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(Il MIO corpo, le MIE regole)

Non sarò breve: per cui mettetevi comode/i oppure passate ad altro. Ieri l’HuffPost pubblica in una delle sue rubriche una lettera a cui dà il titolo “Il dovere della bellezza”. La scrive, secondo la sua stessa presentazione, “Marta Benvenuto, 35 anni, 110 e lode in Filosofia, senior digital marketing analyst”. Alcuni brani del testo (le sottolineature sono mie):

“Il 25 aprile la gente cantava dai balconi ‘Bella ciao’. Nei 200 metri concessi allora per una passeggiata sono passata sotto un balcone dal quale un ragazzo cantava ‘Bella ciao’. Complice il 25 Aprile l’ho guardato e gli ho rivolto un ampio cenno di saluto. Poi ho visto un gatto dietro a un cancello e sono andata lì. Intanto continuava a suonare ‘Bella ciao’. Guardavo il terrazzo, c’era il ragazzo, una ragazza, una birra. Ero felice.

E mentre il partigiano moriva cento e cento volte per la libertà il ragazzo ha gridato dal terrazzo: ‘Ehi culona! Puttanona! Tu col gatto guarda che culone da puttanone!’. Io non ho detto niente. I 200 metri che mi erano sembrati così pochi sono diventati infiniti. Improvvisamente non c’è stato altro da sapere di me, non è rimasto altro di me, solo il mio culo grasso. Mi sono arrabbiata per non aver risposto.

Perché noi abbiamo il dovere d’essere belle. Prima d’essere brave o buone. E poi, quando siamo belle, d’essere puttane o frigide. E quando siamo bionde stupide. E quando siamo stupide almeno educate. E quando siamo ricche d’essere passate sotto qualche tavolo, quando siamo giovani di ascoltare e quando siamo vecchie di scomparire. E quando non vogliamo compagni d’essere lesbiche, e quando siamo lesbiche d’esserlo sotto i vostri occhi di maschi, solo per il vostro piacere, mai per il nostro.

E quando vogliamo godere il dovere di fare figli, quando li facciamo il dovere di non pesare sul nostro padrone e capo. Di rientrare in un cassetto costruito da un uomo per noi. Un cassetto di soli doveri. Che a un uomo non sono richiesti, mentre può essere brutto, stupido, ricco, scapolo, vecchio, sterile e tante altre cose per le quali non esiste nemmeno un corrispettivo declinato al maschile. Questi stessi uomini hanno il potere di giudicarci e noi, il dovere di tacere.

Noi dobbiamo vergognarci anche della vostra stupidità. Voi dovete solo vivere, senza nemmeno la decenza di lasciare in pace i partigiani morti, fascisti che non siete altro, fascisti dentro, che non vi meritate ‘Bella ciao’. Me la merito io, io che posso fare qualunque cosa, anche ingrassare, se mi va.”

I commenti (di molti uomini) sono impagabili: ha generalizzato, le persone così sono una minoranza malata di mente e bisogna solo compatirli, con gli stupidi è meglio tacere, adesso mi vergogno di essere un uomo ma non capisco perché Gesù non ha voluto la parità di genere fra gli apostoli (dopo questa stronzata si sente un genio, capite), non scambiamo l’ironia (???) per il mondo reale. Ovviamente, Marta: sono tutti fuori bersaglio. Lei ha ricevuto l’aggressione, ha dettagliato la mera realtà delle vite delle donne – e le vittime sono loro. Se mi permette, un po’ distante dal fare centro è anche lei quando si premura di far notare “Mi alleno molto, pochi uomini riescono a starmi dietro”. E’ una sua scelta e spero che si diverta nel farlo, ma a chi legge appare come una giustificazione: guardate che sono già una di quelle a posto, perciò non venite a consigliarmi nutrizionisti e palestre.

Comunque, la lettera mi serve qui come incipit e ne ringrazio l’Autrice. Quel di cui voglio parlarvi è il culo grasso. Proprio.

Il dovere di essere “belle” e “in forma” – ove la bellezza e la forma sono costrutti ideali che trovano validazione solo nello sguardo maschile – si nutre del fanatismo che circonda il peso corporeo, soprattutto il peso delle donne, alcune delle quali non hanno atteggiamenti così diversi da quelli dei farabutti che si sentono autorizzati a insultare sconosciute dai balconi con tutto lo spettro delle prescrizioni patriarcali a sostenerli: pensano di essersi guadagnate la bellezza/magrezza con il duro lavoro, la palestra, il centro benessere, l’estetista e la parrucchiera e il trucco copiato dall’influencer di turno, contando le calorie e piangendo davanti allo specchio… perché diavolo voi dovreste spassarvela quando loro soffrono ogni giorno per somigliare a x o y? E’ solo giusto, solo normale che dobbiate tollerare il loro odio insensato. In più, quando maschi (in stragrande maggioranza) e femmine vomitano la loro schifosa cascata di offese e ingiurie hanno il coraggio di tirare in ballo la vostra salute, di cui non sanno un piffero ma su cui possono ripetere a oltranza tutte le minchiate che hanno letto e sentito in giro. Perché la guerra al culo grasso è fatta di propaganda.

In caso non sia chiaro: si spremono miliardi dalla truffa del “grasso mortale” e dell’ “epidemia di obesità” (che non esiste). La cultura della dieta è una truffa, tanto più che sempre più studi stanno dimostrando che la perdita di peso non migliora i biomarcatori della salute. Sin dal 2002, ricerca dopo ricerca, salta fuori questo: le persone grasse con problemi cardiaci o renali, diabete, polmonite e varie malattie croniche se la cavano meglio e vivono più a lungo di quelle con le stesse patologie e peso cosiddetto “normale”. Certo, a meno che a forza di sentirsi urlare che sono schifose e rivoltanti si buttino sotto un treno, o si sottopongano a interventi chirurgici che le uccideranno più alla svelta.

Ma che dico mai, questo o quella non sono dimagriti con la dieta? Sì, e le probabilità che hanno di mantenere la perdita di peso per cinque anni o più sono le stesse del sopravvivere alla metastasi del cancro al polmone: 5 per cento. Auguri.

Non sono notizione che vi dò io tirandole giù dal cielo assieme alla Luna. I medici, persino quelli che vogliono far finta di niente, le conoscono. Sanno che affamarsi, perdere peso, riguadagnare peso e rimettersi a dieta sono azioni causa di malattie cardiache, resistenza all’insulina, alta pressione sanguigna e aumento di peso a lungo termine. Sanno che la mortalità più bassa si registra in individui classificati “sovrappeso” o “leggermente obesi” dal Body Mass Index.

Nella realtà, non nei sogni dei nutrizionisti da palcoscenico o da social media, il 97% delle persone dimagrite riguadagna il peso perso e ne aggiunge un po’ entro tre anni. Se il dietologo di grido vi sbandiera le sue “ricerche” lasciate pur perdere i parametri scientifici di controllo (è raro che li abbiano) e chiedetegli solo di dimostrare che esse hanno seguito le persone oltre lo spartiacque dei tre anni: se la risposta è no mandatelo a zappare, affinché faccia meno danni.

Il giudizio sul culo grasso è morale, non clinico. E trattare il dimagrimento come imperativo morale sostiene la violenza sistemica contro le persone grasse, in tutte le sue forme.

“La chirurgia bariatrica è una barbarie, ma è il meglio che abbiamo.” ha dichiarato David B. Allison, docente universitario di biostatistica. Il meglio che abbiamo ha come effetti malnutrizione, blocchi intestinali, disordini alimentari, infezioni e morte. Non male. Storicamente, prima di amputare o legare lo stomaco agli schifosi pigri che si ingozzano da mane a sera (nell’abominevole immaginario creato ad arte) la “medicina” ha prescritto loro altre “cure”: il lockdown meccanico delle mascelle, per esempio. Se queste merde persone non possono aprire bocca mica possono schiaffarci dentro la fetta di tiramisù, giusto? E che dire delle operazioni chirurgiche al cervello per infliggere salutari lesioni all’ipotalamo? Perché ai “ciccioni” è stato fatto anche questo.

Poi c’è chi dirà di essere in grado di provare che i medicinali per la perdita di peso sono sicuri ed efficaci. Il fen-phen? Buonissimo! Ha danneggiato irreparabilmente le valvole cardiache solo a un terzo delle persone che l’hanno preso. L’orlistat? Una figata! Rovina il fegato e dona il brivido di incontrollabili evacuazioni a tutti. Sibutramine, dite? Splendido! E’ solo che non si fa in tempo a dimagrire per bene, perché si schiatta prima di infarto.

Nessuno riesce a collegare scientificamente la perdita di peso all’acquisto di “miglior salute”. Il meccanismo causa-effetto semplicemente non c’è. L’unico studio che in materia ha seguito i propri soggetti per più di cinque anni (Look AHEAD, 2013) ha per esempio constatato che i diabetici (tipo 2) che avevano perso peso avevano sofferto degli stessi problemi di salute di quelli che non lo avevano perso. Lo dicono gli esperti, quelli veri, quelli che hanno speso tempo e risorse a indagare in modo scientifico e che non si aspettavano proprio risultati di questo genere ma una volta che li hanno ottenuti hanno avuto l’onestà intellettuale di ammetterli. Io non sono un’esperta, ma sono stata costretta ad assumere un notevole ammontare di informazioni – e a confrontarle e verificarle – da due fattori: 1) mia madre era diabetica e io l’ho accompagnata ai controlli mensili all’ospedale per più di 15 anni, sciroppandomi vasta letteratura medica in merito; 2) non sopporto la superficialità e la disinformazione che nutrono scherno e aggressioni a varie tipologie di persone, quelle grasse comprese. Perciò continuo a informarmi, sempre.

Ma l’American Medical Associaton ha detto che l’obesità è una malattia!

Sì, del tutto arbitrariamente, in modo non scientifico e contro il parere del suo Comitato su Scienza e Salute Pubblica. Girano un sacco di soldi e di conflitti di interessi in loco, l’ho dettagliato altre volte (consulenze, proprietà di azioni nell’industria dietetica, mazzette vere e proprie, ecc.), ma la cosa bella – si fa per dire – è che persino i semplici umili dottori di famiglia americani che diagnosticano questa malattia ai loro pazienti possono guadagnare qualcosa, aggiungendo il codice di tale diagnosi alla loro parcella e caricandola. Il dio $$$ è con loro.

Poiché siamo umani, persino noi non conformi, nei primi tempi della pandemia abbiamo sperato che messi di fronte a una vera emergenza sanitaria i “grassofobi” avrebbero cominciato a riflettere sulle loro ossessioni e magari a studiare. Poiché siamo umani, questa speranza spirata sul nascere alza un poco la testa ad ogni nuovo conto dei morti da coronavirus (31.610 ieri in Italia) e poi ricade miseramente fra i meme di “prima e dopo” la quarantena sull’orrore del prendere peso, fra i consigli illuminati (dal faro dell’ignoranza) di youtuber e influencer e fankazzistas e laureati su wikipedia o direttamente on the road perché fanno la corsetta tutti i giorni, fra le diete proposte da celebrità milionarie che, con lo sfondo delle loro lussuose magioni, ci mettono in guardia: attenzione, potreste mangiare di più per lo stress e il costumino di quando avevate 13 anni non andarvi più bene!

Il tutto mentre la gente comune soffre per l’isolamento, per la perdita di lavoro e di reddito, per il timore del contagio, per il parente morto o in terapia intensiva. E questi gli dicono di concentrarsi sul girovita. Dare alla faccenda l’aggettivo abominevole non rende appieno il disgusto che provo.

Bisogna dire, però, che c’è chi gli fornisce il retroscena adatto: i sedicenti professionisti che ignorano a bella posta le ricerche sul peso e le loro implicazioni. Con il coronavirus hanno fatto di peggio, rendendo il peso una caratteristica ancora più patologica. Il BMI è stato scorrettamente indicato come fattore di rischio sia per l’essere infettati sia per il soffrire di sintomi più gravi e il peso viene usato come fattore squalificante quando le risorse sono scarse (i ventilatori sono pochi? Be’, togliamone uno alla cicciona e uno al vecchio inutile). Mi ripeto, ma anche qui il meccanismo causa-effetto è inesistente: medici e scienziati con maggior deontologia professionale lo stanno facendo presente, dati e ricerche alla mano, ma l’artiglieria pesante in funzione 24 ore su 24 che urla “il grasso uccide!” impedisce di ascoltarli. E molti loro colleghi continueranno a prescrivere trattamenti che non funzionano per una condizione che non è una malattia. In due studi che ho letto (2003 e 2016) numerosi dottori definiscono i loro pazienti grassi “non adattati”, “eccessivamente autoindulgenti”, “disturbanti (alla vista)”, “brutti”. Si può star certi che, privi di pregiudizi come si dimostrano, avranno senz’altro a cuore la salute di queste persone e, fedeli al giuramento di Ippocrate, si impegneranno per fare diagnosi accurate. Forse no, facciamo qualche esempio internazionale:

– nel 2017 la studente Beth Dinsley ricevette valanghe di complimenti perché era dimagrita. Nel dicembre dello stesso anno, durante un controllo ospedaliero di routine, scoprì che continuava a perdere peso perché aveva un cancro alle ovaie;

– nel 2018, Rebecca Hiles raccontò in un’intervista che i medici avevano ripetutamente sottovalutato i suoi violenti attacchi di tosse e la difficoltà respiratoria come sintomi relativi al suo peso. Aveva un cancro al polmone. Il risultato del non essere stata presa sul serio perché non adattata e autoindulgente è stata l’asportazione dell’intero polmone sinistro. Se la prima volta in cui andò dal dottore, cinque anni prima, questo l’avesse vista come un essere umano il polmone poteva essere salvato;

– nel 2019 il medico di Jen Curran giudicò la presenza di proteine nella sua urina durante la gravidanza e dopo come un problema di peso. Se dimagriva sarebbe andato tutto a posto. Per fortuna costei cercò una seconda opinione: e seppe di avere un cancro al midollo osseo.

Se poi volete un po’ di vittime italiane, da quelle che si sono suicidate grazie al bullismo continuo diretto ai loro corpi, a quelle che sono state macellate e uccise dalla chirurgia bariatrica di cui sopra o dalla liposuzione non dovete far altro che frugare questo blog o usare google.

Secondo la dott. Emma Beckett, scienziata che lavora su cibo e nutrizione all’Università di Newcastle in Australia, “Noi non mangiamo per mantenere una taglia, ma per mantenere i nostri corpi in salute ora e nella vecchiaia. Entrare in un vestito più stretto vale l’avere ossa fragili o un cancro all’intestino più tardi? Mi piacerebbe se smettessimo di concentrarci sul peso e ci concentrassimo sul nutrimento e sulla gioia.” Sarebbe bello, in effetti.

Stamane i giornali riportano l’appello a favore degli anziani di intellettuali e politici italiani: “Non sono scarti”. La petizione intende chiedere “a tutti i governi dell’Unione una maggiore etica democratica che passi dal rispetto degli anziani e dal rifiuto di una “sanità selettiva” che privilegi la cura dei pazienti più giovani a scapito degli over 65″. I promotori e i firmatari giudicano – giustamente – ciò “umanamente e giuridicamente inaccettabile” e sentono la necessità “di un vero cambio di prospettiva e di un recupero dei valori morali, civili e deontologici delle nostre società”.

Okay. Neppure i “culi grassi” sono scarti. Non devono rispondere del reato di “non conformità”. Non stanno togliendo niente alle vite degli idioti che li insultano dai balconi, neppure e meno che mai in senso economico, giacché sono le galline dalle uova d’oro spremute dall’industria dietetica, farmaceutica e di medicina “estetica”. A quando un’iniziativa simile per costoro, intellettuali e politici di cui sopra?

Infine, una volta per tutte: gli esseri umani non sono giocattoli. Non vi piacciono le persone grosse? Sono stracazzi vostri e non siete autorizzati a rovesciare il vostro disprezzo da farabutti sulle loro facce o sui loro culi. Non siete autorizzati a spingerle verso la disistima, i disturbi alimentari, le conseguenze dei traumi relativi ai vostri assalti – suicidio compreso. A me, vedete, è quel che fate a non piacere.

Maria G. Di Rienzo

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libro jessica

Questo libro – “Perché le donne sono ritenute colpevoli di tutto” – è uscito il 27 aprile scorso. La sua Autrice è la dott. Jessica Taylor, docente universitaria di psicologia forense e criminale, nonché titolare di un dottorato di ricerca e fondatrice di VictimFocus, organizzazione internazionale che studia il biasimo posto sulle donne vittime di violenza di genere e fornisce consulenza e addestramento al proposito.

Prima ancora della sua uscita, il testo ha attirato una crescente attenzione ed è stato presentato durante un programma radiofonico della BBC, “Woman’s Hour”. Così, dal 17 aprile, la dott. Taylor ha subito un incessante attacco via internet fatto di migliaia di messaggi violenti: “di tutto, dal dirmi di morire e di uccidermi a “ti stupro”, messaggi che dicevano che non sono una vera psicologa o docente, che sono grassa, brutta, disgustosa, una schifosa lesbica, sterile, che morirò da sola, che i miei genitori mi odiano”, ha raccontato a The Guardian in una recente intervista.

Il 21 aprile, il gruppo organizzato di “troll”, riconoscibili come simpatizzanti o appartenenti a vari movimenti misogini (“alt-right”, men’s rights activists, incel, Mgtow) è passato al livello successivo, hackerando il computer di Taylor: “Avevano il controllo totale della mia tastiera e del mouse. Ho tentato di fermarli, ma mi sono bastati 30 secondi per capire quanto seria era la faccenda, perciò ho chiuso il laptop, sono corsa a spegnere il wifi e a chiudere ogni altro dispositivo.” La docente ha fatto denuncia e la polizia sta indagando.

“Sapevo che c’era bisogno di scrivere questo libro – ha detto ancora nell’intervista – ma non sapevo che ce ne fosse così tanto bisogno. Le aggressioni da parte di uomini sono state scioccanti. Le violenze e le molestie online ti spaventano e ti esauriscono, ma non mi porteranno mai al punto di dire: Smetto di parlare dell’abuso di donne e bambine. Le donne saranno sempre al centro del mio lavoro e continuerò a mettere a disagio i misogini. Il libro è stato scritto per ogni singola donna, ragazza e bambina a cui è stato detto che se avesse fatto qualcosa in modo diverso, se avesse cambiato qualcosa di se stessa o ristretto la propria vita non sarebbe stata soggetta alla violenza maschile. Io ne ho avuto abbastanza e milioni di altre donne ne hanno pure avuto abbastanza. Quindi, un bel po’ di uomini si sono arrabbiati. Dovete domandarvi perché. Di cosa hanno paura?”

Maria G. Di Rienzo

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26 aprile 2020 – Bergamo, uccisa a pugni e a calci in casa, arrestato dopo un mese il compagno.

“Una donna di 34 anni, Viviana Caglioni, è stata uccisa a calci e pugni dal compagno, Cristian Michele Locatelli, 42 anni, ora in carcere a Bergamo. La brutale aggressione risale ad un mese fa, nella notte tra il 30 e il 31 marzo, ma inizialmente il presunto aggressore, coperto anche dalla madre di lei, aveva riferito di una caduta. (…) Locatelli, dopo l’arresto, ha riferito agli inquirenti di avere picchiato la compagna per gelosia, pestandola con calci e pugni alla testa e all’inguine.”

Quattro giorni prima, è apparso sul Guardian un articolo di Anna Moore – relativo al raddoppiamento dei femicidi in Gran Bretagna durante il lockdown – di cui riporto un brano:

“Alison Young viveva in quarantena molto prima del Covid-19. Durante la maggior parte degli otto anni del suo matrimonio, suo marito le ha permesso di lasciare l’abitazione solo per “viaggi autorizzati”.

“Si trattava invariabilmente di spesa alimentare e, quando rientravo, lui controllava gli scontrini, il chilometraggio e ispezionava l’automobile in cerca di briciole nel caso io avessi mangiato qualcosa mentre ero fuori casa, cosa che non mi era permessa. – racconta – Se violavi le regole o ribattevi, non sapevi come lui avrebbe reagito. A volte mi lasciava riderci sopra, altre volte mi puntava un coltello alla gola: perciò, la paura non se ne andava mai. Era giusto sotto la superficie o si riversava all’esterno da ogni poro della pelle.” (…)

“Ho letto i rapporti relativi agli “omicidi da quarantena” e delle donne in disperato bisogno d’aiuto e la cosa è sempre descritta come gente che vive sotto pressione in un momento fuori dall’ordinario e perde la testa. – dice Young, che ora dirige un network non ufficiale a sostegno delle donne come lei – Quando lo stai vivendo non è affatto così. Si tratta di come i partner violenti si comportano quando non c’è su di loro uno sguardo pubblico. Si tratta di persone che usano ogni cambiamento di circostanze a proprio vantaggio e si adattano a qualsiasi nuovo modo di vivere restringendo massicciamente il controllo.”

La dott. Jane Monckton-Smith, ex ufficiale di polizia e criminologa forense all’Università di Gloucester, ha passato anni studiando centinaia di omicidi commessi da partner intimi, intervistando famiglie e professionisti nel campo della protezione pubblica, per riuscire a tracciare il lento andamento che va “primo incontro” a “omicidio”. Lo scorso anno ha pubblicato “Homicide Timeline”, in cui identifica le otto fasi attraversate da un assassino.

La prima è una storia, precedente alla relazione, di stalking, violenza domestica o controllo coercitivo. La seconda è la dichiarazione d’amore e il conseguente muoversi verso una relazione molto velocemente. La terza è un inasprimento delle misure di controllo: può riguardare le abitudini di spesa della partner, gli amici che lei incontra, i vestiti che indossa. “Prima del lockdown, la maggior parte dei “controllori” era nella fase tre.”, dice Monckton-Smith.

La fase quattro sulla sua scala è un “evento scatenante”, qualcosa che minaccia il senso di potere e controllo dell’assassino. “Spesso è la partner che interrompe la relazione, ma può essere tutta una serie di altre cose – il pensionamento, la disoccupazione, la malattia, un nuovo bambino.” O la quarantena. “Tutti gli abusanti sono ora nella fase quatto – dice ancora Monckton-Smith – Chiunque tu sia, il Covid-19 ti ha sottratto il controllo. Hai perso il controllo su dove puoi andare, cosa puoi fare e puoi persino aver perso il controllo delle tue finanze. Se stai con i figli 24 ore al giorno e sono troppo rumorosi, troppo disordinati, se la tua vittima si ammala o non è in grado di gestire i bambini e la casa nel modo in cui vuoi tu… Non sto dicendo che ognuno in questo stadio passerà all’omicidio, ma ogni abusante è ora più instabile e ad alto rischio. E se questa persona è impulsiva, o a proprio agio con la violenza, può attraversare assai rapidamente le fasi successive: acutizzazione, cambiamento di pensiero, pianificazione e omicidio.”

Alison Young riconosce questo schema sin troppo bene – per lei, l’evento scatenante fu perdere il lavoro. “Non c’erano colpe da parte mia, ci fu una ristrutturazione e il mio posto di lavoro non esisteva più. – dice – Mi ricordo seduta nel treno verso casa dopo che me l’avevano comunicato, così terrorizzata da non riuscire a distinguere le cose con la vista. Sapevo di doverglielo dire e sapevo cosa mi aspettava. Il mio impiego era stato ben pagato e lui non lavorava, perciò aveva bisogno che lo facessi io. Lui mi sottrasse la carta di credito della banca. Non mi era più permesso andare da nessuna parte perché, secondo lui, ogni volta in cui io uscivo era un costo in denaro.”

Vivendo assieme a lei una quarantena personalizzata, il partner di Young divenne più violento e meno prevedibile: “La faccenda si inasprì davvero in fretta. Mi minacciava con coltelli e mi stuprò molte volte.” Fu dopo che l’uomo cominciò a tirarla fuori dal letto mentre dormiva per trascinarla in giro per la stanza “come una bambola di stracci” che Young si rivolse a un’amica, la quale l’aiutò a scappare.”

Maria G. Di Rienzo

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(“UNFPA study shows limits on women’s reproductive decision-making worldwide – one quarter of women cannot refuse sex” – sito del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, 1° aprile 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

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Circa un quarto delle donne non possono rifiutare il sesso o prendere le loro proprie decisioni sull’accesso ad appropriate cure sanitarie, lo ha scoperto un importante studio internazionale. Il Fondo delle NU per la popolazione, l’Agenzia delle NU per la salute sessuale e riproduttiva, ha rilasciato oggi una nuova ricerca all’avanguardia che rivela quanto avanti si è spinto il mondo nel permettere alle donne e alle ragazze di compiere scelte informate rispetto ai loro diritti riproduttivi.

La maggior parte delle nazioni ha leggi forti che assicurano alle donne di poter accedere alla loro salute sessuale e riproduttiva e ai loro diritti. Ma la realtà che le donne affrontano è spesso assai differente.

Il Fondo delle NU per la popolazione ha misurato il processo decisionale delle donne sulla riproduzione in 57 paesi e la legislazione su salute e diritti in 107 e i risultati mostrano, fra le altre tendenze, che in oltre il 40% delle nazioni i diritti riproduttivi delle donne stanno regredendo.

“Una donna su quattro, nei paesi che abbiamo esaminato, non è in grado di prendere decisioni proprie sull’accesso alle cure sanitarie. Questo è sconvolgente e inaccettabile. – ha detto la dott. Natalia Kamen, direttrice esecutiva del Fondo – Questa nuova ricerca offre un’esauriente quadro dello stato dei diritti sessuali e riproduttivi nel mondo, sia per quel che riguarda la legge sia per la realtà vissuta da donne e ragazze. Ci aiuterà a capire meglio cosa funziona e a definire con precisione le sfide rimanenti a un livello dettagliato che non avevamo in precedenza.

I nuovi dati ci aiutano a misurare il progresso verso l’ottenimento dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile n. 5 (OSS 5), equità di genere e potenziamento delle donne. Più precisamente, essi coprono due indicatori dell’OSS 5 per raggiungere l’accesso universale alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti relativi (Target 5.6). L’indicatore 5.6.1 misura l’autonomia riproduttiva delle donne e l’indicatore 5.6.2 misura le cornici legali e di regolamentazione che esistono nei paesi per permettere l’accesso a salute sessuale e riproduttiva e diritti.

Le risultanze chiave della ricerca includono:

* Solo il 55% delle donne può prendere le proprie decisioni su salute sessuale e riproduttiva e diritti.

* Un quarto delle donne non è in grado di prendere le proprie decisioni rispetto all’accesso alle cure sanitarie.

* Le nazioni di media hanno il 73% delle leggi e delle norme in funzione necessarie per garantire eguale accesso a salute sessuale e riproduttiva e diritti.

* Quasi il 100% delle leggi e delle norme delle nazioni garantisce l’accesso a consulenza volontaria e test per l’HIV e protegge l’anonimato delle persone che vivono con l’HIV.

* Numerosi stati impongono restrizioni legali che impediscono l’accesso alla salute sessuale e riproduttiva e ai diritti per determinati gruppi – specificatamente per donne e adolescenti.

Questa ricerca sarà una risorsa cruciale per il Fondo delle NU per la popolazione, i governi e gli associati per rispondere efficacemente ai bisogni più pressanti di donne e ragazze in tutto il mondo. Per la prima volta, ci consente di identificare la problematiche che paesi diversi ancora fronteggiano verso la piena realizzazione della salute sessuale e riproduttiva e dei diritti che le cornici legali possono non comprendere.

Potete avere accesso alla ricerca qui: https://www.unfpa.org/sdg-5-6

Per maggiori informazioni, per favore contattate Eddie Wright: ewright@unfpa.org; +1 917 831 2074

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Scadenze

(tratto da: “Coronavirus: The woman behind India’s first testing kit”, di Geeta Pandey per BBC News, 28 marzo 2020. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

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Giovedì scorso, i primi test per coronavirus prodotti in India hanno raggiunto il mercato, ravvivando le speranze di un aumento nello screening dei pazienti con sintomi influenzali, per confermare o smentire l’infezione da Covid-19.

Mylab Discovery, nella città occidentale di Pune, è diventata la prima azienda indiana ad ottenere piena approvazione per la produzione e la vendita dei test. (…)

“Il nostro kit fornisce la diagnosi in due ore e mezza, mentre quelli importati ci mettono sei-sette ore.”, dice la virologa Minal Dakhave Bhosale (in immagine sopra), direttrice per la ricerca e lo sviluppo a Mylab.

Bhosale, che ha guidato la squadra creatrice del kit per l’esame del coronavirus, chiamato “Patho Detect”, specifica che è il lavoro stato fatto “in tempo record”- sei settimane invece di tre o quattro mesi. E la scienziata stava lottando anche con le proprie scadenze. La scorsa settimana ha dato alla luce una bambina e ha cominciato a lavorare al programma in febbraio, pochi giorni dopo aver lasciato l’ospedale in cui era ricoverata per complicazioni relative alla gravidanza.

“Era un’emergenza, per cui l’ho presa di petto come una sfida. Devo servire la mia nazione.”, ha detto, aggiungendo che la sua squadra di 10 persone si è impegnata duramente per fare del progetto un successo.

Alla fine, ha sottoposto il kit all’Istituto nazionale di virologia, per la valutazione, il 18 marzo e cioè giusto un giorno prima di partorire sua figlia. Quella stessa sera, un’ora prima di essere trasportata in ospedale per il cesareo, ha inviato la proposta all’Autorità indiana per il controllo alimentare e medicinale e a quella per l’approvazione commerciale.

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(“Internet ‘is not working for women and girls’, says Berners-Lee”, di Ian Sample per The Guardian, 12 marzo 2020. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Le donne e le ragazze fronteggiano una “crisi crescente” di abusi online, con le molestie sessuali, i messaggi minacciosi e la discriminazione che rendono il web un posto non sicuro dove stare, ha ammonito Sir Tim Berners-Lee.

L’inventore del world wide web ha detto che la “pericolosa tendenza” dell’abuso online sta forzando donne a lasciare il lavoro, ragazze a saltare la scuola, sta danneggiando relazioni e riducendo al silenzio le opinioni femminile, inducendolo a concludere che “la rete non sta funzionando per donne e ragazze”.

“Il mondo ha ottenuto importanti progressi sull’eguaglianza di genere grazie all’incessante spinta di impegnati sostenitori. – ha scritto giovedì scorso Berners-Lee, in una lettera aperta che segna il 31° anniversario del web – Ma sono seriamente preoccupato dagli abusi online che colpiscono donne e ragazze – in special modo quelle di colore, quelle che appartengono alle comunità LGBTQ+ ed altri gruppi marginalizzati – che minacciano quel progresso.”

L’avviso arriva un anno dopo che Berners-Lee ha lanciato il Contratto per la Rete, un piano d’azione globale mirante a salvare il web dalle forze che minacciano di trascinare il mondo in una “distopia digitale”. Senza contrastare l’abuso misogino online, ha detto, gli scopi del contratto non possono essere raggiunti.

“Sta a tutti noi far sì che la rete funzioni per tutti. – attesta la lettera – Ciò richiede l’attenzione di chiunque dia forma alla tecnologia, dagli amministratori delegati e dagli ingegneri agli accademici e ai funzionari pubblici.”

Berners-Lee indica tre aree che hanno necessità di attenzione “urgente”. La prima è il divario digitale che tiene offline più di metà delle donne al mondo, in gran parte perché essere online è troppo costoso o perché non hanno accesso all’equipaggiamento e alle conoscenze necessarie.

La seconda è la sicurezza online: secondo una ricerca della Berners-Lee’s Web Foundation più di metà delle giovani donne ha fatto esperienza di violenza online, incluse le molestie sessuali, i messaggi minatori e immagini private condivise senza consenso. La grande maggioranza di esse ritiene che il problema stia peggiorando.

La terza minaccia viene da intelligenze artificiali mal disegnate che ripetono e aggravano la discriminazione. “Molte ditte stanno lavorando intensamente per contrastare questa discriminazione. Ma sino a che non dedicano risorse e diversificano le squadre per mitigare il pregiudizio, rischiano di espandere la discriminazione a un livello mai visto prima.”, scrive Berners-Lee.

Amalia Toledo, avvocata e attivista della Fundación Karisma, un gruppo con base in Colombia che fa pressione per un internet più sicuro, dice che le difensore dei diritti delle donne e le giornaliste sono bersagli privilegiati per l’abuso.

“Se stanno parlando di questioni pressanti per il paese, mettendo in discussione lo status quo, o denunciando ciò che lo stato fa, ci sono continui e coordinati assalti da parte dei troll, che aggrediscono i loro corpi, le loro famiglie e relazioni, e le insultano per il loro aspetto. – ha detto Toledo – Le loro opinioni non sono nemmeno discusse.”

Amalia Toledo

La Fundación Karisma gestisce una campagna online, “Alerta Machitroll”, che espone le attitudini misogine e l’abuso online. “Ciò che si dice alle vittime per tutto il tempo è Oh, non è nulla, ignoralo, chiudi il tuo account. Ma questo ha un grosso impatto sulle vite delle persone. Vogliono controllare le donne, vogliono che le donne stiano zitte.”, ha affermato Toledo.

Berners-Lee ha detto che l’esplosione del coronavirus ha mostrato quanto sia urgente agire. Mentre luoghi di lavoro e istituti scolastici sono costretti a chiudere, la rete dovrebbe essere un “salvagente” che permetta alle persone di continuare a lavorare e ai bambini di istruirsi. Ha chiesto alle compagnie commerciali e ai governi di fare del contrasto all’abuso online una priorità principale quest’anno. Più dati devono essere raccolti e pubblicati sulle esperienze delle donne online, mentre prodotti, politiche e servizi dovrebbero essere tutti disegnati sulla base dei dati e del riscontro da parte di donne provenienti da ogni tipo di retroscena, ha aggiunto.

Infine, ha fatto urgenza ai governi affinché rinforzino le leggi che chiedono di rispondere delle proprie azioni a chi abusa online, e all’opinione pubblica affinché parli apertamente ogni volta in cui testimonia detti abusi.

Andy Burrows, dirigente delle politiche per la sicurezza online dei bambini alla NSPCC, (Ndt. – National Society for the Prevention of Cruelty to Children – Società nazionale per la prevenzione della crudeltà verso i bambini) ha detto: “Le ditte tecnologiche non sono attori neutrali e le loro decisioni hanno conseguenze nel mondo reale. Ma per troppo tempo abbiamo visto responsi frammentari e spesso insufficienti dalle piattaforme che mettono in pericolo gli utenti.”

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(tratto da: “All it takes for a woman to be reduced to an object is too much eyeliner”, di Arwa Mahdawi per The Guardian, 1° febbraio 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

warpaint

Più trucco hai addosso, meno umana sembri. E’ la piuttosto deprimente conclusione di un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Sex Roles”, che ha indagato su come i cosmetici influenzino il modo in cui percepiamo le donne. I ricercatori hanno chiesto a 1.000 persone (in maggioranza britannici e statunitensi) di valutare le facce delle donne con e senza pesante makeup. Hanno scoperto che i partecipanti, sia maschi sia femmine, hanno classificato le donne con molto trucco meno umane e dotate di meno calore e meno moralità. Non si può non amare questa misoginia interiorizzata!

I risultato dello studio sono persino peggiori per chi preferisce una marcata ombreggiatura all’occhio a uno sgargiante rossetto: “alle facce con gli occhi truccati sono state attribuite le quantità minori di calore e competenza”.

“Può essere che le facce con trucco pesante siano percepite come aventi meno tratti umani perché sono esaminate visivamente in un modo che richiama quello in cui sono esaminati la maggior parte degli oggetti.” ha spiegato Philippe Bernard, il principale autore dello studio. Bernard, ricercatore alla Libera Università di Bruxelles, ha notato inoltre che mentre c’è un crescente corpus di ricerche che dimostrano come le immagini sessualizzate promuovano la disumanizzazione delle donne, meno attenzione è prestata a “come forme più sottili di sessualizzazione, tipo il trucco” influenzino l’oggettivazione. Da quel che ne esce, tutto ciò che ci vuole a una donna per essere ridotta a oggetto è un tocco in più di eyeliner.

Ad ogni modo, non buttate ancora via i vostri cosmetici. Secondo uno studio del 2011, compiuto da ricercatori dell’Università di Boston e della Scuola di Medicina di Harvard, le donne che indossano un ammontare “professionale” di trucco in ufficio sono viste come più competenti, capaci, affidabili e amabili delle donne con la faccia spoglia (val la pena notare che lo studio è stato finanziato da Procter & Gamble, che possiede marchi di prodotti cosmetici come Olay e SK-II: perciò prendetelo con un pizzico di sali da bagno).

Ma se indossare livelli “professionali” di trucco può aiutarvi al lavoro, dovete fare attenzione a non apparire troppo carine. Uno studio del 2019 attesta che “le donne d’affari attraenti sono giudicate come meno sincere di quelle meno attraenti”. E in ogni caso, un altro studio ancora dice che gli individui attraenti guadagnano di più dei loro pari più semplici. (…)

Non abbiamo neppure cominciato sul come il vostro taglio di capelli influenzi ciò che fate nella vita. Ci sono numerose ricerche che suggeriscono come le donne con capelli lunghi siano giudicate “assai ben tenute” e dall’alto “potenziale riproduttivo”. Tuttavia i capelli lunghi possono anche segnalare “potenza in declino” ed essere visti come meno professionali (può essere per questo che Ivanka Trump si è fatta il caschetto di recente). La capigliatura è ancora più complicata per le donne di colore, ovviamente, che sono spesso costrette a conformarsi agli standard di bellezza bianchi per essere percepite come professionali.

Essere una donna significa camminare costantemente su un filo da acrobata teso fra l’essere invisibile e l’essere oggettivata. Devi essere carina, ma non troppo carina! Devi essere attraente, ma non troppo attraente! Devi truccarti, ma non troppo!

Forse è arrivato il momento di spalmarci in faccia i colori di guerra e di stabilire le nostre proprie regole.

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francesca e concetta

(Francesca Colavita e Concetta Castilletti)

Per i media italiani dev’essere stato come un fulmine a ciel sereno o un sonoro ceffone – qualcosa che ha indotto nelle redazioni uno stato di shock da cui sono usciti titoli del tipo “Gli angeli della ricerca” e assicurazioni che i mariti e le famiglie “supportano” (accettano e sostengono) questa cosa per loro stranissima, assai improbabile, mai vista, un po’ inquietante: “Sono tre donne, tre ricercatrici italiane le protagoniste dell’impresa dell’istituto Spallanzani, riuscito a isolare il nuovo coronavirus, passo fondamentale per sviluppare terapie e possibile vaccino.”

Si tratta di Maria Rosaria Capobianchi, “67enne nata a Procida, laureata in scienze biologiche e specializzata in microbiologia, a capo del Laboratorio di Virologia”, Francesca Colavita “giovane ricercatrice da 4 anni al lavoro nel laboratorio dopo diverse missioni in Sierra Leone per fronteggiare l’emergenza Ebola” e Concetta Castilletti, “responsabile della Unità dei virus emergenti (“detta ‘mani d’oro’, ha raccontato il direttore dell’Istituto Giuseppe Ippolito), classe 1963, specializzata in microbiologia e virologia”.

concetta e maria

(Concetta Castilletti e Maria Rosaria Capobianchi)

Ai giornalisti rintronati e preoccupatissimi del benessere dei loro familiari (non in relazione ai virus, ma al ruolo di servizio delle donne) le ricercatrici hanno semplicemente risposto che questa è la loro vita, sono state umili e hanno definito il loro successo una “vittoria di squadra” (due uomini ne facevano parte: Fabrizio Carletti, test molecolari e Antonino Di Caro, collegamenti sanitari internazionali), hanno persino detto di dover qualcosa alla fortuna.

Tuttavia la loro intelligenza, la loro brillantezza, le loro capacità e le loro storie di preparazione e di impegno sono salite sul palcoscenico e lo hanno inondato di luce. Una volta tanto, trattando di donne, non si è parlato della “bellezza”, di spacchi vertiginosi, di prodotti cosmetici e dimagranti, di chi va a letto con chi e delle centinaia di stronzate sessiste e misogine che provengono dai media ogni singolo giorno.

Ora il grande pubblico ha visto tre delle donne normali e comuni e splendide che rendono la nostra vita migliore solo essendo se stesse. Pensate a quante altre ce ne sono – e se siete donne e mi state leggendo pensate a voi stesse.

Maria G. Di Rienzo

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Il Sunday Times è un quotidiano britannico (fondato nel 1821) che può essere definito politicamente come oscillante fra destra e centro-destra. Sembra avere, a livello storico, una malefica fascinazione per i “diari” nazisti: pubblicò quelli falsi di Hitler nel 1983 – dopo che erano stati autenticati da un esperto – e nel 1992 inciampò nella commissione a un negazionista dell’Olocausto dell’autenticazione di quelli di Goebbels (poi cancellata a causa delle proteste nazionali e internazionali).

Molta della sua popolarità, però, la deve alla consistenza del suo giornalismo investigativo: fu tra i primi a mettere all’indice la pericolosità del talidomide – prescritto per la nausea alle donne incinte, il farmaco causava la nascita di bambini affetti da amelia (senza arti) o focomelia (con le ossa degli arti ridotte) – sostenendo le sue affermazioni con studi e ricerche e fece campagna per anni affinché le vittime fossero risarcite; nel 2009 espose in modo inequivocabile l’abuso dei rimborsi spese da parte di molti politici inglesi; fra il 2004 e il 2010, con un’indagine di rare precisione e tenacia, rivelò che la ricerca sui vaccini di Andrew Wakefield era completamente falsa (il medico antivax fu bandito dalla professione), eccetera.

Perciò, quando un pezzo del Sunday Times comincia con “il nostro giornale ha indagato su” è sensato dare un’occhiata. Il 26 gennaio scorso, l’articolo con questo incipit firmato da Rosamund Urwin e Esmé O’Keeffe riguardava la normalizzazione della violenza sessuale e ha per titolo “I social media inducono le ragazze a pensare che essere strangolate durante i rapporti sessuali sia normale”.

Strangolamento e asfissia “erotica” delle donne, spiega il pezzo, sono proposte agli adolescenti ambosessi con centinaia e centinaia di immagini esplicite su Pinterest, Instagram e Tumblr: gli utenti più giovani ammessi all’uso di esse sono tredicenni: “Le immagini, che includono fotografie di giovani donne immobilizzate e strangolate da uomini e imbavagliate, sono spesso pubblicate con gli hashtag “paparino”, “soffocamento erotico”, “gioco del respiro”, “strangolare”. Sulla scia dei libri che diffondono la ritualizzazione dell’abuso domestico, come “Cinquanta sfumature di grigio”, i social media visti dagli adolescenti sono stati inondati da meme e immagini che romanticizzano lo strangolamento come parte di un incontro sessuale.”

jone reed - broken flowers

Quindi l’abuso è un piacere, è sexy, è… amore! Un bacino commerciale da oltre un miliardo di dollari (le citate “sfumature”) ha di sicuro convinto di questo qualche donna e qualche uomo in più, ma la normalizzazione della violenza passa indisturbata tramite film, pubblicità, spettacoli televisivi e cronaca. Nei prodotti di intrattenimento avete visto a profusione scene del genere: Lui la prende “appassionatamente” a ceffoni e poi la bacia. Lei lo respinge e lui la forza nel suo abbraccio. Lei tenta di sottrarsi al rapporto sessuale, lui la inchioda nel letto e la stupra… ma dopo sono entrambi felici e si guardano teneramente.

L’addestramento a considerare tali scenari normali comincia presto. Alle bambine e alle ragazze che osano lamentarsi del trattamento ricevuto dai pari di sesso maschile si risponde spesso così: “Lo fa perché gli piaci”. In tal modo, non solo sono costrette ad associare una volta di più il comportamento abusante all’amore, ma segnaliamo loro con precisione che non hanno alle spalle un sistema di sostegno: gli adulti non interverranno per difendere il loro diritto di sottrarsi alla violenza e a qualsiasi “attenzione” non desiderata e non richiesta – per cui, ora e in futuro dovranno cavarsela da sole.

Subito dopo, lo vogliano o no, incontrano la pornografia: cioè, quel che rende la violenza sessuale rivolta a una donna un mero fenomeno naturale. Troppi dei loro coetanei di sesso maschile hanno “imparato” cos’è il sesso da raffigurazioni del tipo denunciato dal Sunday Times (assurdamente violente, pericolose, misogine, disumanizzanti, irrealistiche – le donne sono umane e la stragrande maggioranza degli esseri umani non gode del dolore inflitto ne’ del disprezzo altrui) e chiederanno loro di adeguarsi.

Zitte e sorridenti, con le tette gonfiate quale regalo di compleanno, sempre affamate, tinte e pitturate, in bilico su venti centimetri di tacco (per fare con grazia passi di lato e passi indietro) e con un laccio stretto attorno al collo per eccitare meglio il “paparino” di turno. E’ tutto amore, perdinci, cosa volete che ne sappia una femminazgul come me.

Maria G. Di Rienzo

Sull’influenza della pornografia online:

Kolb, B., Gibb, R., & Robinson, T.E. (2003). Brain Plasticity and Behavior, Current Directions in Psychological Science;

Kuhn, S., & Gallinat, J. (2014). Brain structure and functional connectivity associated with pornography consumption: the brain on porn. JAMA Psychiatry;

Pace, S. (2014). Acquiring Tastes through Online Activity: Neuroplasticity and the Flow Experiences of Web Users. M/C Journal;

Love, T., Laier, C., Brand, M., Hatch, L., & Hajela, R. (2015). Neuroscience of Internet Pornography Addiction: A Review and Update, Behavioral Sciences.

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L’organizzazione umanitaria Plan International UK e la fotografa Joyce Nicholls hanno viaggiato per tutto il Regno Unito incontrando ragazze e giovani donne, per sapere da loro cosa considerano importante in materia di sicurezza pubblica, immagine corporea, social media e femminismo. Il risultato è che tutte hanno espresso frustrazione per la mancanza di un vero progresso nell’eguaglianza di genere. La ricerca si chiama “What young women think in 2020” e le due testimonianze tradotte di seguito ne fanno parte.

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Bláithín, 16 anni, Derry

“C’è un grosso fraintendimento su cosa sia una femminista. La gente si limita a presumere: “Sarebbe che le donne devono essere meglio degli uomini, le donne sono meglio degli uomini sotto tutti gli aspetti, gli uomini non sono nulla” e non è niente di tutto questo. Ignorano di che si tratta e prima di parlare dovrebbero cercare di informarsi. La mia definizione di femminista è: qualcuno che difende i diritti di tutti e vuole che tutti abbiano le stesse opportunità nella vita. Tutti dovrebbero, in effetti. E’ questo che io non capisco, perché come esseri umani dovremmo darci sostegno l’un l’altro. Specialmente come ragazze dovremmo farlo. Perché non si dovrebbe volere il meglio per le persone che abbiamo intorno?”

Hannah

Hannah, 15 anni, Scottish Highlands

“Penso che il femminismo abbia un’importanza enorme in questo momento. Ma c’è un sacco di gente che continua a dire cose come “Oh, è odiare gli uomini” e “Siamo già tutti uguali” e non è vero. Ho la sensazione che ci sia bisogno di maggior consapevolezza. E’ come se fossero spaventati perché pensano che le donne diventeranno superiori e tratteranno gli uomini come gli uomini le hanno trattate per secoli. Gli uomini sono sempre stati più in alto delle donne e probabilmente hanno paura di quel che non conoscono.”

Maria G. Di Rienzo

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