Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘disabilità’

3000

Sì, questo è il pezzo n. 3.000 e questa è la poesia con cui festeggiamo (voi 1.003 “seguaci” ed io):

“Disclosure” – “Rivelazione”, di Camisha L. Jones (trad. MG DR)

Scusi potrebbe ripetere. Sono dura

d’orecchio.

Al cassiere

All’addetto al ricevimento

All’uomo insistente che chiede indicazioni per strada

Mi dispiace, ci sento poco. Potrebbe

ripetere?

Alla riunione d’affari

Al seminario di scrittura

Al telefono per prendere appuntamento con il medico

Scusi – scusi – mi dispiace tanto – Sono

dura d’orecchio.

Ripetere.

Ripetere.

Ciao, il mio nome è Scusa

Alla stanza piena di estranei

che fatico a udire

Vomito scuse ovunque

Volano su ali di pipistrello

verso qualsiasi suono faccia cenno

Scusi. Scusi. Mi dispiace tanto

e ripetere

e non sentire

Caro (di nuovo)

Mi rammarico dell’informarti

che io sono

qui

camisha

Spiegando perché ha scritto questi versi, Camisha (in immagine) ha detto: “Una persona sbatte contro di me per strada e io istintivamente replico “Mi dispiace.” Pochi secondi più tardi, me ne pento. Noto la stessa compulsività verso le scuse mentre navigo nel mondo come persona un po’ sorda. Cosa significa che io mi senta obbligata in questo modo a chiedere perdono ripetutamente, per aver disturbato l’agio di altre persone? Attraverso questa poesia mi cimento con quel che accade al di sotto della superficie di questi scambi, con il costo di queste scuse (…)”

Io non sono dura d’orecchio ma faccio la stessa cosa. Mi pestano i piedi, mi urtano, mi sbattono borse nelle costole e io chiedo scusa. Il meccanismo è chiaro: come Camisha sono diversa dagli individui cafoni – neppure rispondono mai – in cui mi imbatto, so che quella diversità è per loro colpa e inferiorità, sento il loro disprezzo, e mi scuso di esistere.

E’ un po’ buffo dichiarare buoni propositi alla mia età, ma in occasione del tremillesimo articolo eccone uno: io smetto. Da adesso. Subito, blog compreso. Come, direte voi, non ricordiamo di aver letto pezzi in cui ti scusi ossessivamente.

Vero, il mio “mi dispiace” qui è stato il silenzio. Da dieci anni imbecilli odiatori di ogni tipologia e sesso vagano sul web inventandosi sul mio conto una varietà di idiozie, fraintendendo a bella posta quel che scrivo, ululando nella mia direzione insulti cretini e dispiegando pseudo analisi ancora più cretine. E io non ho detto loro una singola parola. Non intendo mettermi a discutere con questa gente ma da qualche giorno, per esempio, blocco ogni mio articolo a cui mettono collegamenti con titoli tipo “campagna d’odio contro gli uomini” e “questa femminazista delira” (e peggio): a me non frega un piffero e posso riaprirli quando voglio, gli odiatori invece restano a mani vuote.

Poi ci sono i due segmenti di opinionisti/e scemergenti che ripetono ad oltranza frasi di questo genere, sperando inutilmente che io non pubblichi più e ai quali fornisco qui le mie risposte definitive:

1.”Adesso che hai scritto questa cosa non succede niente.”

Adesso che tu hai composto quest’illuminato commento, invece, l’universo si rovescia sottosopra e un nuovo big bang è alle porte… Ridimensiona la sperequata opinione che hai di te stesso/a e trovati un hobby serio, dai.

2. “Quelli che frignano a ogni uscita di x hanno stufato.”

Quelli che fanno commenti a caxxo, prima di dare aria alla ciabatta dovrebbero verificare se quanto dicono corrisponde a verità, perché le loro balle hanno stufato in grado assai maggiore: io non faccio la stalker, non uso ne’ FB ne’ Twitter, non vado in giro per il web a lasciare le mie “opinioni” ovunque e non rompo gli zebedei a gente che non conosco: cerca di assomigliarmi un po’ e vivremo tutti/e meglio.

E, per inciso: finché vivo scrivo, che fa anche rima.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(tratto da: “People Aren’t Bad for the Planet—Capitalism Is”, di Izzie Ramirez per Bitch Media, 27 marzo 2020, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Izzie Ramirez – in immagine – è una reporter freelance e la caporedattrice di NYU Local.)

Izzie

C’è una brutta china nei commenti che giustificano i decessi umani per preservare l’ambiente. Come l’attivista per il clima Jamie Margolin ha spiegato in un tweet “Dire ‘I deboli moriranno ma va bene perché ciò aiuta il clima’ non è giustizia climatica. Questo è ecofascismo.” L’ecofascismo è definito da governi che esercitano il loro potere per la protezione dell’ambiente a costo delle vite individuali.

Nel loro articolo del 2019 “Overpopulation Discourse: Patriarchy, Racism, and the Specter of Ecofascism,” Jordan Dyett e Cassidy chiarirono come l’ecofascismo prese piede nel 19° e 20° secolo in Germania, dove “una serie di preoccupazioni ecologiche cominciarono ad interagire con la xenofobia, il nazionalismo e il razzismo presenti nella regione.”

All’epoca, le autorità fasciste tedesche erano solite giustificare determinate politiche di esclusione collegando l’ambiente alla salute. La retorica tipica includeva il controllo della popolazione, misure anti-sovrappopolazione e nozioni per cui i gruppi minoritari erano specie invasive che costituivano una minaccia all’ambiente stesso. Questa è ideologia comune ai suprematisti bianchi, in particolare, e a quelli che commettono omicidi di massa. Per esempio, l’assassino responsabile degli omicidi di un gran numero di persone a El Paso, Texas, nel 2019 citò la degradazione ambientale come una delle sue ragioni. “Se riusciamo a sbarazzarci di abbastanza gente, allora il nostro stile di vita diventerà più sostenibile”, scrisse nel suo manifesto.

Nel contesto odierno, comunque, persone comuni stanno argomentando che il Covid-19 sarebbe il vaccino della Terra contro gli esseri umani mentre il virus sta gettando il mondo nello scompiglio e sta uccidendo migliaia di persone, molte delle quali appartengono alla classe lavoratrice, non hanno accesso alla sanità e sono costrette a continuare a lavorare perché sono considerate forza lavoro essenziale. Per come le cose stanno ora, l’ecofascismo – visto attraverso tali conversazioni sui social media – sta asserendo che la gente povera, la gente disabile e la gente anziana dovrebbero sacrificarsi per far vivere il resto di noi. Ciò non è solo moralmente riprovevole ma è l’incomprensione del problema più vasto: il coronavirus non è un “detox” per la Terra, è una perturbazione dei sistemi che potenziano il capitalismo.

Persino chi cerca di sfidare il capitalismo è forzato a vivere al suo interno, giacché dobbiamo sopravvivere in un’economia capitalista concentrata sul beneficio immediato anziché sulle conseguenze future. Perciò le persone salgono in autobus per andare ai loro impieghi salariati, montano in auto per andare in fabbrica e condividono veicoli per far quadrare i conti. Queste persone non hanno molte alternative economiche, perché hanno bocche da sfamare e bollette da pagare. La loro adesione per sopravvivenza al capitalismo non li rende egoisti o sacrificabili. In effetti, se voi siete preoccupati per il cambiamento climatico, queste sono le esatte persone per cui dovreste preoccuparvi.

Read Full Post »

amanirenas 2

Amanirenas (o Amanirena) fu regina – qore e kandake, “re” ed “erede matrilineare” – del Kush dal 40 al 10 BCE.

E’ solo una delle mille e mille figure femminili storiche sepolte da un metodo per cui se non corrispondono a uno stereotipo patriarcale è meglio non parlarne affatto. Questa poi, oltre a essere una guerriera, era pure cieca da un occhio!

Jason Porath – https://www.rejectedprincesses.com/ – racconta di lei così (l’illustrazione sottostante è sua):

“Molto tempo fa, quando Roma aveva messo gli occhi sul sud, una regina con un occhio solo combatté così fieramente che Roma non andò mai più oltre l’Egitto.

Il suo nome era Amanirenas.

Questa è la sua storia, e la storia di una testa famosa decapitata.

amanirenas

La vicenda inizia con la sconfitta di Cleopatra e Marcantonio per mano di Augusto.

Dopo aver annesso l’Egitto, Augusto e i suoi si ripromisero di spingersi ancora più a sud.

Ciò significa che la prossima nazione era quella di Amanirenas, regina del regno di Kush, in quello che oggi è il Sudan.

Florido quanto l’Egitto, Kush era tuttavia molto più piccolo dell’Impero Romano. Ad ogni modo, mentre Roma era distratta altrove, Kush colpì per primo.

Il marito di Amanirenas morì durante le prime battaglie, lasciando lei e il figlio a continuare la lotta.

Kush conquistò due grandi città romane, prese prigionieri ed espanse i confini del regno.

Come sberleffo finale, i Kushiti decapitarono numerose statue di Augusto.

Augusto non ne fu divertito. Roma reclamò le sue città, invase il Kush, distrusse la sua antica capitale e vendette migliaia di persone come schiave. Sembrava che Kush fosse stato messo in ginocchio. Non era così.

Amanirenas contrattaccò velocemente e ripetutamente, in apparenza usando alcune terrificanti tattiche di guerra.

Un’incisione mostra Amanirenas con due spade, mentre dà da mangiare prigionieri al suo leone domestico. Altre registrazioni descrivono l’uso di elefanti da guerra contro i nemici.

kandake

Dopo non molto, Roma acconsentì a un trattato di pace permanente (Ndt.: senza tributi o altre condizioni). Combinando resistenza ambientale e resistenza armata, Kush si dimostrò troppo difficile perché Roma continuasse a combattere.

Non conosciamo le opinioni di Kush sulla guerra. Sino a oggi, nessuno è riuscito a tradurre i loro geroglifici.

Kush scomparve 400 anni dopo, lasciando rovine che non furono oggetto di studio sino al 1900.

Come un tempio riscavato nel 1914. Gli archeologi furono sconvolti dal ritrovamento della testa di una statua di Augusto, il reperto di quel tipo meglio preservato che fosse sino allora sopravvissuto.

Stava sotto il piede di un governante kushita.”

Read Full Post »

27 gennaio 2020, Giacomo Moscarola, Lega:

“Vincere in Emilia è un po’ come quando vuoi trombarti 20 ragazze nuove e visto che non te la dà nessuna, ti accontenti dell’unica che ormai te la dà da anni.”

28 gennaio 2020, Attilio Fontana, Lega:

La sinistra è responsabile di “una mobilitazione degna dei tempi andati, si è vista in tv gente di più di cento anni portata ai seggi, disabili accompagnati con i pulmini…”

29 gennaio 2020, Matteo Salvini, Lega (lo stesso della bambola gonfiabile – Boldrini, della campagna diffamatoria contro Carola Rackete, del processo via citofono agli “spacciatori tunisini”… che non ha mai cancellato uno solo dei commenti violentissimi e minacciosi dei suoi seguaci) chiede a proposito dell’ovviamente inaccettabile scritta – “Soprattutto spara a Salvini” – su un muro di Bologna:

“Però saremmo noi a seminare odio… Mi aspetto la reazione indignata di tantissimi intellettuali di sinistra. Secondo voi quanti di loro diranno qualcosa a riguardo?” (Il primo a rispondergli di essere indignato è stato Bonaccini.)

Io, però, sto aspettando le veementi reazioni degli “intellettuali di destra” – lo metto tra parentesi perché lo considero un ossimoro – e di Salvini stesso ai due esempi precedenti (sarebbe peraltro facilissimo compilare lunghissimi elenchi di dichiarazioni simili), interventi pubblici in cui si chieda scusa alle donne, agli anziani e alle persone con disabilità e in cui si prenda l’impegno di smettere di insultare tutte e tre le categorie, subito, senza condizioni. Il branco dei seminatori d’odio potrebbe anche impegnarsi a smettere di fomentare razzismo e omofobia. Frau hier.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(tratto da: “Women leaders driven offline and out of work by social media abuse”, di Annie Banerji e Sarah Shearman per Thomson Reuters Foundation, 14 novembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Londra: l’abuso pervasivo delle donne sui social media sta spingendo le leader di sesso femminile fuori da internet e, in alcuni casi, fuori dal lavoro come è stato detto durante una conferenza giovedì.

A due anni dall’inizio del movimento globale #MeToo, con le donne che trovavano forza nel condividere le storie di molestie sessuali, ora il virulento abuso da loro subito online ne sta facendo uscire alcune dalla vita pubblica. Che si tratti di politiche o di attiviste, molte ne hanno avuto abbastanza e biasimano i loro detrattori digitali per la decisione di sottrarsi.

“Perché dovrei andare su una piattaforma dove sono chiamata cagna e puttana?”, ha detto Karuna Nundy, una delle avvocate più note dell’India, durante una pausa della conferenza annuale di Thomson Reuters Foundation a Londra. “Il “trolling” può essere estremamente disturbante. Può infiltrarsi nel tuo telefono, diventare assai personale e sbattuto in faccia.”, ha aggiunto Nundy, che si è aggrappata al proprio lavoro nonostante anni di diffamazioni online.

L’ex candidata alla presidenza degli Usa Hillary Clinton ha detto questa settimana che i social media – da Facebook a Youtube – premiano le pubblicazioni offensive e le teorie della cospirazione, molte delle quali dirette a donne dall’alto profilo. Il suo commento segue la notizia per cui un certo numero di donne politiche hanno dichiarato che non si presenteranno alle elezioni del 12 dicembre in Gran Bretagna, citando gli abusi subiti sulle piattaforme dei social media che includevano minacce di stupro e di morte. La Ministra della Cultura Nicky Morgan ha fatto riferimento agli alti livelli di abuso che le donne politiche “affrontano di routine” nella sua lettera di dimissioni. (…)

Le ditte che hanno la proprietà dei social media sono sotto pressione affinché rimuovano i bulli e Twitter ha promesso regole più dure sulle molestie sessuali online e anche penalità più severe per i trasgressori. Molte donne non possono esprimersi liberamente su Twitter senza timore di violenza, aveva detto Amnesty International l’anno scorso. Twitter non aveva commentato.

L’abuso può spaziare dal “doxing” – il rivelare dati personali come l’indirizzo di casa o il nome di un figlio – al postare immagini di nudo. “Sono le donne, in modo sproporzionato, a fare esperienza dei contenuti più ripugnanti.”, ci ha detto al telefono Julia Gillard, che è stata Primo Ministro dell’Australia. Sostiene che la rapida crescita dei social media ha significato diventare bersagli di aggressioni per un maggior numero di donne con un profilo pubblico.

La tecnologia in se stessa non è da biasimare, ha detto la scrittrice e attivista per i diritti delle persone disabili Sinead Burke (Ndt. – in immagine), invitando gli utenti a pensarci bene prima di pubblicare su piattaforme enormemente popolari come Facebook o Twitter.

sinead

“Sì, possiamo dar la colpa alle piattaforme per i loro algoritmi… ma come ci assicuriamo che le persone capiscano di aver responsabilità per le proprie azioni?”, ha detto Burke, la quale vive con l’acondroplasia, una patologia della crescita ossea che causa il nanismo.

Burke ha ricordato come un ragazzino la saltò alla cavallina mentre il suo amico filmava la scena per avere un video da pubblicare sui social media, “in un tentativo di diventare virali”: “Il problema non è la tecnologia – sono le persone.”

Read Full Post »

Kern

Leslie Kern (in immagine) è una docente universitaria canadese di geografia e ambiente, nonché la direttrice degli studi di genere nel suo ateneo. Il suo ultimo libro, uscito alla fine di ottobre, si chiama “Feminist City: A Field Guide” – “Città femminista: guida pratica (dal campo)”. Si tratta di una raccolta di saggi che mettono in discussione i modi in cui sono strutturati gli spazi urbani e suggeriscono alternative per rendere le città più inclusive e più sicure per tutte e tutti.

Il brano seguente è tratto da un’intervista a Kern condotta da Lana Pesch per “LiisBeth”:

“Ogni ambiente edificato che le società creano, come le città, riflette le relazioni di potere che nelle società esistono e penso noi si sappia chi tradizionalmente o comunque per lunghissimo tempo ha detenuto il potere. Stiamo parlando di uomini abbienti, proprietari, non disabili, eterosessuali e bianchi. Forse non dovrebbe essere una sorpresa che i nostri spazi urbani siano davvero organizzati per sostenere il loro successo, il loro potere, le loro quotidiane necessità.

Per far evolvere qualcosa come una città femminista, o i suoi principi, devi proprio avere un bel po’ di pressione sociale, che essa prenda la forma dell’attivismo o di cambiamenti legali, o di altre forme di movimenti sociali, o solo di una più ampia entrata delle donne nelle posizioni di potere nelle città e nei governi, nell’ordinamento legislativo, nell’architettura, nella progettazione urbana e cose del genere. E’ una sorta di lento processo.

Le idee femministe per la progettazione urbana e per l’organizzazione degli spazi domestici esistono da lungo tempo e possono essere fatte risalire al 19° secolo. Le donne, in particolare quelle che venivano dai movimenti sociali e simili, stavano riflettendo sui modi in cui l’ambiente edificato era costruito e in molti modi era costruito per isolarle, per tenerle occupate con il lavoro domestico non retribuito, per impedire loro di condividerlo con altre abitazioni, per tenerle fuori dalle sfere che erano specificatamente disegnate per gli uomini, la sfera pubblica, la politica, l’istruzione, la scienza e così via.

Non è una cosa nuova di zecca pensare a come le città, i vicinati, le comunità possano avere un’organizzazione che sostenga altri tipi di idee sociali, incluse quelle femministe. E’ interessante guardare indietro nel tempo e notare come le donne tirassero fuori le loro proprie idee su come i quartieri potevano essere ristrutturati per rimodellare le abitazioni e rimodellare il lavoro delle donne e far loro guadagnare tempo.

Vienna è un interessante esempio di città dove quel che chiamano “gender mainstreaming” è stato davvero messo in pratica. L’idea che ci sta dietro è che ogni tipo di politica o pianificazione cittadina, o nuovo piano di spazi edificati, si tratti di parchi o quartieri o linee di trasporto pubblico, deve essere guardato attraverso lenti di genere. Significa chiedersi “Questo potrebbe avere impatto differente su donne e uomini?”, “Aumenterà l’eguaglianza di genere o la farà diminuire?”.

Con lo scopo dichiarato di aumentare l’eguaglianza di genere, città come Vienna si sono assicurate che tutte le loro ristrutturazioni e i nuovi piani di progettazione urbana sostenessero tale visione. Ciò ha significato per esempio più trasporto pubblico, miglior accesso ai servizi per l’infanzia e ad ulteriori servizi sociali che si integrano meglio con gli ambienti domestici e tutto questo genere di cose.

Una città femminista, per me, dev’essere una città in cui le istanze relative alla sicurezza e alla libertà dalla paura sono prioritarie. Ci sono alcuni tipi di cambiamenti all’ambiente fisico che possono facilitare ciò, ma dev’esserci anche un più vasto impegno sociale per l’eguaglianza e la nonviolenza. Una città femminista dev’essere un luogo in cui lo spazio pubblico è in generale sicuro e accessibile, non solo per le donne, ma per le persone di colore, i senzatetto, le persone lgbt, le persone disabili. Uno spazio pubblico in cui chiunque si sente benvenuto e chiunque ha la sensazione di dare un contributo alla città con la sua presenza.

Sino ad ora, in termini di vita pubblica, abbiamo perso moltissimi contributi dalle donne e da altre persone marginalizzate. I loro contributi alla politica, all’istruzione, alla cultura, all’arte, alla scienza, agli affari. Se continuiamo a costruire ambienti che sono inaccessibili sia fisicamente sia socialmente, o che sono respingenti, o che semplicemente rendono la vita quotidiana delle persone intrisa di paura o davvero difficile, allora quelle persone non ci saranno in tali spazi quando avremo bisogno che ci siano.

Le crisi climatiche sono già qui e sono crisi di diseguaglianza. E le città saranno in prima linea a dover maneggiare tali crisi. Le città non sopravviveranno ne’ prospereranno se non trovano soluzioni per affrontare questi problemi e per affrontare i modi in cui le istanze sono interconnesse. Sappiamo che il futuro è un po’ fragile, ora, e se continuiamo a fare le stesse cose che abbiamo sempre fatto ciò non creerà un futuro luminoso per nessuno.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Nel giro di pochi giorni, a Roma, una bambina tenta il suicidio (fortunatamente sventato da due poliziotte fuori servizio prima che si gettasse dal balcone) e una ragazzina si toglie effettivamente la vita lanciandosi dal nono piano. Dieci anni la prima e tredici la seconda, per entrambe la Procura indaga sul ruolo che il bullismo potrebbe aver avuto nelle due vicende: la tredicenne riceveva in effetti messaggi insultanti e denigratori via chat, alcuni dei quali sono stati ora provvidenzialmente cancellati.

I giornalisti continuano a fare male il loro mestiere menzionando un non meglio specificato “malessere molto diffuso tra gli under 14” e ipotizzando “delusioni d’amore” (espressione un po’ esagerata per eventuali filarini andati storti); per quel che riguarda la ragazzina deceduta, non mancano di farci sapere che “Occhi azzurri, capelli castani, X era davvero bella, ma soffriva molto. Troppo.”: e davvero a questo punto non si capisce il perché, dato che l’essere “bella” (e cioè piacere ai maschi) è tutto quel che serve a una persona di sesso femminile qualsiasi sia la sua età, tutto quello che lei deve essere e a cui deve aspirare – tale è l’univoco messaggio diffuso dalla società italiana tramite media e social media.

Nella decisione estrema di un’adolescente possono entrare miriadi di fattori: problemi familiari, difficoltà scolastiche, violenze subite, pressioni relative all’immagine corporea, ecc. Certo è che si tratta di un periodo in cui la legittimazione e la validazione provenienti dal gruppo di pari assumono di solito un ruolo centrale e imprescindibile, per cui gli episodi di bullismo meritano senz’altro un’attenzione particolare da parte degli inquirenti.

Generalmente gli uomini muoiono per suicidio più delle donne, in special modo nei paesi cosiddetti “sviluppati”, e ciò si riflette sulle tecniche e sulle priorità dei programmi di prevenzione. Tuttavia, le donne tentano il suicidio in misura molto maggiore e i contesti in cui ciò accade non sono sufficientemente oggetto di studio, ma solo utilizzando in modo grossolano l’indicatore causa/effetto i tre fattori principali emergono chiarissimi:

– violenza sessuale, soprattutto se ripetuta

– minacce e abusi psicologici

– aggressione fisica grave (singola o ripetuta)

Cioè, le donne vedono il suicidio come via d’uscita dal subire violenza. Questo accade in gran parte perché la violenza contro le donne è ancora percepita e descritta come “faccenda personale”, con tutto il corollario di attribuzioni di responsabilità a chi ne è vittima (cosa hai fatto per provocare lo stupro e le botte, puttana?) e di suggerimenti inutili, conniventi, o persino francamente idioti atti a mantenere la situazione com’è e coprirla di silenzio (vestiti più sexy e non rimbeccarlo sempre…).

Per sconfiggere la violenza è necessario vederla in tutte le sue orride dimensioni, parlarne, rigettarla, mostrare e vivere le alternative ad essa. Il che significa azione ad ogni livello: dalla decostruzione delle norme sociali che condonano / giustificano / glorificano la violenza all’emanazione di leggi specifiche che puniscano davvero i perpetratori, ma per quel che riguarda il “malessere molto diffuso tra gli under 14” le sue prime medicine sono l’apprendimento dell’eguaglianza di genere e della nonviolenza.

Le famiglie possono non provvedere ciò per svariati motivi, le scuole e le istituzioni avrebbero però il dovere (etico, rispondente ai principi su cui sono fondate) di promuovere e rinforzare valori che sostengano relazioni nonviolente, rispettose, positive, per bambini e adolescenti, inclusi quelli più vulnerabili ed esclusi. Alcuni soggetti sono infatti presi a bersaglio più facilmente: quelli e quelle che sono migranti o figli / figlie di migranti; quelli e quelle che sono o sono percepiti come persone lgbt, quelli e quelle che vivono con una disabilità, quelli e quelle che non rispondono agli stereotipi di genere e di “immagine”… e, in particolare, le bambine e ragazze che non li accettano.

Non fare nulla equivale a lasciarle sole sui balconi. Continuare a fomentare attitudini e pratiche patriarcali equivale a spingerle giù.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Siamo membri di gruppi di minoranza razziale, etnica, e religiosa. Siamo immigrate. Siamo persone diversamente abili. Siamo LGBTQIA. Siamo scienziate. Siamo donne.

500 women scientists

Nel 2016 erano abbastanza frustrate – dalla mancanza di rappresentazione, dal maneggiare continuamente pregiudizi e dalla cascata di bufale antiscientifiche veicolate da politici – da tentare di creare una banca dati per le donne nella loro professione, la scienza. Hanno lanciato il messaggio chiamandolo “500 scienziate” perché questa era la cifra delle firme che aspiravano ad ottenere: ne hanno rapidamente ottenute 20.000.

Oggi il gruppo conta 9.000 aderenti, ha creato più di 300 sezioni in tutto il mondo, offre sostegno alle madri scienziate e strumenti e strategie per assicurarsi che le donne siano rappresentate in incontri, conferenze, dibattiti che riguardano la scienza, organizza i “Wikipedia Edit-a-thons” per combattere gli stereotipi (e le vere e proprie sciocchezze) sulle donne e sulla scienza che si trovano sulle pagine dell’enciclopedia online, e ha lanciato un settore gemello che si chiama “500 donne mediche”.

Potete leggere, in italiano – e eventualmente in altre nove lingue – la loro originale dichiarazione d’intenti qui:

https://500womenscientists.org/italiano

Le due co-fondatrici sono Kelly Ramirez-Donders (specializzata in ecologia microbica e ricercatrice all’Istituto Olandese per l’Ecologia) e Jane Zelikova (ecologa, biologa, regista cinematografica). Le loro citazioni riportate di seguito provengono dall’intervista televisiva che hanno rilasciato di recente al programma “Good Morning America”.

Kelly Ramirez-Donders: “Dire che non si è riusciti a trovare una donna (ndt. scienziata, esperta per il dato ruolo) è solo pigro, perché ci sono un mucchio di donne eccezionalmente qualificate che possono parlare con voi del loro lavoro. (…) Noi vogliamo unirci e prendere posizione nelle nostre comunità per dire: siamo per l’equità e l’integrazione nella scienza.”

Jane Zelikova: “Nella nostra esperienza e negli studi che abbiamo visto non c’è meritocrazia nella scienza. C’è un sistema gerarchico strutturato in cui la gente al potere beneficia della propria posizione e gli uomini bianchi continuano a beneficiare delle strutture che hanno creato. Il sistema lavora nel senso per cui è stato prodotto: semplicemente non funziona per noi (ndt. donne, persone di colore, gruppi poco rappresentati). Desidero dirvi (ndt. a costoro) che la scienza vi vuole e ha bisogno di voi. La vostra prospettiva è importante e la scienza è migliore quando tutti partecipano. Abbiamo bisogno di ciascuna voce.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

16 days

La violenza contro donne e bambine è una delle più comuni e prevalenti violazioni dei diritti umani al mondo. L’abuso fisico e/o sessuale che una donna su tre subisce durante l’arco della sua esistenza non danneggia solo la sua salute e la sua sicurezza, ne limita la partecipazione sociale e politica, impedisce o restringe la sua presenza sul mercato del lavoro e ha ricadute non solo sulle sue relazioni umane ma proprio sulla democrazia, l’economia, la finanza ecc. del suo paese.

Da domani, Giorno internazionale contro la violenza sulle donne, partono i consueti “16 giorni di attivismo” che avranno termine il 10 dicembre, Giorno internazionale dei diritti umani. La campagna ebbe inizio nel 1991 grazie al Center for Women’s Global Leadership (Centro per la leadership globale delle donne). Il focus di quest’anno è sulla violenza all’interno del mondo del lavoro.

27 anni di campagne sono tanti. Le attiviste spiegano perché ciò è ancora necessario:

La violenza comincia con la discriminazione – Hela Ouennich, dott. in medicina, Tunisia:

“Molte persone si concentrano sulla punta dell’iceberg. Si mobilitano solo quando la violenza è estrema. La gente non sa che la violenza comincia con la discriminazione. Per me, la discriminazione di genere è una “malattia” che ha origini sociali. La maggioranza degli uomini e delle donne finiscono per esserne “portatori sani”. Se vogliamo combattere la violenza di genere, dobbiamo innanzitutto combattere gli stereotipi discriminatori che hanno le loro radici nella prima infanzia e sono difficili da contrastare.”

La violenza non è solo fisica – Mariam Shaqura, Direttrice per le istanze delle Donne della Mezzaluna Rossa per la Striscia di Gaza, Palestina:

“La gente tende a pensare che la violenza di genere comporti solo abuso fisico. Ma le sopravvissute spesso considerano l’abuso psicologico e le umiliazioni più devastanti dell’aggressione fisica.”

La legge non è sufficiente a fermare la violenza – Elvia Barrios, Giudice di Pace, Perù:

“Un comune fraintendimento sulla violenza è che la legge in se stessa possa risolvere il problema. Se le persone non comprendono in profondità la realtà sociale delle donne, se non visualizziamo le enormi e molteplici forme di violenza che esistono nel nostro ambiente, non otterremo grandi cambiamenti. Tutta la cittadinanza deve essere coinvolta nella lotta contro la violenza sulle donne – dalle case al sistema educativo e alle istituzioni. E’ ora di smantellare gli stereotipi che sostengono la violenza.”

La percezione della violenza deve cambiare – Tran Thi Bich Loan, Vice Direttrice del Dipartimento per l’eguaglianza di genere, Vietnam:

“L’idea che i perpetratori abbiano il diritto di commettere atti violenti ha normalizzato la violenza contro donne e bambine. La violenza non è parte della “natura” di un uomo. E’ qualcosa che è stato nutrito e tollerato. Il rispetto per il diritto di ognuno alla libertà e alla dignità deve cominciare dalle nostre azioni più piccole e semplici.”

La complicità culturale che crea e alimenta violenza deve cessare – Sagina Sheikh, attivista comunitaria (è un’adolescente e oltre a essere un’attivista contro la violenza di genere, sta affrontando ogni disagio dell’ambiente in cui vive, dal riciclo dei rifiuti al bisogno di installare impianti sanitari nelle case), India:

“La cultura popolare gioca un ruolo importante per perpetuare le molestie sessuali. I ragazzi spesso usano canzoni e film che promuovo lo stalking, o fanno riferimento alle ragazze come merci a disposizione, per giustificare il loro comportamento e fare commenti osceni. Si sentono mascolini solo quando tormentano le ragazze, ma sarebbero veramente tali se rispettassero il consenso e capissero che no significa no.”

I miti sulla violenza devono essere cancellati – Sevda Alkan, Forum dell’Università di Sabanci, Turchia:

“La gente pensa che se una donna ha un alto grado di istruzione o indipendenza economica non sarà soggetta ad alcuna forma di violenza. Non è vero. Raccomando a tutti di apprendere i fatti e i dati sulla violenza domestica e di condividerli ovunque.”

e Nadhira Abdulcarim, Ostetrica e ginecologa, Filippine:

“C’è un bel po’ di stigmatizzazione, nella nostra società, sull’abuso sessuale. Molte non denunciano perché è tabù, perché la reputazione tua e della tua famiglia ne soffrirebbe – non solo dei parenti stretti, persino la reputazione della famiglia estesa. Questa è l’istanza di cui mi sto occupando. Promuovere consapevolezza è cruciale.”

Il femminismo non ha mai ucciso nessuno – Paola Mera Zambrano, Consiglio nazionale per l’eguaglianza di genere, Ecuador:

“La violenza di genere contro le donne disabili è prevalente, ma come società non riconosciamo la sua esistenza perché farlo sarebbe riconoscere la crudeltà della società stessa. Ignoranza e pregiudizio sulle disabilità fungono da ostacoli all’azione e rinforzano i ruoli di genere cosiddetti tradizionali, facendo di “femminismo” una parola proibita. Però sino a questo momento il femminismo non ha ucciso nessuno, cosa che invece la mascolinità tossica fa ogni giorno.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

La data è il 3 maggio 2018. I titoli dicono “Fa prostituire figlia minorenne e disabile” e “Offre la figlia agli immigrati pedofili”. Gli occhielli parlano di “rapporti sessuali” e “incontri”. Gli articoli cominciano con frasi tipo “una storia di profondo degrado” o “una triste vicenda”.

E tu puoi passare oltre, con in mente uno scenario in un cui una famiglia miserabile sopravvive grazie alla prostituzione della figlia più vulnerabile, ancora bambina ma già “sex worker” (e perciò, secondo la narrativa in auge funzionale ai guadagni dell’industria del commercio sessuale, liberata, trasgressiva e potente – grazie all’illuminato management paterno).

Se però fai lo sforzo di leggere gli articoli per intero scopri che in quel Monteverde, Roma, un uomo italiano di 56 anni pagava migranti senza tetto e rifugiati affinché violentassero sua figlia mentre lui filmava gli stupri. E’ stato scoperto e arrestato grazie a un giovane nigeriano che ha riportato l’offerta ricevuta alla polizia.

La prostituzione non c’entra: il magnaccia i soldi li prende, non li dà. I “rapporti sessuali” e gli “incontri” implicano un consenso che qui non esiste. E il “degrado” sta in un assetto culturale che non solo non riesce a descrivere la violenza esercitata su una minore per quel che è, ma crea padri carnefici che sacrificano insensibilmente le figlie sull’altare della propria soddisfazione sessuale.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Older Posts »

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: