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amanirenas 2

Amanirenas (o Amanirena) fu regina – qore e kandake, “re” ed “erede matrilineare” – del Kush dal 40 al 10 BCE.

E’ solo una delle mille e mille figure femminili storiche sepolte da un metodo per cui se non corrispondono a uno stereotipo patriarcale è meglio non parlarne affatto. Questa poi, oltre a essere una guerriera, era pure cieca da un occhio!

Jason Porath – https://www.rejectedprincesses.com/ – racconta di lei così (l’illustrazione sottostante è sua):

“Molto tempo fa, quando Roma aveva messo gli occhi sul sud, una regina con un occhio solo combatté così fieramente che Roma non andò mai più oltre l’Egitto.

Il suo nome era Amanirenas.

Questa è la sua storia, e la storia di una testa famosa decapitata.

amanirenas

La vicenda inizia con la sconfitta di Cleopatra e Marcantonio per mano di Augusto.

Dopo aver annesso l’Egitto, Augusto e i suoi si ripromisero di spingersi ancora più a sud.

Ciò significa che la prossima nazione era quella di Amanirenas, regina del regno di Kush, in quello che oggi è il Sudan.

Florido quanto l’Egitto, Kush era tuttavia molto più piccolo dell’Impero Romano. Ad ogni modo, mentre Roma era distratta altrove, Kush colpì per primo.

Il marito di Amanirenas morì durante le prime battaglie, lasciando lei e il figlio a continuare la lotta.

Kush conquistò due grandi città romane, prese prigionieri ed espanse i confini del regno.

Come sberleffo finale, i Kushiti decapitarono numerose statue di Augusto.

Augusto non ne fu divertito. Roma reclamò le sue città, invase il Kush, distrusse la sua antica capitale e vendette migliaia di persone come schiave. Sembrava che Kush fosse stato messo in ginocchio. Non era così.

Amanirenas contrattaccò velocemente e ripetutamente, in apparenza usando alcune terrificanti tattiche di guerra.

Un’incisione mostra Amanirenas con due spade, mentre dà da mangiare prigionieri al suo leone domestico. Altre registrazioni descrivono l’uso di elefanti da guerra contro i nemici.

kandake

Dopo non molto, Roma acconsentì a un trattato di pace permanente (Ndt.: senza tributi o altre condizioni). Combinando resistenza ambientale e resistenza armata, Kush si dimostrò troppo difficile perché Roma continuasse a combattere.

Non conosciamo le opinioni di Kush sulla guerra. Sino a oggi, nessuno è riuscito a tradurre i loro geroglifici.

Kush scomparve 400 anni dopo, lasciando rovine che non furono oggetto di studio sino al 1900.

Come un tempio riscavato nel 1914. Gli archeologi furono sconvolti dal ritrovamento della testa di una statua di Augusto, il reperto di quel tipo meglio preservato che fosse sino allora sopravvissuto.

Stava sotto il piede di un governante kushita.”

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noura

(immagine di Ahmed M’ayyed)

Noura Hussein, sudanese, è stata data in moglie contro la propria volontà a 16 anni.

Si è rifugiata per tre anni presso una zia – ora ne ha 19 – prima che la propria famiglia, con un trucco, la facesse tornare a casa, dove è stata consegnata ai parenti del marito.

E’ rimasta con costui per sei giorni, rifiutando costantemente di fare sesso con un uomo che non amava e a cui era stata legata per forza: al che, il “marito” l’ha stuprata con l’assistenza di altri uomini (suoi familiari e amici) che la tenevano ferma.

Il giorno dopo ha tentato di violarla di nuovo, ma era solo. Noura si è difesa con un coltello e ha finito per ucciderlo. E’ tornata dai propri genitori: il padre l’ha condotta alla polizia e diseredata.

Il tribunale di Omdurman l’ha condannata a morte fra gli applausi dei parenti del deceduto.

“Sapevo che sarei stata giustiziata, – ha detto Noura alle sue legali – sapevo che avrei lasciato irrealizzati tutti i miei sogni.”

A difenderla sono le attiviste di “Equality Now”, che ora hanno 15 giorni per presentare appello. Intendono anche chiedere clemenza al presidente sudanese, Omar al-Bashir, e hanno messo online una petizione:

https://www.change.org/p/zaynub-afinnih-justice-for-noura-maritalrape-deathsentence-sudan

“Noura non è una criminale, è una vittima e dovrebbe essere trattata come tale. – ha detto Tara Carey di “Equality Now” a The Guardian – La sua criminalizzazione per aver difeso se stessa da un’aggressione e, in particolare, la sentenza di morte violano i suoi diritti iscritti nella Costituzione del Sudan e nella legislazione internazionale. Noura è stata soggetta ad abusi fisici e psicologici dalla sua famiglia e dal marito e questa è una violazione degli articoli 14 (protezione dell’infanzia) e 15 (niente matrimonio senza libero e pieno consenso) della Costituzione. Quest’ultima inoltre attesta che ‘lo stato protegge le donne dall’ingiustizia e promuove l’eguaglianza di genere’ e che ‘tutte le persone sono eguali di fronte alla legge e sono titolate, senza alcuna discriminazione, a ricevere eguale protezione dalla legge’.”

Maria G. Di Rienzo

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(“Men Follow Me”, di Safia Elhillo – in immagine – poeta contemporanea. Safia, di origine sudanese, vive negli Usa. I suoi lavori sono stati tradotti in arabo e greco. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Safia

GLI UOMINI MI SEGUONO

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fino a casa dalla stazione della metropolitana

attraverso la mia porta di casa

durante gli anni – aspetta che ne compia diciotto

con i loro occhi

con i loro bambini nei sedili posteriori

nei parcheggi vuoti – l’eco dei passi dà loro centinaia di corpi

con le loro lingue fuori

con i loro denti che brillano come mosche

dopo che ho pagato la corsa e sono uscita dal taxi

nel bagno

nell’ascensore

forse persino dopo che sarò morta e sarò andata via dal mio corpo screziato

guarderò indietro e li vedrò ancora – con una mano calda sul loro inguine

e l’altra che cerca di raggiungere i miei capelli

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(“Meet Amel: One of the 900,000”, di Yosra Akasha per World Pulse, 31 marzo 2015. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

La storia delle Montagne Nuba come zona di conflitto risale agli anni ’80, quando molte persone nella regione cominciarono ad unirsi all’Esercito di liberazione del popolo sudanese (ELPS) e a combattere contro il governo centrale a Khartoum.

La regione ha testimoniato la guerra dal 1991 al 2002, ma ha ricevuto scarsa attenzione. La guerra è scoppiata di nuovo, fra l’ELPS ora M/ELPS – N (Movimento/esercito di liberazione del popolo sudanese – nord) e l’esercito nel giugno 2011 al momento della secessione del Sudan del Sud. Da allora la regione è fuori portata per l’assistenza umanitaria e per i radar dei media.

Nel 2012, Human Rights Watch riportò che 900.000 persone erano sfollate a causa del conflitto. Di recente, nel gennaio 2015, l’Agenzia NU per i rifugiati ha riportato che 3.000 persone avevano attraversato il confine con il Sudan del Sud in un solo mese.

Aldilà delle cifre delle persone che fuggono il conflitto e i video di bombardamenti aerei e corpi linciati, è raro sentire qualche storia delle Montagne Nuba. Ma quei 900.000 individui hanno storie di vita che necessitano essere raccontate. Hanno volti che devono essere mostrati ai loro concittadini che vivono in pace e a un mondo che continua a ripetere “mai più” ma chiude un occhio su molti devastanti conflitti, come la guerra continua e infinita in Sudan.

Nuba

Incontrate Amel. (Ndt. Il nome è stato cambiato per la sua protezione) Amel è un’attivista, una donna di circa 35 anni con un diploma universitario. Vive nella sua città natale: un piccolo villaggio nella contea di Umdorain nelle Montagne Nuba, che è controllata dal M/ELPS – N. Lavora con un’organizzazione locale nel monitoraggio delle violazioni dei diritti umani ed istruisce la sua comunità su tale istanza. Le piace la bellezza del suo villaggio specialmente durante la stagione delle piogge: quando ogni cosa intorno, montagne comprese, si copre di verde.

Amel conferma che la regione soffre per la guerra specialmente nelle aree controllate dal M/ELPS – N, che è attaccato di frequente con raid aerei da parte delle forze governative: “Ora la gente vive nelle caverne e in montagna, senza accesso all’aiuto umanitario. C’è un enorme movimento di popolazione nei paesi confinanti. Una delle cinque unità amministrative di Umdorain ha tutte le scuole chiuse a causa dei bombardamenti, mentre altre due ne hanno chiuse metà. Inoltre, le bombe hanno inquinato l’ambiente. Le fonti d’acqua sono pesantamente inquinate da munizioni inesplose. Molte pompe manuali non funzionano più. Le persone usano l’acqua delle polle a livello del suolo, un’acqua che di recente è diventata marrone e sta causando malattie; io stessa mi sono ammalata più volte bevendola.”

La vita di Amel non è stata facile. All’inizio degli anni ’90 viveva a Khartoum con i genitori e 8 fra fratelli e sorelle, quando la guerra scoppiò nel Kordofan del sud. Il salario del padre era appena sufficiente per la famiglia, ma non fu più tale quando dovettero ospitare i parenti profughi. “La mia famiglia ha lottato disperatamente per pagare le tasse scolastiche di noi figli. Io non riuscivo più a studiare. E’ stato un periodo durissimo per noi.”

Alla ripresa della guerra nel giugno 2011 la famiglia si è divisa. La madre di Amel vive nella contea di Umdorain, il padre nel Sudan del Sud. Alcuni fratelli si sono trasferiti nelle città del nord, altri sono richiedenti asilo nel campo profughi di Kakuma in Kenya, e uno vive in Uganda.

“I miei genitori non sono insieme da un po’ e hanno bisogno di stare insieme, con i figli, e di curarsi di loro. Tuttavia questo è difficile da ottenere ora con quel che poco che io, mio padre e mia madre riusciamo a guadagnare. I miei fratelli e le mie sorelle sono giovani, ci sono adolescenti che hanno necessità di guida e direzione. Due delle mie sorelle passano da un guaio all’altro e sono rimaste incinte. La mia sorella più giovane continua a scappare a Khartoum nel tentativo di avere un’istruzione o prova a raggiungere la nostra sorella maggiore negli Usa, mentre quest’ultima sta facendo gran fatica per riuscire appena a mantenere se stessa: non la vediamo dal 1999. Vorrei tanto potermi curare delle mie sorelle.”

Amel è un’attivista per i diritti umani, e una donna single, in una zona di guerra: questo fa di ogni suo giorno una sfida. “Sebbene le dinamiche sociali stiano cambiando, persistono molti stereotipi. I ruoli di genere sono strettamente definiti. Da una donna ci si aspetta che svolga certi compiti predestinati. Io mi sono trovata in situazioni difficili non solo nel contatto con le comunità locali, ma anche con i miei colleghi. Alcuni si sentono intimiditi se solo io propongo nuove idee o assumo un ruolo di guida. Usualmente sento commenti del tipo: “E’ una donna, dovrebbero essere i colleghi maschi a dirigere.” Questo mi fa infuriare, perché io sostengo sempre i miei colleghi maschi. Non riescono a tollerare che io sia più capace di loro e che riesca a lavorare sotto pressione.”

Amel ha una visione per il futuro delle donne in Sudan. Spera che tutte possano essere istruite, anche le anziane che non sono mai andate a scuola potrebbero usufruire di classi di alfabetizzazione per essere in grando di leggere e scrivere. “Le donne dovrebbero prendere decisioni sui loro ruoli e impieghi. Dovrebbero rappresentare le loro sorelle, qualificarsi per questa rappresentazione e non opprimere mai le altre donne. Le donne che sono sopravvissute alla guerra hanno mostrato di aver il potenziale per guidare uomini e donne a discutere dei ruoli sociali predefiniti.”

E’ ottima sul futuro del Sudan, nello specifico su quello della regione delle Montagne Nuba. Pensa che la società sia abbastanza ben organizzata e politicamente consapevole e che ciò porterà ad un Sudan democratico dove nessuna tribù o etnia verrà schiacciata e le persone godranno di eguali diritti.

Sul suo futuro personale, però, è incerta: “Alcuni anni fa, pensavo che avrei continuato gli studi, che avrei goduto la vita familiare con i miei genitori e fratelli e sorelle, ma è accaduto l’opposto. Non sono felice, ma resto ottimista. Sono molto più forte ora, per quante difficoltà devo affrontare come donna: vivere in zona di guerra ha trasformato la mia personalità e mi ha fatto acquisire flessibilità. Io credo che tutto accada a tempo debito. Non appena sarò pronta seguirò i miei sogni e servirò la mia comunità a livello locale, nazionale e internazionale.”

Amel manda un messaggio finale alla gioventù del Sudan: “Non perdete la speranza, siate ottimisti, pensate e agite. La gente è stata vittimizzata da continui conflitti che hanno avuto inizio molti anni fa. Noi abbiamo preso la decisione radicale di prevenire questa ricorrenza di conflitti. Nessuno è privo di potere, tutti abbiamo responsabilità e potenziale. Non importa quanto a lungo dobbiamo impegnarci, possiamo farlo accadere.”

E alla comunità internazionale: “Fattori d’interesse possono ritardare il chiamare i criminali a rispondere delle loro azioni. Tuttavia io credo ancora che il Tribunale penale internazionale debba fare il proprio lavoro, altrimenti mi chiedo quali siano i benefici derivati della sua esistenza.”

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Amira

Amira Osman Hamed, imprenditrice 35enne, ingegnera informatica, sarà processata il 19 settembre prossimo. E’ probabile che sia condannata, già lo è stata nel 2002 per l’orribile reato di aver “indossato pantaloni”. Allora se la cavò con una multa. Ma ora si è spinta assai più in là nella sua attitudine criminosa, e rischia la fustigazione. Amira è accusata di aver violato l’articolo di legge 152 che proibisce l’abbigliamento “indecente”. E’ andata in giro in topless? In microgonna? Nuda? No, era in un ufficio governativo a Jebel Aulia, poco fuori Khartoum, il 27 agosto scorso, senza fazzoletto in testa. Un poliziotto ha notato la cosa e l’ha aggredita verbalmente: “Non sei sudanese., ha anche detto, Qual è la tua religione? Io ho risposto: Sono sudanese, sono musulmana e non intendo coprirmi la testa.” Amira non ha mai indossato l’hijab in tutta la sua vita e non è disposta a farlo perché la legge glielo impone: “Vogliono che noi si sembri donne talebane. La legge che mi accusano di aver violato ha come bersaglio la dignità del popolo del Sudan.” La cosa va avanti e peggiora costantemente, secondo gli attivisti per i diritti umani nel paese, dal 1989, dopo il colpo di stato del presidente Omar al-Bashir spalleggiato dagli islamisti: le leggi vigenti relative all’ordine pubblico permettono, grazie alla loro vaghezza, che la polizia si accanisca come preferisce su donne e poveri.

Alla prima udienza per “capelli al vento” (sembra che i tribunali non abbiano un granché di serio da fare, in Sudan), il 1° settembre, circa 100 donne si sono radunate per sostenere Amira: alcune a testa scoperta e altre con il fazzoletto. “Ci sono parecchie donne”, spiega lei, “che lo indossano perché hanno paura, non perché lo desiderano. Molte non potrebbero permettersi assistenza legale, molte proverebbero troppa vergogna a dire alle loro famiglie di essere state arrestate per un reato morale, e questo le lascia alla mercé delle molestie sessuali da parte della polizia.”

Amira è stata ritratta in jeans mentre rilasciava un’intervista nel salotto di casa sua. Ha però spiegato al giornalista che non può indossarli fuori di là. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Safe World for Women, Global News, AFP)

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(“Agri Yumma, Agri!”, di Anab Mohamed, attivista per i diritti umani delle donne. World Pulse, luglio 2013. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Anab

Da bambina, mia madre restava alzata a studiare sino a tardi, nella notte, e la mia bisnonna era solita dirle: “Agri Yumma, Agri!”. Queste parole, che nella mia lingua significano “Leggi, cara, leggi!” si sono fatte strada nel cuore di mia madre e là si sono sistemate, diventando in seguito la forza trainante che sta dietro a tutto quel che io faccio.

Spesso mi chiedo in che modo una donna come la mia bisnonna capisse così bene il valore dell’istruzione, qualcosa che le donne nella mia comunità sono quasi impossibilitate a raggiungere. Come poteva lei, venendo da una generazione in cui tradizioni e costumi limitavano le donne, comprendere il valore critico dell’istruzione nelle vite di tutti? Ma in qualche modo aveva acquisito questa consapevolezza e con questa consapevolezza ha ispirato le generazioni a lei successive. Quando le donne sono consce del valore dell’istruzione, diventano motori d’energia che spingono altre donne e bambine a cercarla, nonostante tutte le sfide che si trovano di fronte.

Nella mia patria, il Sudan, le sfide sono molteplici e le ragazze incontrano diverse barriere all’accesso all’istruzione, che nascono dalle difficoltà economiche, dalle credenze culturali e dall’instabilità politica. Per quanto io vada indietro con la memoria, trovo un Sudan devastato dal conflitto. Nelle aree distrutte dalla guerra, le ragazze pagano il costo dei conflitti armati non solo con i loro corpi, ma con le loro menti. Queste regioni hanno infrastrutture insufficienti e nessuna scuola. Ottenere un’istruzione è una strada in salita; spesso le ragazze lasciano le loro famiglie per tentare di averla. Siamo un paese che spende il 70% del suo budget per conflitti armati, difesa e spionaggio. Si potrebbe pensare che con tali disponibilità dovremmo essere in grado di mettere da parte qualcosa sufficiente a sostenere i sistemi educativi, ma pare che non sia il caso: e questo è un enorme ostacolo per le ragazze.

La povertà e le difficoltà finanziarie sono altri ostacoli. Le famiglie svantaggiate dal punto di vista economico investiranno più facilmente nell’istruzione dei loro figli maschi. Preferiscono mandare a scuola i ragazzi, perché credono che una figlia istruita non produrrà lo stesso ritorno di un figlio istruito. Questo pericoloso scenario è presente in tutto il Sudan e impedisce alle nostre ragazze di diventare le donne che dovrebbero essere.

Tuttavia, ci sono soluzioni critiche che possono aiutare a promuovere l’accesso delle ragazze all’istruzione. Una è la necessità di aiutare le famiglie ad investire nell’istruzione delle loro figlie. Le famiglie devono capire che le ragazze istruite crescono sino ad essere donne forti, capaci di cambiare le società e le nazioni. Dobbiamo far crescere la consapevolezza di quant’è importante l’istruzione per le ragazze, perché una donna istruita è una donna che ha potere, una donna che dà generosamente, una donna in grado di partecipare pienamente allo sviluppo della nostra nazione. Dobbiamo contribuire a creare una nuova generazione di donne che ispirerà quella successiva.

Dobbiamo incoraggiare le ragazze affinché dicano alle loro future nipotine: “Agri yumma! Agri!”

gioia perfetta

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(tratto da: “An Interview With Our 2013 Voices of Courage Honoree Atim Caroline Ogwang”, un più ampio servizio di Emily Shrair, per Women’s Refugee Commission – http://www.womensrefugeecommission.org/ – aprile 2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Nata in quello che è ora il Sudan del Sud, Atim Caroline Ogwang ha perso l’udito quando aveva cinque anni: degli esplosivi abbandonati dai ribelli del Lord’s Resistance Army detonarono mentre lei stava raccogliendo frutta. Attualmente è la responsabile su diritti umani, genere e linguaggio dei segni per un’organizzazione chiamata Southern Sudan Deaf Development Concern (SSDDC), di cui è co-fondatrice.

Atim Caroline

Dove sei nata? Parlaci della tua famiglia.

Subito dopo la mia nascita nel Sudan del Sud, la mia divenne una famiglia di rifugiati in Uganda. Ci sono otto figli nella mia famiglia, tre ragazze e cinque ragazzi. Io sono la numero sette. Ho perso entrambi i genitori a causa della guerra quando avevo 10 anni. Di me si sono occupate le mie sorelle e i miei fratelli adolescenti, mentre tentavamo di sopravvivere in condizioni molto dure.

Com’è stata la tua infanzia?

Proprio come altri normalizzano la povertà, gli abusi dei diritti umani, l’abbandono e l’oppressione, tutto mi sembrava normale. I rapimenti nel campo profughi erano normali. Perdere membri della famiglia era normale. Dormire per terra era normale. Alzarsi affamati e vedere se i tuoi vicini potevano darti qualcosa da mangiare era normale. Non sapevo nemmeno di provenire dal Sudan del Sud sino a quando andai alle elementari, e là ci divisero fra rifugiati sudanesi e rifugiati interni ugandesi.

Come sei diventata sorda? Sei stata trattata in modo diverso dagli altri, mentre crescevi?

Quando avevo cinque anni, andai con altri bambini a cercare frutti selvatici: la fame e il non aver nulla da fare spingono i bambini a qualsiasi impresa per trovare del cibo. Sono sopravvissuta ad un’esplosione di munizioni abbandonate dal Lord’s Resistance Army sotto un albero di mango. Non sono stata ferita in modo più serio, ma il trauma è durato per settimane durante le quali non riuscivo a parlare, a sentire. Provavo dolore alle orecchie che sanguinavano, ma niente è stato fatto per salvarmi l’udito, nessuna medicazione. La cosa ritardò di due anni la mia istruzione, sino a che una chiesa mi aiutò a frequentare una scuola per non udenti. Sfortunatamente, tutti gli altri pensavano che istruire una sorda era una perdita di tempo e risorse.

Quali sono i problemi che le donne e le ragazze non udenti o con altre disabilità devono affrontare nel Sudan del Sud?

Ve ne sono molti, inclusi la mancanza di informazioni e di istruzione, nessun servizio di interpretazione del linguaggio dei segni e l’abbandono da parte dei genitori. Numerose ragazze disabili restano incinte da nubili. La maggior parte delle donne e delle ragazze sorde non hanno finito le scuole medie. Più dell’80% fanno pulizie negli uffici o nelle case o le lavandaie.

Perché hai fondato l’SSDDC? Parlaci della tua organizzazione.

Abbiamo fondato l’SSDDC perché non eravamo soddisfatti dell’Associazione Nazionale Non Udenti Sudanese: non hanno neppure mai sviluppato il linguaggio dei segni per i sordi del Sudan del Sud. La nostra organizzazione non governativa fornisce training sul linguaggio dei segni, alfabetizzazione per gli adulti non udenti, addestramento professionale, campagne per il diritto all’istruzione, accesso alle informazioni e collegamento con il governo. Cerchiamo anche di aiutare i rifugiati in altri paese a ritrovare i loro familiari. Coordiniamo queste attività con la “Commissione per i disabili di guerra, le vedove e gli orfani” e con il Ministero per il genere, i bambini e il benessere sociale.

Il tuo lavoro è basato sui diritti umani e concentrato sull’inclusione. Perché questo è importante per le donne e le bambine disabili?

E’ importante includere le donne e le ragazze e le bambine con disabilità, perché persino nelle azioni affermative c’è la tendenza a dimenticarsi delle loro necessità. Non possono competere nel normale mercato del lavoro e ciò causa discriminazioni. I più poveri fra i poveri sono le donne disabili. Le meno istruite sono le donne disabili. Quando le ragazze ottengono borse di studio quelle disabili non sono neppure considerate. Il sostegno alle donne affinché diventino autosufficienti esiste, ma i programmi non considerano le donne con disabilità. Bisogna correggere questo.

Che consiglio daresti alle donne e alle ragazze che sono sorde o hanno altre disabilità?

Il mio consiglio è di lottare per i propri diritti. Anche se non dovessimo aver successo per noi stesse, dobbiamo lottare per la generazione che verrà dopo di noi. Dobbiamo gettare le fondamenta, così che le donne e le ragazze siano viste in primo luogo come esseri umani e in secondo luogo come persone disabili. Prendete ogni opportunità di ottenere dell’istruzione. Aiutate i nostri leader politici a capire che siamo interessate all’istruzione e incoraggiate le bambine ad andare a scuola. A nessuno piace essere discriminato.

Che ruolo pensi abbiano donne e bambine nel futuro del Sudan del Sud?

Sono centrali per il suo sviluppo. Devono essere messe in grado di avere impieghi, di portare avanti iniziative commerciali e di formare le loro famiglie. Le donne e le ragazze disabili dovrebbero poter insegnare alle persone “normali” e provvedere cura a chi ora si cura di loro.

Quali sono i tuoi obiettivi per il futuro?

Voglio diventare un’avvocata e usare la mia istruzione per promuovere i diritti umani delle persone disabili in tutto il continente africano. Voglio guidare tramite l’esempio, per mostrare ad altri che avere una disabilità non mette fine alla tua vita. Credo che diventerò la prima deputata non udente di un Parlamento africano.

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(tratto da: “Women activists in Sudan – Interview with Yosra Akasha and Maha El-Sanosi” di Louise Hogan, corrispondente per Safe World for Women, 26.1.2013. Trad. Maria G. Di Rienzo)

Ho scritto in precedenza della stima che ho per le attiviste sudanesi: le condizioni in cui lavorano e le pressioni che sopportano sono davvero orribili. Operano in un completo stato di polizia. Le leggi del loro paese sono una versione corrotta della sharia (legge islamica), disegnata per esercitare controllo sociale e chiudere le donne nelle case. Le donne possono essere arrestate in qualsiasi momento dagli agenti delle forze di sicurezza, torturate e stuprate impunemente. Non è una decisione da poco continuare a lavorare per i diritti umani in tale situazione. Ho parlato con due giovani attiviste per capire cosa le motiva e che impatto il loro difficile lavoro ha sulle loro vite. Louise Hogan.

 dimostrazione Sudan

Presentatevi.

Maha El-Sanosi: Sono nata nel centro di Khartoum e sono cresciuta ad Abu Dhabi, dove ho frequentato il liceo. Dopo il diploma, ho deciso di frequentare l’università in Sudan e di esplorare le culture, i costumi e le tradizioni del mio paese. Tornarci ogni estate non mi bastava, volevo imparare ogni cosa del Sudan. Infine mi sono laureata in ingegneria biomedica a Khartoum. Mi piace leggere, a volte più che scrivere. La mia più grande paura è morire senza aver conseguito granché nella mia vita. Mi piace viaggiare, tentare cose diverse, mangiare cibi differenti.

Yosra Akasha: Originariamente sono nubiana, ma sono cresciuta a Khartoum, Medani e Sinnar. Prima di dedicarmi completamente alla difesa dei diritti umani facevo la farmacista. Mi piace passeggiare, ascoltare musica, leggere libri, giocare con le mie nipotine e i miei nipotini. Mi piace vestirmi bene ma odio l’idea di truccarmi ogni giorno. Ho un ragazzo che amo.

Cosa vi ha reso coscienti, politicamente?

Maha El-Sanosi: Quando mi trasferii definitivamente in Sudan nel 2003, cominciai ad istruirmi sulla situazione politica del mio paese. Nel 2006 ho aperto un blog. All’epoca non c’erano ne’ Twitter ne’ Facebook, così usavo il blog per dar voce alle mie opinioni sulle questioni sudanesi. Era ed è ancora il mio megafono.

Yosra Akasha: Negli anni ’90, i miei fratelli andarono alla jihad (guerra santa) contro i cristiani del sud. Più crescevo più capivo che non era giusto. In quelle guerre muoiono innocenti. I soldati combattono senza ragione, i politici riempiono le nostre vite di menzogne. Quando ero al primo anno delle superiori, nelle maggiori città del mondo si protestava contro il genocidio in Darfur, mentre a Khartoum solo l’Associazione degli studenti del Darfur manifestava. Ho provato la sensazione che c’era qualcosa da fare al proposito, in un paese che pur soffrendo la più lunga guerra civile africana non ha nessuna vera campagna anti-guerra.

Com’è la vita quotidiana per una donna, a Khartoum?

Yosra Akasha: Dura e piena di sorprese spiacevoli. Puoi essere catturata, umiliata e molestata senza sapere neppure quali accuse ti si muovono. Devi seguire un determinato codice di abbigliamento e controllare i tuoi movimenti “anche quando studi e lavori” (per legge, da cui il virgolettato, ndt.) per non essere arrestata, oppure ti assumi il rischio di sfidare il regime. Le donne che vendono il tè, le ambulanti e le attiviste per i diritti umani si assumono questo rischio su base giornaliera.

(Maha El-Sanosi concorda)

Come vedete le rivolte sudanesi, dalla vostra prospettiva?

Maha El-Sanosi: Le proteste, infiammate dalle allucinanti politiche di austerità del governo, sono state accese da forti donne sudanesi, nello specifico le studentesse e le residenti del dormitorio dell’Università di Khartoum. Il coraggio delle donne del Sudan segna tutta la nostra storia: erano in prima linea nel 1964 e nel 1985 ed hanno giocato un grande ruolo nel formare il panorama politico del paese. L’austerità non era la sola ragione per le proteste: decenni di ingiustizie, guerre e corruzione alimentavano le rivolte.

Yosra Akasha: E’ stata un’esperienza che ci ha ispirato, perché indica che il regime non durerà molto più a lungo. Le rivolte in Sudan non hanno avuto successo nel cambiare il regime dell’NCP (partito politico al governo, ndt.) ma hanno dimostrato che il cambiamento sta arrivando. E’ stato uno sboccio di proteste spontanee, delle persone comuni, e ha mostrato a noi attiviste cosa bisogna fare e come bisogna organizzarsi per avere in Sudan un’ondata ancor più potente di rivolte.

Se Bashir (il presidente del Sudan, ndt.) fosse rimosso dal potere, esiste un’opposizione credibile che possa prenderne il posto?

Maha El-Sanosi: L’opposizione attuale potrebbe fare un passo avanti e reclamare il potere, sì. Ma assai pochi dei suoi membri hanno mostrato un sostegno significativo alle proteste. Quando Bashir cadrà, la nostra sola speranza è la gioventù. I movimenti giovanili devono trasformarsi in partiti credibili. Il popolo si fida di loro molto di più che dell’opposizione politica attuale.

Yosra Akasha: Nei termini delle istituzioni politiche le opposizioni attuali non sono credibili. Ma nemmeno Bashir è credibile come leader per il Sudan. Dopo di lui si aprirà uno spazio in cui le istituzioni politiche potranno crescere e noi abbiamo della gente veramente in gamba per costruire lo stato sudanese.

Cosa c’è nell’immediato futuro, per voi e per il Sudan?

Yosra Akasha: Io continuerò a fare quello che sto facendo sino a che non deciderò di avere figli: allora, mi terrò in disparte per un po’ mentre li cresco. Per il Sudan, c’è la liberazione dall’NCP e dai partiti politici parassitari e settari. Dobbiamo creare un nuovo stato sudanese, dopo aver sconfitto il regime dell’NCP, altrimenti ripeteremo gli errori delle rivoluzioni del 1964 e del 1985.

Maha El-Sanosi: La libertà.

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“Ti hanno rasato i capelli, Sumaya Hundosa, ma tu hai sul capo la corona dell’onore. Abbasso gli apparati della disumanità.” Con questo ed altri commenti di solidarietà, moltissimi sudanesi hanno reagito online al rapimento ed alla tortura della giornalista Sumaya Ismail Hundosa.

Sumaya, 34enne, vive e lavora in Egitto dal 2003 ma era tornata in ottobre nel suo paese natale, il Sudan, per passare con la famiglia la festività detta Eid Al-Adha. Il 29 ottobre scorso, è stata portata via dalla casa dei suoi genitori dagli agenti del “Servizio nazionale di controspionaggio e sicurezza”, e ritrovata il 2 novembre in una buca fangosa di una zona periferica di Khartoum.

La sua “colpa” è aver scritto articoli in cui critica il Presidente sudanese Omar Al-Bashir. Per questo, per cinque giorni è stata presa a pugni, frustata, i suoi capelli sono stati tagliati a zero e i custodi della sicurezza nazionale si sono divertiti a “stirarla” con un ferro bollente. L’immagine che vedete qui sotto mostra il suo braccio, ma il ferro è passato anche sul suo stomaco e la sua schiena.

 il braccio di Hundosa

Com’è ovvio è anche stata informata di essere una prostituta (è femmina) e una schiava (originaria del Darfur e non arabizzata-islamista): un altro commento di solidarietà diceva più o meno, ironicamente, che Sumaya non è stata torturata perché “scrive dell’alternativa” ma perché è “gharbawiya”, un termine che in origine indicava solo la provenienza dal Sudan occidentale, ma che oggi è usato come insulto razziale.

Sumaya non ha aspettato neppure di riprendersi per tornare immediatamente in Egitto, da dove ha scritto una lettera al Presidente sudanese chiedendo ragione del trattamento subito e che nessuno commetta mai più atti così orrendi restando impunito. Il sindacato egiziano dei giornalisti ha girato un video di 27 minuti, in cui la reporter narra nei dettagli la terribile esperienza vissuta.

Potete vedere il video (non tradotto) a questo link: https://www.youtube.com/watch?v=JXrmdQssi2U

Meditiamo, italiani, sui bavagli ai giornalisti. Sono ovunque l’anticamera delle dittature. Come ha detto un sostenitore di Sumaya: “Ormai questo può capitare a chiunque. Quando a tuo fratello rasano i capelli, comincia a bagnare i tuoi.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Usamah Mohamed per Global Voices Online, The Guardian, Alkaroba Net)

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Ogni anno, la Women’s Refugee Commission onora donne rifugiate o in cerca d’asilo che stanno lavorando a beneficio delle proprie simili. Il premio si chiama “Voci del Coraggio” ed una delle donne a cui sarà conferito il 4 maggio prossimo si chiama Rim Tekie Solomon.

Rim, figlia di genitori eritrei, ha passato l’infanzia nei campi profughi del Sudan. E’ fuggita dal Sudan quando aveva 16 anni, attraversando a piedi il deserto del Sinai con sua madre e sei tra fratelli e sorelle minori. La famiglia raggiunse Israele (si stima che vi cerchino asilo 1.200 persone al mese) e visse dapprima in un centro di detenzione. Rim riuscì a frequentare il liceo: non aveva di fronte a sé solo la sfida della lingua, ma quella di essere l’unica ragazza di colore nella sua scuola. Impossibile da scoraggiare, nonostante le discriminazioni subite, Rim imparò l’ebraico così bene da cominciare a lavorare come traduttrice nel centro di detenzione. Oggi ha 19 anni e lavora per l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e per il Centro di Sviluppo per i Rifugiati Africani. Come volontaria, sta portando avanti un progetto chiamato “Agar e Miriam” che si occupa di dare sostegno alle donne incinte o madri di neonati che cercano asilo e nella sua comunità tiene un corso sulla sessualità e i diritti delle donne per ragazzine dai 10 ai 13 anni. Rim è assai popolare fra le adolescenti per il suo impegno: la definiscono una “guida che non teme nulla”. Personalmente, quando comincio a perdere speranza nel futuro, pensare alle giovani donne come Rim mi dà una bella scossa di gioia ed energia. Maria G. Di Rienzo

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