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Brujas

In Messico, le misure di quarantena per il coronavirus hanno avuto lo stesso impatto sulle donne che si è verificato ovunque: aumento dei casi di violenza domestica (le denunce alla polizia registrano il 25% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente), aumento del carico di responsabilità familiari, perdita del lavoro (giacché la maggioranza di coloro che operano nel settore “informale” dell’economia sono donne), eccetera. Lo stato di Veracruz, lockdown o meno, è quello con la più alta percentuale di femicidi / femminicidi: e in tale stato, sempre come sta accadendo altrove, a sostenere le donne in difficoltà sono le femministe.

Qui si chiamano Brujas del Mar (Streghe del Mare), hanno alle spalle l’organizzazione degli scioperi dell’8 marzo, durante la quarantena hanno creato una linea telefonica di soccorso per la violenza domestica, gestiscono un efficace sistema di aiuti alimentari per le donne e stanno mettendo insieme una rete per la consulenza legale gratuita alle vittime di violenza. Le Streghe sono giustamente famose in Messico e ricevono richieste di assistenza – soprattutto per trovare rifugi o denunciare perpetratori – non solo dalla loro regione.

Brujas del Mar ha avuto inizio come gruppo ristretto di quindici femministe su Facebook, per diventare nel giro di un anno una delle organizzazioni chiave per la mobilitazione, l’informazione e l’azione diretta delle donne messicane. Le Streghe si autofinanziano e raccolgono fondi vendendo bandane e portachiavi. Non devono niente a nessuno e stanno facendo un lavoro straordinario.

arussi unda

“E’ come la storia di Cenerentola. – ha detto in marzo la portavoce 32enne del gruppo, Arussi Unda (in immagine sopra) alla stampa – Tutto parte dal villaggio sperduto, dal minuscolo collettivo, dalle donne-nessuno… ma prima o poi doveva accadere. Le donne in Messico non ne possono più. Non si tratta solo dell’ovvia crisi dei femicidi, ma di tutto quel che accade ogni giorno nelle case, nelle scuole, al lavoro. Non esiste un posto sicuro per noi donne.”

Maria G. Di Rienzo

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andres martinez casares-reuters

(Le dimostranti gettano vernice sulla porta del palazzo presidenziale – Città del Messico, 14 febbraio 2020)

Trasformate le nostre morti in uno spettacolo”: questa frase, detta dalle donne messicane durante la manifestazione illustrata sopra, è la chiave di volta attorno a cui ruota l’intero sistema della rappresentazione femminile nei media.

La vicenda sullo sfondo è quella della 25enne Ingrid Escamilla, uccisa a coltellate dal convivente – Erik Francisco, 46 anni – che immediatamente dopo l’omicidio squarta e spella in parte il cadavere.

Due quotidiani, La Prensa e Pasala, pubblicano foto esplicite del corpo macellato: il primo due volte, anche dopo la prima reazione online delle donne che hanno inondato i social di immagini di Ingrid che inneggiavano alla vita; il secondo con il titolo “E’ stata colpa di Cupido”.

A La Prensa si sono difesi dicendo che loro coprono crimini su cui il governo preferisce tacere (“Oggi comprendiamo che ciò non è stato sufficiente e stiamo entrando in un processo di profonda revisione.”) e dichiarando di essere aperti alla discussione sugli standard di pubblicazione. In altre parole, la manifestazione li ha spaventati, ma non hanno ancora capito dove hanno sbagliato.

Pasala, almeno sino a ieri, non ha risposto alle richieste di commento da parte dei colleghi messicani e stranieri.

Sull’assassinio di Ingrid è intervenuta anche l’Agenzia Donne delle Nazioni Unite: “Chiediamo azioni esaurienti per eliminare la violenza contro donne e bambine. Chiediamo completo accesso alla giustizia e non-rivittimizzazione per tutte. Ingrid non è un caso isolato.” Di media infatti, dicono le statistiche ufficiali, in Messico muoiono di femminicidio 10 donne al giorno. L’anno scorso la cifra ha segnato un nuovo record: 1.006 casi contro i 912 del 2018.

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(Le dimostranti in piedi davanti alla porta del palazzo presidenziale. Si leggono le parole “Ingrid” e “Stato femminicida” – Città del Messico, 14 febbraio 2020)

Le donne in piazza hanno denunciato l’inerzia del governo al proposito ma hanno ripetuto che della situazione “la stampa è complice”. E non è solo complice quando sbatte in prima pagina budella estratte da un cadavere accoppiandoci le alette di Cupido. E’ complice quando si arrampica sugli specchi per giustificare e coccolare gli assassini (stressati, abbandonati, disoccupati, depressi, vittime del raptus, “giganti buoni”), quando scarica la responsabilità sulle vittime (lo aveva lasciato, voleva lasciarlo, non ha denunciato: Ingrid lo aveva fatto, tra l’altro), quando inserisce di forza queste ultime nell’unica cornice in cui le donne possono apparire sui media: la “bellezza”.

Ingrid Escamilla, la bellezza che sopravvive

Ingrid Escamilla aveva 25 anni e grandi occhi neri

Il sorriso perduto di Ingrid

Sono tutti prodotti italiani: sorriso, grandi occhi e bellezza che sopravvive sospesa in aria, sopra un corpo atrocemente mutilato – le nostre preoccupazioni su come affrontare e sconfiggere la violenza scompaiono, Ingrid era bella, sarà bella per sempre, che sollievo!

In Messico, come in Italia, come ovunque, femministe, attiviste, artiste, scrittrici, ecc. regolarmente chiedono conto del modo in cui la violenza di genere è riportata dalla stampa.

In ambito internazionale (Nazioni Unite) da anni si firmano protocolli e si sottoscrivono impegni sulla rappresentazione mediatica delle donne.

Abbiamo tonnellate di studi e ricerche che spiegano perché e come essa giochi un ruolo cruciale nel creare e mantenere la violenza contro le donne.

La signora Nessuno, io, riesce a raggiungere tutte queste informazioni con incredibile facilità e si domanda costantemente perché alle redazioni esse sembrino non arrivare affatto.

Si domanda anche perché per essere viste e ascoltate – spesso solo di striscio e solo per un giorno – sia necessario spalmare vernice rossa su edifici pubblici e venire alle mani con la polizia (o la cosa è eclatante e potenzialmente strumentalizzabile o col piffero che i media si attivano).

Si domanda infine perché, però, alla prima modella / influencer / velina / cantante che frigna sulla cattiveria e sulla frustrazione delle femministe, quegli stessi media diano taglio alto e titoloni senza pensarci un attimo, senza contestualizzare niente, senza essere nemmeno curiosi di quel che il femminismo è e di quel che in tutto il pianeta, quotidianamente, fa: nulla vogliono saperne e nulla vogliono ne sappiano i loro lettori e le loro lettrici.

Se poi si tratta di analizzare la violenza contro le donne, è tutto affare delle donne stesse: denunciate, c’è il Codice Rosso, reagite.

15 febbraio 2020, Sassari – Donna uccisa a coltellate dopo una lite: fermato il compagno.

“Ha ucciso la sua ex compagna, una donna di 41 anni di nazionalità ceca, dopo aver violato la misura restrittiva, un divieto di avvicinamento, che gli impediva di andare a Sorso, il paese in cui viveva la donna, nei confronti della quale aveva già usato violenza. L’uomo è stato fermato dai carabinieri ed ora è sotto interrogatorio.”

Okay: denunciato, ottenuta misura restrittiva, morta. Cosa devo fare adesso?

Maria G. Di Rienzo

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(“Artist, women’s rights activist murdered in Ciudad Juárez”, Mexico News Daily, 20 gennaio 2020, autore/autrice non menzionato/a, trad. Maria G. Di Rienzo.)

isabel cabanillas

Un’artista e attivista per i diritti delle donne è stata assassinata a Ciudad Juárez, Chihuahua, nella notte di venerdì scorso, scatenando indignazione e dimostrazioni durante il fine settimana.

Isabel Cabanillas de la Torre, 26enne, è scomparsa venerdì sera dopo aver lasciato un bar per tornare in bicicletta alla sua abitazione in centro a Juárez.

I pubblici ministeri di Chihuahua hanno annunciato domenica mattina la scoperta del corpo di una donna nell’area del centro città. Messaggi e post sui social media hanno rapidamente confermato che si trattava di quello di Cabanillas.

Designer d’abbigliamento, pittrice e membro attivo di un collettivo femminile, Cabanillas partecipava alle iniziative pro diritti delle donne. Gli amici e la famiglia dell’attivista avevano denunciato la sua scomparsa sabato. Il suo corpo è stato ritrovato più tardi quel giorno con ferite d’arma da fuoco al petto.

L’omicidio ha innescato proteste a Juárez la domenica, quando familiari, amici e attiviste per i diritti delle donne hanno chiesto giustizia. La massiccia presenza della polizia al raduno ha indotto i dimostranti a denunciare la loro assenza durante l’omicidio di Cabanillas.

I manifestanti hanno messo una croce rosa nel luogo ove il suo corpo è stato rinvenuto, nella speranza che il suo assassinio non resti impunito o sia dimenticato.

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vida nueva

La “nuova vita” del titolo è il nome di una cooperativa artigiana di donne indigene messicane (alcune le vedete in immagine con i tappeti che producono) fondata nel 1996 da Pastora Asunción Gutiérrez Reyes. Il suo scopo era ed è dare opportunità economiche, diritti umani e sogni a donne in condizioni difficili – vedove, madri single e vittime di violenza domestica costrette a lottare ogni giorno con gli svantaggi posti su di loro da una società patriarcale e machista. Ma l’intento iniziale si è ovviamente ampliato con il tempo: a Vida Nueva vogliono che le bambine e le ragazze possano andare a scuola e che le donne abbiano abbastanza potere da decidere cosa vogliono fare delle loro esistenze, perciò investono energie, tempo e denaro in progetti comunitari diretti a tali fini: negli anni hanno per esempio fornito assistenza sanitaria gratuita e creato un sistema di riciclo rifiuti. Tessere a Teotitlán era loro originariamente proibito, in quanto “lavoro da uomini” (vedete quanto arbitrari sono gli stereotipi di genere?), ma per fortuna di tutti/e se ne sono fregate.

Global Citizen ha raccontato la loro storia in un documentario qui:

https://www.globalcitizen.org/en/connect/activate/episode1/

Inoltre, ha pubblicato in settembre una lunga intervista con una socia della cooperativa, Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes, di cui riporto un brano. (Silvia è l’unica del gruppo ad aver frequentato l’università ed è quella che nel 2004 parlò alle Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani subite da bambine e bambini indigene/i)

Global Citizen: Quante sfide avete affrontato da quando iniziaste?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Durante questi 22 anni abbiamo visto cambiamenti. Dapprima tutti ci criticavano e dicevano che eravamo pazze. Ci hanno anche chiamate prostitute e donnacce, ci hanno rigettate e guardate male. Ma ora, con tutto il lavoro che abbiamo fatto, abbiamo guadagnato il rispetto della gente nella comunità. Molte persone ora dicono che non pensavano le donne potessero portare alla comunità qualcosa di buono. Grazie a tutto il lavoro svolto ora le donne possono decidere, abbiamo imparato di più sui nostri diritti e abbiamo fatto in modo che ci rispettassero.

Global Citizen: In che modo percepisci che i cambiamenti hanno avuto impatto sulle vostre vite?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Ora possiamo dire forte e chiaro “NO” quando gli uomini ci dicono qualcosa di sbagliato. Abbiamo imparato a difendere le nostre idee e quel che vogliamo fare. Le nostre figlie stanno già studiando, un grande risultato considerato che nel passato non ricevevamo sostegno dalle nostre famiglie per studiare o viaggiare. La maggioranza delle donne di Vida Nueva non è andata a scuola e persino Pastora, la fondatrice, ha finito solo le elementari. Ora per noi è più facile creare documentazione, cercare sostegno, preparare i nostri seminari eccetera.

Global Citizen: I vostri prodotti artigianali non sono solo grande arte ma preservano anche il valore della cultura Oaxaca. Puoi darmi qualche dettaglio sul valore che sta dietro i vostri prodotti?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Il nostro lavoro si concentra sulle tecniche ancestrali. Ogni pezzo che produciamo ha un processo ancestrale, creativo e innovativo. Ciò che di certo rende il nostro lavoro speciale è che ancora ci basiamo sulle tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione. Usiamo tinture naturali che vengono da piante, frutti o insetti come la cocciniglia del carminio. Per innovare abbiamo lezioni di disegno e colorimetria e poi usiamo le nuove tecniche e le fondiamo con le antiche.

Ciò che dà un valore unico ai nostri pezzi è la qualità di cui cerchiamo di aver cura in ogni prodotto. L’intero processo prende approssimativamente tre mesi, perché elaboriamo il materiale grezzo, raccogliamo le piante o prepariamo i pigmenti. Ogni donna mette non solo il suo talento nel suo tappeto, ma anche il suo cuore e la forza di una donna che lotta per una nuova vita.

La cosa importante nel nostro lavoro, e per noi, è che ogni pezzo ha un significato speciale. E nella maggior parte dei casi, questi significati parlano di liberà, sogni e sfide che noi come donne vogliamo realizzare.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Mexico’s ‘glitter revolution’ targets violence against women”, di Tom Phillips per The Guardian, 26 agosto 2019, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

città del messico 16 ago 2019

Sandra Aguilar-Gomez ricorda l’atmosfera cameratesca e celebrativa di quando migliaia di donne messicane scesero in strada per le proteste della “primavera viola” nel 2016. Tre anni più tardi le dimostranti sono tornate a chiedere la fine della violenza contro le donne – ma questa volta l’umore è amareggiato.

“Quel che ho visto sulle strade erano rabbia e disperazione. – dice Aguilar-Gomez, 28enne, studente per il dottorato di ricerca e attivista femminista, dei recenti raduni a Città del Messico – Perché le cose non sono cambiate di una virgola.”

Aguilar-Gomez è una delle migliaia di donne che si sono unite alla cosiddetta “revolución diamantina” (“rivoluzione dei brillantini”): il movimento ha guadagnato il proprio nome dopo che le manifestanti hanno fatto una doccia di brillantini rosa al capo della sicurezza di Città del Messico il 12 agosto scorso.

La protesta è stata una reazione alla denuncia di stupro di un’adolescente da parte di quattro ufficiali di polizia a Azcapotzalco, a nord della capitale, nelle prime ore del 3 agosto. Le dimostranti, che marciavano con cartelli su cui stava scritto “Tutte le donne contro tutta la violenza” e “Se voi violate le donne noi violeremo le vostre leggi”, stanno anche chiedendo cambiamenti maggiori in un paese dove una media di dieci donne sono uccise ogni giorno e in pratica tutti questi crimini restano impuniti.

“E’ una situazione insostenibile e femicida. – dice Yndira Sandoval, del gruppo Las Constituyentes che si è unito al movimento – Ogni giorno scompaiono ragazze, scompaiono donne, donne sono violate e stuprate e noi vogliamo una risposta politica che rifletta le dimensioni di quest’emergenza nazionale.” Sandoval aggiunge di essere stata vittima di un’aggressione sessuale nel 2017.

Quando il Presidente di sinistra del Messico, Andrés Manuel López Obrador, è entrato in carica lo scorso dicembre, promettendo una nuova era di giustizia sociale, molte attiviste – inclusa Sandoval – hanno sperato che un cambiamento positivo fosse finalmente all’orizzonte. A Città del Messico, che ha eletto l’alleata di López Obrador, Claudia Sheinbaum quale sua prima donna sindaco, le aspettative erano particolarmente alte.

Nove mesi più tardi, molta di quella speranza è evaporata. Le attiviste per i diritti delle donne sono sospettose dell’alleanza di López Obrador con i politici evangelici della linea dura e hanno condannato i suoi forti tagli al budget, compresi i tagli ai rifugi delle donne.

Sheinbaum, nel frattempo, ha fatto infuriare le manifestanti femministe etichettando la loro prima mobilitazione – in cui l’entrata in vetro all’ufficio del procuratore generale è stata distrutta – come “una provocazione”. Facendo questo, dice Aguilar-Gomez, l’amministrazione di Città del Messico ha legittimato un’ondata di aggressioni e minacce online dirette alle femministe.

L’attacco di Sheinbaum ha raccolto indignazione ed è stato la scintilla per una seconda protesta, il 16 agosto, in cui uno dei simboli più conosciuti del Messico – l’iconico monumento all’Angelo dell’Indipendenza – è stato coperto di graffiti che denunciavano la violenza contro le donne.

Aguilar-Gomez si dice frustrata dal fatto che, da allora, la maggioranza dei media è concentrata sulla deturpazione del monumento e non sulla discriminazione e gli attacchi contro le donne messicane: “E’ incredibile. Non riescono a vedere il dolore sui volti delle madri e delle sorelle delle donne assassinate, e delle donne stuprate e assalite che hanno partecipato alla protesta. Ma sono molto, molto, molto empatici verso questa signora fatta di pietra.”

Domenica (Ndt: il 25 agosto) Sheinbaum ha incontrato delle rappresentanti del movimento e ha promesso un mese di discussioni mirate ad aiutare a sradicare la violenza di genere. Sandoval, 33enne, teme si tratti di un tentativo di “contenere e cooptare” il movimento, anziché di qualcosa che favorisca un cambiamento reale.

Aguilar-Gomez spera in un mutamento positivo e assicura che le manifestazioni continueranno se ciò non accade: “Posso dire con certezza che (le donne) non si fermeranno. Sono certa di questo. Non ne possono più.”

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(“Communiqué of the Indigenous Revolutionary Clandestine Committee, General Command of the Zapatista National Liberation Army”, 29 dicembre 2017, trad. Maria G. Di Rienzo.)

ezln

Alle donne del Messico e del Mondo:

Alle donne originarie del Messico e del Mondo:

Alle donne dei Consigli di governo indigeni:

Alle donne del Congresso nazionale indigeno:

Alle donne nazionali e internazionali dei Sei continenti:

Compañeras, sorelle:

Vi salutiamo con rispetto e affetto da quelle donne che siamo – donne che lottano, che resistono e si ribellano contro lo stato sciovinista e patriarcale.

Sappiamo bene che un brutto sistema non solo ci sfrutta, ci reprime, ci deruba e non ci rispetta come esseri umani, ma ci sfrutta, ci reprime, ci deruba e non ci rispetta di nuovo come donne.

E sappiamo che le cose ora vanno peggio, perché siamo assassinate in tutto il mondo. E gli assassini non pagano alcun prezzo – il vero omicida è sempre il sistema che sta dietro la faccia di un uomo – perché le loro azioni sono occultate, loro sono protetti e persino ricompensati dalla polizia, dai tribunali, dai media, dai cattivi governi e da tutti quelli che vogliono mantenere le loro posizioni stando sulle schiene della nostra sofferenza.

Tuttavia non siamo terrorizzate, o se lo siamo controlliamo la nostra paura e non ci arrendiamo, non ci fermiamo e non ci vendiamo.

Perciò, se sei una donna in lotta che è contro quel che ci fanno perché donne; se non sei spaventata (o se lo sei, ma controlli la tua paura), allora ti invitiamo a un incontro con noi, per parlarci e ascoltarci come le donne che siamo.

Pertanto invitiamo tutte le donne ribelli del mondo al:

Primo incontro internazionale di politica, arte, sport e culture per le donne in lotta, che sarà tenuto a Caracol di Morelia, zona Tzotz Choj del Chiapas, Messico, l’8 – 9 – 10 marzo 2018.

Gli arrivi sono previsti per il 7 marzo e la partenza per l’11 marzo.

Se sei un uomo, stai ascoltando o leggendo questo invano, perché non sei invitato.

Per quel che riguarda gli uomini zapatisti, li metteremo al lavoro in tutte le faccende necessarie, di modo che noi si possa suonare, parlare, cantare, danzare, recitare poesie e impegnarci in ogni altra forma di arte e cultura che desideriamo condividere senza imbarazzo. Gli uomini si occuperanno di tutte le mansioni necessarie in cucina e alle pulizie.

Si può partecipare come singole o come collettivi. Potete registrarvi a questa e-mail:

encuentromujeresqueluchan@ezln.org.mx

Includete il vostro nome, da dove venite, se partecipate da sole o in collettivo, e come volete partecipare o se volete semplicemente festeggiare con noi.

La tua età, il tuo colore, la tua taglia, la tua fede religiosa, la tua razza e il tuo modo di essere non importano; quel che solo importa è che tu sia una donna e che tu stia lottando contro il sistema capitalista, sciovinista e patriarcale.

Se vuoi venire con i tuoi figli maschi ancora piccolini, va bene, puoi portarli. L’esperienza servirà a iniziare a mettere nelle loro teste che le donne non accetteranno più violenza, umiliazione, scorno o o altre stronzate dagli uomini o dal sistema.

E se un maschio dall’età superiore ai 16 anni vuol venire con te, è una scelta tua, ma qui non andrà oltre la cucina. Potrebbe a ogni modo essere in grado di ascoltare alcune delle attività e di imparare qualcosa.

Riassumendo, gli uomini non possono venire a meno che una donna li accompagni.

Per il momento è tutto, vi aspettiamo qui, compañeras e sorelle.

Dalle montagne del sudest messicano, per il Comitato clandestino indigeno rivoluzionario – Comando generale dell’esercito zapatista di liberazione nazionale, e in nome di tutte le ragazze, le giovani donne, le donne adulte e le donne anziane, vive e morte, le consigliere, le rappresentanti donne del Consiglio del buon governo, le donne promotrici, le miliziane, le insorgenti, e la base di sostegno zapatista,

le Comandanti Jessica, Esmeralda, Lucía, Zenaida e la bambina Defensa Zapatista

Messico, 29 dicembre 2017

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marichuy

“Il sistema elettorale non è fatto affinché noi, il popolo in basso, si governi. Le leggi e le istituzioni dello stato sono fatte per quelli che stanno sopra, i capitalisti e la loro classe politica corrotta, per cui il sistema elettorale risulta essere una grande illusione. Il governo, l’esercito, la polizia, i narcotrafficanti, tutti favoriscono lo sfruttamento delle nostre ricchezze naturali. Tutti vogliono spaventare la nostra gente e far sì che chi si oppone ai loro progetti capitalisti scompaia. Dobbiamo spezzare le radici di ciò che sta ferendo il Messico. Questo paese ha bisogno di guarigione.” – María de Jesús Patricio Martínez.

Meglio conosciuta come Marichuy, María è una donna di etnia Nahua che vive a Jalisco, praticante di medicina tradizionale: la settimana scorsa ha cominciato la sua campagna per le elezioni presidenziali del 2018. E’ la prima donna indigena a scendere in lizza per la presidenza in Messico e dovrà vedersela con altri 85 candidati. Sta parlando di ciò di cui nessuno vuole veramente parlare, i problemi e le istanze che riguardano i gruppi maggiormente marginalizzati dalla società: gli indigeni, i poveri, le donne. Per quanto improbabile sia la sua vittoria, solo per questo le dobbiamo rispetto e gratitudine. Buena suerte, Marichuy.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “A Question of Aesthetics and Colonization”, di Maria Thereza Alves, artista multimediale brasiliana, 10 maggio 2017, trad. Maria G. Di Rienzo)

“Nel 1987, discutevo assieme a Domingos Fernandes e José Gaspar Ferraz de Campos del come fare politica nella nuova opportunità offerta dalla fine della dittatura militare e dagli inizi della democrazia in Brasile. All’epoca, c’era una celebrazione della libertà politica e più di cinquanta partiti si erano registrati per le incombenti elezioni e noi tentavamo di capire dove saremmo stati in grado di dare un contributo politico al Brasile.

Io avevo lavorato come rappresentante del Partido dos Trabalhadores (Partito dei Lavoratori – PT) ma non ero più attiva in esso a causa dell’ingresso di persone della classe sociale più elevata che avevano preso numerose posizioni all’interno del partito. Sia Domingos si José avevano fatto parte di un vasto raggio di formazioni politiche e movimenti. Pensammo che nessuno dei partiti rifletteva il nuovo potenziale nel lavorare in politica e fondammo il Partido Verde (Partito Verde) a San Paolo.

Nel mezzo fra questo e il mio impiego pagato da insegnante di inglese, lavoravo anche sulla mia arte. Il Museu da imagem e do som a San Paolo stava nel mio quartiere, Pinheiros. Presi il mio pesante e largo portfolio, che non era ammesso sull’autobus, e camminai per i due chilometri e 600 metri fino al Museo. Avevo precedentemente chiamato per prendere appuntamento con il direttore, il cui nome non ricordo più.

Arrivai proprio nel momento in cui Domingos del nostro nascente Partito Verde usciva dall’ufficio del direttore. Mi chiese cosa facevo lì e io chiesi di rimando a lui, a cui l’arte non piaceva, come mai era in un museo. Mi disse che aveva appena fatto un favore politico, uno grosso, al direttore e suggerì che andassimo insieme a parlargli e che io potevo chiedere una mostra personale e potevamo consultare il calendario e vedere quand’era il momento migliore per me.

Ero scioccata e dissi che non era quello il modo in cui le cose andavano nel mondo dell’arte. Mi ero diplomata alla scuola d’arte tre anni prima. Andai da sola nell’ufficio del direttore. Mi chiese il mio nome. Mi chiese a quale famiglia Alves appartenevo. Io risposi “A nessuna che lei possa conoscere.” Non poteva, infatti: la mia famiglia all’epoca era composta di contadini o fattori su piccola scala nella campagna dello stato di Parana. Il direttore allora rifiutò di guardare il mio portfolio. Era la prima volta che come artista stavo presentando il mio lavoro al direttore di un museo e avevo seguito tutti i passi che mi erano stati insegnati alla scuola d’arte. Perciò, misi il portfolio sul tavolo, ma lui non lo sfogliò. Allora lo aprii. Ancora non lo toccò. Girai io i fogli per lui. Mentre stavamo arrivando alla fine, e lui era stato zitto durante tutto il processo, spiegai che aveva l’obbligo di discutere con l’artista del lavoro – che lo trovasse interessante o no.

A questo punto, la mia frustrazione per il suo maleducato e arrogante silenzio era ovvia. Il direttore fu quindi costretto a spiegarmi che in realtà era dottore in medicina, che la sua famiglia era stata d’aiuto nel far eleggere il sindaco e che come favore di ritorno la posizione al museo era stata data a loro. Confessò che non sapeva nulla di arte.

Alcuni mesi più tardi, lasciai il mio portfolio a un rinomato centro culturale, il SESC di San Paolo. Anche loro non si presero la briga di guardarlo. Allora chiesi a Domingos di domandare il ritorno di un favore politico. Qualche altro mese dopo, ricevetti la chiamata dall’istituzione culturale che era ora entusiasta all’idea di organizzarmi una mostra in qualsiasi momento io avessi voluto. Declinai l’offerta di partecipare alla corruzione e spiegai che avevo solo voluto verificare se era così che le cose andavano in Brasile.

Passati alcuni anni, stavo lavorando a un numero della rivista Documents pubblicata a New York e incontrai del personale del dipartimento culturale di San Paolo. Fui trattata bene – intendo dire che fui presa sul serio come persona. Non fui interrogata sulla famiglia a cui appartenevo e sull’essere o no collegata a qualche famiglia importante che era il mio “padrino” politico. (Come giovane donna la cui famiglia all’epoca non aveva alcun peso politico o sociale, questo poteva solo voler dire essere l’amante di qualche persona potente. Tale opportunità mi è stata offerta parecchie volte – l’essere la compagnia sessuale di qualcuno – mentre cercavo lavoro in campi in cui ero qualificata ma non avevo relazioni sociali che mi assicurassero l’impiego. Alla fine mi sistemai a insegnare inglese in una piccola ditta guidata da una donna, la quale concordava con me sul fatto che non dovevo accettare proposte sessuali per mantenere un lavoro.)

Tornai una settimana più tardi a continuare la mia discussione con il dipartimento culturale e fui trattata come sono trattata normalmente, cioè come un’intrusione in un luogo dove non sono benvenuta poiché non vi appartengo, e mi chiesi cos’avessi fatto di sbagliato per meritare questo. Stavo per essere illuminata: mi spiegarono che originariamente avevano creduto io fossi parente del Segretario alla Cultura di Rio de Janeiro ed erano delusi dall’aver scoperto che non lo ero.”

il ritorno del lago

Il Ritorno del Lago di Maria Thereza Alves, 2012, Installazione:

Un lago si essiccò nella regione di Chalco vicino a Città del Messico all’inizio del 20° secolo. Un immigrato spagnolo voleva aggiungere la terra sotto il lago ai suoi possedimenti: sarebbe diventato il secondo uomo più ricco del Messico. Quest’evento catastrofico del 1908 causò il collasso del commercio nella regione ed ebbe impatto sulla sopravvivenza di 24 città e villaggi indigeni.

Gli effetti negativi del disastro continuano a piagare la regione con inondazioni, acqua contaminata, cedimenti di terreno e conseguente distruzione di infrastrutture, come le tubature fognarie e le abitazioni. Il lago, ora conosciuto come Tláhuac-Xico (dai nomi delle due comunità che hanno maneggiato l’area per far tornare il lago) si sta ora riformando grazie alle acque pluviali catturate dalla depressione che si è formata per i cedimenti di terreno e l’abbassamento del letto lagunare dovuto all’eccessivo pompaggio di acque sotterranee inviate a Città del Messico.

alves semi del cambiamento

Semi di cambiamento di Maria Thereza Alves (in immagine), Giardino portuale:

E’ stato coltivato interamente da semi contenuti nella zavorra delle navi mercantili: semi che datano dal 17° al 20° secolo. Alla fine degli anni ’90 dello scorso secolo, la botanica finlandese Heli Jutila scoprì che alcuni tipi di flora non nativa del suo paese avevano questa origine. Maria Theresa la incontrò a una conferenza e il loro progetto nacque allora. “Jutila mi disse che i semi possono dormire per centinaia di anni e che era possibile farli germinare oggi”, ricorda l’Artista, aggiungendo che il giardino non è un progetto scientifico, ma una metafora vivente della storia del commercio, della migrazione e del colonialismo: “Sono giunta a vedere questi semi come i testimoni di storie complicate avvenute fra noi persone.”

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alejandra - foto di ada luisa trillo

L’immagine qui sopra appartiene a una rassegna fotografica che ha cominciato a girare le mostre in questo luglio 2017. Ritrae Alejandra, la quale dovrebbe essere già morta, secondo la tardiva diagnosi di cancro al colon non curato, ma ha superato di due anni la data che i medici avevano ipotizzato per il suo decesso. Alejandra è ritratta nel suo “luogo di lavoro” – come direbbe qualche idiota – ovvero un bordello di Ciudad Juárez, in Messico.

La fotografa si chiama Ada Luisa Trillo ed è riuscita a entrare in dozzine di stanze come questa, assieme all’amica Blanca Cerceda che l’ha aiutata registrare le storie delle donne coinvolte, grazie a una sopravvissuta alla tratta sessuale, Maria Lourdes Aguero: costei ha fatto da tramite con i magnaccia e gli spacciatori, che hanno concesso 15 minuti per ogni visita. Ada e Blanca, in un periodo di tre anni, hanno fatto in modo di ripetere le visite ad alcune delle donne. Il patto prevedeva ovviamente che la fotografa non riprendesse nessuno degli sfruttatori e degli “utilizzatori finali” dei suoi soggetti, ma essi restano invisibili solo a questo livello perché le storie che le donne hanno raccontato sono appese accanto alle loro fotografie. Ada ha immortalato circa un centinaio di loro: oggi ne sopravvivono una manciata.

Muoiono uccise dai “clienti” o dai papponi – come Sandra, strangolata l’anno scorso, o Lupita, uccisa a colpi di pistola, o dai cocktail di alcool e oppiacei che usano soprattutto come sostituti dei medicinali per le malattie che hanno contratto prostituendosi. Sylvia, che nel bordello ha sofferto una ferita alla schiena e camminerà con le stampelle per il resto della sua vita, per controllare i dolori assume una mistura di solventi, marijuana e crack.

La maggior parte di queste donne sono state trafficate all’età di 14/15 anni. Alcune riportano di aver subito stupri da bambine da parte di patrigni o di altri uomini che avrebbe dovuto aver cura di loro. Con una sola eccezione, sono tutte di etnie indigene.

“Nessuna delle donne che ho fotografato definisce se stessa una ‘trabajadora sexual’ (‘sex worker’). – ha detto Ada Luisa Trillo alla stampa – Si sono fatte beffe del termine e dicevano caí en la prostitución o caí en esto, che significa “Sono caduta nella prostituzione”. Spesso si domandavano: Come sono finita qui?

Così, al termine di un lungo e dettagliato articolo Taina Bien-Aime, una delle direttrici della Coalizione contro il traffico di Donne (CATW) commenta la mostra: “Le magnifiche immagini di Trillo ci rendono testimoni. Nessuna bambina sogna un lavoro in cui rischiare l’amputazione di un arto per malattie provocate da droghe o la possibilità di morire per mano di un compratore di sesso siano la sua fatica giornaliera per il pane. Nessuna ragazza immagina di finire per credere, un giorno, che i suoi amati figli stanno meglio senza di lei. E nemmeno dovremmo farlo noi.”

Maria G. Di Rienzo

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Esattamente un mese fa, il 7 maggio, in Messico un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nella casa di Miriam Elizabeth Rodriguez Martinez (in immagine qui sotto) e l’ha uccisa.

miriam elizabeth

Miriam era molto nota come attivista dedita alla ricerca delle persone “scomparse” nello stato messicano di Tamaulipas. Aveva cominciato questo lavoro nel 2014, quando a “scomparire” era stata sua figlia: Miriam riuscì a ritrovarne i resti nella città di San Fernando.

A molti chilometri di distanza, sempre il 7 maggio, in Nicaragua la polizia ha arrestato Aydil del Carmen Urbina Noguer (in immagine dopo questo paragrafo) mentre era assieme alla figlia 16enne e l’ha pestata per bene. L’arresto e la successiva detenzione di oltre due giorni e mezzo erano illegali. Durante questo periodo di 64 ore le sono state negate le cure mediche di cui aveva bisogno dopo la battitura, l’accesso all’acqua e ai servizi sanitari e l’assistenza legale. Aydil è un’avvocata e un’attivista per i diritti umani.

aydil

I brani seguenti sono tratti da “Rethinking Activists’ Safety at a Time of Escalating Risk”, di Adelaide Mazwarira e Alexa Bradley per Jass, 31 maggio 2017:

“In tutto il mondo, le donne attiviste sono sempre più a rischio, minacciate, aggredite e persino uccise perché osano opporsi a potenti interessi, siano essi di stato o di istituzioni private come le compagnie economiche transnazionali o di cartelli della droga. Poiché queste donne stanno lavorando per proteggere diritti umani, giustizia economica, la loro terra, acqua, territori e la democrazia stessa molti le chiamano “difensore dei diritti umani” o semplicemente “difensore”. Per il loro coraggio e la loro capacità di guida queste donne devono fronteggiare attacchi nelle strade, criminalizzazione e stigmatizzazione nei tribunali e sui media, e a volte rigetto e abuso nelle loro stesse comunità e case per essere andate oltre le tradizionali norme di genere. (…)

Una varietà di tendenze e dinamiche di potere stanno convergendo in ciò che molti indicano come “lo spazio in via di restringimento per la società civile”. I governi stanno sempre di più usando la retorica della sicurezza nazionale e la minaccia del terrorismo per limitare la partecipazione dei cittadini e reprimere il dissenso. E una serie di “poteri ombra”, entità non statali incluse le corporazioni, i gruppi religiosi fondamentalisti, i narco-trafficanti, che una volta erano dietro le quinte, ora stanno avendo un’influenza crescente nei settori del potere formali in cui i governi prendono le decisioni e in cui si formano le leggi, e rivendicano i loro interessi senza ostacolo alcuno, anche quando detti interessi comportano l’uso della violenza. E dominano lo spazio pubblico e i media promuovendo narrazioni favorevoli ai loro interessi. Manipolando norme sociali, idee e credenze fra cui quelle relative a razza, classe, etnia e genere, costoro sono in grado di screditare il lavoro delle difensore (e dei movimenti sociali) etichettandole come “terroriste”, “ostacoli allo sviluppo”, “passatiste”, “distruttrici delle famiglie” per legittimare e di fatto normalizzare la violenza, la diseguaglianza e la repressione. Sebbene i contesti differiscano, la convergenza del capitalismo estrattivo (la corsa al controllo e allo sfruttamento delle risorse), del militarismo (guerra al terrore, guerra alle droghe) e dei fondamentalismi (forze conservatrici all’interno di religioni, culture e tradizioni) è diventata il fertile terreno su cui violenza e repressione aumentano.” Il documento continua attestando che ai consueti mezzi della repressione per le donne si aggiungono quelli correlati al genere – assalto sessuale e stupro.

Per cui: ogni volta in cui le donne promuovono iniziative politiche e sociali eccetera smettete per favore di chiedere “cosa c’entra il femminismo”, il femminismo è questo; ogni volta in cui una donna viene ammazzata per quello che è (femmina) e per quello che fa (attivismo) smettete per favore di fare i finti tonti e gli stronzi puri e semplici chiedendo “cos’è il femminicidio”, perché molte di queste donne muoiono per salvare anche i vostri culi. Maria G. Di Rienzo

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