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Milfont - Le Robotism Suprême - Iemanjá2

(Le Robotism Suprême, dell’artista brasiliana Alessandra de Norões Milfont)

Missione compiuta. Il mio quinto romanzo è realtà. Adesso ho bisogno di qualche giorno per limare, trovare errori di battitura che il controllo ortografico ignora, rileggere. Poi lo pubblicherò online come il quarto e, se la cosa vi interessa, potrete andarverlo a prendere. Qui sotto c’è il prologo e, per inciso, è stato scritto prima del manifestarsi della pandemia Covid-19: non so ancora se la mia menzione di un’ecatombe sia una banale coincidenza, indichi che sono (vagamente) veggente o che porto sfiga…

MERGELLINA E LE MADRI

(di Maria G. Di Rienzo)

Mergellina,

Mergellina…

Dentro questa barca fammi sognare

Rema per me

Non mi svegliare

(Serenata a Mergellina – Mario Abbate)

PROLOGO.

Svegliarsi di soprassalto, o comunque senza una ragione specifica ma con tutti i sensi all’erta, era abbastanza usuale per Lin. In un movimento automatico saggiò sotto la coperta il posto accanto al suo e ritirò la mano di scatto, con un dito leggermente morsicato e un misto di irritazione e sollievo: la piccola era sveglia ma non ancora incline a uscire dal bozzolo. Dall’unica finestra della stanza occhieggiava il bagliore velato di un’alba di pioggia. Forse erano state le gocce che picchiettavano con forza sul vetro a destarla. La testa le doleva un poco, le tempie pulsavano. Aveva bevuto, la sera prima? Probabile, a conclusione di un viaggio e ad avvenuta consegna della merce e riscossione del pagamento relativo un paio di brindisi erano quasi un obbligo… forse più di un paio, sì, però non ne aveva memoria. Aguzzò lo sguardo nella penombra. C’erano decorazioni sulle pareti che non distingueva bene, c’era un armadietto laccato, c’era un comodino con una tazza sopra – e nella sua mente nessuna associazione.

Per un attimo fu stretta in una vertigine d’ansia: non ricordava il giorno precedente, ne’ in quale Atollo si trovava, chi era il cliente, se quella camera in cui aveva dormito l’aveva affittata o se era ospite di qualcuno… Annaspò, premette convulsamente le mani sul petto. Qualcosa a mezzo fra un gemito e un ululato le si stava gonfiando in gola, ma proprio quando pensava che non sarebbe più riuscita a trattenerlo le tende rosse e nere che davano su un altro vano, probabilmente la cucina, si aprirono frusciando e Lin trasse un respiro profondo e lo ricacciò indietro. L’apparizione del giovane uomo in tunica e pantaloni corti, con una lanterna in mano e una treccia castana semi-disfatta spiovente su una spalla, aveva messo a posto di colpo la catena degli eventi. Lo riconosceva. Sapeva il suo nome, uno di quei bizzarri nomi englesiani le cui lettere scritte non corrispondevano alla pronuncia comune e dovevano essere interpretate. Geid – Jade. L’ambiente non era più estraneo e vagamente minaccioso, ma il familiare alloggio di Jade alla locanda “Terraterra” in quel di Triade-Maratea, e Lin vi era stata più volte.

Si osservarono, lui con un sorriso schivo, lei annuendo e sfregandosi la fronte. Quel maledetto ticchettio sulla finestra la irritava incomprensibilmente.

“Ero venuto a vedere se vi eravate alzate. Sto preparando la colazione.”, disse il ragazzo a voce bassa.

Lin annusò l’aria e riuscì a rispondere con solo una traccia di tremito nella voce: “Fonduta di groviglio, come al solito?”

“Si chiama budino di floristella. – corresse lui ridacchiando – In pratica, hai appena dimostrato di saperlo, un piatto nazionale per tutti gli Atolli. E oggi è anche speciale, perché ho usato la farina più costosa, quella dolce… piacerà a Ninni. Dorme ancora?”

La donna osò un’occhiata sollevando cautamente un lembo di coperta e rilasciandolo in tutta fretta: “Sonnecchia.” Gettò le gambe fuori dal letto e non appena fu in piedi si accorse di non avere addosso nulla oltre ai tatuaggi tipici della sua gente. Fissò ancora Jade, questa volta sgranando gli occhi: “Tu… noi… abbiamo fatto qualcosa ieri notte?”

Il giovane si umettò le labbra e distolse lo sguardo. “Qualcosa.”, ripeté divertito in direzione della finestra. Aggrottò le sopracciglia per un momento, guardando il vetro su cui le gocce sembravano accanirsi.

“Cioè… nel letto con la piccola?!” Le mani di Lin annaspavano sul pavimento in cerca di indumenti.

“No, sul divano. – Jade indicò con il pollice la stanza alle sue spalle – Tua figlia era qui e sognava già.”

Infilandosi la camicia Lin imprecava tra sé. “Ero ubriaca, sì?”

“Di solito quando mi salti addosso lo sei.”

“Va bene, va bene. Spero sia stato divertente, perché al momento non…”

“La pentola.”, concluse lui sparendo fra uno svolazzar di tendaggi. Lin ricadde a sedere fra i cuscini e questa volta si grattò la testa, passando poi il palmo avanti e indietro sul taglio a spazzola dei suoi capelli corvini. Non avrebbe dovuto tornare sempre da lui quando attraccava in loco. Era come se lo incoraggiasse per malignità, certa che poi lo avrebbe deluso. Conosceva il ragazzo da quattro anni e da quasi subito aveva saputo di rivestire per lui un’importanza particolare… non corrisposta. Eppure Jade le piaceva. Conversare con lui, passeggiare con lui, mangiare con lui, fare sesso con lui, erano tutte attività gradevoli.

Vederlo sul palcoscenico del “Terraterra”, come membro di un tradizionale duo comico, era spesso esilarante e al minimo serviva a distrarla: si erano presentati proprio dopo una delle sue esibizioni, perché da alticcia Lin aveva insistito per complimentarsi con lui personalmente. L’altro attore era secondo lei uno stronzo fatto e finito che, oltre a predare il talento del compagno più giovane, usava la posa da severo mentore per umiliarlo dietro le quinte senza ragione alcuna. In qualche occasione ne aveva parlato con Jade, ma il giovane si limitava a scrollare le spalle e a ripetere che non voleva dar peso all’atteggiamento di Norino (così si chiamava il suo collega), che ribattere o protestare l’avrebbe incoraggiato, che non si sentiva offeso e che comunque alcuni dei suoi rimproveri avevano fondamento.

Lei si era chiesta se la struttura stessa di quel tipo di cabaret proprio degli Atolli rendesse inevitabile una certa dose di sopraffazione nel loro rapporto: esso prevedeva infatti l’interazione fra un saggio e onesto adulto, in quel caso il quarantenne Norino, e un giovincello malizioso e dispettoso quanto sciocco. Nella sceneggiata quest’ultimo poteva essere il figlio, il fratello minore, l’allievo o il discepolo che per quanti consigli affettuosi o veementi reprimende ricevesse insisteva a combinare guai. Gli scambi fra la coppia erano fuochi d’artificio verbali, freddure e fraintendimenti e giochi di parole creati in perfetta alchimia in cui si prendevano di mira l’un l’altro e sfottevano il mondo a 360°: ma l’azione da parte dell’adulto diventava via via simbolicamente sempre più violenta, sino a poter prevedere nel finale l’impartire al ragazzo una “buona lezione” a schiaffi, calci e bastonate. La sconfitta rituale del personaggio pestifero era accolta con tripudio dal pubblico degli Atolli, sembrava una sorta di catarsi in cui perdevano il ruolo di spettatori e contribuivano al castigo del reo scatenandosi nell’urlare incitamenti e insulti e talvolta lanciando oggetti sul palcoscenico. Accadeva, per quanto occasionalmente, che Jade uscisse di scena con un paio di lividi, sia perché un lancio dal pubblico lo aveva raggiunto, sia perché Norino aveva usato “troppa energia” o gli era “scivolata la mano”. Era la parte della rappresentazione che a Lin non piaceva molto, quella da cui era più distante per cultura essendo una nativa delle Palafitte. Sapeva però come si era originata secoli prima, durante l’Ecatombe: il virus prosperava con feroce intensità ed era assai contagioso negli individui sotto i 25 anni, i quali mostravano tutti i sintomi del caso, però sopravvivevano più facilmente. Mentre si tentava curarli essi infettavano altre persone a catena, quelle in particolare che non potevano o volevano isolarsi da essi, madri, padri, sorelle, fratelli, guaritori, sacerdoti… e costoro morivano come mosche. Dopo un lustro di decessi di massa il termine “bambino” divenne in pratica sinonimo di “untore”. Sua madre le aveva raccontato al proposito una discreta serie di storie macabre e raccapriccianti, in cui genitori si radunavano a macellare figli durante cerimonie espiatorie o li annegavano alla nascita e in cui bambini demoniaci tendevano subdoli agguati agli adulti sputando nella minestra della zia e pisciando nelle ciabatte del nonno. Lin scrollò inconsciamente le spalle. Di norma la infastidiva pensare alla propria madre, nei casi peggiori la infuriava addirittura. Si erano definitivamente separate alla nascita di Ninni e non in buoni termini. L’infanzia di Lin era comunque stata un’inusuale fiera dello scetticismo e della sfiducia: aveva smesso di credere alla donna che l’aveva messa al mondo così presto da considerarla un’estranea prima della pubertà.

A posteriori, pensava che quei racconti dell’orrore potevano essere eco distorte e amplificate di casi sinistri davvero avvenuti. Poi l’epidemia decrebbe, i nuovi nati erano sempre più immuni e molto tempo dopo la sua cessazione il risentimento generale verso giovani e giovanissimi si era calcificato, nel sistema dell’arcipelago, in una più o meno innocua formula teatrale.

Jade aveva appena compiuto 23 anni e ad ogni modo non avrebbe recitato la parte del marmocchio scemo per sempre, rifletteva Lin. Era un artista appassionato e versatile che sapeva esprimersi con la pittura, la poesia e il canto, era una mente aperta intellettualmente curiosa di tutto. Prima o poi si sarebbe lasciato Norino alle spalle, trascinato via dalla sua stessa eccellenza. Ma, per qualche folle ragione, questo individuo notevole era rimasto folgorato da una comune traghettatrice indipendente, più vecchia di lui, che trasportava piccoli carichi e passeggeri in giro per l’arcipelago e le cui abilità consistevano nello sfruttare venti e correnti, nel manovrare una pagaia con energia e nel contrattare il proprio prezzo a denti stretti e pugni chiusi che potevano diventare pugni sui denti quando doveva sfuggire a quelli che si chiamavano saccheggi se a compierli erano contrabbandieri, o sequestri se erano effettuati dai forzatori legali di qualche Commissariato.

Quel che Jade voleva da lei era una convivenza stabile e stanziale. Se proprio desiderava continuare a maneggiare remi e sacchi, le aveva detto, poteva cercare un impiego formale nel commercio a Triade-Maratea. Alcune delle sue argomentazioni Lin non le considerava insensate: ad esempio, che lei e la bimba corressero rischi su base quasi quotidiana era ovvio. Tuttavia non poteva piegarsi a dimorare in modo permanente in un luogo qualsiasi e meno che mai su un Atollo. Gli abitanti delle terre ferme tolleravano per necessità il fradiciume – era il termine meno offensivo e più comune con cui definivano i nativi delle Palafitte, i quali per ritorsione li chiamavano con uguale disprezzo satolli – che spesso costituiva la bassa manovalanza delle loro economie e Lin, se aveva qualche soldo in tasca, poteva entrare nelle loro taverne e botteghe senza aspettarsi assalti o discriminazioni. Ninni, però, era tutt’altra faccenda. Il mondo intero la descriveva come “malformata” e solo per Lin – e per il tenero Jade, sin dal loro primo incontro – era semplicemente “formata a modo suo”. Se per stili di vita, valori e attitudini Atolli e Palafitte cozzavano su tutto, a un solo sguardo sulla bambina concordavano: avrebbe dovuto essere soppressa alla nascita, non era adatta a un’esistenza normale e comunque per conformazione non l’avrebbe mai avuta, il suo aspetto era ripugnante.

Ninni aveva quasi cinque anni e non aveva mai imparato a camminare: le sue lunghe elastiche gambe che terminavano in grandi piedi palmati la rendevano una nuotatrice provetta e velocissima, ma sul suolo perdeva l’equilibrio, tendeva a incespicare e riusciva a procedere solo a piccoli balzi. Fuori dall’acqua Lin continuava a portarla sulla schiena, imbracata in un sostegno di stoffa come una neonata. Ninni aveva anche difficoltà a parlare in modo del tutto comprensibile, glielo impedivano le grandi ossa mascellari allungate e una bocca con una doppia fila di denti micidiali. Assieme alla fronte alta e agli occhi rotondi e un po’ sporgenti tali particolarità contribuivano a suggerire la somiglianza con le fattezze di un pesce. Quel viso singolare era incorniciato da una cascata di capelli folti e mossi, di uno splendido e raro rosso fiammante, ma come per tutte le altre sue caratteristiche, comprese quelle diverse dall’usuale, Lin non avrebbe saputo dire da chi la avesse ereditata.

Il padre di Ninni era un palificato come lei, bruno e dalla pelle dorata, suo compaesano in quel di Romita Sacra: ossia il centro politico, culturale e spirituale degli agglomerati delle Palafitte in cui stranieri di terraferma non erano ammessi sin dalla sua fondazione e le unioni miste erano respinte oltre le paludi con draconiana fermezza.

Non c’era modo di dire se le differenze di Ninni risalissero all’ascendenza paterna. La reazione orripilata del giovane uomo alla vista della piccola aveva peraltro spento in Lin ogni residuo interesse per lui. L’unica cosa per cui gli era grata era l’averle regalato la propria barca, nuova e perfetta, affinché potesse andarsene con la neonata. Lin usava ancora quella stessa imbarcazione, in attesa di risparmiare abbastanza per acquistarne una più grande.

Per quanto riguardava la sua, di ascendenza, be’, lei era figlia di una Graud Madra “certificata” dagli Spiriti – una donna che aveva compiuto dieci volte il Pellegrinaggio di Gravidanza e aveva messo al mondo dieci figli sani… come pesci. Lin guardò la testolina di Ninni che emergeva tentennante dalle lenzuola e sogghignò al pensiero, con una traccia d’amarezza. Dei dieci, suo fratello Arone mancava all’appello: si era ammalato di salina durante l’infanzia e per quella non c’era granché si potesse fare.

Gli sguardi di madre e figlia si incrociarono. “Pi-pì.”, sillabò la bimba sporgendo un po’ le labbra.

“Buona idea, – replicò Lin prendendola tra le braccia – vengo anch’io.”

Quando furono uscite dal bagno e Ninni fu sistemata a tavola con una generosa razione di budino, tisana di frutta e biscotti, Jade tirò in modo discreto Lin per un gomito e la riportò in camera di letto.

“Che diamine, vuoi una replica? Credevo mi avessi offerto la colazione.”, protestò scherzosamente lei.

“La pioggia. – sussurrò grave lui – Non senti niente?”

La donna si girò verso la finestra. Il ticchettio era ancora forte e insistente, cominciava ad essere davvero tormentoso. “Vorresti dire?”

“Fuori pioviggina. E’ solo sul mio vetro che si sta accanendo in quel modo. E’ un messaggio climatico.” Lin si irrigidì.

“E qui c’è solo una persona in grado di comprenderlo e a cui quindi potrebbe essere diretto. – proseguì il ragazzo – Tu.”

I magusci delle Palafitte mi hanno trovata? “Come” non era la domanda successiva che Lin si pose, i manipolatori atmosferici potevano rintracciare chiunque fosse stato addestrato all’ascolto e ogni palificato, come lei, riceveva tale insegnamento sin da bambino, pur profittandone in misura variabile secondo le sue personali capacità. Quel che si stava chiedendo, con terrore sottile e strisciante, era perché.

Rimase immobile per circa un minuto, a occhi chiusi, con la testa leggermente chinata e le braccia allargate verso l’esterno prima che la percezione della presenza di Jade al suo fianco svanisse. Lasciò che la pioggia le parlasse, che il suono disegnasse figure e concetti nella sua mente. Non ci volle molto, il messaggio era breve. Lin respirò profondamente sollevando il busto, il capo si raddrizzò, le palpebre si sollevarono, le braccia ricaddero.

“Adesso capisco il motivo per cui continuavo a pensare a lei.”, mormorò.

Jade la fissava apprensivo: “Cos’è successo?” Lin gli voltò per un attimo le spalle. Il picchiettio rallentò e dopo una manciata di secondi si spense.

“Zulma di Romita Sacra è morta.”, annunciò infine la donna.

“Prego?”

Lin si girò. Il suo viso era privo di espressione, ma le lacrime le correvano sino al mento. “Mia madre.”, aggiunse soltanto. Il giovane non disse nulla e la strinse a sé.

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I can hear it

Posso sentirlo (lo sento)!

Il suono della… spazzatura misogina!

Deena Mohamed, artista egiziana, ha cominciato a disegnare fumetti a 18 anni creando sul web la supereroina Qahera dell’immagine (se ci aggiungete l’articolo determinativo il nome di Qahera diventa “Il Cairo”, dove Deena vive) che combattendo contro la misoginia e l’islamofobia si è guadagnata fama, seguaci e premi.

La disegnatrice adesso di anni ne ha 26 e sta lavorando alla innovativa, umoristica, profondamente emotiva e magica trilogia “Shubeik Lubeik”, anch’essa pluripremiata e pubblicata in arabo e inglese, il cui volume finale dovrebbe uscire nel 2021.

Shubeik Lubeik

Nell’Egitto di fantasia che essa ritrae i desideri sono letteralmente in vendita, giusto al chiosco all’angolo della strada, i più potenti e costosi in bottiglie e quelli per i poveracci in lattine. Stappando il contenitore, appare un genio fatto di caratteri di calligrafia araba che chiede: “Qual è il più grande desiderio del tuo cuore?”

La difficile domanda con cui si legano l’una all’altra storie e identità diverse che chiamano l’Egitto la propria casa.

Maria G. Di Rienzo

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Toni Truesdale

“Storia e Mitologia hanno bisogno di includere senza restrizioni le storie di tutte le donne.

La prospettiva femminile dovrebbe riflettersi nell’estetica, nei valori, nella spiritualità e nella moralità.

Io sviluppo arte figurativa che mostra la naturale bellezza e intelligenza negli aspetti della vita multiculturale di sorelle, madri, figli, zie e nonne tutte: e celebro la nostra comunanza attraverso il tempo, la cultura comune delle donne che io chiamo il nocciolo invisibile.

Toni Truesdale (in immagine sopra), insegnante d’arte, disegnatrice e pittrice di murales, illustratrice contemporanea statunitense (trad. Maria G. Di Rienzo).

Tutto quel che vedete qui è opera sua.

eve out of africa

(Eva)

Harvest

(Il Raccolto)

toni murales

(Murale)

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“Io sono un’artista che si sta specializzando in primitivismo perciò per me la storia, in un dipinto, è assai più importante dei dettagli. Molti pensano che i primitivisti non sappiamo disegnare, ma in effetti si tratta di un’area artistica complessa e interessante: rappresentare qualcosa con il minimo numero possibile di linee è assai più difficile di quel che sembra.

La mia arte mancava di significato all’inizio. Quando sono diventata una femminista, ho cominciato a guardare le opere di varie donne artiste e anche i fumetti – storie in figure – e ho capito per la prima volta che l’arte poteva parlare di cose importanti. Ho capito che le artiste incorporavano un’agenda sociale e politica tramite il loro lavoro.”, Yulia Tsvetkova (in immagine).

tsvetkova

Lo scorso marzo sono stati revocati gli arresti domiciliari a Yulia, l’artista femminista e lesbica di cui avevo parlato qui:

https://lunanuvola.wordpress.com/2020/01/23/la-censura-e-questa/

Il 7 aprile Open Democracy, chiedendosi come mai un progetto educativo composto da illustrazioni sia diventato “pornografia”, ha pubblicato una lunga intervista a Yulia curata da Anna Kim. Di seguito, la traduzione di alcuni brani.

Perché pensi di essere stata liberata dagli arresti domiciliari? Perché è accaduto ora ed è stata una novità per te?

E’ stata una novità per me: ne’ io ne’ il mio avvocato ce lo aspettavano. Penso abbia in parte a che fare con le procedure burocratiche. Ci hanno messo tre mesi e mezzo per fare un’inchiesta e letteralmente dieci giorni fa hanno cambiato i dettagli dell’articolo in virtù del quale ero accusata e hanno fatto invece un’indagine. Si supponeva che dovessero arrestarmi di nuovo, ma non è accaduto. Il giudice voleva andare avanti ma il procuratore, con mia totale sorpresa, ha sostenuto la nostra parte.

I detective avevano chiesto inizialmente che i miei arresti domiciliari fossero inaspriti con il bando ad ogni comunicazione e all’accesso a internet, perciò le cose avrebbero potuto andare in modo molto diverso. Non posso chiamarlo un disgelo o una dinamica positiva, può essere stata solo una coincidenza, il che è molto comune.

Ma il tuo caso non è ancora chiuso?

No, adesso sono ufficialmente una sospettata, ho la notifica in cui mi si sospetta di aver commesso il crimine relativo alla diffusione di pornografia. Alcuni media hanno detto, sbagliando, che non sono stata accusata di nulla, ma l’annuncio dell’incriminazione avviene alla fine del procedimento, davanti a una giuria, quando l’indagine è finita e c’è il rinvio a giudizio, perciò è ancora troppo presto per incriminarmi.

Nel tuo post su Facebook, in cui dici di essere stata rilasciata dagli arresti domiciliari, hai scritto che la pubblica accusa aveva “grandi piani” per te. Cosa significava?

Durante le sedute in tribunale la pubblica accusa, chiedendo l’estensione del mio stato di arresto, ha elencato tutto ciò che avrebbe fatto durante le udienze: interrogare mia madre e ogni membro del mio gruppo sui Monologhi della Vagina; controllare i miei account e chiamare a testimoniare un bel po’ di esperti: in campo artistico, psichiatrico, informatico. Potrei dover affrontare un secondo arresto: ancora non è chiaro, ma il caso non è chiuso.

Da quando ricevi minacce dal gruppo omofobico “Pila protiv LGBT (Saw contro LGBT: il gruppo si ispira al film horror omonimo, chiama alla violenza contro le persone omosessuali e mette online i loro dati privati, come indirizzo e numero di telefono, organizza aggressioni durante le manifestazioni del Pride, eccetera)? Che sta facendo la polizia al proposito?

Il movimento “Saw” è in giro da un paio d’anni, dal 2017-2018. Io non ero un’attivista all’epoca e non una singola istituzione, inclusi l’FSB (Servizi federali per la sicurezza della Federazione russa) e il Centro per il contrasto all’estremismo, è stata in grado di scoprire gli autori della lettera di minacce (ricevuta da Yulia e da altre/i). Li abbiamo cercati da noi e abbiamo fatto denunce.

La prima volta in cui mi hanno minacciata direttamente è stata nell’estate del 2019 quando io, assieme ad attiviste/i di ogni parte della Russia, sono finita nella cosiddetta “Lista Pila” e ho fatto denuncia. E’ stato solo di recente che l’FBS ha risposto dichiarando che si trattava di non luogo a procedere.

Quel che è stato buffo è che io dovevo fornire prove delle minacce al poliziotto che aveva in carico i miei casi penali e civili. In altre parole, questo tizio stava raccogliendo prove incriminatorie contro di me, mentre allo stesso tempo io dovevo fornirgli prove in mia difesa.

Il 18 marzo scorso nuove minacce, con il mio indirizzo e numero di appartamento, sono arrivate per posta. Questa volta chiedevano 250 bitcoins prima del 31 marzo, altrimenti mi avrebbero uccisa. Dopo le prime minacce la polizia ci ha messo sei settimane per dirmi che non poteva fare niente e consigliarmi di non uscire di casa e di prendermi un cane. Le uniche domande che mi hanno fatto durante la nostra conversazione miravano a sapere se disegno pornografia e se vado a letto con le donne, perciò sarebbe stato futile chiedere aiuto da quella parte.

Allo stesso tempo, quando ricevo mail di odio dagli omofobi, la cosa si risolve in un paio di giorni. Se qualcuno pensa si tratti di un bello scherzo va bene, ma troviamo l’umorista e diciamogli che non è divertente.

[Nota dell’editore: Yulia Tsvetkova ha riportato su FB il 2 aprile di aver ricevuto nuove minacce da “Saw”.]

Cosa hai mente di fare in futuro? Tornerai all’attivismo, al teatro, all’attività su internet e al lavoro educativo?

Non ho idea di cosa farò, c’è ancora la possibilità che io vada in prigione per un periodo compreso fra i due e i sei anni. La mia attività qui è stata tagliata alla radice. Tutto quel che ho fatto negli scorsi due anni è svanito e non ho nulla di pronto per il futuro. Ci sono alcuni appunti e progetti che amerei sviluppare, ma non è realistico pensarlo, al presente. Ma certamente voglio essere coinvolta nel teatro e nell’attivismo pro diritti umani in Russia o da qualche altra parte.

Yulia Tsvetkova illustration

(un dipinto di Yulia)

Maria G. Di Rienzo

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paper dreams

La questione “accesso all’editoria” – difficoltà, respingimenti, negazioni – è una costante dei miei dialoghi virtuali con altre persone (amiche e amici, conoscenti, sconosciute/i).

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/08/06/che-mi-dici-dei-libri/

Di recente ha preso la sfumatura “editoria femminile / femminista” e ovviamente si tratta di una coloritura che mi piace.

La mia visione iniziale, che non la prevedeva a priori e riguardava i generi più penalizzati, sf e fantasy, era questa:

– creazione di una cooperativa composta unicamente da autori e autrici (per la struttura mi rifacevo a predecessori come la Cooperativa del libro popolare, poi Universale Economica);

– l'”unicamente” riguarda il desiderio di non aver a che fare con critici da strapazzo, tuttologi amici degli amici e perditempo vari: l’editing, se necessario, diventerebbe responsabilità condivisa fra i soci della Cooperativa;

– ritenevo invece indispensabile far salire sulla barca artisti, illustratori e grafici che condividono le nostre passioni;

– immaginavo un luogo in cui tutti fossero editori, direttori editoriali, consulenti editoriali (lettori specializzati), correttori di bozze e mettessero a disposizione le proprie conoscenze e il proprio tempo, liberamente, gli uni per gli altri;

– ipotizzavo una raccolta fondi su più livelli e l’individuazione di una sede legale e di una stamperia: quest’ultima è un punto importante per me, perché l’idea di una casa editrice solo digitale non mi convince e non voglio rinunciare alla “macchina per lettura” più efficiente che esista, il libro di carta. Non ha bisogno di pile o batterie o reset, non lo devi caricare, si attiva non appena apri la copertina e te lo porti dietro dappertutto in borse non specializzate. (I maniaci come me lo annusano persino e vi assicuro che l’odore di un tablet non è paragonabile…);

– poi veniva la parte tecnica per la costituzione di una casa editrice: l’iscrizione al registro delle imprese presso la Camera di Commercio e l’acquisizione di codice fiscale e partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate.

Quanto di tutto ciò può entrare nella fondazione di una casa editrice femminile / femminista come ognuna di voi la immagina? Quanto il mio sogno di carta collima con i vostri? Sono le domande che pongo alle amiche / conoscenti / sconosciute di cui sopra.

Maria G. Di Rienzo

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Yulia Tsvetkova

Dallo scorso dicembre, la 26enne russa Yulia Tsvetkova – in immagine sopra – è agli arresti domiciliari per due mesi: le è stata imposta una cavigliera elettronica e ha il divieto di comunicare con chiunque, fatta eccezione per sua madre e il suo avvocato. Il prossimo processo a suo carico potrebbe risultare in una condanna a sei anni di carcere.

No, non è una serial killer – è un’artista femminista e pro diritti umani delle persone lgbt. Le orribili azioni che ha commesso sono ad esempio l’aver allestito “I monologhi della vagina” con un gruppo teatrale giovanile, l’aver usato i suoi spazi social per diffondere messaggi positivi sulle donne e sulle persone omosessuali, l’aver creato campagne artistiche come “Una donna non è una bambola” (#женщина_не_кукла), fatta di sei immagini da lei disegnate e corredate da testi quali “Le donne reali hanno peluria corporea e ciò è normale”, “Le donne reali hanno le mestruazioni e ciò è normale”.

Yulia serie

Tale attività, per le autorità russe, sarebbe “propaganda rivolta a minori di relazioni sessuali non tradizionali” (gli account di Yulia, secondo la legge del suo paese, sono chiaramente segnalati come 18+) e “produzione e divulgazione di materiali pornografici”, per la quale le è stata comminata una multa di 50.000 rubli. Durante tutto il 2019 l’artista è stata più volte tenuta arbitrariamente in stato di fermo, interrogata e minacciata dalle forze dell’ordine.

Fiorello, Amadeus, Junior Cally e compagnia frignante: la censura è questa.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “We Contribute to Diversity”, di Olowaili “Madre de las estrellas” – “Madre delle stelle” Green Santacruz, per Cultural Survival, dicembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice è ritratta qui sotto.)

madre delle stelle

Noi Guna siamo un popolo dalla doppia nazionalità con una comunità a Panama e due in Colombia – una in campagna e l’altra in città.

Io vivo nella regione Guna di Abya Yala. Ho vissuto a Medellín da quando avevo 7 anni e ora ne ho 26. Sto terminando l’ultimo semestre di studi sulla comunicazione audiovisiva e sono una produttrice di audiovisivi e una direttrice culturale: la mia compagnia, che si chiama sentARTE, lavora per promuovere la diversità etnica e di genere.

Nella nostra tradizionale spirituale Guna, gli dei hanno mandato un uomo e una donna, ma poi hanno mandato anche una terza persona, un essere non definito per genere.

Dall’età di 12 anni sapevo che la mia preferenza sessuale era diretta verso le donne. E’ stato molto difficile per me, perché in numerose comunità indigene c’è un bel po’ di machismo e si richiede alle donne di assumere ruoli determinati. All’inizio è stata dura, perché le mie preferenze non erano accettate. A 15 anni avevo una partner che mi ha aiutato molto e fu allora che decisi di parlare ai miei genitori di lei. I miei genitori mi hanno accettata, ma è stata dura anche per loro.

Dopo aver discusso la faccenda con la mia famiglia, non mi sono più preoccupata di quel che pensava la gente, anche se esercito discrezione per sostenere i miei parenti.

Definire me stessa è un atto politico e con esso è arrivato il desiderio di essere un’attivista. Questo non è facile per una donna perché i testi che definiscono l’identità culturale, e che ci sono imposti, contengono troppe oppressioni di genere. Sarà una lunga lotta, ma io sento di avere il compito di aiutare altre donne, in special modo le donne indigene, i cui ruoli prescritti le opprimono doppiamente. Io non ho problemi nell’identificarmi dentro il termine LGBTQIA+. Al di là di tutto, io sono un essere umano che vuole amare un altro essere umano.

Dobbiamo istruire la società affinché essa sia informata, perché noi non siamo gente “stramba”. Siamo uguali. I miti per cui saremmo i portatori dell’AIDS devono essere banditi. Tale istruzione deve cominciare a scuola, con i bambini. Bisogna instillare educazione per suscitare consapevolezza nella società. Gli uomini gay in Colombia sono raffigurati molto male, le lesbiche meno ma ad esse si appiccica la falsa aura della bisessualità, tipica delle fantasie sessiste.

La mia professione si adatta perfettamente alle lotte dei popoli indigeni. Il fatto che vivo in città, separata dalla comunità, è disprezzato però partecipo ancora agli incontri comunitari guidati dai caciques (capi). Come persona indigena urbanizzata ho incontrato grande ignoranza rispetto ai popoli indigeni: la mia compagnia è stata creata proprio per salvaguardarli e renderli visibili. Ho realizzato un documentario per la televisione che sarà trasmesso in gennaio e che parla del potere femminile nelle comunità.

Il mio lavoro contribuisce alla costruzione di una società maggiormente egualitaria. Contribuiamo alla visibilità delle nostre culture indigene e della diversità in generale.

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portrait of a lady on fire

Ancora oggi, per molti critici e opinionisti e sedicenti studiosi è difficile accettare che le persone omosessuali siano sempre esistite. Quando le vicende relative a un personaggio storico rivelano senz’ombra di dubbio una relazione con un individuo del suo stesso sesso, costoro fanno salti mortali per descriverla come “amicizia” con l’aggiunta di precisazioni che dovrebbero escludere vi sia implicato l’amore – riservato alle coppie eterosessuali – per cui saltano fuori descrizioni del tipo amicizia “romantica”, “forte”, “stretta”, “esclusiva” ecc.

Stracciare questo fondale è uno dei motivi che rendono importante il film francese “Portrait de la jeune fille en feu” – “Ritratto della giovane in fiamme”, vincitore della “Palma Queer” a Cannes e che in Italia sarà nelle sale il 19 dicembre 2019.

Diretto da Céline Sciamma, ha come protagoniste Noémie Merlant nel ruolo della pittrice Marianne e Adèle Haenel nel ruolo di Héloïse, la giovane del titolo (in immagine sopra). Siamo in Bretagna, nel 1760, ove Marianne è ingaggiata dalla madre di una giovane nobile appena uscita dal convento affinché dipinga segretamente un ritratto di costei: il quadro sarà poi inviato al suo pretendente a Milano. La realizzazione del dipinto era stata commissionata in precedenza a un altro artista che aveva rinunciato a causa della inflessibile resistenza di Héloïse, che non vuol essere ritratta e soprattutto non vuole sposarsi. Perciò, Marianne le è presentata ufficialmente come dama di compagnia: deve osservarla durante il giorno e dipingerla la notte.

Nel mentre la loro intimità cresce, cresce anche l’attrazione reciproca. Marianne, dapprima mera spettatrice degli slanci della giovane verso la libertà, gradualmente li condivide e ne diventa partecipe e complice. Una volta conosciuta la verità sul lavoro affidato all’artista, Héloïse accetta di posare ma quel quadro è anche una sorta di data di scadenza imposta alla relazione fra le due.

Il fuoco simbolico del titolo si concretizza più volte nella vicenda: per esempio quando la gonna di Héloïse si incendia durante una danza notturna con altre donne attorno a un falò, o quando Marianne brucia la prima versione del dipinto dopo aver ascoltato le critiche di Héloïse, ma è dall’ardore con cui quest’ultima vuol essere padrona della propria vita che scaturisce la decisione dell’artista di nominare il quadro come “Ritratto della giovane in fiamme”.

Maria G. Di Rienzo

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vida nueva

La “nuova vita” del titolo è il nome di una cooperativa artigiana di donne indigene messicane (alcune le vedete in immagine con i tappeti che producono) fondata nel 1996 da Pastora Asunción Gutiérrez Reyes. Il suo scopo era ed è dare opportunità economiche, diritti umani e sogni a donne in condizioni difficili – vedove, madri single e vittime di violenza domestica costrette a lottare ogni giorno con gli svantaggi posti su di loro da una società patriarcale e machista. Ma l’intento iniziale si è ovviamente ampliato con il tempo: a Vida Nueva vogliono che le bambine e le ragazze possano andare a scuola e che le donne abbiano abbastanza potere da decidere cosa vogliono fare delle loro esistenze, perciò investono energie, tempo e denaro in progetti comunitari diretti a tali fini: negli anni hanno per esempio fornito assistenza sanitaria gratuita e creato un sistema di riciclo rifiuti. Tessere a Teotitlán era loro originariamente proibito, in quanto “lavoro da uomini” (vedete quanto arbitrari sono gli stereotipi di genere?), ma per fortuna di tutti/e se ne sono fregate.

Global Citizen ha raccontato la loro storia in un documentario qui:

https://www.globalcitizen.org/en/connect/activate/episode1/

Inoltre, ha pubblicato in settembre una lunga intervista con una socia della cooperativa, Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes, di cui riporto un brano. (Silvia è l’unica del gruppo ad aver frequentato l’università ed è quella che nel 2004 parlò alle Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani subite da bambine e bambini indigene/i)

Global Citizen: Quante sfide avete affrontato da quando iniziaste?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Durante questi 22 anni abbiamo visto cambiamenti. Dapprima tutti ci criticavano e dicevano che eravamo pazze. Ci hanno anche chiamate prostitute e donnacce, ci hanno rigettate e guardate male. Ma ora, con tutto il lavoro che abbiamo fatto, abbiamo guadagnato il rispetto della gente nella comunità. Molte persone ora dicono che non pensavano le donne potessero portare alla comunità qualcosa di buono. Grazie a tutto il lavoro svolto ora le donne possono decidere, abbiamo imparato di più sui nostri diritti e abbiamo fatto in modo che ci rispettassero.

Global Citizen: In che modo percepisci che i cambiamenti hanno avuto impatto sulle vostre vite?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Ora possiamo dire forte e chiaro “NO” quando gli uomini ci dicono qualcosa di sbagliato. Abbiamo imparato a difendere le nostre idee e quel che vogliamo fare. Le nostre figlie stanno già studiando, un grande risultato considerato che nel passato non ricevevamo sostegno dalle nostre famiglie per studiare o viaggiare. La maggioranza delle donne di Vida Nueva non è andata a scuola e persino Pastora, la fondatrice, ha finito solo le elementari. Ora per noi è più facile creare documentazione, cercare sostegno, preparare i nostri seminari eccetera.

Global Citizen: I vostri prodotti artigianali non sono solo grande arte ma preservano anche il valore della cultura Oaxaca. Puoi darmi qualche dettaglio sul valore che sta dietro i vostri prodotti?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Il nostro lavoro si concentra sulle tecniche ancestrali. Ogni pezzo che produciamo ha un processo ancestrale, creativo e innovativo. Ciò che di certo rende il nostro lavoro speciale è che ancora ci basiamo sulle tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione. Usiamo tinture naturali che vengono da piante, frutti o insetti come la cocciniglia del carminio. Per innovare abbiamo lezioni di disegno e colorimetria e poi usiamo le nuove tecniche e le fondiamo con le antiche.

Ciò che dà un valore unico ai nostri pezzi è la qualità di cui cerchiamo di aver cura in ogni prodotto. L’intero processo prende approssimativamente tre mesi, perché elaboriamo il materiale grezzo, raccogliamo le piante o prepariamo i pigmenti. Ogni donna mette non solo il suo talento nel suo tappeto, ma anche il suo cuore e la forza di una donna che lotta per una nuova vita.

La cosa importante nel nostro lavoro, e per noi, è che ogni pezzo ha un significato speciale. E nella maggior parte dei casi, questi significati parlano di liberà, sogni e sfide che noi come donne vogliamo realizzare.

Maria G. Di Rienzo

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Quando ho imparato

angelica frausto

Ho imparato che l’aggressione sessuale era normale mentre stavo sull’autobus che mi portava a casa dalla scuola superiore.

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Qualcuno ha riso mentre succedeva.

Qualcuno ha lanciato occhiatacce.

Nessuno mi ha aiutata.

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Sapevo che l’aggressione sessuale era una cosa sbagliata…

Perciò forse non era quello che era successo a me.

Se fossi stata davvero assalita qualcuno mi avrebbe aiutata, giusto?

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Ho imparato che l’aggressione sessuale era normale quando l’autista dell’autobus ha continuato a guidare.

(Su sfondo giallo: Anch’io.)

E nessuno ha detto una parola.

Angelica Frausto, 2017 – trad. Maria G. Di Rienzo

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