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Marylize

(“How can LGBTIQ people find solace in family or religion when these are the sources of our pain?”, di Marylize Biubwa per OpenDemocracy, testo raccolto da Arya Karijo, aprile 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Sono una difensora dei diritti umani. Sono un’attivista e sono una femminista nera, queer, radicale e intersezionale. Non ho un lavoro. Porto avanti un’iniziativa che non è un’organizzazione giacché non è finanziata. In effetti, la porto avanti con il crowdfunding e coinvolgendo le mie reti di relazioni. Mi appoggio grandemente a lezioni di facilitazione, all’attivazione di social media o al mettere insieme contenuti digitali per qualcuno.

La storia di molte persone queer è quella di chi non è riuscito neppure ad andare a scuola, perciò non hanno diplomi. Non li ho neppure io, ma mi sto arrangiando. Qualche volta la vita la devi arrangiare. Molte persone non hanno reddito. Molte persone si appoggiando ad altre persone. Molte persone hanno dovuto uscire allo scoperto. Stanno da soli. Hanno difficoltà. La gente sta usando metodi folli che nemmeno immaginereste, per sopravvivere qui fuori.

Perciò, quando il coronavirus colpisce, sei completamente destabilizzato. Non vuoi restare a casa tua, perché ciò rende la tua situazione di persona che non guadagna persino peggiore. Ma non puoi uscire in cerca di lavoro durante questo periodo in cui la gente pratica il distanziamento sociale ed è sotto quarantena. Molte persone LGBTIQ sono in difficoltà perché il coronavirus è arrivato con questo senso della famiglia e di gente che si sposta per essere accanto agli individui di cui si curano di più: familiari eccetera. Se il peggio si avvera, vuoi morire avendo almeno la tua famiglia vicina.

Ma per quel che riguarda la mia esperienza, e l’esperienza di molte persone LGBTIQ, la famiglia non è qualcosa che noi si abbia attualmente e ciò ha impatto sulla nostra salute mentale e in genere su come funzioniamo e operiamo in questo periodo.

Ci sono quelli che trovano sollievo nella religione. Ci sono quelli che trovano sollievo nella famiglia. Le persone LGBTIQ raramente trovano sollievo in questi modi, perché tanto per cominciare religione e famiglia sono le fonti della nostra sofferenza. La cosa triste dell’essere una persona queer in questo periodo è che hai la sensazione di non avere la meglio in qualsiasi cosa, sia la famiglia, sia il coronavirus, sia il governo, sia i sistemi. Puoi dover andare all’ospedale e l’omofobia strisciare all’interno della situazione. Era già abbastanza brutto prima del coronavirus e in un momento come questo non fa che amplificarsi.

La gente sta associando parecchio la morte al coronavirus. Io non sono spaventata dalla morte. Non perché la morte non sia spaventosa in sé. Se guardo indietro, so che c’è stato un periodo della mia vita che ho giudicato davvero spaventoso. Sono le esperienze che ho attraversato. E’ maneggiare il trauma. E’ sentirsi incline al suicidio. E’ tentare il suicidio. E’ l’arrivare in pratica a un punto in cui sei viva ma sai per certo che se non volessi essere viva ci sarebbe un’opzione, una via d’uscita da tutto questo.

Penso di continuo: qual è la cosa peggiore che può capitare se sei infettato dal coronavirus? Morire, giusto? Ma questo non è così terribile, alla fine. Voglio dire, tutti moriamo a un certo punto, no? Le nostre esperienze di vita, in special modo le esperienze traumatiche, ci uccidono da vivi comunque. In un dato momento avremmo dovuto vivere come esseri umani, ma siamo morti dentro.

(L’omosessualità è illegale in Kenya secondo il Codice Penale di era coloniale, il quale descrive le relazioni fra persone dello stesso sesso come “conoscenza carnale contraria all’ordine naturale” e prescrive sentenze che arrivano ai 14 anni di prigione. Nel 2019, la Corte Suprema del Kenya rifiutò di dichiarare incostituzionali queste clausole del Codice Penale.)

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survivors

Da sinistra, nell’immagine di Elizabeth Pratt dell’ong “Too Young to Wed” – “Troppo giovane per sposarsi”, potete vedere Rosillah, Nachaki, Modestar, Eunice e Monicah. Sono sopravvissute a mutilazioni genitali e matrimoni precoci. La fotografia è stata scattata nel novembre scorso a Nairobi in Kenya, dove le ragazze hanno partecipato al summit per il 25° anniversario della Conferenza de Il Cairo (ove, nel 1994, 179 governi adottarono un Programma d’azione per donne e bambine), sostenute da “Too Young to Wed”, dalla “Samburu Girls Foundation” e dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.

Monicah è stata mutilata a 10 anni. Subito dopo, il fratello l’ha data in moglie a un uomo di 32: “Voleva le capre e le mucche che sarebbero arrivate come pagamento del prezzo della sposa. – ha raccontato alla platea dei delegati – Sono rimasta con il mio allora marito per una settimana, poi il capo villaggio e gli agenti di polizia sono venuti a prendermi.” Mutilazioni genitali e matrimoni di bambine sono infatti fuorilegge in Kenya, ma il 21% delle donne del paese comprese fra i 15 e i 49 anni le hanno subite, così come il 23% di quelle fra i 20 e i 24 si sono sposate prima dei 18 anni.

Dopo essere stata soccorsa, Monicah ha ricevuto una borsa di studio dalle ong summenzionate ed è rapidamente diventata una delle migliori studenti nella sua classe. E’ anche diventata un’attivista che lavora con altre sopravvissute per mettere fine alle violazioni dei diritti umani da lei stessa subite: globalmente, si stimano oggi in circa 200 milioni le bambine e le donne che vivono con le mgf, mentre una ragazza su cinque diventa una moglie ben prima di essere maggiorenne.

Eunice aveva parimenti 10 anni quando fu costretta a sposare un 75enne: “Forse qualcuno ha ricevuto ispirazione dalla mia storia e potrebbe cominciare a cambiare le cose aiutando le ragazze che stanno attraversando le difficoltà che ho attraversato io.”

Il summit di Nairobi si è concluso con oltre 400 impegni presi e sottoscritti da politici e organizzazioni presenti per mettere fine ai matrimoni precoci e alle mutilazioni genitali femminili.

“Ma devono lavorare con passione – ha sottolineato Eunice – non solo per avere riconoscimento o addirittura per avere soldi: devono lavorare per sostenere i diritti umani delle donne… e per conquistare a questo il mondo intero.”

Monicah è completamente d’accordo e ha aggiunto: “Credo che le ragazze possano fare qualsiasi cosa.”

Maria G. Di Rienzo

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wanuri

(tratto da: “Meet the director of the Kenyan lesbian romance who sued the government who banned it”, intervista a Wanuri Kahiu – in immagine sopra – di Cath Clarke per The Guardian, 12 aprile 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. Il film di cui si discute è uscito nei cinema britannici lo stesso giorno dell’intervista.)

“Sto per mettermi a piangere.”, dice Wanuri Kahiu, agitando le mani e sorridendo. Mi sta raccontando di un filone su Twitter in cui un mucchio di gente ha risposto alla domanda: “Qual è stato il giorno più felice della tua vita?”. Una giovane donna kenyota ha replicato: “Guardare “Rafiki” con mia madre e fare coming out.”

“Rafiki” è il nuovo film di Kahiu – una magnifica storia romantica su due ragazze che si innamorano a Nairobi. E’ un film gentile, con una scena di sesso così blanda da poter essere guardata assieme a un parente anziano. Ma in Kenya, una società conservatrice in cui 534 persone sono state arrestate fra il 2013 e il 2017 perché avevano relazioni con individui dello stesso sesso, “Rafiki” è stato bandito.

Negli ultimi dodici mesi, Kahiu è stata assalita sui social media, minacciata di arresto e ha sofferto innumerevoli commenti offensivi, a volte proveniente da membri della sua stessa famiglia. “Ho visto i commenti più spregevoli venire da persone che amo. – dice – E’ stato incredibilmente arduo.”

Allo stesso tempo, la sua carriera sta prendendo il volo. Qualche giorno prima di essere bandito, “Rafiki” è stato selezionato per Cannes. Ora, Kahiu ha due progetti in corso: una serie di fantascienza per Amazon Prime e la direzione di Millie Bobby di “Stranger Things” in uno sceneggiato per giovani adulti prodotto da Reese Witherspoon, il che la rende la prima donna africana a ottenere un contratto di questo tipo. Un articolo la definisce “la nuova Kathryn Bigelow”.

Ci incontriamo di prima mattina in un albergo di Londra. Kahiu è arrivata in volo ieri da Nairobi, dove vive con il marito cardiologo e i loro due bambini. Dimostra dieci anni in meno della sua età (39 anni), beve tè alla menta e parla con impegno e concentrazione.

I suoi guai iniziarono nell’aprile dello scorso anno, quando la Commissione cinematografica del Kenya le ha chiesto una revisione di “Rafiki” (che significa “amica/o” in Swahili). “Consideravano il film troppo ottimista. Mi dissero che se avessi cambiato il finale, mostrando la protagonista principale Kena che si pente, lo avrebbero classificato come vietato ai minori di 18 anni.”

Kahiu si rifiutò e il bando seguì, con la Commissione che dichiarava come il film cercasse di “promuovere il lesbismo in Kenya, contrariamente alla legge e ai valori dominanti dei kenyoti.”

Da questo pronunciamento in poi, Kahiu si è sentita minacciata. Il presidente della Commissione la ha accusata di aver falsificato la sceneggiatura per ottenere la licenza necessaria a girare il film: “Ha minacciato di farmi arrestare, ma non ha potuto perché noi non abbiamo mai infranto la legge.”

rafiki movie

(Samantha Mugatsia nel ruolo di Kena e Sheila Munyiva nel ruolo di Ziki in “Rafiki”.)

Quale sarebbe stato lo scenario peggiore? “Essere arrestata. Le prigioni in Kenya non sono il massimo del lusso.” La regista ha allestito un rifugio sicuro nel caso le autorità perseguitassero lei stessa o le attrici. Il linguaggio usato dal presidente della Commissione era incendiario: “Il tentativo di normalizzare l’omosessualità è analogo al mettere l’aria condizionata all’inferno.”

Kahiu fece causa con successo affinché “Rafiki” potesse essere mostrato nei cinema per sette giorni, al fine di renderlo idoneo agli Oscar (ma alla fine il Comitato di selezione per gli Oscar del Kenya non lo scelse come candidato per il miglior film straniero). “Tutto quel che ho fatto è un film su una storia immaginaria. Sto letteralmente solo facendo il mio lavoro.” Le cause legali si susseguono. La regista ha denunciato il governo per violazione della libertà di espressione e sarà di nuovo in tribunale in giugno. (…)

Wanuri Kahiu ha realizzato uno sceneggiato sul bombardamento del 1998 dell’ambasciata statunitense a Nairobi, poi un documentario sull’ambientalista vincitrice del Premio Nobel per la Pace Wangari Maathai. Ma il film che mostra al meglio le sue ambizioni è il corto “Pumzi”, venti minuti di afrofuturismo ambientati 35 anni dopo che la terza guerra mondiale ha estinto la vita sulla Terra.

In Africa non ha sperimentato sessismo perché regista donna, dice, in parte per la scarsità di registi di ambo i sessi, in parte perché le donne sono sempre state percepite come narratrici (“Racconti storie ai bambini per tenerli distanti dal fuoco mentre stai cucinando.”)

Ciò che trova deprimente è l’aspettativa per cui, essendo un’africana che crea film, il suo lavoro dovrebbe avere a che fare con la guerra, la povertà e l’Aids. “E’ la gente che pensa all’Africa come a un paese orribile, deprimente, che muore di fame. E perciò il tuo lavoro dovrebbe riflettere questo.” Kahiu rigetta l’idea che tutta l’arte del continente debba riflettere determinate istanze. Ciò di cui c’è bisogno, sostiene, sono nuove visioni dell’Africa: “Se non vediamo noi stessi come persone piene di speranza e di gioia non lavoreremo verso queste ultime due. Io credo davvero che vedere sia credere.” Per questo scopo ha creato Afrobubblegum, un collettivo che sostiene arte africana “divertente, spensierata e fiera”. (…)

Il tè è stato bevuto, le fotografie sono state scattare e Kahiu sta per tornare alla sua stanza, non per dormire ma per lavorare sulla sceneggiatura per Amazon. Durante i giorni festivi, suo marito tenta di lusingarla per staccarla dal portatile. Ma non è così semplice, spiega lei: “Se penso a un giorno perfetto, c’entra il lavoro. L’unico modo in cui posso gestire il patriarcato, la mascolinità tossica, l’unico modo in cui riesco a trovare un senso al fatto che questo film è in tribunale, che delle persone minacciano la mia esistenza e il mio lavoro, è scrivere e creare. E’ il solo modo in cui sento di avere il controllo della situazione.”

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(“The Women Leading This Kenyan Environmental Group Are Thriving Where Men Failed”, di Daniel Sitole per News Deeply, 4 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Foresta di Kakamega, Kenya – Quando Maridah Khalawa ha dato inizio al Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione, circa un decennio fa, sapeva di voler trovare un modo di generare reddito per se stessa e altre donne che vivono nei pressi della foresta Kakamega nel Kenya occidentale, senza sfruttare le già risicate risorse dell’area.

Quel che non poteva sapere era che la loro piccola impresa comunitaria sarebbe cresciuta sino a contribuire al sostegno di centinaia di famiglie, avrebbe vinto riconoscimenti internazionali e si sarebbe dimostrata più efficace di molti dei gruppi di uomini che tentato di fare la stessa cosa.

La chiave dell’impresa sostenibile del gruppo di Muliru è il basilico canforato.

basilico canforato

La pianta indigena, Ocimum kilimandscharicum, chiamata “Mwonyi” nel locale dialetto Luhya, è stata a lungo usata dalla popolazione attorno alla foresta Kakamega per curare influenza e tosse, per tenere distanti i parassiti dal grano immagazzinato e come repellente per le zanzare.

A partire dal 1999, con il piccolo capitale iniziale e il lavoro gratuito fornito dai membri, più della metà dei quali sono donne, il gruppo di auto-aiuto di Muliru ha cominciato a coltivare e a trattare il basilico canforato per trasformarlo in un unguento da vendere localmente. L’idea era di attingere a un’abbondante e poco apprezzata risorsa della foresta Kakamega, l’ultima foresta pluviale del Kenya che ancora sopravvive, beneficiando nel contempo finanziariamente le comunità locali. Per giunta, una parte dei guadagni provenienti dall’iniziativa sarebbero andati alla ricerca per la preservazione ambientale.

“Uno dei nostri iniziali scopi relativi alla conservazione era l’agire andando oltre il metodo tradizionale, usando tecnologia moderna e abbracciando la cooperazione con altre organizzazioni interessate.”, dice Maridah Khalawa, 54enne, che non hai mai finito le scuole superiori perché i suoi genitori non potevano permettersi di pagare le tasse relative.

Muliru

(Muliru – Maridah Khalawa è a destra accanto al distillatore)

Lo sforzo del gruppo ha subito attirato i donatori. Nel 2.000, Il Programma per lo Sviluppo delle Nazioni Unite ha dato al gruppo 4 milioni e mezzo di scellini kenyoti (poco più di 37.000 euro) per comprare macchinario da distillazione in grado di estrarre gli oli essenziali del basilico. In precedenza, la comunità era solita bollire la pianta come da medicina tradizionale. Cinque anni più tardi la Fondazione Ford, tramite il Centro Internazionale di Fisiologia e Ecologia degli Insetti, finanziò parzialmente la costruzione di due edifici per la produzione, lo stoccaggio e gli uffici amministrativi del gruppo.

Altri donatori seguirono, sebbene non senza incontrare resistenza da parte di alcuni membri dell’organizzazione: “Non è stato facile convincere altri abitanti del villaggio a pensare globalmente e ad accettare di lavorare con stranieri.”, dice ancora Khalawa. Ora il Gruppo Agricoltori di Muliru per la Conservazione è rinomato per il suo unguento erbaceo basato sul basilico canforato, che è sul mercato con il nome di Naturub ed è registrato come medicina in Kenya per la cura dei sintomi dell’influenza, come sollievo per il dolore e i morsi di insetti. Oltre all’unguento, il gruppo fa anche repellente per zanzare.

I prodotti sono venduti a negozi, supermercati e farmacie nel Kenya occidentale e distribuiti tramite agenti in altre parti del paese. James Ligale, l’addetto del gruppo alle pubbliche relazioni, dice che il valore dei loro beni patrimoniali ammonta a più di 15 milioni di scellini kenyoti (circa 124.000 euro), valore della terra compreso. Vendono annualmente 36.000 flaconi di unguento.

I benefici vanno ben oltre i membri di Muliru, di cui più del 40% riceve tutti i propri guadagni dal progetto. Il gruppo fornisce reddito regolare per 400 agricoltori che coltivano le piante per il materiale grezzo e che a loro volta impiegano circa 1.000 dipendenti.

Come integrazione ai propri guadagni, Muliru ospita turisti che pagano dai 12 ai 29 euro per apprendere le storie della conservazione della foresta di Kakamega, della pianta Ocimum e del processo di produzione di Naturub – dalle fattorie ai macchinari.

Il lavoro del gruppo ha vinto diversi premi, inclusi due dall’UNDP: l’Equator Prize nel settembre 2010, che fu conferito durante l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a New York e il Seed Award nel dicembre dello stesso anno.

“E’ l’impresa di preservazione ambientale più di successo e meglio amministrata diretta da una donna in Kenya. – dice l’esperto di conservazione di risorse naturali, ora in pensione, John Kimeto – Gli uomini hanno tentato di imitare Maridah ma hanno tutti fallito.”

Khalawa attribuisce il suo successo all’instancabile sostegno delle donne membri del gruppo. Dice che si è presa l’impegno di far spazio alle vedute e alle opinioni delle persone al di là della loro età, affiliazione politica o comprensione delle istanze, ma che non permetterà ai politici di professione di interferire nella gestione degli affari. “Le organizzazioni comunitarie sono soggette a manipolazioni politiche, e ai politici piace essere membri, patrocinatori o sponsor di tali gruppi. Io ho tenuto con fermezza i politici fuori da Muliru.”, spiega.

Nonostante la sua comprovata e forte esperienza, Muliru affronta ancora difficoltà nel mentre tenta di ingrandirsi ed espandersi. Cerca di guadagnare abbastanza per i costi del marketing o per assumere impiegati dalle specifiche abilità – come ingegneri di produzione o contabili – che facciano funzionare l’organizzazione. I membri più anziani trattano gli affari del gruppo essi stessi, a volte andando per tentativi e errori.

Tuttavia, Maridah Khalawa e la sua compagine si dedicheranno a dirigere l’impresa in modo sostenibile e per il beneficio della loro comunità locale il più a lungo possibile: “Quelli che volevano stare dalla parte “giusta” politicamente sono collassati, ma noi siamo qui per restare.”, dice.

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mara nei panni di zinga

Mara Menzies (in immagine) è una narratrice e creatrice di storie che vive a Edimburgo, in Scozia. E’ una delle più amate “cantastorie” a livello internazionale e per ogni tipo di pubblico, anche se è particolarmente devota ai bambini. Nata in Kenya, prima di emigrare con la sua famiglia a 13 anni, Mara crebbe ascoltando i racconti degli anziani, dei viaggiatori e di chiunque avesse qualcosa di interessante da condividere. Questo aspetto delle relazioni comunitarie sembrava essere assente nel suo nuovo paese. Mara si concentrò su altri tipi di arte sino a che non rimase incinta: il desiderio di collegare la figlia alla sua origine africana la spinse a scrivere una delle sue storie preferite – su un coccodrillo e una scimmia – e il libro divenne il ponte che la portò sul palcoscenico. Lo “Storytelling Centre” di Edimburgo le diede il benvenuto a braccia aperte. Da allora Mara ha girato con performance e seminari non solo l’intero Regno Unito: ha incantato e insegnato in Kenya, Singapore, Giamaica, Sri Lanka, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti.

Collaborando con danzatori, musicisti, artisti tradizionali e digitali Mara crea con i suoi racconti la possibilità di sognare, perché sa che la narrazione sta alla radice di ciò che noi siamo come esseri umani. Le storie ci commuovono, ci spingono all’azione, ci istruiscono, ci indicano visioni del mondo – il modo in cui scegliamo di vivere in esso, dice l’Artista, spesso può cambiare forma grazie a una singola, semplice, storia.

Le sue vanno dal folklore (“Come il gatto finì per vivere in casa”) alla rivisitazione di personaggi storici, come il rivoluzionario keniota Dedan Kimathi (“La storia dei sette giorni”). L’anno scorso Mara Menzies ha scelto di rappresentare una delle tante figure femminili colpevolmente ignorate dalla Storia che hanno contribuito a fare: la regina guerriera Nzinga (qui sotto c’è una sua statua).

queen nzinga statue

Nzinga, vissuta fra il 16° e il 17° secolo, guidava i regni di Ndongo e Matamba situati in quel che oggi è l’Angola: le poche notizie su di lei ci dicono solo che resistette all’invasione coloniale portoghese con tutto quel che aveva e che durante la sua permanenza al potere abolì la schiavitù – pare che prima di ascendere al trono fosse lei stessa una schiava.

Tuttavia la sua vicenda è molto più complessa e intessuta di lotte interne, di rivalità fra fratelli, di omicidi politici (lo stesso figlio della regina fu assassinato), di tradimenti subiti e di clamorose vittorie. Ho tradotto un pezzetto della performance di Mara su Nzinga da un video:

“Il figlio di Mbandi era un sempliciotto come suo padre.

Abbiamo l’opportunità di un nuovo inizio, ma lo sciocco ragazzo mi dice del suo piano di creare buone relazioni con i portoghesi.

Io parlo gentilmente, dicendogli come loro lo useranno per danneggiare l’interesse della giustizia e dell’armonia tramite l’avidità.

Lui litiga, con me! Mi dice che questo è per il più grande bene dei Ndongo.

Io lo guardo negli occhi e vedo: lui crede davvero che lavorare con i portoghesi sarà per il nostro bene.

Non capisce che non ha importanza quanto soddisfiamo questa gente, loro non ci vedranno mai come null’altro che sciocchi insignificanti.

I miei occhi bruciano.

Non posso permettere questo.

E quindi faccio a Aidi quel che mio fratello ha fatto a mio figlio.”

Dopo che Nzinga ebbe sconfitto i portoghesi per trentacinque anni, sia sul piano militare sia sul piano economico (distruggendo le loro rotte commerciali), questi ultimi si arresero e negoziarono un trattato di pace. Nzinga morì molto molto dopo, all’età di 81 anni. Maria G. Di Rienzo

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(“I was a child soldier. Now I’m pushing for more support for survivors like me”, di Polline Akello per The Guardian, 12 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Si tratta di una versione condensata della testimonianza di Polline di fronte a una Commissione del Parlamento inglese.)

polline

Ho trascorso sette anni nella boscaglia in Uganda, una bambina-soldato, tenuta prigioniera da un gruppo armato e costretta a diventare la “moglie” di un comandante ribelle. La mia migliore amica è stata uccisa davanti a me. Il mio bambino è morto prima di nascere. Ma mi sono salvata e credo che parlare apertamente delle mie esperienze sia il miglior modo di aiutare altri che stanno soffrendo allo stesso modo.

Ci sono bambini in guerra proprio in questo momento, gente che è stata rapita e forzata a combattere per una causa che non comprende: è perciò che oggi, 12 febbraio, è il Giorno della Mano Rossa, una commemorazione annuale che vuole attirare attenzione sul fato dei bambini-soldati.

Molte bambine sono nella stessa situazione che ho attraversato io ed è doloroso vederla ripetersi. Paura e vergogna spesso rendono i bambini che tornano dal conflitto incapaci di parlare delle loro esperienze. A me è stato detto, da membri della mia comunità, di restare zitta. Ma se i sopravvissuti fanno questo nessuno li aiuterà. E’ molto importante portare le cose alla luce del sole, solo parlando i sopravvissuti potranno ottenere l’aiuto di cui hanno bisogno.

Io avevo 12 anni quando fui rapita. Nel campo le ragazze ci sono per essere usate da qualsiasi uomo le voglia. Ai soldati non è permesso innamorarsi. Se uno di loro è scoperto mentre corteggia una ragazza viene ucciso.

Io sono rimasta incinta a 16 anni. Durante il travaglio sono stata costretta a camminare per miglia e miglia perché i ribelli stavano tentando di evitare l’esercito ugandese. Mio figlio è morto prima di nascere e ho dovuto subire un’operazione per rimuoverlo, senza anestesia. Se il tuo bimbo muore, non si suppone che tu sia in lutto per lui. Se ti vedono piangerlo, ti uccidono. Quando torni, devi far finta che nulla sia accaduto. Ma io non ho mai perso la speranza.

La mia salute peggiorò dopo l’operazione e loro mi permisero di essere curata in un ospedale del Kenya, dove un’infermiera mi aiutò a scappare. Mentre facevo i bagagli non provavo paura. Tutto quel che sapevo è che non sarei tornata in quel posto.

Troppo spesso, quando le ragazze tornano a casa le loro famiglie le abbandonano, specialmente se tornano con dei figli. I parenti non sono preparati a prendersi la responsabilità per quel bambino quando non non ne conoscono il padre. Ciò lascia le sopravvissute alla violenza sessuale per le strade.

Quando sono tornata io, l’unico sostegno che mi è stato dato consisteva di un materasso e una coperta. Una coperta ti può tenere calda, ma l’istruzione è una costruzione per la vita. Le comunità devono sostenere i loro figli quando costoro tornano dalla guerra e incoraggiarli a parlarne. Quando una mia amica tornò fu buttata fuori di casa dalla sua famiglia. Io andai da loro e spiegai le mie esperienze, dissi che non era stata una scelta della loro figlia avere quei bambini e che era stata presa con la forza. Le famiglie necessitano aiuto per dare il benvenuto ai loro figli che tornano nel modo in cui sono dopo essere stati rilasciati o essere fuggiti dai gruppi armati. La famiglia si riprese la mia amica e ora vivono felicemente insieme.

L’assistenza locale è invece più importante dell’intervento intenzionale a breve termine, per aiutare a lungo termine la guarigione, la stabilità e il cambiamento dei bambini-soldati. La gente ha bisogno che il suo governo si faccia avanti e aiuti in modo visibile. A volte, prima che una comunità si renda conto che qualcosa sta accadendo, quel qualcosa è già accaduto. I ribelli sono abili nel ridurre al silenzio le comunità, ma se si agisce per aumentare la consapevolezza è possibile diminuire questo danno.

Alcune persone che sono state rilasciate o sono fuggite da gruppi armati hanno paura di intraprendere azioni, perché ciò causa loro troppo dolore. Non riescono a prendere decisioni giuste. Ma la comunità può operare cambiamenti positivi se le persone comunicano. Mentre parlavo con un altro ex bambino-soldato, lui mi disse che la cosa peggiore che poteva fare era discutere della sua esperienza. Voglio essere un’avvocata per gli altri sopravvissuti, affinché parlino apertamente.

Non appena sono arrivata a casa, volevo davvero tornare a scuola. Avevo perso sette anni, ma con l’aiuto dell’organizzazione War Child – http://www.warchild.org/sono stata in grado di rimettermi in pari. Ora sono all’università e ho viaggiato sino ad arrivare in Downing Street e ho parlato a David Cameron, William Hague e Angelina Jolie Pitt per ottenere aiuto per i sopravvissuti come me. Questo mostra che qualcosa di positivo può venire persino da qualcosa di terribile.

rebirth di moonshine90(Rinascita)

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Nagirasia Lengima ha 16 anni, due figlioletti, e vive – parte dell’anno, essendo il suo gruppo composto da pastori semi-nomadi – nel villaggio di Laisamis, contea di Marsabit, Kenya. Nagirasia ha lasciato la scuola molto presto perché in famiglia c’era bisogno del suo lavoro. Nella sua regione questa è la norma: l’alfabetizzazione generale della popolazione si aggira attorno al 20%, la povertà al 92%. Meno del 15% delle bambine sopra i sei anni ha frequentato la scuola e la maggior parte di esse non l’ha mai finita. I maschi hanno qualche opportunità in più di istruirsi, visto che la responsabilità di tutte le faccende domestiche e della cura del bestiame è ascritta alle donne.

Nagirasia

La routine della vita di Nagirasia è però cambiata, da qualche mese. Ogni giorno si alza come al solito alle 5 ma dopo aver badato ai bisogni della sua famiglia, all’acqua e al cibo e alle capre, si dirige verso una misteriosa tenda: equipaggiata con tavolini, sedie e lavagna, quella tenda è la sua scuola. “Matematica e Kiswahili sono le mie materie preferite. – dice la ragazza – In futuro mi piacerebbe avere un lavoro, entrare in affari autonomamente.” Quando torna dalla tenda-classe, ama discutere con le altre donne di quel che ha appreso, mentre lavorano insieme. Hanno ad esempio riflettuto molto sul cambiamento climatico e le istanze ambientali: parecchi concetti erano del tutto nuovi per le sue compagne, ma Nagirasia è stata eccezionale nel renderli fruibili e nessuna a Laisamis pensa più che le stranezze meteorologiche siano dovute a stregoneria.

Altre 300 fanciulle nelle sue condizioni stanno frequentando la scuola mobile grazie all’ong Adeso, che cerca di raggiungere più bambine possibile dato lo svantaggio posto a priori su di esse. Il progetto, lanciato nel febbraio 2014, si concluderà alla fine del 2016, quando non ci saranno più soldi per farlo andare avanti. Adeso sta cercando di raccogliere fondi per estenderlo, ma deve affrontare condizioni di insicurezza politica, gli sporadici raid degli islamisti di Al Shabaab che hanno fatto fuggire dalla zona la maggior parte degli insegnanti, la mancanza di strade e reti telefoniche e il retroscena sociale che scoraggia l’istruzione delle ragazze.

Il modello educativo della scuola mobile è stato disegnato in modo da non entrare in conflitto con lo stile di vita delle comunità pastorali, che si muovono periodicamente in cerca di pascolo e acqua per i loro animali; le lezioni hanno orari flessibili e il loro calendario è modellato sul ciclo delle piogge, perché durante la stagione “umida” il lavoro dei minori è meno richiesto e gli spostamenti sono minimizzati.

Fra poche settimane Nagirasia dovrà lasciare il villaggio: “Sto tentando di imparare quanto più possibile perché dopo le piogge andremo distanti, in cerca di pascolo. La scuola è mobile e ci seguirà, fin dove riuscirà ad arrivare. I nostri insegnanti potrebbero aver difficoltà a sopravvivere in alcuni dei territori più lontani in cui andiamo.” Maria G. Di Rienzo

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Leah Auma Okeyo, madre di sei figli, ha scoperto di essere sieropositiva all’Hiv nel 2007. Vivendo in una cittadina rurale impoverita, Kisumu in Kenya, e non avendo nulla lei stessa, sembrava che alla sua portata ci fosse solo l’aspettare di morire. Non c’era nessuno da cui ottenere informazioni, nessuno a cui chiedere aiuto. Un giorno sentì parlare di queste “reti” internazionali di donne che si sostengono l’una con l’altra, ottenne di poter usare un computer per qualche ora e si catapultò nell’attivismo femminista globale. “Ho molti sogni. – disse alle sue nuove amiche dopo che le ebbero regalato un laptop – E ora ho intenzione di realizzarli uno per uno.” Doveva combattere l’Hiv/Aids e dissipare al proposito pregiudizi e concezioni sbagliate nella sua comunità, ottenere l’accesso all’istruzione per i suoi bambini, tornare alle donne nella sua comunità e ovunque ciò che era stato dato a lei. Ha fatto tutto questo, e anche di più.

leah

Leah è andata ad insegnare alle donne come usare i media digitali e come esprimere ed affermare se stesse in Messico, Canada, Sudafrica, Austria, Gran Bretagna, Mozambico, Turchia e Stati Uniti. In Kenya, assieme ad altre donne, ha fondato l’ong “Pacho” (Positive and Active towards Change Organization). “Pacho” lavora per migliorare le vite delle donne e delle loro comunità, informandole sull’Hiv/Aids e sui loro diritti, addestrandole all’uso di internet e valorizzando le loro capacità affinché generino reddito, finanziando la frequenza scolastica per bambine e orfane.

Quest’anno, in aggiunta agli altri problemi, la zona in cui Leah vive ha sofferto di una devastante siccità. Le condizioni economiche delle famiglie, già precarie, sono precipitate e le donne sono corse in sciami da Leah. “Per lungo tempo non abbiamo pensato di guardare alle nostre abilità come attrezzi per migliorare le nostre condizioni economiche. Uno dei più grossi problemi che abbiamo come donne è la mancanza di stima per noi stesse. Ti senti come se niente di quel che fai avesse un effettivo valore. Ma io ho detto alle donne di sognare, di sognare i modi per uscire da questa situazione.” E le donne si sono messe a produrre lavori di perline come braccialetti, sandali, collane, orecchine e borsette a tracolla. I prezzi che il mercato interno paga loro non sono granché ma Leah ha già l’occhio sui mercati internazionali, dove gli oggetti saranno pagati di più, e inoltre “Da noi si dice: Meglio un pezzo di pane che niente pane del tutto. Io quella scarpa l’ho portata sino a consumarla, so dove fa male. Non si tratta solo di far bigiotteria, sapete. Si tratta di donne che osano prendere il controllo del loro destino.”

Leah Auma Okeyo ha una presenza fisica carismatica e imponente (è alta più di un metro e ottanta) che trasmette solo integrità e gentilezza, nonostante la vita sia stata ben poco gentile con lei: ha dato alla luce il suo primo bimbo quando aveva appena compiuto 15 anni e ha dovuto affrontare tutte le difficoltà di una madre povera costretta a vedere il futuro come privo di speranze, una storia che le donne continuano a raccontarle quando arrivano a “Pacho”: “Sei appena un’adolescente e sei sposata. Hai lasciato la scuola. Hai figli di cui occuparti e sei molto giovane e non sai come cavartela. Visto che non hai istruzione, ti è difficile trovare lavoro. Se vuoi metterti in proprio non riesci ad avere il capitale iniziale: nessuno ti vuol fare un prestito, perché anche se hai proprietà, da sposata sono tutte a nome di tuo marito. Tuo marito ha paura delle minacce dei prestatori: Verremo a portarvi via le mucche, i mobili… Se infine riesci ad avere un finanziamento devi maneggiare la corruzione: i prestatori vorranno una mazzetta che può arrivare sino al 20% della somma. E ancor prima che tu arrivi a questo punto, sei disfatta dai messaggi costanti che ti degradano e minimizzano il tuo valore.”

Leah aggiunge che i problemi della sua comunità hanno radici in alto, ma soluzioni in basso, nelle donne che possiedono assai poco e a cui è stato detto che non avevano contributi di valore da offrire. “Lavoriamo sul conoscere noi stesse, sul capire dove siamo e cosa abbiamo, e poi diamo forma ai nostri scopi. Nei forum dell’organizzazione insegniamo alle donne ad usare le loro voci, così che possano dire se stesse e le loro necessità.” Le porte e le menti di “Pacho” sono sempre aperte; non importa di che tribù sei o che dialetto parli, entra e costruiremo insieme dei ponti per comprenderci. Cos’altro posso dirvi di questa forza della volontà e del cuore che risponde al nome di Leah Auma Okeyo? Ah sì. Scrive poesie da quando era una ragazzina:

Io sono qui per cambiare quel che posso cambiare

Per quanto debole io possa essere, non ho forse torto quel ramo?

Io sono qui per consegnare il messaggio al mondo

che io sarò la sua messaggera, per quanto lenta io possa essere.

Io sono qui per parlare e per parlare per me stessa

perché per quanto silenziosa io possa essere, nessuno parla per me.

Maria G. Di Rienzo

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“Io ho un sogno. Un sogno che

non verrà a mancare, a dispetto

della mia presente situazione,

che è una semplice nuvola di passaggio.

Ogni potente re

è stato un tempo un bambino che vagiva!

Ogni grande albero

è stato un tempo un piccolo seme!

Ogni alto edificio

un tempo era solo sulla carta!

E così è il mio sogno.”

L’autrice di questa poesia ha 12 anni e si chiama Eunice Akoth. Di recente l’ha recitata su un palco a New York e come si vede dall’immagine è diventata molto emotiva nel farlo.

eunice

I sogni di Eunice non sono iperbolici: vorrebbe viaggiare per il mondo, diventare una medica. Il fatto è che Eunice viene da Kibera, uno slum di Nairobi in Kenya, e dietro le sue parole ci sono povertà, discriminazione di genere e violenza. “La maggioranza delle bambine a Kibera sono state stuprate. – ha spiegato in lacrime al termine della poesia – Di molte bambine e bambini i genitori non si curano. Altri sono senza casa. La maggior parte di loro ha sogni, ma non sanno come realizzarli. Perciò ho dovuto scrivere una poesia che dicesse loro che possono farlo.”

Eunice Akoth ha detto questo partecipando al summit “Women in the World” (fine aprile 2015), mentre andava avanti e indietro per il palco e sottolineava quasi ogni parola con la sollevazione di un pugno chiuso. A Kibera frequenta la prima media di una scuola femminile gratuita, messa in piedi da una fondazione per il cambiamento sociale (Shining Hope for Communities – Speranza radiante per le comunità). La coppia Kennedy Odede e Jessica Posner Odede – marito e moglie – è la forza motrice che sta dietro la fondazione. Istruzione, assistenza sanitaria e sociale, acqua pulita, è quel che danno al momento ai loro concittadini di Kibera. Scopi a lungo termine? “Eguaglianza di genere, fare del mondo un posto migliore per le nostre madri e sorelle.” E’ il signor Kennedy a dirlo. Sa che in questo modo il mondo diventa un posto migliore per tutti. Eunice sopporta certamente un carico di sofferenze inaccettabile per una bambina della sua età, ma almeno ha incontrato delle persone decenti e non è nata in Italia – dove i signori Odede sarebbero biechi “teorici gender” e lei una “indottrinata”.

Non smettere di sognare, Eunice. Tu sei un bellissimo futuro. Maria G. Di Rienzo

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“Se tutte le donne in televisione hanno i capelli lisci, allora non c’è davvero posto per le donne che hanno altri tipi di capelli umani. Se tutte le donne in televisione sono chiare di pelle, come reagiscono le donne comuni a quest’immagine? Cosa siamo disposte a fare per cambiare noi stesse e rispondere a questo modello di “bellezza”?”

Ng’endo Mukii, giovane kenyota, si è risposta producendo “Yellow Fever” – “Febbre Gialla”, che costituisce la sua tesi al London’s Royal College of Art e che potete vedere qui (il video dura poco più di 6 minuti): https://vimeo.com/122574484

Il film esplora i modi in cui gli standard di bellezza ritratti nei mass media influenzano le donne, la percezione che la società ha di esse e il controllo sui loro corpi – in particolare sui corpi delle donne di colore: cercare di essere conformi ad un ideale impossibile ha l’effetto principale di renderle invisibili. Mukii ha usato coreografia dal vivo, immagini generate al computer e animazione disegnata a mano per raccontare la propria esperienza e le esperienze delle donne della sua famiglia, mamma, sorella e nipotina. La vediamo, adolescente, mentre si sta facendo intrecciare i capelli da una donna che lei chiama Mkorogo (Swahili per “misto”), perché ha usato crema schiarente su volto e mani, mentre il resto del suo corpo è rimasto nero.

Questa donna è così stupida, ho pensato allora. Guardala un po’, si candeggia. Guardala un po’, non le importa nulla di chi è. Sta tentando di cambiare razza. Avevo tutti questi pensieri negativi su di lei, perché ero troppo giovane per capire che quella situazione era un prodotto della società in cui viviamo.”, ricorda Mukii, “E poiché mi faceva male, intrecciandomi i capelli, ho pensato che mi stesse punendo in qualche modo perché la mia pelle è del tono più chiaro, il più desiderabile per i media del mio paese. Se la nostra società desse valore a tutti i differenti tipi di incarnato, noi non useremmo candeggina su noi stesse. Se la nostra società desse valore alla nostra capigliatura naturale noi non andremmo a farci le treccine, non le troveremmo più attraenti di quel che ci cresce naturalmente in testa.”

Yellow Fever - Abby

L’immagine raffigura la nipote di Mukii, che guardando le pop-star in televisione dice cose del tipo: “Se fossi americana sarei bianca, bianca, bianca – e mi piacerebbe essere bianca.” Troppe bambine, racconta la giovane artista, sono dello stesso avviso. La figlia di una sua conoscente ha persistito a lungo nel chiedere, piazzandosi davanti allo specchio: “Mamma, perché non sono bianca? Perché ho dovuto nascere nera?” e alla fine ha risolto la faccenda così: “Be’, almeno sono la più bianca della famiglia!”

Mukii ha dato il titolo al suo film riferendosi ad una canzone di Fela Kuti che si chiama proprio “Yellow Fever” e in cui si biasimano le donne nigeriane che usano creme schiarenti per la pelle. “Io ho voluto girare quel dito puntato.”, spiega, “La vergogna e la colpa non sono delle donne, ma di chi fa pressione su di loro affinché corrispondano ad un’ideale di bellezza che le spinge ad azioni estreme e mette a rischio la loro salute.”

Il lavoro di Mukii ha ricevuto apprezzamenti da tutto il mondo. Docenti universitari lo stanno usando per illustrare come le esperienze delle persone che hanno vissuto la schiavitù e il colonialismo, e le maniere in cui sono state fatte sentire brutte e stupide per il colore della loro pelle, siano filtrate nel presente, passando da generazione a generazione. Maria G. Di Rienzo

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