(“Meet Amel: One of the 900,000”, di Yosra Akasha per World Pulse, 31 marzo 2015. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
La storia delle Montagne Nuba come zona di conflitto risale agli anni ’80, quando molte persone nella regione cominciarono ad unirsi all’Esercito di liberazione del popolo sudanese (ELPS) e a combattere contro il governo centrale a Khartoum.
La regione ha testimoniato la guerra dal 1991 al 2002, ma ha ricevuto scarsa attenzione. La guerra è scoppiata di nuovo, fra l’ELPS ora M/ELPS – N (Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese – nord) e l’esercito nel giugno 2011 al momento della secessione del Sudan del Sud. Da allora la regione è fuori portata per l’assistenza umanitaria e per i radar dei media.
Nel 2012, Human Rights Watch riportò che 900.000 persone erano sfollate a causa del conflitto. Di recente, nel gennaio 2015, l’Agenzia NU per i rifugiati ha riportato che 3.000 persone avevano attraversato il confine con il Sudan del Sud in un solo mese.
Aldilà delle cifre delle persone che fuggono il conflitto e i video di bombardamenti aerei e corpi linciati, è raro sentire qualche storia delle Montagne Nuba. Ma quei 900.000 individui hanno storie di vita che necessitano essere raccontate. Hanno volti che devono essere mostrati ai loro concittadini che vivono in pace e a un mondo che continua a ripetere “mai più” ma chiude un occhio su molti devastanti conflitti, come la guerra continua e infinita in Sudan.

Incontrate Amel. (Ndt. Il nome è stato cambiato per la sua protezione) Amel è un’attivista, una donna di circa 35 anni con un diploma universitario. Vive nella sua città natale: un piccolo villaggio nella contea di Umdorain nelle Montagne Nuba, che è controllata dal M/ELPS – N. Lavora con un’organizzazione locale nel monitoraggio delle violazioni dei diritti umani ed istruisce la sua comunità su tale istanza. Le piace la bellezza del suo villaggio specialmente durante la stagione delle piogge: quando ogni cosa intorno, montagne comprese, si copre di verde.
Amel conferma che la regione soffre per la guerra specialmente nelle aree controllate dal M/ELPS – N, che è attaccato di frequente con raid aerei da parte delle forze governative: “Ora la gente vive nelle caverne e in montagna, senza accesso all’aiuto umanitario. C’è un enorme movimento di popolazione nei paesi confinanti. Una delle cinque unità amministrative di Umdorain ha tutte le scuole chiuse a causa dei bombardamenti, mentre altre due ne hanno chiuse metà. Inoltre, le bombe hanno inquinato l’ambiente. Le fonti d’acqua sono pesantamente inquinate da munizioni inesplose. Molte pompe manuali non funzionano più. Le persone usano l’acqua delle polle a livello del suolo, un’acqua che di recente è diventata marrone e sta causando malattie; io stessa mi sono ammalata più volte bevendola.”
La vita di Amel non è stata facile. All’inizio degli anni ’90 viveva a Khartoum con i genitori e 8 fra fratelli e sorelle, quando la guerra scoppiò nel Kordofan del sud. Il salario del padre era appena sufficiente per la famiglia, ma non fu più tale quando dovettero ospitare i parenti profughi. “La mia famiglia ha lottato disperatamente per pagare le tasse scolastiche di noi figli. Io non riuscivo più a studiare. E’ stato un periodo durissimo per noi.”
Alla ripresa della guerra nel giugno 2011 la famiglia si è divisa. La madre di Amel vive nella contea di Umdorain, il padre nel Sudan del Sud. Alcuni fratelli si sono trasferiti nelle città del nord, altri sono richiedenti asilo nel campo profughi di Kakuma in Kenya, e uno vive in Uganda.
“I miei genitori non sono insieme da un po’ e hanno bisogno di stare insieme, con i figli, e di curarsi di loro. Tuttavia questo è difficile da ottenere ora con quel che poco che io, mio padre e mia madre riusciamo a guadagnare. I miei fratelli e le mie sorelle sono giovani, ci sono adolescenti che hanno necessità di guida e direzione. Due delle mie sorelle passano da un guaio all’altro e sono rimaste incinte. La mia sorella più giovane continua a scappare a Khartoum nel tentativo di avere un’istruzione o prova a raggiungere la nostra sorella maggiore negli Usa, mentre quest’ultima sta facendo gran fatica per riuscire appena a mantenere se stessa: non la vediamo dal 1999. Vorrei tanto potermi curare delle mie sorelle.”
Amel è un’attivista per i diritti umani, e una donna single, in una zona di guerra: questo fa di ogni suo giorno una sfida. “Sebbene le dinamiche sociali stiano cambiando, persistono molti stereotipi. I ruoli di genere sono strettamente definiti. Da una donna ci si aspetta che svolga certi compiti predestinati. Io mi sono trovata in situazioni difficili non solo nel contatto con le comunità locali, ma anche con i miei colleghi. Alcuni si sentono intimiditi se solo io propongo nuove idee o assumo un ruolo di guida. Usualmente sento commenti del tipo: “E’ una donna, dovrebbero essere i colleghi maschi a dirigere.” Questo mi fa infuriare, perché io sostengo sempre i miei colleghi maschi. Non riescono a tollerare che io sia più capace di loro e che riesca a lavorare sotto pressione.”
Amel ha una visione per il futuro delle donne in Sudan. Spera che tutte possano essere istruite, anche le anziane che non sono mai andate a scuola potrebbero usufruire di classi di alfabetizzazione per essere in grando di leggere e scrivere. “Le donne dovrebbero prendere decisioni sui loro ruoli e impieghi. Dovrebbero rappresentare le loro sorelle, qualificarsi per questa rappresentazione e non opprimere mai le altre donne. Le donne che sono sopravvissute alla guerra hanno mostrato di aver il potenziale per guidare uomini e donne a discutere dei ruoli sociali predefiniti.”
E’ ottima sul futuro del Sudan, nello specifico su quello della regione delle Montagne Nuba. Pensa che la società sia abbastanza ben organizzata e politicamente consapevole e che ciò porterà ad un Sudan democratico dove nessuna tribù o etnia verrà schiacciata e le persone godranno di eguali diritti.
Sul suo futuro personale, però, è incerta: “Alcuni anni fa, pensavo che avrei continuato gli studi, che avrei goduto la vita familiare con i miei genitori e fratelli e sorelle, ma è accaduto l’opposto. Non sono felice, ma resto ottimista. Sono molto più forte ora, per quante difficoltà devo affrontare come donna: vivere in zona di guerra ha trasformato la mia personalità e mi ha fatto acquisire flessibilità. Io credo che tutto accada a tempo debito. Non appena sarò pronta seguirò i miei sogni e servirò la mia comunità a livello locale, nazionale e internazionale.”
Amel manda un messaggio finale alla gioventù del Sudan: “Non perdete la speranza, siate ottimisti, pensate e agite. La gente è stata vittimizzata da continui conflitti che hanno avuto inizio molti anni fa. Noi abbiamo preso la decisione radicale di prevenire questa ricorrenza di conflitti. Nessuno è privo di potere, tutti abbiamo responsabilità e potenziale. Non importa quanto a lungo dobbiamo impegnarci, possiamo farlo accadere.”
E alla comunità internazionale: “Fattori d’interesse possono ritardare il chiamare i criminali a rispondere delle loro azioni. Tuttavia io credo ancora che il Tribunale penale internazionale debba fare il proprio lavoro, altrimenti mi chiedo quali siano i benefici derivati della sua esistenza.”
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