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Posts Tagged ‘indiani d’america’

Il 14 agosto scorso è stato pubblicato sul New York Times un pezzo dal titolo “‘We’ve Already Survived an Apocalypse’: Indigenous Writers Are Changing Sci-Fi”, a firma di Alexandra Alter.

L’articolo parla del modo in cui scrittori nativi americani stanno danno dando nuove forme alla fantascienza e alla fantasy, usando questi generi per parlare (anche) di degrado ambientale, discriminazioni, minaccia di cancellazione culturale – cioè di quel che vivono sulla loro pelle qui ed ora. Alcuni hanno detto che il fantastico permette loro di re-immaginare l’esperienza delle comunità indigene in modi che non sarebbero possibili tramite la fiction “realistica”: le narrazioni sul futuro e i mondi di fantasia forniscono alla scrittura libertà di sperimentare e innovare.

La maggioranza degli autori impegnati in questa avventura sono autrici. Eccone tre:

Cherie Dimaline

Cherie Dimaline (Métis, nata nel 1975, Canada):

“C’è un grande bisogno ora di raccontare storie indigene. L’unico modo per sapere chi sono, cos’è la mia comunità e i modi in cui sopravviviamo e ci adattiamo, è tramite le storie.”

Alcuni lavori di Cherie: Seven Gifts for Cedar (2010), Red Rooms (2011), The Girl Who Grew a Galaxy (2013), A Gentle Habit (2015), The Marrow Thieves (2017), Empire of Wild (2019).

Rebecca Roanhorse

Rebecca Roanhorse (Ohkay Owingeh Pueblo, nata nel 1971, USA, vincitrice dei Premi Hugo e Nebula per la fantascienza):

“Ho messo di proposito cultura, lingua e popoli indigeni nel futuro, nonostante gli sforzi di secoli per cancellarli, di modo che si possa dire “Ehi, i nativi americani esistono” – ed esisteremo in futuro. Siamo già sopravvissuti a un’apocalisse.”

Alcuni lavori di Rebecca: Star Wars: Resistance Reborn (2019), Race to the Sun (2020), Trail of Lightning (2018), Storm of Locusts (2019).

Darcie Little Badger

Darcie Little Badger (Apache Lipan, geoscienziata, nata nel 1987, USA):

“La maggior parte delle volte, quando nei libri il personaggio principale è Apache la storia si svolge nel 1800. E sembra una finzione, la gente pensa che non siamo sopravvissuti, ma lo siamo e stiamo ancora fiorendo.”

Il suo romanzo “Elatsoe” è uscito questo mese: ha per protagonista una ragazza Apache che può destare i fantasmi degli animali morti.

La lista degli altri lavori di Darcie, che scrive anche saggistica e fumetti e ha una particolare attenzione per le tematiche lgbt… è davvero troppo lunga!

Maria G. Di Rienzo

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China 2009

“La Dabu, la matriarca che guida la famiglia Mosuo. Questo ruolo chiave è tenuto dalle donne più anziane fra i parenti. Lei è quella da cui discendono nome e proprietà, maneggia il danaro e organizza le cerimonie religiose.”

Credo sia una buona cosa il riuscire ancora a interessarsi di storia, arte, fotografia ecc. in questo momento così pieno di incertezza e sofferenza: il vostro interesse per “Grande cuori, mani forti” (28 febbraio u.s.) merita dunque una risposta.

Dove sono le altre società matriarcali? (Ovunque.) Sono tutte di antica origine? (No.) Raffigurano semplicemente l’oppressione di genere rovesciata? (Niente di più lontano dalla realtà.) Andate in miniera, allora, e poi vediamo (Questo è lo scemo di turno: adesso gli spiego tutto anche se è probabilmente inutile, così – in caso capisca qualcosa – almeno può uscire dalla garitta dove sta di vedetta contro l’invasione “femminazista” e andare a casa).

Il tratto comune a tutte le società matriarcali è che i figli/le figlie sono primariamente connessi alla madre: portano il suo nome e/o vivono nella casa del suo clan anche quando raggiungono l’età adulta. Spesso eredità e beni passano da madre a figlia. Molte società matriarcali sono agricole, laiche, costruite in modo orizzontale e non gerarchico, basate sull’eguaglianza di genere. In quelle ancora esistenti le donne giocano un ruolo centrale sul piano sociale, economico e (non sempre) politico.

La fotografa cecoslovacca-algerina Nadia Ferroukhi (le immagini qui presenti sono particolari di sue istantanee) ne ha girate parecchie e ha dato testimonianza delle sue esperienze qui:

http://nadia-ferroukhi.com/v4/sets/matriarcat/

Si tratta della serie “Nel Nome della Madre”, a cui ha dato un contributo significativo l’antropologa, etnologa e femminista francese Françoise Héritier (1933-2017).

Nadia ha vissuto con i Mosuo in Cina, i Tuareg in Algeria, i Minangkabau in Indonesia e i Navajo negli Usa – che sono le realtà di segno matriarcale più note, ma ha trovato società simili in Kenya, in Guinea-Bissau, nelle Comore, in Messico. Ritrarre le comunità in modo congruo e dettagliato non è stato facilissimo, spiega la fotografa: “La gente si aspetta da questo risultati spettacolari. Ma in effetti io ho fotografato la vita quotidiana.” Una vita quotidiana lontana dagli stereotipi e dai pregiudizi, in cui un’organizzazione sociale dà valore a ogni suo membro.

Riportare e tradurre tutto il lavoro di Nadia renderebbe questo articolo così lungo da divenire faticoso, perciò ho scelto degli “assaggi” che si accordano al mio incipit.

Comoros 2017

“Una giovane sposa sull’isola di Grande Comore. Dopo il matrimonio, il marito si trasferisce nella casa costruita per lei dalla sua famiglia, dove è considerato un ospite del clan matrilineare.”

NUOVO DI ZECCA:

E’ il villaggio di Tumai in Kenya, nato nel 2001 per fornire rifugio alle donne della tribù Samburu che erano state vittime di violenza domestica / violenza di genere. Simile a Umoja e a Jinwar

(https://lunanuvola.wordpress.com/2019/03/01/jinwar/) – la fondatrice Chili viene in effetti da Umoja – accoglie le divorziate, ha messo fuorilegge le mutilazioni genitali e non ammette gli uomini sopra i 16 anni d’età. Tumai è completamente autosufficiente. Tutte le decisioni sono prese per voto di maggioranza fra le donne, che allevano capre, costruiscono da sole le loro case, vanno a caccia se serve e tengono rituali sacri (allevamento a parte, le altre attività non sarebbero loro permesse in circostanze “normali”).

DIFFERENTI, NON SPECULARI:

Guinea-Bissau – “Lo stile di vita negli arcipelaghi, in particolare sull’isola di Canhabaque (3.500 persone) è stato scarsamente influenzato, quando per nulla del tutto, dalla civiltà moderna. Qui, le case sono di proprietà delle donne e sono gli uomini a trasferirsi dalle loro mogli. Sebbene il padre passi il suo cognome ai figli, è la madre che sceglie il primo nome ed è al suo clan che essi sono affiliati. L’isola è governata da una regina. C’è anche un re (che non è il marito della regina) ma il suo ruolo è limitato: è un semplice portavoce. Ogni villaggio è amministrato da un consiglio di donne, elette a vita.”

Messico – “Juchitán, una città di 78.000 abitanti nello stato messicano di Oaxaca è il luogo dove è nata la madre della pittrice Frida Kahlo. Durante i secoli, uomini e donne hanno sviluppato forme chiaramente identificate di autonomia. Le donne maneggiano il commercio, l’organizzazione di festival, la casa e la strada. Agricoltura, pesca e politica sono responsabilità degli uomini. Questo è uno dei pochi luoghi in Messico dove la lingua e i dialetti Zapotec sono ancora parlati. Usato negli scambi fra donne del vicinato e donne di passaggio, questo linguaggio ha costruito fra le donne una notevole solidarietà. Nome, casa e eredità si trasmettono in linea femminile. Perciò, la nascita di una figlia è fonte di grande gioia.”

Indonesia “La più grande società matrilineare al mondo, composta dai Minangkabau, si trova sulle colline della costa occidentale di Sumatra in Indonesia. Secondo il loro sistema sociale, tutte le proprietà ereditarie passano da madre a figlia. Il padre biologico non è tutore del bambino; è il mamak, il più anziano fra gli zii materni, ad assumere tale ruolo. Durante la cerimonia matrimoniale, la moglie va a prendere il marito nella casa di lui, accompagnata dalle donne della sua famiglia. L’adat, o “legge ordinaria”, determina una serie di regole tradizionali non scritte su questioni matrimoniali e proprietarie. In accordo a queste regole, qualora vi sia un divorzio il marito deve lasciare la casa e la donna mantiene la custodia dei figli e l’abitazione.”

QUESTE IN MINIERA CI VANNO GIA’:

Stati Uniti d’America – “La vita sociale della nazione Navajo è organizzata attorno alle donne, secondo un sistema matrilineare in cui titoli, nomi e proprietà si trasmettono in linea femminile. Quando una ragazza Navajo raggiunge la pubertà deve passare attraverso la Kinaaldá, una cerimonia di quattro giorni che segna il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questa cerimonia è collegata al mito Navajo della Donna Cangiante, la prima donna sulla Terra in grado di avere bambini. Nella riserva, le donne sono in genere più attive degli uomini. Non è insolito per loro tornare a studiare tardi durante le loro vite, persino dopo aver avuto figli.”

Usa 2011

Queste donne Navajo lavorano in una miniera di carbone, assicurandosi in tal modo totale indipendenza finanziaria.

Maria G. Di Rienzo

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Mary Crow Dog

“Credo che siano odiate al massimo le persone che pongono domande legittime. Perché queste vanno al cuore della nostra psiche. Noi sappiamo che dette persone hanno ragione e perciò, se possiamo, dobbiamo distruggerle. Molta gente è davvero spaventata dal fatto che le richieste sono moralmente giuste, perché quando confronti un imperativo morale con uno immorale dalla tua parte, devi odiare le persone che dichiarano quell’imperativo morale. Li odiamo perché le loro affermazioni sono totalmente giustificate – e noi lo sappiamo.”

Mary Crow Dog, scrittrice e attivista Lakota (1954 – 2013) – trad. MG DR

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(“Kopis’taya (A Gathering of Spirits)”, di Paula Gunn Allen (1939-2008), poeta, scrittrice, attivista lgbt, madre, nativa americana. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

stacy rees

Kopis’taya (Un Raduno di Spiriti)

Poiché viviamo nella stagione che imbrunisce

l’aria pesante blocca il nostro respiro,

e in questo tempo in cui vivere

è solo sopravvivenza, noi dubitiamo delle voci

che giungono ombreggiate nell’aere,

che tessono dentro i nostri cervelli

certi pensieri, un movimento che è soffice,

impercettibile, una pioggia di crepuscolo,

la caduta di una piuma delicata, un piccolo corpo che si cala

nella sua prossimità, frusciando, mormorando, sistemandosi

all’interno per la notte.

Poiché viviamo nella stagione spigolosa

ove plastica sgretolata e splendente brilla,

e in questo spazio che è messo all’angolo e piegato

noi non notiamo il bagnato, l’umido, le importanti

gocce che cadono in sfere perfette e che sono delle misure

delle nostre menti;

quasi del tutto invisibili, quelle lacrime,

soffici come rugiada, fragili, che si aggrappano alle foglie,

a petali, a radici, gentili e fidate,

ogni mattina.

Noi siamo le donne della luce diurna, di orologi

e fonderie d’acciaio, di droghieri

e lampioni, di super autostrade

che tagliano in due i nostri giorni. Avvolte

in plastica e acciaio percorriamo le nostre vite;

dietro occhiali scuri nascondiamo i nostri occhi;

i nostri pensieri, schermati, sembrano oscuri.

Fumo riempie le nostre menti, il whiskey ombreggia le nostre canzoni,

il poliestere divide i nostri corpi dal nostro respiro,

i nostri piedi dall’accogliere le pietre della Terra.

I nostri sogni sono sbiadite memorie di se stessi

e il dubbio assillante è la falsa misura

dei nostri giorni.

Anche così, le voci degli spiriti stanno cantando,

i loro pensieri stanno danzando nell’aria sporca.

I loro piedi toccano il cemento, l’asfalto

deliziandosi, ancora tessono sogni sopra i nostri

crani oscurati, se riuscissimo ad ascoltare.

Se riuscissimo a sentire.

Andiamo, allora. Troviamoli.

Ascoltiamo l’acqua, le precise

luccicanti gocce che brillano sulle foglie,

sui fiori. Cavalchiamo

la mezzanotte, l’alba appena iniziata.

Sentiamo il vento farsi strada fra i nostri capelli.

Danziamo la danza delle piume,

la danza degli uccelli.

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earth embrace

“Quando ero giovane ero solita dire a mia nonna: “Tutto quel che voglio è una casa, un posto.”

Lei rispondeva: “Di cosa stai parlando? Non appena i tuoi piedi toccano la terra, da essi crescono radici. Tu sei a casa. Questo suolo è la nostra casa. Sei sempre stata a casa.”

Trovare quella connessione è l’intera chiave di quel che stiamo facendo, riportare tale connessione alla Terra, all’acqua, di modo che le persone smettano di abusare di entrambe.

Abbiate cura di voi stessi. Non aspettate che qualcuno venga a salvarvi, perché non accadrà. Dobbiamo sollevarci e salvarci da soli.” – LaDonna Brave Bull Allard, Standing Rock Sioux, settembre 2019 (trad. Maria G. Di Rienzo).

Su di lei e non solo:

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/11/02/ascoltate-lacqua/

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Cinquecento anni or sono, gli indiani americani Wampanoag ricevettero una profezia: la loro lingua sarebbe scomparsa, ma un loro gruppo avrebbe lasciato le zone del New England ed avrebbe portato ad est una pipa contenente lo spirito della lingua Wampanoag. Infine, diceva ancora la profezia, una donna nell’est avrebbe dato il benvenuto allo spirito di quel linguaggio.

Nella seconda metà del 1600 la popolazione Wampanoag nel sudest del New England si era ridotta del 90%, a circa 12.000 individui, come risultato delle malattie diffusesi tramite il contatto con i primi mercanti inglesi. Alla fine del secolo, grazie alla guerra, erano ulteriormente diminuiti, ma i sopravvissuti erano assai resistenti e nonostante fossero cristianizzati a forza e costretti a vivere nelle cosiddette “città da preghiera”, privatamente continuarono a praticare le proprie usanze e non dimenticarono ne’ la loro identità ne’ la profezia. La lingua, però, svanì gradatamente e la prima parte della profezia si realizzò a metà del 19° secolo: non esistevano più parlanti del Wampanoag. La seconda parte dovette aspettare il secolo successivo.

Jessie Piccola Cerva (lei scrive il suo nome senza maiuscole, ma di sicuro mi perdonerà se per questa volta mi attengo alle regole della mia lingua), sposata con il sig. Jason Baird, era una giovane madre di poco più di venticinque anni quando cominciò a fare strani sogni. Vedeva persone sconosciute che le sembravano familiari ed anche persone che conosceva, ma tutte le parlavano dicendo cose incomprensibili. Un giorno, mentre guidava l’auto sulla strada principale di Cape Cod, la sua attenzione si concentro sui nomi delle vie laterali che vedeva scorrere. Qualcosa scattò: Jessie sapeva già che molti di quei nomi erano parole Wampanoag, ma ora capiva che le parole udite nei suoi sogni avevano lo stesso suono. “I sogni infine avevano significato.”, ricorda Jessie, “Li interpretai come una chiamata da parte degli antenati, che chiedevano se le comunità Wampanoag contemporanee fossero pronte a riavere la propria lingua.” L’entusiasmo di due comunità da lei contattate e degli studiosi di linguistica del Massachusetts Institute of Technology (MIT), che le offrirono una borsa di studio come ricercatrice, fornirono a Jessie l’energia necessaria: per i successivi quattro anni, continuando a crescere quattro figli piccoli, seguì corsi universitari e collaborò con il linguista del MIT Kenneth Hale.

L’obiettivo di rivitalizzare la lingua Wampanoag fu facilitato dal fatto che di essa esistevano testi scritti, fra cui una Bibbia, lettere, documenti pubblici: fu infatti il primo linguaggio nativo ad usare un sistema di scrittura alfabetico. Jessie era affascinata da tutta la conoscenza che giaceva sepolta nella lingua. “Per esempio, nel periodo in cui la nave Mayflower (quella dei “Padri Pellegrini”) arrivò alla Baia di Plymouth, Galileo se la vedeva con l’Inquisizione per aver detto che la Terra gira intorno al Sole. Se qualcuno lo avesse chiesto ai Wampanoag dell’epoca, essi avrebbero risposto che l’atteggiamento dell’Inquisizione era assurdo: la scoperta di Galileo era da lungo tempo un’ovvietà, per loro. La risposta era proprio nella lingua Wampanoag, i cui sostantivi sono divisi in animati ed inanimati. Un oggetto animato è definito da molte diverse caratteristiche, inclusa quella di muoversi indipendentemente. In Wampanoag, il Sole è inanimato e la Terra animata.” Tutto quel che Jessie imparava lo condivideva con le comunità Wampanoag, allo scopo di riportare la lingua nella vita di ogni giorno. Gli ostacoli che incontrava, nonostante la buona volontà dei suoi “studenti” sembravano infiniti: dalla povertà all’analfabetismo alla dislessia, Jessie li ha abbattuti tutti. Ha riformulato costantemente i moduli d’insegnamento adattandoli alle varie situazioni; ha fatto in modo che ogni persona, salito un gradino nella conoscenza della lingua, diventasse insegnante per un gruppo di altri; è stata la scintilla e l’ispiratrice per l’attivismo sociale rinato nei Wampanoag. Jessie e suo marito Jason stanno crescendo l’ultima figlia (che oggi ha otto anni) con il Wampanoag come lingua madre. Mae Alice, questo è il suo nome, è la prima parlante nativa della lingua da sette generazioni.

Qualche anno fa, un gruppo di indiani Delaware fece visita alla comunità Wampanoag di Mashpee dove Jessie e la sua famiglia vivono. La loro lingua fa parte della stessa famiglia algonchina del Wampanoag. Quando il Capo Delaware cominciò a parlarle nella propria lingua, Jessie fu deliziata dallo scoprire che lo capiva. Il Capo l’aiutò ad ordinare le complesse strutture grammaticali che i due idiomi hanno in comune. Poi le disse il vero scopo della loro visita: volevano discutere con lei secoli di storia condivisa, e portare a casa una pipa. Maria G. Di Rienzo

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