(“Ambassador, Observer, Spectacle — Being African in China”, di Zahra Baitie per Tea Leaf Nation, 27 agosto 2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

Da bambina, sognavo di diventare la prima Segretaria generale delle Nazioni Unite e di seguire i passi del mio compatriota Kofi Annan. Tuttavia, non mi ero mai figurata di rivestire il ruolo di ambasciatrice durante i miei anni di università. Ma il mio anno di studi all’estero, in Cina, mi ha dato esattamente questo: un esame pratico del mondo della diplomazia. Mi sono ritrovata a giocare il ruolo di un’ambasciatrice informale, ma a tempo pieno.
Walter Bagehot, un prolifico scrittore e giornalista, ha una volta detto che secondo la sua opinione “un ambasciatore non è semplicemente un agente, è anche uno spettacolo”. La parola “spettacolo” è probabilmente quella che meglio incorpora la mia esperienza come donna nera vivendo e studiando in Cina. Con la mia pelle scura e i miei capelli intrecciati, facevo sensazione nella maggior parte dei luoghi in cui mi recavo, e durante questo periodo ho capito che significa essere un’ “aliena”. A livello personale, il mio anno in Cina mi ha costretto ad impegnarmi in una danza intima e complessa con il concetto di identità; a livello globale, le mie esperienze mi hanno fornito prospettive di valore sulle relazioni sino-africane.
Una volta, mentre facevo la spesa in un mercato locale, un’altra cliente – avendo capito che parlavo mandarino – si girò verso di me e disse: “Mi scusi, forse sono sfacciata a chiedere, ma nel suo paese la gente considera bella la pelle nera?” Fui presa in contropiede dalla mancanza di tatto, essendo stata esposta all’etichetta occidentale. Risposi: “Naturalmente sì, e se devo essere onesta vorrei essere un po’ più scura.” Lei rimase ugualmente di sasso alla mia replica e disse: “Non avrei mai pensato che durante la mia vita avrei sentito dire quel che lei ha detto. Davvero non vorrebbe essere più chiara di pelle? In Cina noi crediamo che più bianco è il tuo incarnato e più sei bella, e ci sono molti modi per ottenerlo.” Gentilmente, ho declinato i suoi suggerimenti su come candeggiarmi la pelle.
Un’altra volta, un guidatore di taxi di Pechino mi ha chiesto perché gli africani si mangiano l’uno con l’altro e perché il continente è così caotico. Nonostante il mio tentativo di usare i fatti per dissipare queste nozioni, non riuscii a convincerlo. L’autista mi fece notare che il primo carattere della parola cinese per Africa, “fei”, significa “non essere, non avere, no, sbagliato, scorretto, mancante”. Io non ci avevo mai riflettuto su criticamente, prima, ma dopo un po’ mi intrigava capire il perché non era stato usato un altro carattere, con lo stesso suono e lo stesso tono, ma con un significato più positivo. Ciò sollevava la questione: come gli africani e l’Africa sono considerati in Cina? Se ci concentriamo sulle relazioni internazionali, la retorica ufficiale in Cina ed Africa ritrae un rapporto fra i due paesi cementato dalla fratellanza, dall’amicizia, dal beneficio reciproco e dalla solidarietà. Ma nonostante il volume del commercio fra il continente africano e la Cina, le connessioni politiche intime fra diversi paesi africani e l’amministrazione cinese, nel tu a tu fra le persone persistono ignoranza, incomprensione e intolleranza.
L’ignoranza genera curiosità, e durante il mio anno di residenza in Cina mi sono sentita come se facessi parte di un circo. La gente mi fotografava di continuo. Altri amici stranieri scherzavano spesso dicendo che vivevo la vita di una celebrità: forse quella sensazione è durata un giorno, ma diventa facilmente noiosa se quotidiana. Prendere la metropolitana, mentre le macchine fotografiche ti vengono puntate in faccia, gruppetti ti individuano urlando e diventi il soggetto principale della conversazione per gli altri passeggeri, è una fatica indescrivibile. Mentre cercavo di godermi i bellissimi paesaggi per cui la Cina è conosciuta, diventavo spesso anch’io un luogo turistico: l’attrazione a sorpresa dello spettacolo. Era disturbante sentire la gente discutere la mia pelle, i miei capelli e la grandezza delle mie mani. Per mantenermi sana di mente, ho trovato divertimento nell’ascoltare facendo finta di niente chi discuteva il mio aspetto e poi, a loro dispetto, unendomi casualmente alla loro conversazione in mandarino.
Non riesco a dire quante volte ho fantasticato di afferrare un telefonino usato per fotografarmi e lanciarlo in aria, o di lasciarmi andare ad uno sfogo in lingua locale contro certi individui un po’ troppo inquisitivi. Ma sono anche divenuta conscia che alcuni dei comportamenti che più mi facevano stare a bocca aperta, tipo lo sfregare la mia pelle per vedere se il colore era dovuto a sporcizia o a pigmento, venivano da gente che probabilmente non aveva mai interagito con una persona nera prima. Ero anche consapevole che la prima impressione è particolarmente importante, e perciò mi sentivo responsabile del lasciarne una buona. Mi sentivo oppressa dall’idea di convalidare l’impressione generale degli africani come barbari e selvaggi.
Crescendo in Ghana, la mia identità non era basata sul colore della mia pelle. Il colore non è mai stato qualcosa a cui dovevo pensare, era un dato di fatto e non diceva molto su chi fosse in realtà un individuo. La razza, a differenza degli Usa e della Cina, era più o meno un fattore inesistente. Tribù, religione, classe, stato socio-economico e parentela avevano un impatto molto più grande, sull’identità e l’immagine di qualcuno, rispetto al colore. Ma in Cina la storia era diversa. Raramente c’è stato un giorno in cui non ho sentito individui dire “nera” o “africana” mentre camminavo – era una cosa che si sentivano spinti a sottolineare a se stessi e agli altri intorno. Vivendo sotto la perpetua luce dei riflettori, e avendo svariate identità gettate addosso a me, sono giunta a comprendere che le persone riescono a capire completamente chi sono e cos’è la loro cultura quando sono non solo “sfidati”, ma quando si presenta loro un contrasto. E’ il contrasto fra due culture che ti permette di capire le cose intricate e complesse di una e la mia esperienza in Cina mi ha offerto tale opportunità. Sono anche stata abbastanza fortunata da diventare amica di una famiglia cinese che mi ha presa sotto la sua ala e mi ha trattata come un suo membro. Sono diventata vicina a loro perché ero differente, e loro erano curiosi. La loro curiosità mi ha permesso di condividere aspetti della mia cultura e la mia comprensione degli affari africani, nel mentre apprendevo la cultura cinese. Le nostre interazioni ci hanno consentito di cancellare molti concetti errati e pregiudizi che stavano da ambo le parti.
Spesso mi si chiede se penso che i cinesi siano razzisti, e se il trattamento che io ho ricevuto come “spettacolo” indica un’attitudine razzista. Io replico che li trovo curiosi. Molte delle esperienze che io ho fatto nascevano dall’ignoranza, non dal razzismo. Nonostante fossi sempre identificata come “nera” e “africana” non ho mai percepito discriminazione o antagonismo, e sono spesso stata trattata con calore e amichevolmente. Dato che parlo mandarino, potevo spesso capire cosa la gente diceva di me e molto raramente erano sprezzanti o maligni. D’altra parte, alcuni amici che conoscono le mie esperienze dicono che esse riflettono una profonda mancanza di rispetto, e perciò sentimenti razzisti. Io riconosco che la mia storia non può riflettere completamente quella di altri studenti africani, e non ho mai dovuto cercare lavoro in Cina, perciò non mi sono mai stati preferiti “stranieri bianchi”, come altri studenti africani mi dicono sia comune.
I legami fra Africa e Cina risalgono all’era dell’indipendenza africana: la Cina fu un’alleata che aiutò la creazione di nuovi stati indipendenti e la lotte di liberazione, mentre il sostegno dei paesi africani fu cruciale nel permettere alla Repubblica popolare cinese di entrare alle Nazioni Unite. Ma con sempre più gente che attraversa i confini, e l’intensificazione delle relazioni economiche, lo scopo e la natura delle relazioni sino-africane sta diventando sempre di più personale, non limitato a scambi ad alto livello economico e politico. Ciò che manca terribilmente è la comprensione interculturale. Lasciando da parte di che si tratti, semplice curiosità o razzismo, è chiaro che incomprensioni ed ignoranza infiammano ambo i lati dell’equazione. Le prospettive, tuttavia, sono incoraggianti. Ci sono attualmente oltre 12.000 giovani africani che studiano in Cina grazie a borse di studio del governo cinese. E’ sperabile che nel mentre sempre più studenti prendono su di sé il mantello di “ambasciatori culturali”, la “stranezza” svanisca. Per quel che mi riguarda, io sono ora felicemente in pensione dalla mia posizione di “ambasciatrice stramba”. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare.
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