalista freelance e una scrittrice. Inoltre, dal 1999 al 2010 ha lavorato come fotografa professionista e a questa specifica esperienza fa riferimento nel suo pezzo, che conteneva le immagini riprese qui e altre dello stesso tenore.)

Ho lavorato con molte modelle ai loro inizi, alcune delle quali hanno poi “sfondato” nell’industria della moda. Ma più imparavo come questa era fatta, più mi ripugnava parteciparvi. Tanto per cominciare, c’era un solo tipo di corpo accettabile per le donne. Un’altra cosa che mi disturbava era che le agenzie maggiori assumevano donne sempre più giovani. Ragazzine di 14 anni erano usate in pose che descrivevano adulte. (…)

Dieci anni dopo, l’industria delle modelle e della moda sta cominciando a essere criticata per la sua rappresentazione delle donne. Fortunatamente, l’opinione pubblica sta contestando i tipi di corpo irrealistici, il photoshopping, la denutrizione e il ritratto delle donne nella pubblicità.

Con questa rinnovata consapevolezza ho cominciato a notare i messaggi sottesi alle pose. Persino io dicevo alle modelle di ingobbire le spalle, chinarsi in avanti, piegare la testa. Standard dell’industria. Ma perché erano questi gli standard? Dopo aver esaminato qualche manciata di pubblicità, ho capito che le pose erano intese, di base, a tenere le donne “al loro posto”.

Ho creato quattro categorie: la maggioranza delle pubblicità che ho esaminato ricade in una o più d’una di esse.

A. SPAVENTATA / VITTIMA

Pose_2

Si sta guardando alle spalle o l’espressione del suo viso è impaurita. Tiene le mani in posizione protettiva o a mo’ di scudo. Sta cercando di allontanarsi da un uomo. E’ morta. Ogni immagine che la ritrae come vittima.

cadavere

B. POSIZIONATA PER IL SESSO / SVESTITA

Pose_1

E’ stata preparata per il sesso: giace supina o quasi. Le sue gambe sono divaricate. E’ su un letto. E’ più o meno svestita in un modo in cui (realisticamente) non si presenterebbe in pubblico. Ha qualcosa in bocca.

C. NON MINACCIOSA / MODESTA / INFANTILE

Testa piegata. Occhi che guardano in distanza, giù. La classica posa ingobbita della parte superiore del torso. Il corpo non è in squadra rispetto all’obiettivo. Il mento è basso. Il linguaggio del corpo rappresenta sottomissione, debolezza.

D. OGGETTIFICATA / NON UMANA / UNA DELLE TANTE

senza testa

Non ha faccia o la faccia è oscurata. Un gruppo di donne vestite in modo da sembrare tutte uguali. Nessuna individualità. Un prodotto.

Fate questo esperimento con me: la prossima volta in cui guardate una pubblicità di moda o d’altro, vedete se entra in una di queste categorie e decidete se il fotografo sta aiutando o danneggiando l’immagine femminile.

Un messaggio ai fotografi, agli stilisti, alle agenzie pubblicitarie e a chiunque altro sia coinvolto in questi servizi: state potenziando le donne o le state vittimizzando? Non sarebbe vantaggioso anche per le marche cambiare questo?

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Cats (non il musical)

Mi dispiace, umano: sono io la notizia del giorno.”

news of the day

Spoiler: il protagonista muore. Adesso puoi smettere di leggere e coccolarmi.”

spoiler

Dipinto della 17enne messicana autodidatta Dany Lizeth.

dany lizeth

E per finire, la traduzione di un messaggio su Twitter che è diventato famoso:

Il mio nuovo fidanzato è allergico al gattino, perciò non posso tenerlo. E’ rosso e il suo nome è Tom. Amichevole, quando lo chiami viene. Ha 28 anni e lavora nell’informatica.”

Maria G. Di Rienzo

(Visto che ultimamente la nostalgia per le mie gattine scomparse è molto forte, mi consolo così.)

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