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Posts Tagged ‘matrimoni forzati’

Il 30 giugno scorso è uscito il rapporto distintivo del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, “State of World Population 2020”: dà conto delle centinaia di migliaia di bambine e ragazze al mondo che sono sistematicamente danneggiate a livello fisico e psicologico con la piena consapevolezza e il pieno consenso delle loro famiglie e comunità.

Fatma Mamoud Salama Raslan

(illustrazione di Fatma Mahmoud Salama Raslan, contenuta nel rapporto)

“Contro la mia volontà – Sfidare le pratiche che feriscono donne e bambine e minano l’eguaglianza” identifica 19 “pratiche” – dall’appiattimento dei seni con i ferri da stiro ai test di verginità – che sono mere violazioni di diritti umani, ma si concentra in particolare su tre casi persistenti e diffusi nonostante la condanna nei loro confronti sia in pratica universale: le mutilazioni genitali femminili (mgf), i matrimoni di bambine e la preferenza per il figlio maschio.

Duecento milioni di donne viventi hanno subito mutilazioni genitali, 650 milioni sono state date in spose da bambine, 140 milioni mancano invece all’appello a causa degli aborti selettivi o di abbandono / omicidio subito dopo la nascita.

L’orrore nel dettaglio potete scandagliarlo in inglese, spagnolo, francese, arabo e russo qui: https://www.unfpa.org/swop

La causa che sta alla radice di tutto questo, scrivono al Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, è la diseguaglianza di genere: “Le pratiche dannose perpetuano il dominio degli uomini sulle donne, dei maschi sulle femmine. Il loro fulcro è assegnare minor valore a donne e bambine. Non solo rinforzano la subordinazione femminile, sono veri e propri attrezzi per il controllo della sessualità e della fertilità delle donne.

Decenni di trattati e altri accordi hanno inequivocabilmente definito tali pratiche violazioni dei diritti umani e i governi, le comunità e gli individui hanno il dovere di mettervi fine. L’approvazione di leggi è importante, ma è solo il punto d’inizio. Devono essere fatti sforzi per cambiare la mentalità. I programmi per il cambiamento delle norme sociali sono efficaci nello sradicare le pratiche dannose, ma non devono concentrarsi in modo ristretto solo su di esse. Dovrebbero affrontare istanze più vaste, inclusa la posizione subordinata di donne e bambine, i loro diritti umani e i modi per portare più in alto il loro stato e il loro accesso alle opportunità.”

Lei NON è

un prodotto da commerciare

un oggetto del desiderio

un fardello di cui liberarsi –

E’ UNA BAMBINA

recita uno degli slogan all’interno del rapporto.

Maria G. Di Rienzo

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survivors

Da sinistra, nell’immagine di Elizabeth Pratt dell’ong “Too Young to Wed” – “Troppo giovane per sposarsi”, potete vedere Rosillah, Nachaki, Modestar, Eunice e Monicah. Sono sopravvissute a mutilazioni genitali e matrimoni precoci. La fotografia è stata scattata nel novembre scorso a Nairobi in Kenya, dove le ragazze hanno partecipato al summit per il 25° anniversario della Conferenza de Il Cairo (ove, nel 1994, 179 governi adottarono un Programma d’azione per donne e bambine), sostenute da “Too Young to Wed”, dalla “Samburu Girls Foundation” e dal Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione.

Monicah è stata mutilata a 10 anni. Subito dopo, il fratello l’ha data in moglie a un uomo di 32: “Voleva le capre e le mucche che sarebbero arrivate come pagamento del prezzo della sposa. – ha raccontato alla platea dei delegati – Sono rimasta con il mio allora marito per una settimana, poi il capo villaggio e gli agenti di polizia sono venuti a prendermi.” Mutilazioni genitali e matrimoni di bambine sono infatti fuorilegge in Kenya, ma il 21% delle donne del paese comprese fra i 15 e i 49 anni le hanno subite, così come il 23% di quelle fra i 20 e i 24 si sono sposate prima dei 18 anni.

Dopo essere stata soccorsa, Monicah ha ricevuto una borsa di studio dalle ong summenzionate ed è rapidamente diventata una delle migliori studenti nella sua classe. E’ anche diventata un’attivista che lavora con altre sopravvissute per mettere fine alle violazioni dei diritti umani da lei stessa subite: globalmente, si stimano oggi in circa 200 milioni le bambine e le donne che vivono con le mgf, mentre una ragazza su cinque diventa una moglie ben prima di essere maggiorenne.

Eunice aveva parimenti 10 anni quando fu costretta a sposare un 75enne: “Forse qualcuno ha ricevuto ispirazione dalla mia storia e potrebbe cominciare a cambiare le cose aiutando le ragazze che stanno attraversando le difficoltà che ho attraversato io.”

Il summit di Nairobi si è concluso con oltre 400 impegni presi e sottoscritti da politici e organizzazioni presenti per mettere fine ai matrimoni precoci e alle mutilazioni genitali femminili.

“Ma devono lavorare con passione – ha sottolineato Eunice – non solo per avere riconoscimento o addirittura per avere soldi: devono lavorare per sostenere i diritti umani delle donne… e per conquistare a questo il mondo intero.”

Monicah è completamente d’accordo e ha aggiunto: “Credo che le ragazze possano fare qualsiasi cosa.”

Maria G. Di Rienzo

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un 25 nov 2019

* Una donna/ bambina su tre fa esperienza di violenza fisica o sessuale durante il corso della sua vita, per la maggior parte inflitta da un partner con cui è in intimità;

* Solo il 52% delle donne sposate o con un compagno possono liberamente prendere le proprie decisioni su relazioni sessuali, contraccettivi e cura della salute;

* In tutto il mondo, circa 750 milioni di donne e bambine attualmente in vita sono andate spose prima del loro 18° compleanno, nel mentre 200 milioni di donne e bambine sono state sottoposte a mutilazione genitale (MGF);

* Una donna su due in tutto il mondo è stata uccisa dal proprio partner o da un familiare nel 2017, mentre solo un uomo su venti è stato ucciso nelle medesime circostanze;

* Il 71% di tutte le vittime di traffico al mondo sono donne e bambine e tre su quattro di queste donne e bambine sono sfruttate sessualmente;

* La violenza contro le donne è grave quanto il cancro quale causa di morte e incapacità fra le donne in età riproduttiva e maggiormente grave come causa di problemi di salute degli incidenti automobilistici e della malaria messi insieme.

Nazione Unite, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, 25 novembre 2019 (trad. Maria G. Di Rienzo): la ricorrenza è stata istituita dall’Assemblea generale delle NU vent’anni fa.

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rewrite her story

“Riscrivete la sua storia – Come gli stereotipi di film e media hanno impatto sulle vite e sulle ambizioni alla leadership di ragazze e giovani donne”: questo è il titolo di uno studio condotto congiuntamente da Plan International

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/05/18/chi-ci-rende-insicure/

e dal Geena Davis Institute on Gender and Media

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/03/02/se-lo-vedi-puoi-esserlo/

e reso pubblico un paio di giorni fa.

La ricerca ha analizzato 56 film del 2018, di venti diversi Paesi, con record d’incassi e ha ascoltato le opinioni di 10.000 giovani donne in tutto il mondo per capire come queste pellicole le hanno influenzate. Potete leggerla per intero – e vedere il breve documentario relativo – qui:

https://plan-international.org/girls-get-equal/rewrite-her-story

“Sebbene molti siano i fattori che scoraggiano le ragazze e le giovani donne dal perseguire posizioni direttive, l’avere donne leader come modelli ispirativi nei media, così come nella comunità, stimola le ragazze a mirare in alto. – dicono Geena Davis e Madeline Di Nonno nell’introduzione – Se vogliamo vedere più donne in posizioni guida nel mondo reale, le ragazze hanno bisogno di vedere più donne leader nei mondi immaginari dei media dell’intrattenimento.”

Lo studio mostra che tale obiettivo è ancora distante: in pratica, se in un film c’è una donna di potere la si mostra in abiti con profonde scollature e spacchi o seminuda, nel mentre maneggia molestie sessuali e lotta faticosamente per essere ascoltata.

Nelle pellicole esaminate, gli uomini schiacciano le donne per numero (rispettivamente 67% e 33%) e parlano più di due volte tanto, che è la stessa percentuale con cui rivestono ruoli di leadership. Le donne hanno il 30% di possibilità in più degli uomini di indossare vestiti succinti, sono mostrate seminude due volte tanto e completamente nude quattro volte tanto.

Le ragazze intervistate al proposito dicono che i messaggi dell’oggettivazione e della scarsa rappresentazione sono molto chiari: “Sicuramente c’è un impatto – afferma per esempio una diciassettenne peruviana – perché indirettamente i film stanno dicendo alle donne che loro non sono capaci di rivestire ruoli guida nella stessa maniera in cui gli uomini possono farlo.”

Secondo Plan International le ragazze e le giovani “hanno bisogno di vedere se stesse nelle storie che le circondano per raggiungere l’equità di genere e perché la loro capacità direzionale sia riconosciuta e incoraggiata”, pertanto l’ong fa queste raccomandazioni:

– Per esserlo, le ragazze devono vederlo. Bisogna rendere visibili e normali le storie sulla leadership femminile;

– Mettere fine alla sessualizzazione e all’oggettivazione di donne e ragazze sullo schermo;

– Finanziare le registe, le creatrici di programmi e le produttrici e affrontare le molestie e le discriminazioni sul lavoro per incoraggiare le ragazze e le giovani donne a entrare nell’industria dell’intrattenimento ad ogni livello.

Nel rapporto sono comprese diverse interviste proprio a donne che lavorano nel settore, fra cui la regista vietnamita di “The Third Wife” (“La terza moglie”), uscito in Italia il 29 settembre scorso. Il film, ambientato nel Vietnam del 19° secolo, narra la storia di una quattordicenne a cui è imposto il matrimonio. Ash Mayfair, 34enne, ha detto tra l’altro: “Il sapere che le giovani donne hanno necessità di vedere sullo schermo figure femminili potenti e più personaggi che assomiglino loro è la ragione per cui non smetterò mai di fare film. Non smetterò mai di lavorare per portare alla luce più storie di donne, non solo perché sono narrazioni che appartengono al mio genere, ma anche perché sono potenti e preziose esperienze umane.”

Maria G. Di Rienzo

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Forse ricordate il villaggio delle donne in Kenya, Umoja, fondato negli anni ’90 da una quindicina di sopravvissute alla violenza domestica fra cui la straordinaria Rebecca Lolosoli, attuale “presidente” del posto.

https://lunanuvola.wordpress.com/2013/12/31/e-questo-e-quanto/

Le donne Yazidi sfuggite alla guerra e alla schiavitù (in sintesi all’Isis) hanno fatto la stessa cosa nel nordest della Siria. Il villaggio si chiama Jinwar ed è stato inaugurato ufficialmente il 25 novembre 2018, Giorno internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. E’ basato sull’eguaglianza di chi ci vive e il suo scopo è fornire alle donne un posto libero da violenza e oppressione: le abitanti non sono solo Yazidi e curde ma anche arabe, perché il villaggio accoglie qualunque donna in difficoltà e eventualmente i suoi bambini femmine e maschi.

murales a jinwar di bethan mckernan

Quello che segue è un brano dell’articolo “We are now free: Yazidis fleeing Isis start over in female-only commune” di Bethan McKernan per il Guardian, datato 25 febbraio; anche l’immagine del murale di Jinwar è sua.

“Durante il genocidio, gli uomini Yazidi furono radunati, uccisi a fucilate e abbandonati in fosse comuni. Le donne furono prese prigioniere allo scopo di essere vendute nei mercati di schiavi dell’Isis e molte passarono da un combattente all’altro subendo abusi fisici e sessuali.

Jinwar è una comune femminile, organizzata dalle donne della locale amministrazione curda per creare uno spazio in cui le donne potessero vivere “libere dalle costrizioni di strutture di potere oppressive come il patriarcato e il capitalismo”.

Le donne si sono costruite da sole le loro case, si fanno il pane, accudiscono il bestiame e coltivano la terra, cucinano e mangiano insieme. Davanti a pollo e riso, e più tardi a musica e danza, le residenti discutono di come se la stanno cavando i nuovi alberi appena piantati, albicocchi, melograni e ulivi.

“Abbiamo costruito questo posto da noi stesse, mattone dopo mattone. – dice la 35enne Barwa Darwish, che è venuta a Jinwar con i suoi sette figli dopo che il suo villaggio nella provincia di Deir Ezzor è stato liberato dall’Isis e suo marito, che si era unito alla lotta contro il gruppo, è morto in battaglia – Sotto l’Isis eravamo strangolate e ora siamo libere. Ma anche prima di questo, le donne stavano a casa. Non uscivamo e non lavoravamo fuori casa. A Jinwar, ho capito che le donne possono stare in piedi da sole.”

Jinwar è uscita dall’ideologia democratica che ha alimentato la creazione di Rojava, uno staterello curdo nella Siria nord orientale, sin da quando scoppiò la guerra civile nel 2011. L’area se l’è cavata largamente bene nonostante la presenza di nemici da ogni lato: l’Isis, le truppe del presidente siriano Bashar al-Assad e la Turchia, che vede i combattenti curdi come un’organizzazione terroristica.

La rivoluzione delle donne, com’è noto, è una parte significativa della filosofia di Rojava. Indignate dalle atrocità commesse dall’Isis, le donne curde formarono le proprie unità di combattimento. Più tardi, donne arabe e Yazidi si unirono a loro in prima linea per liberare le loro sorelle. Ma a casa, molte parti della società curda sono ancora profondamente conservatrici. Alcune delle donne ora a Jinwar sono fuggite da matrimoni imposti e abusi domestici. Queste dinamiche, così come l’eredità degli otto anni di brutale guerra in Siria, devono essere disimparate a Jinwar.

“Quando le famiglie arrivano, dapprima i bimbi arabi non vogliono giocare con quelli curdi. – dice Nujin, una delle volontarie internazionali che lavorano al villaggio – Ma in neppure due mesi si può già vedere il cambiamento. I bambini sono tutti più felici. Il villaggio è la miglior forma di riabilitazione per tutte le cose che queste famiglie hanno sofferto.”

Jinwar è ancora in costruzione: ci sono giardini da piantare e una biblioteca vuota che aspetta i suoi libri. La comunità sta tuttora vagliando idee. Oltre a quella di un centro di istruzione c’è l’idea di creare una piscina da utilizzare in estate. La maggioranza delle residenti la userebbe per la prima volta, giacché le piscine sono riservate agli uomini in gran parte del Medio oriente. Le donne hanno anche già votato per avere lezioni di guida e per dare inizio a un’attività commerciale di sartoria.”

Maria G. Di Rienzo

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Mestawet Mekuria

“Ho imparato cos’è un matrimonio infantile e quali sono le sue conseguenze al club delle ragazze nella nostra scuola. Quando i miei genitori mi dissero che dovevo sposarmi io risposi che non volevo farlo. Ma loro si sono rifiutati di ascoltarmi e allora sono scappata e sono andata alla centrale di polizia. Il matrimonio precoce è una pratica dannosa e io voglio che le bambine continuino ad andare a scuola come me. Adesso i miei genitori capiscono cos’è un matrimonio infantile e cosa comporta e non sono più arrabbiati con me.”

Mestawet Mekuria, che ha fatto questa dichiarazione e che vedete in immagine, ha 14 anni. Immagina se stessa in futuro come insegnante o medica. L’età minima per le nozze nel suo paese, l’Etiopia, è di 18 anni ma la legge è raramente rispettata: nella sua regione, Amhara, il 56% delle ragazzine diventano mogli ben prima e in tutta la nazione il rapporto è di due minorenni sposate su cinque. Inoltre, il 65% delle donne etiopi nella fascia d’età fra i 14 e i 49 anni hanno subito mutilazioni genitali. Matrimoni infantili e MGF sono due violazioni di diritti umani che l’Etiopia si è impegnata a sradicare completamente entro il 2025: i club scolastici delle ragazze fanno parte della strategia per raggiungere tale scopo e da tre anni sono frutto della collaborazione fra Unicef, Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione e la locale Agenzia governativa per donne e bambini.

I club insegnano varie abilità alle ragazzine, ma soprattutto le informano di avere dei diritti e si spingono a contattare direttamente le loro famiglie in caso sorgano problemi. Nel 2016 hanno salvato da matrimoni precoci 106 bambine; nel 2017 ne hanno salvate 55.

Mestawet ha elaborato il tutto e si è arrangiata da sola. I suoi genitori hanno passato due settimane in galera e hanno avuto bisogno della mediazione degli anziani del villaggio per capire meglio di essere le persone che per prime dovrebbero sostenere le aspirazioni della figlia, non quelli che le soffocano in un matrimonio indesiderato e pericoloso.

Maria G. Di Rienzo

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(“Lesbian ‘witches’ chained and raped by families in Cameroon”, Thomson Reuters Foundation, editing di Katy Migiro, trad. Maria G. Di Rienzo.)

black lesbian pride

Yaounde, 2 ottobre 2018 – Durante un triste servizio domenicale in chiesa, la 14enne Viviane – stanca di lottare contro la sua attrazione per le ragazze – si rassegnò a una conclusione infelice: era stata stregata. A scuola e in chiesa a Yaounde, la capitale del Camerun, le era stato a lungo detto che avere predilezione per il proprio sesso non era solo un peccato, ma anche il segno che un sinistro incantesimo era stato gettato su di te.

“Non vedevo le ragazze come tutti gli altri – ho pensato che uno spirito maligno mi avesse posseduta. – ha detto al telefono a Thomson Reuters Foundation, con una mesta risata, dalla Francia, dove ha chiesto asilo l’anno scorso con l’aiuto della sua fidanzata – Così ho cominciato a pregare per mandarlo via.”

Ma le sue preghiere fallirono. Quattro anno più tardi, Viviane fu incatenata al muro e violentemente stuprata da un uomo che la sua famiglia la forzò a sposare, dopo aver scoperto che era lesbica.

Dal Sudafrica all’India all’Ecuador, persone gay sono sottoposte a “stupro correttivo” dalle loro famiglie, da estranei e da vigilanti che credono l’omosessualità sia una malattia mentale che deve essere “curata”.

A volte, ciò è perpetrato con la copertura delle tenebre o quando il picchiare della pioggia su tetti di latta attutisce le grida, gay del Camerun hanno narrato a Thomson Reuters Foundation. Altre volte è orchestrato da membri della famiglia che regolarmente si fanno “giustizia” da soli, torturando, stuprando e assassinando parenti gay e lesbiche che loro pensano essere streghe o sotto maledizione.

La credenza nella stregoneria è diffusa in Camerun. Anche se è illegale praticare magia nera, le autorità fanno poco per impedire alle famiglie di consultare maghi che compiono sacrifici rituali per “curare” i loro parenti dall’omosessualità.

Le relazioni fra persone dello stesso sesso sono tabù all’interno dell’Africa, che ha alcune delle leggi più proibitive al mondo contro l’omosessualità. Persone gay sono di routine ricattate, assalite e/o stuprate, e subiscono sanzioni penali che vanno dall’imprigionamento alla morte. Un rapporto del 2017 dell’ILGA – International Lesbian, Gay, Bisexual, Trans and Intersex Association, attesta che 33 paesi africani su 54 criminalizzano le relazioni fra persone dello stesso sesso.

Gli atti omosessuali costano cinque anni di prigione in Camerun, dove secondo CAMFAIDS (un gruppo di sostegno LGBT+) almeno 50 persone sono state condannate – fra il 2010 e il 2014 – per crimini che vanno dall’indossare abiti dell’altro sesso a quello dell’uomo che ha inviato un messaggio di testo con scritto “Ti amo” a un altro uomo.

“La violenza anti-LGBT+ sta peggiorando.”, ha detto Michel Engama, direttore di CAMFAIDS, il cui predecessore Eric Ohena Lembembe è stato trovato morto nel 2013 con il collo spezzato e il volto bruciato da un ferro da stiro, come riportato da Human Rights Watch.

Almeno 600 attacchi e reati omofobici sono stati registrati in Camerun lo scorso anno, secondo

Humanity First Cameroon, un’organizzazione che raggruppa associazioni LGBT+, con una lesbica su cinque e un gay su dieci che hanno denunciato di essere stati stuprati. Gli attivisti dicono che la vera dimensione del problema è probabilmente molto peggiore, poiché la maggior parte degli assalti non sono denunciati.

La famiglia di Viviane la picchiò e la frustò dopo aver scoperto i messaggi di testo espliciti che aveva mandato alla sua ragazza. Sua zia e i suoi fratelli la portarono al loro villaggio, dove lo stregone locale la costrinse a bere pozioni a base di sangue di gallina e le inserì peperoncini piccanti nell’ano, giustificando il tutto come un rituale di “purificazione”.

Trovarle un marito che fosse pastore della chiesa era una possibilità di ripulire il nome della famiglia, ha spiegato Viviane. Il fatto che avesse già due mogli e 30 anni più di lei non fu preso in considerazione. “Non ci furono discussioni al proposito. – ha detto, aggiungendo che la famiglia ricevette la “dote” dal pastore ancor prima che lei fosse informata dell’accordo – Per loro, io ero una specie di collana che avevano venduto.”

Sebbene lo stupro sia reato in Camerun, non c’è la possibilità che una simile violazione sia ascritta a un marito, ha detto Viviane: “Un pastore in Camerun è come un dio. Dio non può violentare. E se lo accusi di stupro, il diavolo sei tu.”

Nel mentre Viviane ha ritenuto che la sua miglior opzione fosse fuggire dal paese, Frederique ha parlato pubblicamente dopo aver subito uno stupro di gruppo nel 2016, dopo aver lasciato in taxi un seminario LGBT+ a cui aveva partecipato a Yaounde. Il tassista si fermò per salire un altro uomo e guidò sino a una parte deserta della città, dove entrambi la violentarono mentre la schernivano accusandola di essere una lesbica e una strega.

“Continuavano a urlare che io meritavo quel castigo, che mi stavano correggendo. – ha detto la 33enne, che ha ormai raccontato la sua storia a centinaia di ragazze durante incontri e seminari in Camerun – Se avessi denunciato penalmente, sarei stata vista non come una vittima, ma piuttosto come qualcuna che si era meritata quel che era accaduto.” Frederique crede che la sua decisione di parlare le abbia salvato la vita: “Anche una mia amica è stata stuprata e si è sentita completamente sola, isolata, depressa. Si è quasi uccisa. – dice cercando di trattenere le lacrime – Io avevo pensato di fare lo stesso. Ma ero anche così furibonda. Non volevo che altre ragazze patissero questo, ne fossero vittime come me. Volevo esporre i perpetratori per far finire tutto questo.”

Non è facile, dice anche. Le lesbiche in Camerun vivono ogni giorno in segretezza e prudenza, comunicando con nomi in codice e cambiando di frequente i luoghi pubblici in cui si incontrano. “Continuiamo a lottare, – dichiara – anche se siamo doppiamente discriminate: prima come donne e poi come lesbiche.”

Engama di CAMFAIDS sa che le precauzioni non garantiscono sicurezza e sottolinea come il ventenne Kenfack Tobi Aubin Parfait sia stato picchiato a morte, il mese scorso, da suo fratello maggiore che credeva fosse gay.

“C’è una vera guerra condotta contro di noi. – dice Engama, che riceve regolarmente minacce di morte – Ma continueremo a lottare sino a che si saranno stancati… Nessuno può darci la libertà. Dobbiamo prendercela.”

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zere

Zere Asylbek (in primo piano nell’immagine) è una diciannovenne del Kirghizistan che in luglio ha rilasciato il suo primo singolo in qualità di cantante. Il video relativo è uscito a metà settembre – https://www.youtube.com/watch?v=ivlRPb75-VU – e le ha già fruttato una valanga di insulti sessisti, soprattutto a sfondo religioso, e minacce di morte. Non sorprendente, visto che il suo paese ha un problema serio di violenza di genere, per il quale le donne “soffrono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti umani a causa di una cultura di rapimento, stupro e matrimonio forzato” (comunicato delle Nazioni Unite, 18.9.2018).

Naturalmente Zere sta anche ricevendo il sostegno e l’incoraggiamento da parte di molte sue connazionali e da comunità femministe in tutto il mondo. La sua canzone si chiama “Kyz” (“Ragazza”):

Vorrei che il tempo passasse, vorrei che arrivasse un tempo nuovo

in cui non mi fanno prediche su come devo vivere la mia vita

in cui nessuno mi dice “Fai questo”, “Non fare quello”

Perché dovrei essere quello che vuoi tu, o quel che la maggioranza vuole,

io sono una persona e ho la mia libertà di parola.

Dov’è il vostro rispetto per me?

Io rispetto te. Tu rispetti me.

Tu e io, insieme,

ehi cara, unisciti a me,

creeremo la nostra libertà.

Come se questo non fosse già abbastanza (è oltraggioso: una giovane donna che chiede rispetto!) Zere Asylbek nel video indossa una giacca aperta su un reggiseno viola e una gonna corta e perciò secondo i suoi aggressori deve cancellare il video, scusarsi con l’intera nazione e merita di aver la testa tagliata.

In un’intervista del 19 settembre per “Freemuse”, Zere ha parlato di un recente femminicidio in Kirghizistan; una ragazza di nome Burulai è stata rapita per costringerla al matrimonio – un’antica tradizione patriarcale, sapete, e perciò non discutibile – ed è morta mentre la polizia l’aveva in custodia: è stata lasciata sola con il suo rapitore, che ormai era un po’ troppo scocciato da tutta la faccenda e l’ha uccisa. Questo è stato uno dei motivi per cui Zere ha creato canzone e video e non intende cedere alle minacce:

“Sicuramente continuerò a cercare di avere un impatto nel mio paese e nel mondo in generale, perché sono una persona creativa e amo impegnarmi in progetti creativi. Ci sono un sacco di ragioni che hanno generato nella mia testa l’idea di creare un grosso impatto e di usare per esso cose che suscitassero reazioni.

Ci sono state molte ragazze come Burulai nel nostro paese e mi piacerebbe che non avessimo più casi del genere. (…) La situazione nel nostro paese e penso in genere nell’Asia Centrale non è così buona in termini di diritti delle donne ed eguaglianza di genere, perché ogni singolo giorno ci sono casi di discriminazione, casi in cui viene applicato il doppio standard. Posso affermare che in pratica ogni ragazza del nostro paese ha subito almeno un tipo di violazione, o molestia, o discriminazione. Questo a me appare terribile.

Le ragazze stesse non vedono alternative. Parecchie di esse credono sia giusto essere trattate in quel modo e ciò è quel che a mio parere limita le loro potenzialità. Limita i loro sogni e le loro idee, perché non vedono alternative. E gli si dice che il loro scopo nella vita è sposarsi e avere una famiglia, dei figli e roba del genere.”

Per quel che riguarda la sua, di famiglia, il padre docente universitario ha dichiarato pubblicamente la “non approvazione” da parte sua e della moglie, ma pure che non intende interferire con le attività della figlia, che lui riconosce come persona titolare del diritto di esprimersi. Non è da ieri che Zere lo fa: è stata una determinata “bambina prodigio” a livello intellettuale, ammessa a frequentare l’università quando di anni ne aveva solo 14.

In un’altra intervista per Radio Free Europe / Radio Liberty, Zere ha sottolineato: “Molta gente dice che la nostra società non è pronta per questo. Quando lo sarà? Cosa deve accadere? Si deve accendere di verde un semaforo? No. Qualcuno deve cominciare.”

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noura

(immagine di Ahmed M’ayyed)

Noura Hussein, sudanese, è stata data in moglie contro la propria volontà a 16 anni.

Si è rifugiata per tre anni presso una zia – ora ne ha 19 – prima che la propria famiglia, con un trucco, la facesse tornare a casa, dove è stata consegnata ai parenti del marito.

E’ rimasta con costui per sei giorni, rifiutando costantemente di fare sesso con un uomo che non amava e a cui era stata legata per forza: al che, il “marito” l’ha stuprata con l’assistenza di altri uomini (suoi familiari e amici) che la tenevano ferma.

Il giorno dopo ha tentato di violarla di nuovo, ma era solo. Noura si è difesa con un coltello e ha finito per ucciderlo. E’ tornata dai propri genitori: il padre l’ha condotta alla polizia e diseredata.

Il tribunale di Omdurman l’ha condannata a morte fra gli applausi dei parenti del deceduto.

“Sapevo che sarei stata giustiziata, – ha detto Noura alle sue legali – sapevo che avrei lasciato irrealizzati tutti i miei sogni.”

A difenderla sono le attiviste di “Equality Now”, che ora hanno 15 giorni per presentare appello. Intendono anche chiedere clemenza al presidente sudanese, Omar al-Bashir, e hanno messo online una petizione:

https://www.change.org/p/zaynub-afinnih-justice-for-noura-maritalrape-deathsentence-sudan

“Noura non è una criminale, è una vittima e dovrebbe essere trattata come tale. – ha detto Tara Carey di “Equality Now” a The Guardian – La sua criminalizzazione per aver difeso se stessa da un’aggressione e, in particolare, la sentenza di morte violano i suoi diritti iscritti nella Costituzione del Sudan e nella legislazione internazionale. Noura è stata soggetta ad abusi fisici e psicologici dalla sua famiglia e dal marito e questa è una violazione degli articoli 14 (protezione dell’infanzia) e 15 (niente matrimonio senza libero e pieno consenso) della Costituzione. Quest’ultima inoltre attesta che ‘lo stato protegge le donne dall’ingiustizia e promuove l’eguaglianza di genere’ e che ‘tutte le persone sono eguali di fronte alla legge e sono titolate, senza alcuna discriminazione, a ricevere eguale protezione dalla legge’.”

Maria G. Di Rienzo

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Urma Bishnoi

Urma Bishnoi – in immagine – è diventata una moglie quando aveva dieci mesi (sì, non è un errore: dieci mesi), data in sposa a un ragazzo del suo villaggio, Kaparda, in India.

Crescendo ha cominciato ovviamente a rifiutare un contratto su cui non aveva avuto voce, sapendo all’epoca a stento dire qualche parola, ma è stata soffocata per anni dalle minacce dei parenti acquisiti: quelle di tagliarle via naso e orecchie e dell’ostracismo sociale che avrebbe colpito la sua famiglia se lei avesse avuto successo nell’uscire dal matrimonio imposto.

Urma ha adesso 19 anni, ha scoperto l’esistenza di una fondazione non-profit, Saarthi Trust, disposta a spalleggiarla (la fondazione è già riuscita ad annullare 35 matrimoni precoci e a prevenirne circa un migliaio) e martedì scorso ha raccolto tutto il suo coraggio e si è presentata in tribunale.

A occuparsi del caso per Saarthi Trust è la psicologa e terapista per la riabilitazione Kriti Bharti, che ha confermato la tremenda pressione esercitata su Urma: “I suoceri e il consiglio di villaggio stanno terrorizzando la giovane e la sua famiglia per farle ritirare la richiesta di annullamento.”

“Non accetto i matrimoni di bambini. – ha detto fermamente Urma alla stampa – Spero di ottenere giustizia presto. Non vedo l’ora di cominciare una nuova vita, una in cui posso studiare e costruirmi un futuro.”

L’India è il paese che conta più spose-bambine al mondo: 23 milioni sono diventate “mogli” prima dei 18 anni (dati Unicef 2017). La povertà gioca un ruolo chiave nella questione, poiché le figlie sono viste come un fardello economico dalle famiglie e l’attitudine patriarcale a trattare donne e bambine come proprietà degli uomini anziché come esseri umani fa il resto.

Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Global Citizen, Hindustan Times, Indo-Asian News Service, Ndtv)

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