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afronauts

Nel 2014 uscì il corto “Afronauts” della regista, sceneggiatrice e scrittrice ghanese Nuotama Frances Bodomo.

(per vederlo: https://fourthree.boilerroom.tv/film/afronauts)

Diventato rapidamente un film “cult”, è la trasposizione poetica e malinconica, in bianco e nero, della vera storia di come l’Accademia Spaziale dello Zambia tentò di battere sul tempo la missione statunitense diretta alla Luna nel 1969.

Il suo ritmo è quello di un sogno intenso che punta più sulla visualizzazione (angolature di ripresa, scenari, espressioni) che sul dialogo, rendendo in questo modo gli scambi relazionali maggiormente importanti rispetto all’azione. La protagonista, ovvero l’astronauta designata, è la diciassettenne Matha che vediamo impegnata nell’addestramento per il volo nello spazio: non si tratta solo di una emozionante impresa umana e tecnica – in un crescendo silenzioso quanto teso, la ragazza diventa l’incarnazione della richiesta di futuro per i corpi, le culture e le aspirazioni africane.

La buona notizia è questa: “Afronauts” avrà una nuova versione come lungometraggio. Negli ultimi sei mesi, con il sostegno di varie istituzioni (Sundance Institute, Tribeca Film Institute, IFP’s Emerging Storytellers program ecc.), la regista Bodomo ha viaggiato in Zambia intervistando gli attivisti per l’indipendenza, prominenti figure accademiche e i partecipanti originari al programma spaziale. Il film è quasi completo e noi amanti dell’sf siamo in fremente attesa di poterci immergere ancora nelle magiche atmosfere evocate dalla sublime narratrice Nuotama Frances Bodomo (in immagine qui sotto). Maria G. Di Rienzo

Nuotama Frances Bodomo

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(“Meet Mariama Sonko, Senegal” – Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Mariama Sonko

Contadina e organizzatrice per le donne rurali, Mariama è la coordinatrice nazionale di “Nous sommes la solution” (Noi siamo la soluzione) in Senegal, un movimento di agricoltrici per la sovranità alimentare che si sta diffondendo anche in Burkina Faso, Mali, Ghana e Guinea. Tramite le pratiche agro-ecologiche, Mariana e il suo movimento lavorano con le donne rurali per prendere il controllo dei propri mezzi di sussistenza e creare una forte rete di sostegno l’una per l’altra.

Puoi dirci qualcosa del tuo lavoro?

Il nostro movimento è nato dai dialoghi fra le organizzazioni degli agricoltori e la società civile su come resistere alle politiche agricole imposte dalle corporazioni multinazionali. Questo movimento è afro-centrato e propone l’agro-ecologia come alternativa per sostenere una maggior sicurezza alimentare in Africa.

Le donne giocano un ruolo indiscutibile in agricoltura: nella produzione, nella commercializzazione delle coltivazioni domestiche, nel consumo. Il nostro movimento è radicato nella visione di un’Africa in cui le donne rurali sono coinvolte in ogni processo decisionale e coltivano, vendono e consumano i prodotti delle loro fattorie di famiglia.

Come si è diffuso il vostro movimento sino a ora?

Abbiamo avuto un bel po’ di successo, principalmente perché siamo state capaci di rinforzare le capacità delle donne leader di esporre il valore del movimento proprio dal suo inizio. Ciò ci ha permesso di organizzarci con le donne coinvolte a livello di base e ora abbiamo una piattaforma di circa 100 associazioni locali.

Lavoriamo anche con i media, giornali e radio, per diffondere il nostro messaggio. Sebbene il movimento sia stato creato dalle donne ci siamo espanse e abbiamo incluso uomini, gioventù, politici e altre persone che credono nel nostro lavoro. Oggi abbiamo una fattoria modello diretta da donne rurali e un negozio dove vendiamo i nostri prodotti. Sta tutto nel trasformare le parole in azione.

Facciamo molto a livello locale, ma crediamo sempre di più che sia cruciale avere anche reti a livello internazionale, per dare maggiore visibilità al movimento. Questa può essere una risorsa potente per il nostro attivismo.

Quale ritieni essere la sfida maggiore che avete davanti?

Le donne sono le persone chiave, ma il loro lavoro non è compreso e neppure compensato. Perciò, questo è il motivo per cui dobbiamo continuare a costruire l’abilità delle donne di comunicare le nostre opinioni e di entrare in relazione con altri, di modo che sappiamo che cosa stiamo chiedendo e cosa dobbiamo fare.

Quale azione diresti essenziale per l’attivismo?

E’ essenziale essere collegati con altri movimenti in altri paesi, per sapere meglio cosa stanno difendendo e per cosa stanno lavorando e vedere come i legami d’alleanza possono essere più forti. Non possiamo limitarci a quel che facciamo noi. Dobbiamo conoscere cosa altri fanno per ricevere o dare lezioni che ci conducano a uno sviluppo più armonioso.

Cosa significa la parola “femminismo” per te?

Femminismo significa semplicemente giustizia sociale nella nostra comunità. L’ingiustizia verso le donne è stata presente sin dai giorni dei nostri antenati. Il femminismo corregge questa ingiustizia a livello locale, nazionale e internazionale. E questo è ciò che ci sprona a essere e lavorare nel movimento femminista globale, il tentare davvero di risolvere questa ingiustizia, di dare valore al ruolo che le donne svolgono e al loro posto nella nostra comunità.

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(“We need personal, everyday action to end violence against women”, di Nana Nyarko Boateng – in immagine – per Open Democracy, 2 ottobre 2017. Nana Nyarko Boateng è una scrittrice e editrice ghanese. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

nana

L’attivismo può essere sia soffice come un cuscino, sia duro come una roccia. Ci sono modi non detti di essere un’attivista. Non è mai il momento sbagliato per sostenere la giustizia e c’è sempre spazio per bilanciare il potere. Questo sembra ovvio sino a che non si parla degli sforzi per metter fine alla violenza contro le donne come un lavoro che solo determinate persone possono fare. Le domande sui migliori modi di prevenire e rispondere alla violenza emotiva, fisica, sessuale o economica contro le donne restano. Pure, la chiave deve stare nell’azione quotidiana, in qualsiasi situazione noi ci si trovi.

Non importa quanto intensi siano i tentativi di normalizzare la violenza contro le donne, è cruciale riconoscere il potere del tuo attivismo personale. Anche quando la vittima si adatta al proprio dolore, fa crescere cicatrici, o accetta la morte, noi non possiamo abbandonare la nostra capacità di influenzare positivamente le nostre e le altrui esperienze.

L’attivismo personale è quello che si manifesta e offre salvezza alla moglie picchiata o minacciata di violenza dal marito ubriaco, anche prima che la polizia arrivi. E’ ciò che difende una lesbica dall’abuso fisico e verbale, al di là di quel che dice la legge. E’ ciò che protesta contro le paghe più basse per le donne che fanno gli stessi lavori degli uomini, anche prima di un’azione legale.

Di solito abbiamo idee grandiose sull’attivismo, pensando che grandi raduni, proteste per le strade, o gli hashtag che creano i titoli sui giornali siano le sole azioni di valore. Ma spesso le espressioni di attivismo collettivo come queste si basano sull’attivismo personale che è necessario a confrontare la presenza quotidiana della violenza nelle nostre comunità.

Si tratta di piccole cose come il rifiutarsi di vedere o condividere un video sessuale che svergogna come “puttana” una celebrità, una collega di lavoro o una che va in chiesa. E’ l’essere sensibili al dolore delle vittime, non ridendo mai alla battuta sullo stupro. E’ il rifiutarsi di mangiare in un ristorante noto per il maltrattamento delle cameriere. E’ dichiararsi contrari al picchiare la donna che ha rubato al supermercato.

Spesso, sono le piccole cose che hanno impatto sulle persone in grandi modi. Il nostro attivismo personale ha effetto in ultima analisi su come il mondo diventa. Noi dovremmo usare ogni opportunità per allineare le nostre parole ad azioni concrete che vanno verso la giustizia. Non possiamo scegliere di essere attiviste solo quando ci comoda. L’attivismo è coerente nell’essere incondizionato.

Le azioni quotidiane che difendono, proteggono e sostengono donne, bambini e gruppi vulnerabili sono ciò che ispira altri a farsi avanti per qualcuno discriminato pubblicamente e a restare con questo qualcuno sino a che la sua sicurezza e salvezza siano assicurate; a non scusare mai la violenza contro le donne; a ripensare comportamenti tollerati o accettati e a lottare per il cambiamento.

Tali azioni quotidiane possono spronare altri a considerare e sperimentare più modi positivi di usare il loro potere in situazioni potenzialmente di abuso. Possono spingere altri a mettere in discussione la loro inattività e spezzare il silenzio che circonda la sistemica ingiustizia. E possono ispirare altri ancora a nutrire il loro potere interiore e a superare la paura di sfidare lo status quo.

L’attivismo personale spinge altre persone ad amare e accettare se stesse, a credere di avere valore e a sentire che meritano i loro diritti umani. E’ tramite l’attivismo personale che ci colleghiamo, rafforziamo il nostro impegno e uniamo il nostro potere per avere un maggiore impatto. E ciò influenza positivamente le vite degli altri, così come la nostra.

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(“Liberation” di Abena P.A. Busia – in immagine – nata in Ghana nel 1953, scrittrice, poeta, femminista, conferenziera, docente universitaria di letteratura inglese, studi sulle donne e studi di genere. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

abena

LIBERAZIONE

Noi siamo tutte madri,

e abbiamo dentro di noi quel fuoco

di donne potenti

i cui spiriti sono così infuriati

che noi possiamo dar vita alla bellezza ridendo

e contemporaneamente farvi assaggiare

le lacrime salate della nostra conoscenza –

perché tormentate

non siamo più;

abbiamo visto oltre le vostre bugie e i vostri travestimenti,

e abbiamo padroneggiato il linguaggio delle parole,

abbiamo padroneggiato il discorso.

E sappiate

che abbiamo anche visto noi stesse al naturale

e abbiamo denudato pezzo dopo pezzo sino a che la nostra carne giace scuoiata

nel sangue dalle nostre stesse mani.

Che cose terribili potete farci

che noi non abbiamo già fatto a noi stesse?

Quali cose potete dirci

con cui noi non ci si sia già ingannate

molto tempo fa?

Non potete saper quanto a lungo abbiamo pianto

prima di ridere

sui brandelli dei nostri sogni.

L’ignoranza

ci ha sbriciolate in così tanti frammenti

che abbiamo dovuto dissotterrarci pezzo dopo pezzo,

abbiamo dovuto recuperare con le nostre mani tali inaspettate reliquie,

persino ci siamo chieste

come avremmo potuto tenerci un simile tesoro.

Sì, abbiamo concepito

per forgiare le nostre speranze mutilate

oltre quel che potete immaginare,

per dichiarare il dolore della nostra liberazione:

perciò non chiedete neppure,

non chiedete per cosa siamo in travaglio questa volta;

i sognatori ricordano i loro sogni

quando sono disturbati –

e voi non sfuggirete

a ciò che noi costruiremo

con i pezzi rotti delle nostre vite.

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(tratto da: “Ghana Code Club – Intervista a Ernestina Edem Appiah”, One International, gennaio 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Ernestina

Che cos’è esattamente il Ghana Code Club?

La tecnologia sta reinventando il mondo. I bambini hanno bisogno di nuove capacità per prepararsi alle loro carriere nel futuro, gli attuali programmi scolastici sull’informatica non li includono, il che è abbastanza allarmante. Qui è dove il Ghana Code Club entra in gioco. E’ un doposcuola del divertimento digitale condotto da volontarie/i per la fascia d’età fra gli 8 e i 17 anni. Abbiamo lavorato in cinque istituti e siamo pronti per intervenire in molte altre scuole del Ghana durante il primo quarto del 2016.

Quali eventi nella tua vita e carriera ti hanno condotta a creare il Ghana Code Club?

Ho sempre sognato di guidare una squadra di professionisti dell’informatica per creare soluzioni innovative per l’Africa. La passione è emersa mentre lavoravo come segretaria per un ditta informatica ad Accra, nel 2000. Ammiravo molto i consulenti informatici, soprattutto l’unica donna fra loro. All’epoca, il mio stipendio era un decimo del loro. Volevo iscrivermi a un corso per imparare l’HTML (il linguaggio standard per creare pagine web) ma i pochi soldi che guadagnavo li usavo per aver cura dei miei fratelli e sorelle. Invece di aspettare per sempre, ho deciso che avrei insegnato io a me stessa, in ogni modo possibile. Un disegnatore di siti web mi ha fornito le basi del linguaggio per un piccolo compenso. Io ho fatto pratica ogni volta in cui ne avevo la possibilità e dopo poche settimane stavo creando i miei siti.

Con più fiducia nelle mie abilità mi sono proposta come “assistente virtuale” a vari clienti e nel 2004 sono stata in grado di dare le dimissioni dal posto di segretaria, di affittare un ufficio e di assumere personale. Una semplice segretaria, che nessuno notava mai, era diventata una datrice di lavoro con clientela internazionale e ha pagato le tasse universitarie a cinque persone della sua famiglia: tutto perché avevo imparato nuove abilità.

Ero così grata e così felice che volevo fare qualcosa per migliorare la vita di altri con il tipo di cose mi avevano portata a quel punto. Ho registrato la mia ong, “Healthy Career Initiative”, nel 2007 con l’obiettivo di fornire agli studenti la formazione di cui hanno bisogno per vivere nel 21° secolo. All’inizio le cose sono andate un po’ lentamente, fra il mio grande carico di lavoro, il matrimonio e i miei figli. Ma un giorno, quando il mio primogenito aveva cinque anni, stavo cercando su internet una piattaforma di programmazione semplice per cominciare a insegnargli e mi sono imbattuta in un blog che tratta di bambini che apprendono l’informatica in Gran Bretagna: le cose che questi bambini facevano hanno riacceso il mio entusiasmo per la mia organizzazione. Di colpo, volevo che i bambini ghanesi fossero in grado di creare le stesse cose: storie interattive, siti web, giochi, animazioni. Immediatamente, ho messo insieme i piani e il Ghana Code Club è nato.

Qual è la parte migliore del tuo lavoro?

Essere in classe con in bambini e vederli orgogliosi di aver creato cose che possono essere usate da un’altra persona in qualsiasi parte del mondo. I loro sorrisi mi fanno sentire meravigliosamente e mi danno la speranza che questi bambini andranno avanti a sviluppare l’impronta digitale del Ghana e dell’Africa e avranno il loro impatto sul mondo intero.

Quali sono i tuoi obiettivi per il 2016?

Miriamo a lavorare in altre venti scuole entro i primi quattro mesi del 2016, raggiungendo così circa 20.000 bambini. Vorremmo anche organizzare un concorso fra scuole, per stimolare la creatività, la capacità di risolvere problemi e di collaborare. Poi vogliamo creare un centro di formazione che assista i bambini impoveriti, i quali vorrebbero partecipare ai nostri club ma per un verso o un altro sono impossibilitati a farlo.

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dipinto di dorien plaat

Dorien Plaat è una pittrice autodidatta che da anni espone le sue opere in gallerie di tutto il mondo. Nata a Khumasi, in Ghana, da genitori olandesi Dorien ha passato l’infanzia in Venezuela e Sri Lanka. Più tardi, da adulta, ha vissuto in Tanzania, Nigeria e Vietnam prima di stabilire la sua residenza permanente in Olanda.

Il suo lavoro mi ha colpita per l’intensità dell’empatia con cui ritrae i suoi soggetti: così irriducibili nella loro fragilità, così amabili, così vivi e veri.

dorien plaat collage

Ho poi scoperto che quando le chiedono qual è l’essenza della sua arte, Dorien Plaat risponde con una poesia del brasiliano Carlos Drummond de Andrade (1902 – 1987), “Vita più piccola”:

Ne’ ciò che è privo di vita,

ne’ l’immortale o il divino,

solo il vivente,

l’estremamente piccolo, silente, stolido

e solitario vivente.

Ecco quel che cerco.

Maria G. Di Rienzo

dipinto di dorien plaat2

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Tutto il mondo è paese: America, Africa e Asia – tre donne a cui si dice che non possono dedicarsi al tal lavoro perché “non è da donne”. Tre donne che fanno orecchio da mercante e proprio tramite quel lavoro risollevano se stesse, le proprie famiglie e le proprie comunità.

Eccovi la prima, Doña Maria Ixtamer Mendoza dal Guatemala. La foto la ritrae al centro con alcune socie del gruppo che ha fondato: la “Associazione donne artigiane di San José”. Il loro motto è “Passione per le persone e passione per la terra”.

San Jose - Associazione donne artigiane

“Non sono mai stata ad ascoltare quando la gente diceva questo è da donne e questo non lo è.”, afferma Doña Maria. Come molte donne del suo paese, ha imparato a tessere sul telaio a tensione dorsale (in immagine qui sotto) avendo sua madre e sua nonna come maestre. Come molte altre, appunto, è tutta la vita che produce tessuti.

bambola telaio

Ma a differenza di molte altre ha visto quale potenziale aveva la tessitura per le donne nella sua comunità e non ha avuto paura di fare un passo oltre la tradizione per rendere reale il suo sogno.

L’Associazione delle donne artigiane fu fondata da Doña Maria nel 1996, nel mezzo della miseria, e all’inizio le tessitrici scambiavano i loro prodotti con cibo. La sua “rivoluzione” fu cominciare ad usare il telaio a pedale (in immagine qui sotto): un attrezzo rigorosamente riservato agli uomini.

telaio a pedale

E mentre creava stoffe bellissime con questo telaio, fra le bocche aperte dei suoi vicini, chiese a sua figlia Elizabeth: Vuoi imparare? Elizabeth disse di sì. E altre donne si fecero avanti.

“Continuiamo a lavorare anche con il telaio a tensione dorsale, ovviamente. – dice ancora Doña Maria – Tutti i nostri prodotti cominciano con le tinture naturali che si trovano nella giungla tropicale, il cuore della terra Maya. Noi dell’associazione siamo Tzutujil, uno dei 21 gruppi etnici discendenti dai Maya, e i nostri tessuti si rifanno alla tradizione artistica dei nostri antenati. Per rimanere fedeli alle tecniche artistiche Maya, produciamo in modo sostenibile tutte le materie prime di cui abbiamo bisogno, dai semi alle fibre naturali. Potrei dire che, in questo senso, le nostre stoffe sono… leggendarie! Il prossimo passo nel nostro sogno è coordinarci con altri gruppi di donne nella nostra regione e addestrare quelle che lo desiderano.”

Eka

La donna ritratta nella fotografia con i suoi due bambini, in quel di Bali – Indonesia, è invece Eka (in numerosi contesti, asiatici e non, è comune che le donne non abbiano cognomi).

Nel 2009, il marito di Eka morì dopo una lunga malattia: lei aveva dato alla luce il loro secondo figlio da dieci giorni e tutto quel che le restava fra le mani era il conto esorbitante dell’ospedale da pagare. Il marito di Eka era un intagliatore, come lo era stato il padre di lei, soprattutto di noci di cocco; un mestiere “da uomini” in cui le donne possono intervenire solo per le rifiniture. Ma Eka non era solo una “rifinitrice”, era un’artista con la capacità di creare da sé sculture splendide. “Pensai prima di tutto ai miei bambini, al loro futuro. E pensai che diventando un’intagliatrice avrei onorato la memoria di mio marito. I miei bimbi sono ancora oggi la fonte della forza del mio spirito. Grazie a loro, non posso cadere.” Eka ha avuto numerosi riconoscimenti per le sue opere e basta guardarle per capire perché. (Qui sotto vedete un pannello e una scultura di Eka.)

aironi e loto

madre e bimboEd eccoci arrivate a Ernestina Oppong Asante, Ghana. La sua storia ha una somiglianza fondamentale con quella di Eka: il desiderio tenace di avere risultati in un campo considerato “maschile”, quello della produzione di maschere intagliate e tamburi di legno.

Ernestina Oppong Asante

Nel 1999, sorda a tutti i richiami “ladylike” (sorry, non ho resistito), Ernestina aveva già messo in piedi il proprio laboratorio e aveva quattro apprendisti – maschi e femmine – sotto di lei. Il suo successo ha varcato negli anni i confini del suo paese (si trovano reportage sulle sue opere nei magazine artistici di mezzo mondo) ed Ernestina ne è ovviamente assai soddisfatta: “Sì, l’intagliare è stato a lungo visto come un mestiere da uomini, per cui sono felice non solo di essermi “infiltrata” ma di essere stata capace di avere un impatto sull’intero commercio.”

Alla fine ha persuaso persino il marito Daniel, tassista con qualche esperienza da carpentiere, a intagliare con lei. Assieme, hanno formato dieci fra intagliatori e intagliatrici che oggi sono riconosciuti come artisti nel campo. Di seguito potete vedere due opere di Ernestina Oppong Asante. Il primo è un tamburo djembe e il motivo astratto alla sua base si chiama “Gye Nyame”, un simbolo Adinkra altamente considerato in Ghana: la sua forma rotante significa “Non temo nessuno ad eccezione di dio”. I simboli Adinkra trasmettono da secoli le tradizioni popolari.

tamburo in legno

Il secondo è un lavoro di intreccio. Filo dopo filo, Ernestina ha raffigurato la piccola Ama (Sabato, il giorno in cui è nata) nell’atto di bere. I recipienti attorno a lei assicurano che non avrà mai sete.

la piccola Ama

La tenacia e la bellezza che Ernestina mette nei suoi lavori hanno come fonte una visione artistica intrisa d’amore. Lei e Daniel hanno quattro figli propri, ma ne hanno presi in casa altri cinque senza famiglia. “Facciamo così tante cose – spiega orgogliosamente Ernestina – che siamo in grado di non far mancare loro nulla.” Maria G. Di Rienzo

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Grande notizia! Corriere e Repubblica hanno scoperto che le donne sono stanche e nauseate dal femminismo, si fanno gli autoscatti (yeah, loro sono modernelli e li chiamano selfies) per dirlo a tutto il mondo! A parte il fatto che la notizia è assai datata – ha circa un paio d’anni – e a parte il fatto che si è trattato di una reazione alla campagna “I need feminism because…” / “Ho bisogno del femminismo perché…”, e a parte il fatto che la storia è praticamente tutta interna ai social media statunitensi, ogni occasione è buona per consigliare alle femministe di battersi il petto e di considerare la possibilità di smettere di essere tali. Quando qualcuna si ritrae con un cartello con su scritto “Io non ho bisogno del femminismo perché rispetto gli uomini” è ovvio che questa persona del femminismo sa e ha capito davvero moltissimo, almeno quanto i redattori di Corriere e Repubblica… Quest’ultimo quotidiano si è spinto sino a immettere nella sua lista delle “stupidate” dette dai politici un rilievo di Boldrini sulla necessità di sessuare il linguaggio, istanza su cui esiste solo qualche quintale di ricerche e documenti e impegni presi in sedi internazionali: e non ditemi che non li vedono perché non sono sul web, tre quarti della mia biblioteca in materia è ormai composta da file pdf scaricati dalla rete.

Ad ogni modo: ci sono donne americane che si sono fotografate per dire che non hanno bisogno del femminismo? Buon per loro e chi se ne frega. Il femminismo è attualmente una questione di selfies su Facebook e Twitter? No. Perché le femministe, in tutto il mondo (che stranamente non è limitato agli Usa) fanno un sacco di cose che i giornalisti italiani non vedono neppure se gliele sbatti davanti agli occhi.

Per esempio: Srilatha Batliwala, di Awid, commenta il secondo rapporto Women Moving Mountains (Donne che muovono montagne) sul finanziamento di attività femministe nell’ambito degli “Obiettivi del Millennio”: “Vasta diffusione e grandi risultati sono possibili quando le organizzazioni che lavorano per costruire il potere collettivo delle donne per il cambiamento ricevono risorse significative per un periodo di tempo esteso, con la flessibilità per rifinire le loro strategie ed adattarle a contesti che mutano. (…) Le iniziative hanno raggiunto 165 paesi; in queste diverse località 224.773.550 persone hanno ottenuto nuova consapevolezza sui diritti delle donne, inclusi messaggi ed analisi sulle radici della diseguaglianza di genere e della violenza di genere, e la comprensione che l’avanzamento dell’eguaglianza di genere è responsabilità comune così come una componente essenziale del creare società più giuste; la cifra suddetta include 65.558.977 donne comuni che hanno raggiunto una nuova consapevolezza dei loro diritti, in special modo del diritto ad essere libere dalla violenza, dell’eguaglianza di fronte alla legge, del diritto all’eguale accesso alle risorse e del diritto all’eguale partecipazione nel processo decisionale pubblico e privato; a 230.266 donne sono stati forniti addestramento, conoscenza, abilità professionali, sostegno; 105.304 associazioni di donne, in maggior parte piccole e basate nella società civile, sono state rafforzate con nuovi strumenti per il loro lavoro; 3.662 associazioni di donne, prive di risorse, sono state rafforzate finanziariamente affinché possano espandere il loro lavoro; 46 governi nazionali sono stati influenzati dall’iniziativa e messi in grado di rafforzare le loro politiche e i loro programmi in merito all’eguaglianza di genere; 14 nuove norme internazionali sull’avanzamento dei diritti delle donne sono state adottate; (…)

Quanti sono gli autoscatti, scusate? Ah, giusto, devo ricordarmi che i giornalisti italiani sono assai competenti in materia di femminismo, perciò adesso si stanno chiedendo che cosa facciano quelle 108.966 organizzazioni femministe (in totale) testé menzionate. Questo: portano avanti programmi di costruzione di pace, sulla salute delle donne, sul contrasto alla violenza di genere, sulla giustizia economica ed ambientale; forniscono sostegno alle donne e alle famiglie in difficoltà; usano la cornice dei diritti umani per promuovere giustizia sociale; compiono ricerche sul campo ed offrono soluzioni alternative; forniscono istruzione e seminari specifici; lavorano per un’equa redistribuzione delle risorse.

Se non trovate nulla di vostro gradimento nella lista dell’attivismo di base, per scrivere un pezzo sul femminismo, potreste provare con i meeting internazionali. IAFFE, l’Associazione Internazionale per l’Economia Femminista, si è riunita dal 27 al 29 giugno scorsi all’Università di Accra, in Ghana. Economiste, docenti, studenti, rappresentanti di gruppi femministi ecc. hanno discusso del lavoro delle donne, delle tassazioni, del lavoro di cura non pagato, dell’accesso alla protezione sociale, dell’accesso alla terra e ad altre risorse chiave ecc.; hanno scambiato esperienze e tecniche ed elaborato strategie comuni. Come dite? Senza foto e cartello non se ne fa niente? Ok, ecco qua.

Iaffe Ghana 2014

Queste donne sono tutte economiste e membri dell’Associazione. Attendo i vostri articoli, ovviamente senza fiducia alcuna, perché come da vecchio adagio non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Maria G. Di Rienzo

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(di Leymah Gbowee, Op Ed del Los Angeles Times, 14 maggio 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Leymah Gbowee, liberiana, ha conseguito il Premio Nobel per la Pace nel 2011.)
Dopo settimane dal rapimento di più di 300 studentesse nigeriane, forzatamente coinvolte in un caso di massa di traffico a scopo sessuale, i media globali infine hanno preso nota del crimine.
Perché l’interesse? A causa del coraggio delle donne nigeriane, che sono scese in strada a chiedere che il mondo prestasse attenzione. Le donne africane tendono ad essere raffigurate come vittime – le stuprate, le sofferenti, le povere madri delle povere ragazze. Ma attraverso tutta l’Africa le donne stanno mettendo fine a conflitti, riformando governi e facendo luce su istanze cruciali. In questa storia, come in molte altre, loro sono le eroine.
Alcuni giorni dopo che le loro figlie erano state prese, quando fu chiaro che l’esercito non avrebbe fatto nulla, le donne e gli uomini di Chibok, nello stato di Borno, hanno raggranellato i soldi, comprato carburante per le loro motociclette e coraggiosamente si sono messi in viaggio per i 30.000 chilometri quadrati della Foresta di Sambisa, dove Boko Haram si nasconde. Gli abitanti dei villaggi che incontrarono lungo la via dissero loro di aver visto le ragazze, ma che seguirle era troppo pericoloso. Quando i genitori tentarono di condividere con l’esercito ciò che avevano saputo, fu detto loro di scrivere un rapporto.
Di fronte al silenzio ufficiale, donne arrabbiate di tutta la Nigeria cominciarono ad alzare la voce. Il 24 aprile, una coalizione dei gruppi per i diritti umani delle donne, nel Borno, annunciò che era pronta a mobilitare migliaia di donne per entrare nella foresta e chiedere il rilascio delle ragazze. Dal 30 aprile in poi, ogni singolo giorno, folle di donne hanno dimostrato nella capitale, Abuja.
Il primo di maggio, una coalizione di donne musulmane e cristiane ha protestato nello stato di Kaduna. Il due di maggio, le donne minacciarono di convergere a Lagos per poi camminare in massa sino al Borno e penetrare nella Foresta di Sambisa in cerca delle ragazze.

washington post - protesta donne nigeriane

Il cinque di maggio, le donne dello stato di Ogun organizzarono una dimostrazione per mostrare la loro solidarietà e la presidente dell’Associazione donne mercanti delle Nigeria ordinò la chiusura per protesta dei sei più grandi mercati di Lagos: per analogia, è come se si fosse chiuso il New York Stock Exchange. Queste donne che vivono del loro commercio nei mercati hanno deciso di ignorare le loro stesse necessità – alcune famiglie hanno saltato i pasti – perché quel che accadeva nella comunità era per loro più importante. Le donne hanno protestato negli stati di Kwara, Nasarawa e Plateau. Confrontate queste azioni con quelle dei leader nigeriani, la cui governance è troppo spesso basata su quel che dà di loro una buona impressione a livello internazionale. Nel momento in cui le ragazze furono rapite, loro erano concentrati nel mandare forze di polizia ad Abuja, per ripulire la città e renderla sicura per i leader politici che dovevano partecipare al World Economic Forum.
Miti e stereotipi accecano il mondo sulla realtà di cosa le donne africane stanno ottenendo. Nel 1996, quando 139 ragazze furono rapite dalla loro scuola di Aboke, in Uganda, dai membri del Lord’s Resistance Army, la vicepreside Sorella Rachele Fassera, una suora italiana, seguì i perpetratori e riuscì a contrattare con loro il rilascio di 109 ragazze. Angelina Atyam, madre di una delle ragazze che non erano tornate, divenne una delle leader pacifiste dell’Uganda e viaggiò sino alle Nazioni Unite nel suo attivismo a favore delle ragazze mancanti. Quelle che sopravvissero infine furono riunite alle loro famiglie, compresa la figlia di Atyam. Per anni, i media occidentali non hanno avuto idea di cosa fosse successo.
Durante i giorni peggiori della guerra civile nel mio stesso paese, la Liberia, una guerra che continuava da 14 anni, migliaia di donne cristiane e musulmane si riunirono in un campo adiacente la strada principale della capitale – e là sedemmo per mese nella pioggia e nel sole, chiedendo pace. Le proteste delle donne si diffusero in tutto il paese, e quando i colloqui di pace in Ghana si interruppero, noi barricammo la stanza in cui si tenevano sino a che essi ripresero. Ma fuori dalla Liberia, sembrava che nessuno ci notasse.
Come donna e come madre, sto pregando per il ritorno delle ragazze rapite, sane e salve. E plaudo alla forza delle donne che continuano a lottare per loro. Sono donne africane, donne che possono “funzionare” nelle condizioni più dure, che di fronte all’omicidio e allo stupro continuamente si sollevano e lottano. Forti. Resistenti. Potenti. E’ ora che il mondo metta via l’immagine delle africane come vittime e le veda come le eroine quotidiane che in effetti sono.

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(“Ambassador, Observer, Spectacle — Being African in China”, di Zahra Baitie per Tea Leaf Nation, 27 agosto 2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

Zahra Baitie in Cina

Da bambina, sognavo di diventare la prima Segretaria generale delle Nazioni Unite e di seguire i passi del mio compatriota Kofi Annan. Tuttavia, non mi ero mai figurata di rivestire il ruolo di ambasciatrice durante i miei anni di università. Ma il mio anno di studi all’estero, in Cina, mi ha dato esattamente questo: un esame pratico del mondo della diplomazia. Mi sono ritrovata a giocare il ruolo di un’ambasciatrice informale, ma a tempo pieno.

Walter Bagehot, un prolifico scrittore e giornalista, ha una volta detto che secondo la sua opinione “un ambasciatore non è semplicemente un agente, è anche uno spettacolo”. La parola “spettacolo” è probabilmente quella che meglio incorpora la mia esperienza come donna nera vivendo e studiando in Cina. Con la mia pelle scura e i miei capelli intrecciati, facevo sensazione nella maggior parte dei luoghi in cui mi recavo, e durante questo periodo ho capito che significa essere un’ “aliena”. A livello personale, il mio anno in Cina mi ha costretto ad impegnarmi in una danza intima e complessa con il concetto di identità; a livello globale, le mie esperienze mi hanno fornito prospettive di valore sulle relazioni sino-africane.

Una volta, mentre facevo la spesa in un mercato locale, un’altra cliente – avendo capito che parlavo mandarino – si girò verso di me e disse: “Mi scusi, forse sono sfacciata a chiedere, ma nel suo paese la gente considera bella la pelle nera?” Fui presa in contropiede dalla mancanza di tatto, essendo stata esposta all’etichetta occidentale. Risposi: “Naturalmente sì, e se devo essere onesta vorrei essere un po’ più scura.” Lei rimase ugualmente di sasso alla mia replica e disse: “Non avrei mai pensato che durante la mia vita avrei sentito dire quel che lei ha detto. Davvero non vorrebbe essere più chiara di pelle? In Cina noi crediamo che più bianco è il tuo incarnato e più sei bella, e ci sono molti modi per ottenerlo.” Gentilmente, ho declinato i suoi suggerimenti su come candeggiarmi la pelle.

Un’altra volta, un guidatore di taxi di Pechino mi ha chiesto perché gli africani si mangiano l’uno con l’altro e perché il continente è così caotico. Nonostante il mio tentativo di usare i fatti per dissipare queste nozioni, non riuscii a convincerlo. L’autista mi fece notare che il primo carattere della parola cinese per Africa, “fei”, significa “non essere, non avere, no, sbagliato, scorretto, mancante”. Io non ci avevo mai riflettuto su criticamente, prima, ma dopo un po’ mi intrigava capire il perché non era stato usato un altro carattere, con lo stesso suono e lo stesso tono, ma con un significato più positivo. Ciò sollevava la questione: come gli africani e l’Africa sono considerati in Cina? Se ci concentriamo sulle relazioni internazionali, la retorica ufficiale in Cina ed Africa ritrae un rapporto fra i due paesi cementato dalla fratellanza, dall’amicizia, dal beneficio reciproco e dalla solidarietà. Ma nonostante il volume del commercio fra il continente africano e la Cina, le connessioni politiche intime fra diversi paesi africani e l’amministrazione cinese, nel tu a tu fra le persone persistono ignoranza, incomprensione e intolleranza.

L’ignoranza genera curiosità, e durante il mio anno di residenza in Cina mi sono sentita come se facessi parte di un circo. La gente mi fotografava di continuo. Altri amici stranieri scherzavano spesso dicendo che vivevo la vita di una celebrità: forse quella sensazione è durata un giorno, ma diventa facilmente noiosa se quotidiana. Prendere la metropolitana, mentre le macchine fotografiche ti vengono puntate in faccia, gruppetti ti individuano urlando e diventi il soggetto principale della conversazione per gli altri passeggeri, è una fatica indescrivibile. Mentre cercavo di godermi i bellissimi paesaggi per cui la Cina è conosciuta, diventavo spesso anch’io un luogo turistico: l’attrazione a sorpresa dello spettacolo. Era disturbante sentire la gente discutere la mia pelle, i miei capelli e la grandezza delle mie mani. Per mantenermi sana di mente, ho trovato divertimento nell’ascoltare facendo finta di niente chi discuteva il mio aspetto e poi, a loro dispetto, unendomi casualmente alla loro conversazione in mandarino.

Non riesco a dire quante volte ho fantasticato di afferrare un telefonino usato per fotografarmi e lanciarlo in aria, o di lasciarmi andare ad uno sfogo in lingua locale contro certi individui un po’ troppo inquisitivi. Ma sono anche divenuta conscia che alcuni dei comportamenti che più mi facevano stare a bocca aperta, tipo lo sfregare la mia pelle per vedere se il colore era dovuto a sporcizia o a pigmento, venivano da gente che probabilmente non aveva mai interagito con una persona nera prima. Ero anche consapevole che la prima impressione è particolarmente importante, e perciò mi sentivo responsabile del lasciarne una buona. Mi sentivo oppressa dall’idea di convalidare l’impressione generale degli africani come barbari e selvaggi.

Crescendo in Ghana, la mia identità non era basata sul colore della mia pelle. Il colore non è mai stato qualcosa a cui dovevo pensare, era un dato di fatto e non diceva molto su chi fosse in realtà un individuo. La razza, a differenza degli Usa e della Cina, era più o meno un fattore inesistente. Tribù, religione, classe, stato socio-economico e parentela avevano un impatto molto più grande, sull’identità e l’immagine di qualcuno, rispetto al colore. Ma in Cina la storia era diversa. Raramente c’è stato un giorno in cui non ho sentito individui dire “nera” o “africana” mentre camminavo – era una cosa che si sentivano spinti a sottolineare a se stessi e agli altri intorno. Vivendo sotto la perpetua luce dei riflettori, e avendo svariate identità gettate addosso a me, sono giunta a comprendere che le persone riescono a capire completamente chi sono e cos’è la loro cultura quando sono non solo “sfidati”, ma quando si presenta loro un contrasto. E’ il contrasto fra due culture che ti permette di capire le cose intricate e complesse di una e la mia esperienza in Cina mi ha offerto tale opportunità. Sono anche stata abbastanza fortunata da diventare amica di una famiglia cinese che mi ha presa sotto la sua ala e mi ha trattata come un suo membro. Sono diventata vicina a loro perché ero differente, e loro erano curiosi. La loro curiosità mi ha permesso di condividere aspetti della mia cultura e la mia comprensione degli affari africani, nel mentre apprendevo la cultura cinese. Le nostre interazioni ci hanno consentito di cancellare molti concetti errati e pregiudizi che stavano da ambo le parti.

Spesso mi si chiede se penso che i cinesi siano razzisti, e se il trattamento che io ho ricevuto come “spettacolo” indica un’attitudine razzista. Io replico che li trovo curiosi. Molte delle esperienze che io ho fatto nascevano dall’ignoranza, non dal razzismo. Nonostante fossi sempre identificata come “nera” e “africana” non ho mai percepito discriminazione o antagonismo, e sono spesso stata trattata con calore e amichevolmente. Dato che parlo mandarino, potevo spesso capire cosa la gente diceva di me e molto raramente erano sprezzanti o maligni. D’altra parte, alcuni amici che conoscono le mie esperienze dicono che esse riflettono una profonda mancanza di rispetto, e perciò sentimenti razzisti. Io riconosco che la mia storia non può riflettere completamente quella di altri studenti africani, e non ho mai dovuto cercare lavoro in Cina, perciò non mi sono mai stati preferiti “stranieri bianchi”, come altri studenti africani mi dicono sia comune.

I legami fra Africa e Cina risalgono all’era dell’indipendenza africana: la Cina fu un’alleata che aiutò la creazione di nuovi stati indipendenti e la lotte di liberazione, mentre il sostegno dei paesi africani fu cruciale nel permettere alla Repubblica popolare cinese di entrare alle Nazioni Unite. Ma con sempre più gente che attraversa i confini, e l’intensificazione delle relazioni economiche, lo scopo e la natura delle relazioni sino-africane sta diventando sempre di più personale, non limitato a scambi ad alto livello economico e politico. Ciò che manca terribilmente è la comprensione interculturale. Lasciando da parte di che si tratti, semplice curiosità o razzismo, è chiaro che incomprensioni ed ignoranza infiammano ambo i lati dell’equazione. Le prospettive, tuttavia, sono incoraggianti. Ci sono attualmente oltre 12.000 giovani africani che studiano in Cina grazie a borse di studio del governo cinese. E’ sperabile che nel mentre sempre più studenti prendono su di sé il mantello di “ambasciatori culturali”, la “stranezza” svanisca. Per quel che mi riguarda, io sono ora felicemente in pensione dalla mia posizione di “ambasciatrice stramba”. Tuttavia, c’è ancora molto lavoro da fare.

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