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Posts Tagged ‘cooperazione’

paper dreams

La questione “accesso all’editoria” – difficoltà, respingimenti, negazioni – è una costante dei miei dialoghi virtuali con altre persone (amiche e amici, conoscenti, sconosciute/i).

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/08/06/che-mi-dici-dei-libri/

Di recente ha preso la sfumatura “editoria femminile / femminista” e ovviamente si tratta di una coloritura che mi piace.

La mia visione iniziale, che non la prevedeva a priori e riguardava i generi più penalizzati, sf e fantasy, era questa:

– creazione di una cooperativa composta unicamente da autori e autrici (per la struttura mi rifacevo a predecessori come la Cooperativa del libro popolare, poi Universale Economica);

– l'”unicamente” riguarda il desiderio di non aver a che fare con critici da strapazzo, tuttologi amici degli amici e perditempo vari: l’editing, se necessario, diventerebbe responsabilità condivisa fra i soci della Cooperativa;

– ritenevo invece indispensabile far salire sulla barca artisti, illustratori e grafici che condividono le nostre passioni;

– immaginavo un luogo in cui tutti fossero editori, direttori editoriali, consulenti editoriali (lettori specializzati), correttori di bozze e mettessero a disposizione le proprie conoscenze e il proprio tempo, liberamente, gli uni per gli altri;

– ipotizzavo una raccolta fondi su più livelli e l’individuazione di una sede legale e di una stamperia: quest’ultima è un punto importante per me, perché l’idea di una casa editrice solo digitale non mi convince e non voglio rinunciare alla “macchina per lettura” più efficiente che esista, il libro di carta. Non ha bisogno di pile o batterie o reset, non lo devi caricare, si attiva non appena apri la copertina e te lo porti dietro dappertutto in borse non specializzate. (I maniaci come me lo annusano persino e vi assicuro che l’odore di un tablet non è paragonabile…);

– poi veniva la parte tecnica per la costituzione di una casa editrice: l’iscrizione al registro delle imprese presso la Camera di Commercio e l’acquisizione di codice fiscale e partita IVA presso l’Agenzia delle Entrate.

Quanto di tutto ciò può entrare nella fondazione di una casa editrice femminile / femminista come ognuna di voi la immagina? Quanto il mio sogno di carta collima con i vostri? Sono le domande che pongo alle amiche / conoscenti / sconosciute di cui sopra.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Meet Priscilla Achakpa, Nigeria”, profilo e intervista a cura di Nobel Women’s Initiative, ottobre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Priscilla Achakpa

L’insigne attivista ambientalista nigeriana Priscilla Achakpa è diventata moglie a 16 anni, madre e poi giovane vedova. Diseredata dalla famiglia del marito e dalla propria è tornata a scuola e ha conseguito lauree specialistiche in gestione d’impresa, amministrazione e sviluppo. Aveva iniziato una carriera come impiegata di banca, poi ha cambiato bruscamente direzione.

Oggi, dirige il Women Environmental Programme (WEP – Programma ambientalista delle donne), un’organizzazione nonprofit, apolitica e non religiosa che affronta le istanze ambientali che hanno impatto sulle vite delle donne stesse. Su tutte: il cambiamento climatico.

Come sei passata dalla banca all’attivismo ecologista?

Avevo la sensazione che qualcosa mancasse – sentivo il bisogno di trovare un lavoro che fosse più stimolante e che mi permettesse di tornare qualcosa alla comunità. Questa sensazione mi spinse ad avventurarmi all’esterno e cominciai a seguire corsi di studio sull’ambiente. Era una cosa completamente diversa, più complessa, più scientifica. Ma volevo una sfida. Volevo un lavoro che ispirasse la mia passione.

Nel 1997, due giornaliste ed io scoprimmo che le industrie tessili nello stato di Kaduna scaricavano rifiuti direttamente nell’ambiente. La maggior parte di essi finiva nel fiume Kaduna, sulle cui rive agricoltori poveri, in grande misura donne, stavano coltivando ortaggi. Cominciavano ad avere malattie della pelle e ne davano colpa alla stregoneria. Coinvolgemmo scienziati che presero campioni, effettuarono esami e scoprirono che tutto nell’area era diventato tossico. Alla fine portammo le industrie in tribunale – per me, fu l’inizio dell’attivismo. Nel 1998 diventammo il Women Environmental Programme, la prima organizzazione femminile nel nord del paese ad entrare nell’ambito dell’ambientalismo.

Perché hai scelto di concentrarti sul cambiamento climatico?

Il nostro programma è attivo in cinque aree tematiche: ambiente, amministrazione, cambiamento climatico, pace e trasformazione del conflitto. Le istanze di genere sono al centro di ogni cosa che facciamo. Includerle è cruciale se i programmi di sviluppo vogliono essere rilevanti e sostenibili.

Il cambiamento climatico è una delle istanze più urgenti della nostra epoca e ha già avuto impatto sulla Nigeria. Lo sconfinamento dei deserti cresce a un tasso sorprendente, il che ha generato crescenti tensioni sulla proprietà terriera, incluse lotte fra gli agricoltori e i pastori nomadi. Questi scontri hanno anche peggiorato le divisioni etniche. Siccità prolungate, ondate di calore e vento hanno interessato il nord, la nostra regione che produce cibo. Il lago Chad, uno dei laghi più grandi del mondo, che in passato forniva acqua e sosteneva le comunità di pescatori, si è ridotto del 95%. Le persone, specialmente le donne, sono state costrette a migrare, il che comporta ulteriori difficoltà. Nei campi per le persone sfollate le donne sono frequentemente molestate e persino stuprate. I fiumi si sono seccati e ciò significa che le donne devono viaggiare per chilometri cercando acqua.

I cambiamenti climatici sono duri di per sé, ma amplificano anche problemi e diseguaglianze che già esistono – inclusa la diseguaglianza di genere. Storicamente le donne hanno avuto minor accesso alle risorse, minor potere nella sfera decisionale: questo ci rende maggiormente vulnerabili ai rischi di estremi eventi climatici. E’ importante rendere il genere centrale nelle strategia di adattamento al clima nel mentre si lavora per migliorare la resilienza ai suoi impatti.

Come si concretizza questo nel lavoro di WEP?

Nella regione in cui lavoriamo, le agricoltrici non avevano la capacità di conservare grandi quantità di raccolti deperibili come i pomodori, i peperoni e altri vegetali. Circa tre mesi fa, siamo state in grado di installare una tenda essiccatrice solare, con tutti i materiali relativi ottenuti localmente. Abbiamo anche lavorato con la comunità, di modo che le donne fossero in grado di effettuare l’essiccazione da loro stesse, il che ha reso l’operazione sostenibile.

Nella comunità si sono formate cooperative per dare turnazione al lavoro. Risultati e testimonianze sono stati straordinari. Meno cibo va sprecato, le sostanze nutritive sono preservate e le agricoltrici possono vendere i prodotti essiccati, il che migliora le loro entrate. Noi abbiamo finanziato questo progetto da sole, come esperimento, ma ovviamente una sola tenda non è sufficiente. Stiamo cercando modi di ampliare la scala dell’intervento, non solo all’interno di questa comunità: abbiamo richieste da moltissime altre.

I ministri dell’agricoltura ne sono rimasti impressionati, ma si sa quanto i governi possano essere lenti ad agire. Stiamo cercando partner che sostengano più interventi di questo tipo.

Tu hai scritto saggi di alto livello accademico sul tuo lavoro e hai partecipato a incontri internazionali sul cambiamento climatico. Ma hai anche detto “il mio vero lavoro è sul campo”. Cosa intendevi?

Quando agiamo globalmente, dobbiamo tradurre quel che facciamo nel contesto locale. Noi lo stiamo facendo – e non solo in Nigeria. Abbiamo uffici Burkina Faso, Togo, Tunisia. Quando ascolto le voci delle donne locali, le donne comuni, donne che sono toccate ogni giorno dal cambiamento climatico e dal come prendersi cura delle proprie famiglie, ne sono ispirata.

Proprio in questo momento, WEP sta lavorando con organizzazioni locali che non avevano mai visto un finanziamento di 1.000 dollari (Ndt. 890 euro) in vita loro. Quando le sostieni, i risultati in quel che fanno sono eccezionali. Non si può sottolineare abbastanza la felicità e l’impegno che questi gruppi a livello di base portano a bordo. Quando ascolto le loro storie, sono spinta a fare di più.

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vida nueva

La “nuova vita” del titolo è il nome di una cooperativa artigiana di donne indigene messicane (alcune le vedete in immagine con i tappeti che producono) fondata nel 1996 da Pastora Asunción Gutiérrez Reyes. Il suo scopo era ed è dare opportunità economiche, diritti umani e sogni a donne in condizioni difficili – vedove, madri single e vittime di violenza domestica costrette a lottare ogni giorno con gli svantaggi posti su di loro da una società patriarcale e machista. Ma l’intento iniziale si è ovviamente ampliato con il tempo: a Vida Nueva vogliono che le bambine e le ragazze possano andare a scuola e che le donne abbiano abbastanza potere da decidere cosa vogliono fare delle loro esistenze, perciò investono energie, tempo e denaro in progetti comunitari diretti a tali fini: negli anni hanno per esempio fornito assistenza sanitaria gratuita e creato un sistema di riciclo rifiuti. Tessere a Teotitlán era loro originariamente proibito, in quanto “lavoro da uomini” (vedete quanto arbitrari sono gli stereotipi di genere?), ma per fortuna di tutti/e se ne sono fregate.

Global Citizen ha raccontato la loro storia in un documentario qui:

https://www.globalcitizen.org/en/connect/activate/episode1/

Inoltre, ha pubblicato in settembre una lunga intervista con una socia della cooperativa, Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes, di cui riporto un brano. (Silvia è l’unica del gruppo ad aver frequentato l’università ed è quella che nel 2004 parlò alle Nazioni Unite delle violazioni dei diritti umani subite da bambine e bambini indigene/i)

Global Citizen: Quante sfide avete affrontato da quando iniziaste?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Durante questi 22 anni abbiamo visto cambiamenti. Dapprima tutti ci criticavano e dicevano che eravamo pazze. Ci hanno anche chiamate prostitute e donnacce, ci hanno rigettate e guardate male. Ma ora, con tutto il lavoro che abbiamo fatto, abbiamo guadagnato il rispetto della gente nella comunità. Molte persone ora dicono che non pensavano le donne potessero portare alla comunità qualcosa di buono. Grazie a tutto il lavoro svolto ora le donne possono decidere, abbiamo imparato di più sui nostri diritti e abbiamo fatto in modo che ci rispettassero.

Global Citizen: In che modo percepisci che i cambiamenti hanno avuto impatto sulle vostre vite?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Ora possiamo dire forte e chiaro “NO” quando gli uomini ci dicono qualcosa di sbagliato. Abbiamo imparato a difendere le nostre idee e quel che vogliamo fare. Le nostre figlie stanno già studiando, un grande risultato considerato che nel passato non ricevevamo sostegno dalle nostre famiglie per studiare o viaggiare. La maggioranza delle donne di Vida Nueva non è andata a scuola e persino Pastora, la fondatrice, ha finito solo le elementari. Ora per noi è più facile creare documentazione, cercare sostegno, preparare i nostri seminari eccetera.

Global Citizen: I vostri prodotti artigianali non sono solo grande arte ma preservano anche il valore della cultura Oaxaca. Puoi darmi qualche dettaglio sul valore che sta dietro i vostri prodotti?

Silvia Zitlaly Gutiérrez Reyes: Il nostro lavoro si concentra sulle tecniche ancestrali. Ogni pezzo che produciamo ha un processo ancestrale, creativo e innovativo. Ciò che di certo rende il nostro lavoro speciale è che ancora ci basiamo sulle tecniche che sono state tramandate di generazione in generazione. Usiamo tinture naturali che vengono da piante, frutti o insetti come la cocciniglia del carminio. Per innovare abbiamo lezioni di disegno e colorimetria e poi usiamo le nuove tecniche e le fondiamo con le antiche.

Ciò che dà un valore unico ai nostri pezzi è la qualità di cui cerchiamo di aver cura in ogni prodotto. L’intero processo prende approssimativamente tre mesi, perché elaboriamo il materiale grezzo, raccogliamo le piante o prepariamo i pigmenti. Ogni donna mette non solo il suo talento nel suo tappeto, ma anche il suo cuore e la forza di una donna che lotta per una nuova vita.

La cosa importante nel nostro lavoro, e per noi, è che ogni pezzo ha un significato speciale. E nella maggior parte dei casi, questi significati parlano di liberà, sogni e sfide che noi come donne vogliamo realizzare.

Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Breaking Out of the Domination Trance”, di Riane Eisler per Kosmos – inverno 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Si tratta della trascrizione dell’intervento di Eisler al Summit 2018 sulla Sicurezza in Irlanda. Riane Eisler è presidente del “Center for Partnership Studies”, femminista, avvocata per i diritti umani di donne e bambine/i, autrice di libri tradotti in tutto il mondo: l’immagine la ritrae con uno di essi. Il suo sito è rianeeiesler.com )

riane

(…) In numero sostanziale stiamo cominciando a emergere da quella che io chiamo la “trance del dominio”, una trance perpetuata da tutte le nostre istituzioni, i nostri sistemi di credenze, da ambo le nostre narrative – popolare e scientifica, e persino dal nostro linguaggio, perciò stiamo solo cominciando a vedere qualcosa che, una volta articolato, può apparire ovvio: che i modi in cui una società costruisce i ruoli e le relazioni fra le due forme base della sua specie – maschile e femminile – così come costruisce le relazioni durante la prima infanzia, sono in effetti istanze sociali che hanno impatto diretto sul fatto che tutte le nostre istituzioni sociali (dalla famiglia all’istruzione, dalla religione alla politica e all’economia) siano egualitarie o diseguali, autoritarie o democratiche, violente o nonviolente. (…)

Nessuna società è un sistema di assoluto dominio o assoluta cooperazione; si tratta di un continuum cooperazione-dominio. Ma voglio darvi brevemente qualche esempio di società contemporanee che sono vicine all’estremità del dominio della bilancia sociale. Sono società molto differenti se le osserviamo solo attraverso le lenti delle categorie sociali convenzionali: la Germania nazista di Hitler, un società di destra occidentale e laica; la Corea del Nord di Kim Jong-un, una società di sinistra orientale e laica; i Talibani dell’Afghanistan, una società orientale religiosa; i regimi teocratici a cui aspirano i fondamentalisti religiosi occidentali.

Nonostante tutte le loro differenze, queste società condividono la configurazione chiave del dominio:

* Consistono di gerarchie di dominio, non solo nello Stato ma anche nella famiglia e in tutte le istituzioni che stanno nel mezzo.

* Sostengono un sistema di valori basato sul genere. Danno un rango superiore al maschile sul femminile, con rigidi stereotipi su femminilità e mascolinità e, tramite questi, svalutano qualsiasi cosa considerata “tenera” o femminile a livello culturale, come l’avere cura, il prestare assistenza e la nonviolenza, che sono considerate cose totalmente non appropriate per i “veri uomini”, vanno bene solo per gli “effeminati” o per le deboli sorelle, e non sono parte del sistema di valori guida in ambito sociale ed economico.

* La terza componente chiave delle configurazioni sociali del dominio – e queste componenti si sostengono l’una con l’altra – è la violenza condonata e idealizzata socialmente. Dal pestaggio di figli e moglie ai pogrom allo stato di guerra cronico, mantenere i rigidi ordinamenti superiore-inferiore del dominio (uomo sopra donna, uomo sopra uomo, razza sopra razza, religione sopra religione e così via) richiede un alto grado di violenza incorporata, inclusa la violenza contro donne e bambini che, qui, stiamo lavorando per lasciare indietro.

Al contrario, la configurazione chiave del sistema di cooperazione consiste di:

* Una struttura democratica ed egualitaria sia nella famiglia che nello Stato o tribù, e in tutte le istituzioni che stanno nel mezzo.

* Relazione paritaria d’eguaglianza fra donne e uomini e, con questo, alta valutazione delle caratteristiche e delle attività cosiddette “tenere” o femminili sia nelle donne sia negli uomini, così come nelle politiche sociali ed economiche.

* Un basso livello di violenza incorporata; c’è qualche forma di violenza, ma non è necessaria a mantenere gerarchie di dominio. I sistemi orientati alla cooperazione hanno anche gerarchie, ma sono gerarchie relative alla concretizzazione, dove il potere – come vediamo sempre di più mentre tentiamo di muoverci verso la cooperazione – non è potere sugli altri, ma potere di fare e potere con gli altri.

Di nuovo, le culture che si orientano verso il lato della cooperazione possono per altri aspetti essere molto diverse. Possono essere società tribali, come per i Teduray delle Filippine; società agrarie, come per i Minangkabau di Sumatra; possono essere società tecnologicamente avanzate come Svezia, Finlandia e Norvegia.

Voglio sottolineare che l’archeologia, lo studio delle mitologie, gli studi sul DNA, la linguistica e altre discipline stanno documentando ora che per la maggior parte dell’evoluzione culturale umana le società sembrano essersi orientate primariamente sulla bilancia sociale verso la cooperazione.

Non sto parlando solo delle migliaia di anni in cui gli esseri umani hanno vissuto in società che raccoglievano-cacciavano cibo, il che è ormai documentato assai scrupolosamente, sto parlando delle nostre primissime società agricole.

Per esempio, la città turca di Çatalhöyük, dove andando a ritroso di 8.000 anni non vi sono segni di distruzione dovuta a guerre; non vi sono segni di grosse disparità fra abbienti e meno abbienti negli oggetti rinvenuti nelle case e nelle tombe e, come ha notato Ian Hodder (l’archeologo che attualmente sta scavando a Çatalhöyük), questa era una società in cui le differenze sessuali non si traducevano in differenze di status o di potere. (…)

Il nostro compito è inaugurare un’intera nuova visione del mondo in cui le questioni che direttamente hanno effetto sulle vite, e troppo spesso sulle morti, della maggioranza dell’umanità – donne e bambini – siano riconosciute come fattori chiave per costruire un futuro più equo, più sostenibile e più sicuro.

La prima pietra angolare: Relazioni nell’infanzia

Sappiamo dalla neuroscienza che quel che i bambini sperimentano e osservano nelle loro famiglie e nelle altre relazioni precoci interessa niente di meno che il modo in cui il nostro cervello si sviluppa e queste esperienze e osservazione sono direttamente modellata dal grado in cui un ambiente culturale si orienta verso la cooperazione o verso il dominio.

Considerate che quando relazioni familiari basate su violazioni croniche dei diritti umani sono considerate normali e morali, esse forniscono modelli per condonare violazioni simili in altre relazioni. E se queste relazioni sono violente, i bambini apprendono che la violenza di chi ha potere su chi ne ha meno è accettabile nel maneggio dei conflitti o problemi e per mantenere o imporre controllo. Non apprendono questo solo a livello emotivo e mentale, ma a livello neurale.

Questo è il motivo per cui le relazioni nell’infanzia sono così importanti e il motivo per cui abbiamo bisogno di una campagna globale per mettere fine alla pandemia di tradizioni di abuso e violenza nei confronti dei bambini.

La seconda pietra angolare: Relazioni di genere.

Come una società costruisce i ruoli e le relazioni delle due forme base dell’umanità – donne e uomini – non ha effetto solo sulle individuali opzioni di vita per donne e uomini, ha effetto sulle famiglie, sull’istruzione, sulla religione, sulla politica, sull’economia: ciò che consideriamo di valore o non di valore e ciò che crediamo sia morale o sia immorale.

Mentre il movimento globale delle donne si diffonde, più uomini hanno cura dei piccoli, più donne entrano in posizioni guida economiche e politiche, ma è tutto troppo lento. Ci stiamo mettendo troppo anche a cancellare la pandemia globale di discriminazione, abuso e violenza contro le donne che ho documentato in molti miei lavori.

Ciò di cui abbiamo urgentemente bisogno – e, di nuovo, ciò accadrà solo se lo faremo accadere – è una campagna globale per relazioni di genere eque e nonviolente. Ciò ci porta alla terza pietra angolare per costruire una società di cooperazione.

La terza pietra angolare: Relazioni economiche.

Le quattro fondamenta sono interconnesse e si rinforzano reciprocamente, perciò voglio cominciare con i nostri sistemi di valori sul genere e su come la svalutazione delle donne e del “femminile” abbia impatto diretto sulla generale qualità della vita in una società. C’è evidenza empirica di ciò in numerosi studi, i quali confermano come i Paesi che hanno un basso divario di genere sono anche i Paesi che hanno più successo economico.

Una ragione ovvia è che le donne sono metà della popolazione. Ma ce n’è un altra: sino a che metà dell’umanità a cui sono associati valori come cura, compassione e nonviolenza resta subordinata e esclusa dall’amministrazione sociale, così lo saranno questi valori.

Di conseguenza, gli attuali sistemi economici – siano capitalisti o socialisti – non sono capaci di affrontare le sfide senza precedenti che abbiamo di fronte a livello economico, ambientale e sociale. Sia il capitalismo sia il socialismo non solo vengono dall’era industriale, e noi siamo ormai ben avanti nell’era post-industriale, ma entrambi sono emersi in epoche che li hanno orientati notevolmente di più, nel continuum, verso il lato del dominio

Perciò, mentre possiamo voler conservare qualsiasi elemento di cooperazione vi sia nelle teorie capitaliste e socialiste, dobbiamo andare oltre entrambe verso quella che io chiamo “economia di cura”. Capisco che la gente resta allibita nel sentire “cura” e “economia” nella stessa frase, ma non è questo un terribile commento su come siamo stati socializzati ad accettare che i sistemi economici debbano essere diretti da valori insensibili?

Questo deve cambiare e un primo passo per il cambiamento è come misuriamo la salute economica. Perché ora sappiamo che se il valore del lavoro di cura nelle case fosse incluso nel PIL costituirebbe non meno del 30/50% di esso. In effetti, investire nella cura è molto redditizio, non solo in termini umani e ambientali ma puramente finanziari. Le nazioni nordiche erano così povere all’inizio del ventesimo secolo da soffrire di carestie, ma le loro successive politiche di cura furono un investimento chiave: oggi queste nazioni non solo hanno i più bassi tassi di divario di genere, ma regolarmente hanno alti posti in classifica nei rapporti sulla competitività economica del World Economic Forum.

Svezia, Norvegia e Finlandia hanno ora generalmente alti standard di vita per tutti, senza divari enormi fra abbienti e meno abbienti; hanno molta più equità di genere sia nella famiglia che nella società, perciò le donne sono circa metà del Parlamento nazionale. Per quel che riguarda la violenza, sono state pioniere sugli studi di pace e hanno emesso le prime leggi che proibiscono le punizioni fisiche ai bambini nelle famiglie.

Quel che vediamo qui è un forte movimento verso la configurazione della cooperazione – e una grossa parte di questa configurazione avviene perché avendo le donne status più alto queste nazioni danno maggior valore a caratteristiche e attività stereotipicamente femminili come sostegno, nonviolenza, cura; hanno congedi di maternità/paternità pagati generosamente, servizi per l’infanzia di alta qualità e universalmente accessibili; assistenza dignitosa agli anziani e altre politiche di cura. E questa configurazione sociale di cooperazione sostiene uno stile di vita più equo, pacifico, prosperoso e sostenibile. Ciò mi porta alla quarta pietra angolare: perché avreste mai saputo qualcosa di tutto questo dalle nostre narrazioni convenzionali?

La quarta pietra angolare: Narrative e linguaggio.

Le vecchie storie che abbiamo ereditato da tempi di dominio più rigido idealizzano la conquista e la dominazione – di persone o della natura – come mascoline, desiderabili e inevitabili. Queste storie non sono solo incapaci di adattamento, sono inaccurate. Noi esseri umani abbiamo un’enorme capacità di consapevolezza, cura e creatività, ma esse sono inibite o distorte in ambienti che privilegiano il dominio sulla cooperazione.

Per cui sta a noi, a voi, cambiare queste vecchie storie e questo è un tema portante in tutti i miei libri, perché noi umani viviamo di storie!

Dobbiamo anche operare cambiamenti nel linguaggio. Stante la nostra eredità culturale di dominio, non dovrebbe sorprenderci che le sole categorie in cui la nostra lingua descrive le relazioni di genere siano patriarcato e matriarcato. E questo cosa ci dice? Che le nostre uniche alternative sono: o comandano gli uomini o comandano le donne. La lingua che abbiamo ereditato da epoche di dominio più rigido non ha parole per descrivere relazioni di genere egualitarie, e questa è la ragione per cui il nuovo linguaggio della cooperazione è così essenziale.

(Ndt. Quel che io ho tradotto come “cooperazione” si poteva anche rendere come “mutualità”.)

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Cara Coop, ieri 14 febbraio ho ricevuto una lettera a firma dell’egregio sig. presidente Adriano Turrini (datata 10 gennaio), definita “una preziosa occasione per ringraziarti della fiducia che dimostri di avere per la Cooperativa” ecc. e che poi entra nel dettaglio di vari progetti.

In verità, la mia fiducia nella Cooperativa – già bassa per motivi che spiegherò di seguito – è scesa al suo minimo storico lo stesso giorno, in cui oltre alla lettera ho ricevuto la rivista Consumatori. Potrei sintetizzare il tutto con una domanda: Cara Coop, vorresti smettere di “bullizzare” i tuoi soci maschi e femmine che non rispondono all’attuale modello di “magra bellezza” spacciata per salute? Per farti un solo primo esempio, io duro una gran fatica a comprare tuoi prodotti contenuti in involucri che riportano dei bambini sull’altalena: per la precisione, nell’immagine due bambini piccoli stanno in alto a un’estremità mentre all’altra un bambinone schiaccia l’attrezzo a terra – non può giocare e impedisce ad altri di giocare, perché è grasso. La narrativa, oltre a essere falsa, è così chiara nella sua violenza e nei suggerimenti discriminatori correlati che io come socia non posso avallarla.

Qualche mese fa ho buttato Consumatori nella carta da riciclo prima di leggere completamente la rivista: l’occhio mi era caduto, sfogliandola, sull’articolo che definiva le persone grasse dei tossicodipendenti da cibo (divise però dottamente in tossici “sapidi” e tossici “dolci”). Dovrei ringraziarvi per aver fornito un insulto in più atto a marginalizzare persone giudicate esclusivamente in base alla loro apparenza non conforme? Prossimamente fornirete premi in forma di buoni per chirurgia plastica e liposuzione ai soci meritevoli?

Sul numero attuale il vostro sedicente esperto insiste: l’obesità è una malattia, se lo dice l’associazione dei medici statunitensi dev’essere vero – peccato che io sappia sia cos’è una malattia (e il grasso corporeo non lo è), sia che il BMI – Body Mass Index è stato ideato da un matematico belga per scopi non medici (fornire al suo governo i dati sul fabbisogno calorico medio di un maschio belga adulto – io sono una femmina italiana anziana e non so cosa farmene), sia cos’è realmente accaduto nel 2013 quando l’associazione medica suddetta – di cui purtroppo fanno parte individui con cospicui interessi nell’industria dietetica, come azionisti o come consulenti – ha rilasciato il suo rapporto: una meta-analisi di 97 studi precedenti. Per esempio, l’associazione ha rilevato che gli individui “sovrappeso” (secondo il BMI) hanno un rischio più basso di morte prematura degli individui con peso “normale” e che non c’era relazione diretta fra l’essere grassi e il morire prematuramente. Solo nei casi di un altissimo grado di obesità il rischio era presente. Il giornalista Paul Campos, per The New York Times, commentò la vicenda così: “Se il governo dovesse definire come peso normale quello che non aumenta il rischio di morte, allora circa 130 milioni dei 165 milioni di americani adulti attualmente definiti sovrappeso e obesi rientrerebbero nella categoria di un peso normale. Si tratta del 79%. Vale la pena ripeterlo: misurando il rischio di morte prematura, allora il 79% delle persone che al corrente svergogniamo per il loro peso sarebbe ridefinita come perfettamente normale. Ideale, persino. Diciamo che siamo felici di essere paffuti, sapendo come un corpo che felicemente bilancia soffice e forte sarà il tipo di corpo che ci porterà attraverso una vita intera.”

Ma no, ma no, è la salute: non aggrediamo le persone (le donne soprattutto) per il loro peso tramite programmi tv, annunci pubblicitari, film, libri, medici incompetenti, non le svergogniamo e non le insultiamo perché l’industria globale dei prodotti dietetici e farmaceutici diretti allo scopo ci guadagna una spaventosa pacca di miliardi l’anno. No, infatti le “medicine” per dimagrire hanno questa simpatica storia:

Dinitrophenol” 2 e 4: prodotto ritirato del mercato nel 1938 perché causava ipertermia fatale;

Amfetamine con il nome di “Obetrol” (assuefazione, vari effetti collaterali): prodotto ritirato dal mercato nel 1973;

Fen-phen” e “Redux”: prodotti ritirati del mercato nel 1997 perché causavano problemi al cuore;

Meridia”: prodotto ritirato dal mercato nel 2010 perché causava danni cardiovascolari e infarti;

Orlistat”: prodotto ancora sul mercato alcuni anni fa, ignoro se ora sia stato ritirato. Causa perdite continue di feci liquide, danno ai reni, non assorbimento delle vitamine e, vivaddio, alleluia, che gioia… modesta perdita di peso.

Ti serve altro, cara Coop? Altre ricerche, magari?

http://www.jabfm.org/content/25/1/9.abstract?etoc

http://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/10546694

Sono studi con un database che vanta 1.800.000 osservazioni su persone per almeno un anno:

http://www.cooperinstitute.org/ccls

e sostengono che la salute sia multidimensionale, non direttamente legata al peso corporeo, non interamente controllabile, e che le abitudini salutari siano cosa assai migliore per i corpi umani della perdita di peso. Di mio aggiungo che la salute non è un indicatore di valore delle persone umane.

Inoltre, checché creda il vostro “medico”, è proprio vero: la perdita di peso a lungo termine – parliamo di un ammontare superiore ai 15 chili per un periodo di almeno cinque anni – è quasi impossibile e l’oscillazione fra dimagrimento e ripresa del peso perduto fa decisamente male alla salute (cuore e reni sono quelli che ne risentono per primi):

http://www.cbc.ca/news/health/obesity-research-confirms-long-term-weight-loss-almost-impossible-1.2663585

Cara Coop, nonostante i tuoi “esperti” mi sputino in faccia dicendo che sono tossicodipendente e malata, e nonostante il mio peso e i miei quasi sessant’anni, le mie analisi di sangue e urina NON RILEVANO valori fuori norma. Chiaro? Persino la glicemia è a posto, sebbene io abbia avuto madre e nonna diabetiche. Sì, mi disturba doverti raccontare i fatti miei, ma non mi stai lasciando scelta, perché non mi rispetti come essere umano. Un essere umano grosso, largo, chiamami come ti pare e non accuserò offesa, ma che io resti tua socia dipenderà dal fatto che tu smetta di diffondere falsità sugli individui del mio tipo. Sono un membro attento e impegnato della comunità umana in cui vivo, sono in salute, resto titolare dei diritti umani iscritti nella Dichiarazione Universale del 1948 (diritti inviolabili, intangibili, inalienabili) qualsiasi sia la mia percentuale di grasso corporeo, sono stanca di bambine che si buttano dal balcone a 12 anni perché la propaganda in auge dice loro che sono troppo “pesanti” per essere degne di vivere e non intendo in alcun modo essere complice di quest’andazzo criminale.

Maria G. Di Rienzo, 15 febbraio 2017

P.S. Alcuni dati sono ripresi pari pari da miei articoli precedenti.

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equal measures

“Le bambine e le donne affrontano difficoltà sproporzionate.

Una donna muore a causa di complicazioni durante la gravidanza o il parto ogni due minuti.

Di media, le donne guadagnano il 77% di quel che guadagnano gli uomini.

Le ragazze passano dal 30 al 50% di tempo in più dei ragazzi aiutando nei lavori domestici.

Ogni dollaro speso per la salute materna, dei neonati e dei bambini genererà 120 dollari.

Chiudere il divario di genere sul lavoro aggiungerebbe 28.000 miliardi di dollari all’economia globale.

Istruire le bambine nell’Africa sub-sahariana sino alla fine delle scuole secondarie salverebbe un milione e ottocentomila vite l’anno.

EGUAGLIANZA DI GENERE: UN DIRITTO FONDAMENTALE CHE BENEFICIA TUTTI NOI.”

Così si apre l’opuscolo “From evidence to action – Creating a world where no girl or woman is invisible” (“Dalle prove all’azione – Creare un mondo dove nessuna bambina/ragazza o donna sia invisibile”) a cura di Equal Measures 2030 (equalmeasures2030.org).

La sigla indica una cooperazione fra gruppi della società civile e del settore privato per facilitare il collegamento tra dati e fatti relativi alla diseguaglianza di genere ad azioni e campagne per il cambiamento. Equal Measures 2030 dichiara di voler lavorare con i movimenti per i diritti di bambine e donne (e infatti conta per esempio fra gli aderenti l’Asia-Pacific Resource and Research Centre for Women, l’African Women’s Development and Communication Network – FEMNET, l’International Women’s Health Coalition e Women Deliver) e pro diritti umani per potersi confrontare con i decisori avendo come base una banca dati sul genere più ampia e in grado di generare analisi migliori, usando il tutto per accelerare il progresso verso l’eguaglianza di genere.

team equal measures 2030 new york

(la presentazione del gruppo di New York nell’aprile 2017)

Ho delle perplessità sulle motivazioni del settore privato che partecipa a questa iniziativa (profitto) ma l’indipendenza economica resta un fattore chiave per le donne nel liberarsi da tutti i tipi di violenza di genere, perciò ecco l’appello finale:

“Come Equal Measures 2030 siamo impegnati a lavorare con un ampio spettro di individui e organizzazioni. Abbiamo fame di nuove idee, di ispirazione e innovazioni e non vediamo l’ora di lavorare insieme per informare, ispirare, co-creare, propugnare e potenziare.

Ci sono diversi modi in cui possiamo unire le forze. Diamo il benvenuto a persone singole interessate, alle ong, alle reti di base, alle compagnie, ai ricercatori, ai donatori, agli accademici, ai tecnici che si occupano di aggregare i dati, ai governi e alle aggregazioni multilaterali che vorranno mettersi in contatto con noi.” http://www.equalmeasures2030.org/

Maria G. Di Rienzo

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Khawla al-Sheikh

Khawla al-Sheikh, nell’immagine, è una donna giordana che di professione fa l’idraulica. Nel 2004 frequentò un corso specifico offerto da un’agenzia per lo sviluppo assieme ad altre 16 donne, ma fu l’unica a mettersi poi effettivamente in affari. Nel 2015 ha messo in piedi una cooperativa a Amman offrendo lei stessa l’addestramento alle aspiranti idrauliche: la cooperativa oggi consta di 19 donne di differenti nazionalità, native e migranti. Allo stesso modo, nella città di Irbid, la rifugiata siriana Safa Sukariya ha costituito nel 2016 la prima ditta femminile per le riparazioni idrauliche con altre due profughe dal suo paese e due donne giordane.

Il mercato del lavoro per le donne, in Giordania, non è dei più favorevoli: anche quelle che hanno un alto livello di istruzione e trovano un impiego sono spesso spinte a lasciarlo da un cumulo di fattori – sono pagate clamorosamente meno degli uomini nelle loro stesse posizioni, sono loro richiesti orari più lunghi di quelli maschili, i trasporti pubblici sono inadeguati, gli asili per i loro figli mancano, gli ambienti di lavoro sono ostili, eccetera. E poi, la sanzione culturale per una donna che provveda a se stessa e alla propria famiglia uscendo di casa, magari svolgendo una professione ritenuta “maschile” come quella di idraulico, è ancora pesante.

Quindi, qual è la notizia che vi sto dando? E’ che Khawla e Safa (e le loro colleghe) se ne fregano.

“Questo mestiere ha bisogno più di donne che di uomini in Giordania. – ha spiegato la prima alla stampa – Nelle nostre comunità a un maschio estraneo non è permesso entrare in una casa se non ci sono altri uomini presenti. All’inizio non accettavano l’idea di donne idrauliche, ma adesso le richiedono esplicitamente: e noi guadagniamo abbastanza per vivere.”

Safa Sukariya, che come Khawla ha frequentato un corso offerto da un’organizzazione tedesca per la cooperazione internazionale, ha tre figli a cui pensare. Anche lei dice che, dopo l’iniziale rifiuto: “La gente ha cominciato a tollerare l’esistenza di una ditta composta da donne che vivono sole, in special modo le siriane che hanno perso i mariti in guerra. Tramite la nostra professione noi stiamo lottando per far quadrare pranzo e cena, pagare gli affitti e acquistare necessità di base.”

Per cui, chi storce il naso si rilassi pure e si ripari il lavandino da solo – le idrauliche non hanno intenzione di smettere. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Al-Monitor, UN Women, Reuters)

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the devil is in the details

The Devil is in the Details” – “Il diavolo sta nei dettagli” è uno studio pubblicato da AWID il 29 marzo scorso (ne sono autrici Ayesha Imam, Shareen Gokal e Isabel Marler), che potete leggere per intero qui:

http://www.awid.org/sites/default/files/atoms/files/final_web_the_devil_is_in_the_details.pdf

AWID (Association for Women’s Rights in Development) è un’organizzazione internazionale femminista impegnata a raggiungere l’eguaglianza di genere, lo sviluppo sostenibile e i diritti umani delle donne. Lo studio esamina la relazione fra le iniziative dirette allo sviluppo, la crescita dei fondamentalismi religiosi e lo stato dei diritti delle donne, presentando un’immagine globale della situazione.

Il documento mira anche a riempire i vuoti di conoscenza sui fondamentalismi religiosi che esistono nei settori del volontariato, della cooperazione internazionale, delle iniziative mirate allo sviluppo economico eccetera, fornendo raccomandazioni e esempi di buone pratiche.

Di seguito, vi ho tradotto un sommario sui sette indicatori che lo studio raccomanda di tener sempre presenti. Buona lettura, Maria G. Di Rienzo

1. Il controllo dei corpi, il controllo della sessualità e delle scelte delle donne sono le avvisaglie del crescere dei fondamentalismi.

SÌ: Agite quando le donne e le persone LGBTQI danno l’allarme sull’erosione della loro libertà.

NO: Non ignorate la diminuzione della libertà delle donne come non importante o “non il problema principale”.

2. Le politiche economiche neoliberiste hanno un impatto particolarmente negativo sulle donne e alimentano la crescita dei fondamentalismi religiosi.

SÌ: Sostenete modelli alternativi di economia che si concentrano sulla redistribuzione, sulla fornitura di servizi da parte dello stato e che mettono i diritti delle donne e la giustizia al centro delle proprie politiche.

NO: Non sostenete attività di sviluppo che minimizzano la responsabilità dello stato di fornire servizi e reti di sicurezza sociale.

Chiedete che stati, istituzioni finanziarie e corporazioni rispondano degli effetti delle loro politiche sui diritti umani e la giustizia di genere.

3. Scegliere organizzazioni religiose come partner predefiniti costruisce la loro legittimazione e il loro accesso alle risorse, e sostiene la loro ideologia, inclusa l’ideologia di genere.

SÌ: Date priorità a chi ha posizioni progressiste sui diritti umani, sui diritti delle donne e sull’eguaglianza di genere quando scegliete partner per iniziative sullo sviluppo.

Assicuratevi di esaminare accuratamente le posizioni di potenziali partner su questi argomenti.

NO: Non date per scontato che le istituzioni religiose debbano essere coinvolte nelle vostre iniziative sullo sviluppo, o che esse abbiano miglior accesso alla popolazione o godano della fiducia di quest’ultima.

Non scegliete partner basandovi su una convenienza a breve termine – date priorità a obiettivi a lungo termine su sviluppo sostenibile ed eguaglianza di genere.

4. Ogni persona ha multiple identità e dovrebbe essere definita da qualcosa di più della religione che professa. Mettere in primo piano le identità religiose tende a rinforzare il potere dei fondamentalisti religiosi.

SÌ: Usate un linguaggio non religioso, parlando degli scopi comuni: pace, giustizia, diritti, qualità della vita, fine della violenza, accesso all’acqua o a miglior cure sanitarie, per esempio.

Associate gli argomenti con risorse multiple: diritti umani ed eguaglianza di genere, legge costituzionale, interpretazioni religiose progressiste e dati empirici.

NO: Non riducete una comunità a un’identità singola basata sulla religione.

Non presumete che un discorso religioso conservatore sia l’unico con cui una comunità può entrare in relazione.

5. Religione, cultura e tradizione cambiano costantemente, essendo reinterpretate e sfidate. Ciò che è dominante è sempre una questione di potere.

SÌ: Assicuratevi che tutti nella vostra organizzazione siano sensibilizzati a un’analisi femminista, basata sul potere, di religione, cultura e tradizione.

Sostenete gli attori locali che danno modo alle persone di parlare di discorsi religiosi alternativi congruenti con i diritti umani e la giustizia di genere.

NO: Non accettate religione o cultura come scuse per la violazione di diritti umani o la subordinazione delle donne.

Non presumete che i leader religiosi, spesso uomini, rappresentino un’intera comunità religiosa.

6. Razzismo, esclusione e marginalizzazione aggiungono attrattiva all’offerta fondamentalista di senso di appartenenza e “causa”.

SÌ: Prendete posizione contro sia i razzismi sia i fondamentalismi religiosi. Chiedete allo stato di assumersi le sue responsabilità e di garantire diritti politici, civili ed economici alle comunità marginalizzate.

NO: Non opponetevi ai fondamentalismi in modi che rinforzano le narrative razziste.

Non sottraetevi allo sfidare la discriminazione e i fondamentalismi religiosi all’interno delle comunità minoritarie.

7. E’ fortemente dimostrato che il singolo fattore più importante nel promuovere i diritti delle donne è un movimento delle donne autonomo.

SÌ: Identificate le organizzazioni per i diritti delle donne che sono in prima linea nello sfidare le norme patriarcali religiose e culturali e date priorità alla loro inclusione in consultazioni e implementazione di progetti.

NO: Non date per scontato che organizzazioni internazionali con molti membri o molto note abbiano la conoscenza necessaria per occuparsi di istanze di genere.

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Digna ricorda ancora. Ogni assalto, ogni indegnità, nel corso di anni. Quando ne aveva cinque i soldati arrivarono a casa sua sparando, minacciarono di morte lei e la sua famiglia: semplicemente perché i familiari di Digna non volevano andarsene dalla terra in cui erano fittavoli per far spazio ai progetti delle multinazionali. Le altre famiglie di coltivatori fronteggiavano la stessa violenza, indifese dagli assalti di potenti proprietari terrieri spalleggiati dall’esercito e da un sistema politico-giudiziario corrotto.

digna e famiglia(Digna, al centro, e la sua famiglia)

Stiamo parlando dell’Hondurars, più precisamente della comunità agricola “La Confianza” nella valle di Bajo Aguan. Le 227 famiglie che ne facevano parte finirono a vivere sotto tende fatte di sacchetti di plastica, ma grazie alla loro forza di volontà nello stare e nel lottare insieme e al sostegno della comunità internazionale degli attivisti, nel 2011 riuscirono ad acquistare 4.000 ettari di terra in proprietà collettiva: oggi li lavorano come cooperativa, ripagando a poco a poco il debito che hanno contratto con lo stato. La sicurezza continua ad essere una delle loro principali preoccupazioni – le molestie nei loro confronti, sebbene meno eclatanti, continuano – ma ora che la loro storia ha varcato i confini dell’Honduras sono più difficili da aggredire e spaventare.

Digna ha attualmente 10 anni e frequenta la quarta elementare della scuola che la cooperativa agricola ha messo in piedi come primo progetto a partire dal suo insediamento. La sua mamma è un’assistente sanitaria volontaria che fa lavoro di istruzione e di cura nel Centro per la salute che è stato il secondo progetto portato a termine. A Digna piace aiutarla, in casa e fuori, e le piace studiare, ma compiti a parte ha anche il suo lavoro da fare, un lavoro che si è scelta lei stessa e che sognava da tempo: crescere un giardino pieno di fiori.

digna

(Ed eccola qui, con i primi risultati color rosa intenso)

Maria G. Di Rienzo

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