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Posts Tagged ‘#metoo’

(tratto da: “Women leaders driven offline and out of work by social media abuse”, di Annie Banerji e Sarah Shearman per Thomson Reuters Foundation, 14 novembre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Londra: l’abuso pervasivo delle donne sui social media sta spingendo le leader di sesso femminile fuori da internet e, in alcuni casi, fuori dal lavoro come è stato detto durante una conferenza giovedì.

A due anni dall’inizio del movimento globale #MeToo, con le donne che trovavano forza nel condividere le storie di molestie sessuali, ora il virulento abuso da loro subito online ne sta facendo uscire alcune dalla vita pubblica. Che si tratti di politiche o di attiviste, molte ne hanno avuto abbastanza e biasimano i loro detrattori digitali per la decisione di sottrarsi.

“Perché dovrei andare su una piattaforma dove sono chiamata cagna e puttana?”, ha detto Karuna Nundy, una delle avvocate più note dell’India, durante una pausa della conferenza annuale di Thomson Reuters Foundation a Londra. “Il “trolling” può essere estremamente disturbante. Può infiltrarsi nel tuo telefono, diventare assai personale e sbattuto in faccia.”, ha aggiunto Nundy, che si è aggrappata al proprio lavoro nonostante anni di diffamazioni online.

L’ex candidata alla presidenza degli Usa Hillary Clinton ha detto questa settimana che i social media – da Facebook a Youtube – premiano le pubblicazioni offensive e le teorie della cospirazione, molte delle quali dirette a donne dall’alto profilo. Il suo commento segue la notizia per cui un certo numero di donne politiche hanno dichiarato che non si presenteranno alle elezioni del 12 dicembre in Gran Bretagna, citando gli abusi subiti sulle piattaforme dei social media che includevano minacce di stupro e di morte. La Ministra della Cultura Nicky Morgan ha fatto riferimento agli alti livelli di abuso che le donne politiche “affrontano di routine” nella sua lettera di dimissioni. (…)

Le ditte che hanno la proprietà dei social media sono sotto pressione affinché rimuovano i bulli e Twitter ha promesso regole più dure sulle molestie sessuali online e anche penalità più severe per i trasgressori. Molte donne non possono esprimersi liberamente su Twitter senza timore di violenza, aveva detto Amnesty International l’anno scorso. Twitter non aveva commentato.

L’abuso può spaziare dal “doxing” – il rivelare dati personali come l’indirizzo di casa o il nome di un figlio – al postare immagini di nudo. “Sono le donne, in modo sproporzionato, a fare esperienza dei contenuti più ripugnanti.”, ci ha detto al telefono Julia Gillard, che è stata Primo Ministro dell’Australia. Sostiene che la rapida crescita dei social media ha significato diventare bersagli di aggressioni per un maggior numero di donne con un profilo pubblico.

La tecnologia in se stessa non è da biasimare, ha detto la scrittrice e attivista per i diritti delle persone disabili Sinead Burke (Ndt. – in immagine), invitando gli utenti a pensarci bene prima di pubblicare su piattaforme enormemente popolari come Facebook o Twitter.

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“Sì, possiamo dar la colpa alle piattaforme per i loro algoritmi… ma come ci assicuriamo che le persone capiscano di aver responsabilità per le proprie azioni?”, ha detto Burke, la quale vive con l’acondroplasia, una patologia della crescita ossea che causa il nanismo.

Burke ha ricordato come un ragazzino la saltò alla cavallina mentre il suo amico filmava la scena per avere un video da pubblicare sui social media, “in un tentativo di diventare virali”: “Il problema non è la tecnologia – sono le persone.”

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Quando ho imparato

angelica frausto

Ho imparato che l’aggressione sessuale era normale mentre stavo sull’autobus che mi portava a casa dalla scuola superiore.

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Qualcuno ha riso mentre succedeva.

Qualcuno ha lanciato occhiatacce.

Nessuno mi ha aiutata.

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Sapevo che l’aggressione sessuale era una cosa sbagliata…

Perciò forse non era quello che era successo a me.

Se fossi stata davvero assalita qualcuno mi avrebbe aiutata, giusto?

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Ho imparato che l’aggressione sessuale era normale quando l’autista dell’autobus ha continuato a guidare.

(Su sfondo giallo: Anch’io.)

E nessuno ha detto una parola.

Angelica Frausto, 2017 – trad. Maria G. Di Rienzo

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idris elba

Avrete probabilmente riconosciuto il signore in immagine: è l’attore – produttore – musicista – dj Idris Elba (Idrissa Akuna Elba, nato nel 1972) e credo dovremmo chiamarlo “sir” con il massimo rispetto non solo perché membro dell’Eccellentissimo Ordine dell’Impero Britannico (è la stessa onorificenza che ricevettero i Beatles, per capirci) ma per come ha risposto al Sunday Times che lo ha intervistato nei giorni scorsi.

L’articolista gli ha chiesto se trova “difficile essere un uomo in quel di Hollywood alla luce del movimento #MeToo”. E’ una domanda cretina e sessista a cui dozzine di attori / produttori hanno replicato con altrettante sciocchezze del tipo “ah, non avvicinerò più una donna” ecc. – seeeh, come gli credo.

L’indimenticabile protagonista di “Luther” (la prossima stagione di questa serie televisiva dovrebbe andare in onda all’inizio del prossimo anno) ha invece detto semplicemente: “E’ difficile solo se sei un uomo che ha qualcosa da nascondere.”

Maria G. Di Rienzo

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Malala Yousafzai, Premio Nobel per la Pace, attivista pakistana per l’istruzione e l’eguaglianza di genere, sopravvissuta alla pallottola sparatale in testa da un talebano, ha oggi 21 anni e studia filosofia e economia a Oxford.

malala australia

Il 10 e 11 dicembre 2018 era in Australia (dopo essere passata da Canada, Libano e Brasile) per parlare agli/alle studenti di Sydney e Melbourne, incoraggiandoli a usare i loro studi come mezzo per trovare e seguire le loro passioni e abilità. Ha ringraziato una volta di più suo padre per aver rigettato il bando imposto dai talebani sull’istruzione femminile e per averla sempre incoraggiata a usare la propria voce; ha ringraziato il movimento #MeToo per aver sollevato le questioni relative al sessismo nei paesi occidentali: “In occidente la faccenda non era mai stata menzionata prima in tale modo. Spero che renderà le persone consapevoli che si tratta di un’istanza globale e metterà in luce la discriminazione che le donne affrontano. La minor rappresentanza politica (delle donne) e le diseguaglianze sono globali.”

E ha detto anche: “Io prendo posizione per i 130 milioni di bambine che non hanno istruzione perché sono stata una di loro. E’ l’istruzione che permette alle bambine di fuggire dalla trappola della povertà e di guadagnare indipendenza e uguaglianza.

Ho cominciato a farmi sentire quando avevo 11 anni. Voi potete cambiare il mondo, quali che siano la vostra età, il vostro retroscena, la vostra religione. Credete in voi stessi e potete cambiare il mondo.

Maria G. Di Rienzo

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(A Letter To All The “Good Men,” From The “Angry Women”, di Desdemona Dallas per Bust, 27 novembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

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Questa è una lettera a tutti i bravi uomini. A tutti gli uomini che non hanno mai assalito una donna. A tutti gli uomini che amano le loro madri, le loro nonne, le loro zie. A tutti gli uomini che non si sono mai ubriacati alle superiori o non hanno mai toccato una ragazza quando lei ha detto di non voler essere toccata. A tutti gli uomini che pensano che amare le donne sia sufficiente a far sì che le donne non siano ferite.

Durante il movimento #MeToo, avete detto di star tentando di capire cosa noi abbiamo passato, quale pericolo si è generato per mano dei vostri colleghi o persino dei vostri amici. Durante il movimento, avete ascoltato radio e podcast, letto le notizie, e lentamente avete cominciato a vedere i vostri più grandi eroi cadere a causa delle donne che hanno aggredito. Forse a questo punto avete deciso che era una lotta da donne. Forse non avete visto un posto vostro nella conversazione.

Mentre guardavate i notiziari e gesticolavate pensando se stare al nostro fianco fosse o no la cosa giusta da fare per voi, noi stavamo di fronte alle giurie nei tribunali, di fronte agli ubriachi, di fronte a voi, chiedendovi di rispettare il nostro corpo, i nostri diritti, la nostra necessità di ascolto.

Mentre guardavate il nostro paese in procinto di essere divorato da un misogino “acchiappa-passere”, noi siamo andate in terapia. Abbiamo smesso con le notizie. Siamo rimaste chiuse nei bagni tremando, aspettando che il discorso di inaugurazione finisse. Noi abbiamo atteso ogni notte che l’incubo finisse, solo per svegliarci e trovare un altro uomo mostruoso sul podio.

Voi volete essere alleati, però ve ne state a bordo campo aspettando che un cambiamento accada. Noi abbiamo bisogno che voi siate schierati dove noi lo siamo. Abbiamo bisogno che siate migliori. Perché noi lo siamo state. Abbiamo parlato apertamente. Abbiamo fatto quel che potevamo. Mentre voi aspettavate negli angoli e ai margini, insicuri su cosa dire per creare un cambiamento durevole.

Ma noi non potevamo aspettare. Non avevamo tempo. Perché mentre voi temporeggiavate sul decidere se manifestarvi o no come alleati per l’eguaglianza e per il rispetto dei nostri corpi, noi eravamo stuprate, assalite, abusate, molestate per strada. Non è sufficiente che voi prendiate i vostri privilegi e vi nascondiate con essi in un angolo. Le donne “arrabbiate” da sole non possono convincere i poteri patriarcali a vederci come eguali.

C’è una parte di noi “donne arrabbiate” che prova sollievo, perché finalmente abbiamo raccontato le nostre storie e di come altre donne attorno a noi abbiamo avuto esperienze simili. Ma più profonda di ciò, della parte di noi che trova conforto, c’è la paura di non star cambiando nulla. Perché le donne sono ancora costrette a ergersi fieramente davanti alla nazioni e parlare dei propri traumi affinché noi si sia prese sul serio.

Tutto quel che stiamo chiedendo, per quel che riguarda l’aggressione sessuale e le molestie, è che voi smettiate di sostenere con il vostro silenzio lo stupro delle donne. Vi stiamo chiedendo di credere a noi donne quando diciamo che qualcuno si è fatto strada a forza dentro di noi. Stiamo chiedendo che quando qualcuno mette il proprio corpo sopra o dentro il nostro senza il nostro permesso voi stiate al nostro fianco, non contro di noi, nell’assicurare che tal persona sia trattata con lo sdegno che merita.

Il tuo silenzio non causa problemi e tu non hai mai fatto male a nessuno con la tua cortesia, tu bravo ragazzo. Ma il tuo silenzio permette agli orrori del mondo di continuare, perché non è più abbastanza che tu te ne stia seduto quietamente ai margini aspettando il cambiamento. Devi alzarti in piedi e chiedere cambiamento al nostro fianco. Cordialmente, le Donne Arrabbiate

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ilo conference

L’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sta tenendo la sua conferenza internazionale n. 107 – dal 28 maggio all’ 8 giugno 2018 – a Ginevra, in Svizzera. Oltre cinquemila funzionari di governo, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, provenienti dai 187 paesi membri dell’Organizzazione hanno come tema portante di cui discutere, durante questa sessione, il lavoro delle donne e le molestie sul lavoro.

Nel suo intervento d’apertura il direttore generale Guy Rider – in immagine sopra, assieme ad alcune rappresentanti delle lavoratrici – ha presentato il suo nuovo rapporto “L’iniziativa donne al lavoro: la spinta per l’eguaglianza” e ha citato la campagna #MeToo (Anch’io) in questi termini: “La nostra risposta a ogni chiamata all’azione, fatta a voce ancora più alta, dev’essere Anche noi.” e ha invitato i presenti a stabilire negoziati che aprano la strada a posti di lavoro “completamente liberi da violenza e molestie”.

Il rapporto di Rider ha sottolineato in un passaggio particolarmente importante la situazione delle lavoratrici palestinesi: schiacciate da una crisi “umanitaria e dagli uomini creata” che ha quasi totalmente distrutto economia e mercato del lavoro, non trovano impieghi decenti e sono soggette a discriminazione di genere.

“Le donne continuano a essere lasciate indietro nel mondo del lavoro. E di recente le cose sono peggiorate, non migliorate, specialmente in alcune regioni del mondo.”, ha detto Catelene Passchier, delegata dei lavoratori / delle lavoratrici.

Attualmente, 235 milioni di donne in più di un terzo delle nazioni non hanno leggi a cui appellarsi contro le molestie sessuali sul lavoro e, come tutte le violenze, ciò ha un costo: solo nell’industria dell’abbigliamento esso ammonta a 89 milioni di dollari l’anno. Perciò, gli organizzatori della conferenza sperano di far arrivare ai datori di lavoro l’idea che contrastare la violenza non è solo un imperativo etico, ma anche semplice buon senso se si vogliono avere maggiori guadagni. Maria G. Di Rienzo

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feminism reboot

Il breve documentario che potete vedere (con sottotitoli in inglese) seguendo questo link

https://www.koreaexpose.com/documentary-feminism-reboot-south-korea/

o cercandolo su YouTube, è stato realizzato dalla rivista “Korea Exposé” in occasione del secondo anniversario di un femicidio accaduto a un’uscita di metropolitana nel quartiere di Gangnam a Seul, in Corea del Sud. L’omicida assassinò una donna che non conosceva, scelta a caso, perché come dichiarò al processo lui odiava tutte le donne indistintamente. Ma guai a parlare di misoginia e del clima culturale che nel paese la favorisce, in tribunale o fuori: il tizio fu rubricato come malato di mente e tutto avrebbe dovuto finire lì.

La reazione delle donne, però, fu quella di un consistente “riavvio” o “nuova edizione” del femminismo – il documentario ha esattamente questo titolo, con l’aggiunta della frase “Siamo vive, proprio qui” – che ha comportato manifestazioni, azioni legali, creazione di circoli femminili, la massiccia e travolgente adesione alla campagna #metoo e un incremento di oltre il 100% (avete letto bene) nella vendita di testi femministi.

Quello di cui si sono rese conto molte giovani donne, alcune delle quali vedrete nel filmato, è che il femminismo, spacciato dai media coreani per ideologia anti-uomini, concerne in realtà il loro riconoscimento come esseri umani titolari di diritti umani, uno dei quali è il non essere costantemente umiliate, sessualizzate e aggredite poiché appartengono al genere femminile. Nonostante l’ostilità che circonda la loro scelta politica di dichiararsi femministe, reclamano questa definizione con orgoglio. E vederle e ascoltarle nel documentario è una benedizione.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto dal saggio: “Whose Story (and Country) Is This?”, di Rebecca Solnit, aprile 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Rebecca è una storica e un’attivista, nonché l’autrice di venti libri che spaziano dalla geografia all’arte al femminismo, e collabora con diverse riviste.)

rebecca solnit

(Rebecca Solnit, foto di David Butow)

Il comune denominatore di così tante narrazioni culturali strane e problematiche che incontriamo è una serie di presupposti su chi conta, su di chi è la storia, su chi merita la compassione e le coccole e la presunzione di innocenza, i guanti in pelle e il tappeto rosso e, in definitiva, il regno, il potere e la gloria. Voi sapete già di chi si tratta. Sono le persone bianche in generale e in particolare gli uomini bianchi protestanti, alcuni dei quali apparentemente sgomenti dall’aver scoperto che – come la mamma potrebbe aver già detto loro – esiste la condivisione. La storia di questo paese è stata scritta come se fosse la loro storia e l’informazione spesso ancora la racconta in questo modo: una delle battaglie della nostra epoca riguarda di chi tratta la storia, chi importa e chi decide. (…)

Un paio di settimane fa, l’Atlantic ha cercato di assumere uno scrittore, Kevin Williamson, il quale sostiene che le donne che abortiscono dovrebbero essere impiccate, e poi ha fatto marcia indietro a causa della pressione pubblica proveniente da persone a cui non piace l’idea che un quarto delle donne americane dovrebbero essere giustiziate.

Il New York Times ha assunto alcuni conservatori simili a Williamson, incluso il “dubbioso” sul cambiamento climatico Bret Stephens. Stephens ha dedicato una rubrica a simpatizzare per Williamson e indignarsi contro chiunque possa opporsi a lui. La simpatia nell’America che vuol vivere in una bolla va spesso automaticamente all’uomo bianco nella storia. Il presupposto è che la storia parli di lui; lui è il protagonista, la persona importante e quando, diciamo, leggi Stephens difendere Woody Allen e assalire Dylan Farrow per aver detto che Allen l’ha molestata, capisci quanto lavoro ha fatto immaginando di essere Woody Allen, e quanto insignificante è per lui Dylan Farrow o chiunque altra come lei.

Mi ricorda come alle giovani donne che denunciano stupri sia spesso detto che stanno danneggiando il radioso futuro dello stupratore, piuttosto di dire che probabilmente se l’è danneggiato da solo e che il loro radioso futuro dovrebbe avere qualche importanza. The Onion ha dato l’esempio perfetto anni fa: “Universitario star del baseball eroicamente supera il tragico stupro da lui commesso”. La scorretta distribuzione di simpatia è epidemica. Il New York Times ha definito l’uomo con alle spalle precedenti per violenza domestica che nel 2015 sparò nella clinica di Planned Parenthood a Colorado Springs, uccidendo tre genitori di bambini piccoli, “un gentile solitario”.

E quando il bombarolo che aveva terrorizzato Austin in Texas è stato finalmente arrestato il mese scorso, i giornalisti dei quotidiani hanno intervistato la sua famiglia e i suoi amici lasciando che le loro descrizioni positive si posizionassero come più valide del fatto che era un estremista e un terrorista messosi in opera per uccidere e terrorizzare gente di colore in un modo particolarmente feroce e codardo. Era un giovane uomo “quieto” e “studioso” che veniva da “una famiglia molto unita e timorata di dio”, ci fa sapere il Times in un tweet, mentre il titolo del Washington Post sottolinea che era “frustrato dalla sua vita”, il che è vero per milioni di giovani sull’intero pianeta che non ottengono tutta questa compassione e anche non diventano terroristi.

Il Daily Beast lo vede bene con un occhiello riguardante il più recente terrorista di destra, uno che si è fatto saltare in aria in casa propria, che era piena di materiali per fabbricare bombe: “Gli amici e i familiari dicono che Ben Morrow era un addetto di laboratorio che aveva sempre la Bibbia con sé. Gli investigatori dicono che era un bombarolo e credeva nella supremazia della razza bianca.”

Ma questo marzo, quando un ragazzo adolescente ha portato un fucile nel suo liceo nel Maryland e l’ha usato per uccidere Jaelynn Willey, i giornali l’hanno etichettato quale “malato d’amore”, come se l’omicidio premeditato fosse una reazione naturale a l’essere lasciato da qualcuno con cui hai avuto una relazione. In un potente ed eloquente editoriale sul New York Times, Isabelle Robinson, studente allo stesso liceo, scrive del “disturbante numero dei commenti che ho letto e che dicono più o meno: Se i compagni di classe e i compagni in genere del sig. Cruz fossero stati un pochino più gentili con lui, la sparatoria al liceo Stoneman Douglas non sarebbe mai accaduta.” Come lei nota, ciò pone l’onere – e quindi il biasimo – sul gruppo di pari, l’onere di venire incontro ai bisogni di ragazzi e uomini che possono essere ostili o omicidi.

Tale cornice suggerisce che siamo in debito di qualcosa verso di loro, il che nutre un senso di legittimazione, il quale a sua volta costruisce la logica della vendetta per non aver ricevuto quanto essi pensano noi si debba loro. Elliot Rodgers organizzò il massacro dei membri di un’associazione studentesca all’UC di Santa Barbara nel 2014, perché credeva che far sesso con donne attraenti fosse un suo diritto che quelle donne stavano violando e che un altro suo diritto fosse punire chiunque di loro o tutte loro con la morte. Ha ucciso sei persone e ne ha ferite quattordici. Nikolas Cruz diceva: “Elliot Rodgers non sarà dimenticato”. (…)

E poi ci sono i movimenti #MeToo e #TimesUp. Abbiamo ascoltato centinaia, forse migliaia, di donne parlare di aggressioni, minacce, molestie, umiliazioni, coercizioni, di campagne che hanno messo fine alle loro carriere, che le hanno spinte sull’orlo del suicidio. La risposta di molti uomini a ciò è la simpatia per altri uomini. L’anziano regista Terry Gilliam ha detto in marzo: “Mi dispiace per quelli come Matt Damon, che è un essere umano decente. E’ uscito a dire che non tutti gli uomini sono stupratori ed è stato pestato a morte. Andiamo, questo è folle!” Matt Damon non è stato davvero pestato a morte. E’ uno degli attori più pagati sulla faccia della Terra, il che è un’esperienza significativamente differente dell’essere battuti sino a morire.

Il seguito di approfondimento sulla sollevazione politica di #MeToo è troppo spesso stato: in che modo le conseguenze del maltrattare orrendamente le donne da parte di uomini hanno effetto sul benessere degli uomini? Agli uomini va bene quel che sta accadendo? Ci sono state troppe storie su come gli uomini si sentano meno a loro agio, troppo poche sulle donne che potrebbero sentirsi più sicure in uffici da cui colleghi molestatori sono stati rimossi o sono almeno non più così certi del loro diritto di palpare e molestare.

Gli uomini insistono sul proprio comfort come un diritto: il dott. Larry Nassar, medico sportivo che ha molestato più di cento bambini, ha obiettato al dover ascoltare le sue vittime raccontare ciò che lui aveva fatto, basandosi sul fatto che ciò interferiva con il suo comfort.

Noi, come cultura, ci stiamo muovendo verso un futuro che prevede più persone e più voci e più possibilità. Alcuni individui sono lasciati indietro non perché il futuro non li tolleri, ma perché loro non tollerano questo futuro. (…) Questo paese ha spazio per chiunque creda ci sia spazio per tutti. Per quelli che non la pensano così, be’, è in parte una battaglia su chi controlla le narrazioni e sul soggetto di tali narrazioni.

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(brano tratto da: “The disbelieved: rape accusers’ stories retold on stage”, di Helen Pidd per The Guardian, 25 aprile 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. L’immagine è di Christopher Thomond.)

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Un processo per stupro finisce con la sentenza di non colpevolezza. L’accusato rilascia una sprezzante dichiarazione sui gradini del tribunale. Ma della donna la cui denuncia ha dato inizio al procedimento legale non sentiamo nulla. A prescindere dal verdetto, lei resta anonima per la sua vita intera, a meno che non sia processata per false accuse. Potrebbe voler raccontare la sua storia ma i media non possono, non vogliono, pubblicarla. Lei non è stata creduta e farle pubblicità equivarrebbe a suggerire che la giuria ha sbagliato.

Un luogo e un lavoro teatrale specifici, nella città di Bolton, forniranno questa settimana (ndt. 26-28 aprile) una tribuna alle “non credute”.

“Trial” – “Processo” della compagnia teatrale Monkeywood Theatre di Manchester, si basa sulle storie di donne reali che hanno sofferto violenza sessuale ed esplora il devastante impatto dell’essere raffigurate come bugiarde. Messo in scena nella sala consiliare di Bolton, che un tempo era un’aula giudiziaria, presenta quattro storie individuali tessute insieme dagli estratti della trascrizione di un vero processo per abuso sessuale.

Tutti i dati che potrebbero condurre a identificazioni sono stati omessi dalla trascrizione per evitare reclami per diffamazione da parte dell’imputato, ma il caso è centrato su dichiarazioni fatte nel tempo da una serie di donne, che dissero di essere state manipolate da lui sin da quando erano bambine.

La compagnia teatrale ha incontrato una delle querelanti, che ora è sulla quarantina e dichiarò alla giuria di essere stata abusata fra gli 8 e i 12 anni. Ha dato il suo benestare affinché la sua storia sia usata e ora lavora con le sopravvissute alla violenza sessuale, come racconta la co-direttrice artistica di Monkeywood Theatre, Sarah McDonald Hughes, che ha scritto uno dei quattro pezzi che compongono “Trial”. (…)

“Nessuno sta dicendo che non sia terribile essere accusati falsamente. Ma se si guarda alla percentuale delle persone che presentano false accuse essa risulta piccolissima, a confronto con il numero di denunce per stupro che terminano con una condanna. – spiega Sarah McDonald Hughes – Questo non è un lavoro teatrale su quante volte gli uomini sono accusati falsamente. Stiamo raccontando storie che percepiamo largamente non narrate e non viste su un palcoscenico, personaggi che non vedete e che, se vedete, sono usualmente ritratti in un determinato modo.” (…)

Qualche sopracciglio potrebbe alzarsi per la scelta di un regista maschio, il membro di Monkeywood Martin Gibbons, il quale ammette di aver lui stesso dubbi sul suo ruolo. Ma per McDonald Hughes non è un problema: “Capisco le ragioni per avere una regista donna, ma questa non è una “questione delle donne”. E’ davvero importante che gli uomini la affrontino. E’ un problema di tutti. All’interno del dibattito su #MeToo, vedi spesso uomini farsi avanti perché possono immaginare che si tratti della loro sorella o della loro figlia e questo mi fa venir voglia di strapparmi i capelli. Dovrebbe importartene perché lei è una persona.”

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La domanda me la sono posta anch’io: dobbiamo proprio parlare del sig. Karl Lagerfeld?

Quanto questo famoso stilista (che lavora per Chanel e Fendi) ami, capisca e dia valore alle donne ci è chiaro da tutta la sua carriera.

https://lunanuvola.wordpress.com/2014/10/08/la-sfilata/

La settimana scorsa, nell’intervista concessa a “Numéro Magazine” ha solo messo qualche ciliegina sulla torta, dichiarandosi “stufo marcio” dei movimenti che contrastano le molestie e la violenza sessuale, in particolare #metoo, e delle donne “che ci mettono vent’anni per ricordare” ciò che hanno subito.

In realtà le donne restano in silenzio grazie alle minacce, alle pressioni, al timore di essere trasformate da vittime in perpetratrici (bugiarde, a caccia di soldi, vogliono vendicarsi ecc.) e a quello di perdere il lavoro, ma non importa, Lagerfeld ha comunque un buon consiglio per quelle che il lavoro ce l’hanno nel suo ambiente:

“Se non vuoi che ti tirino giù le mutande, non diventare una modella! Vai in convento, ci sarà sempre posto per te in convento.”

Lagerfeld ha 84 anni e questa lunga vita non gli ha insegnato nulla: le donne sono puttane o suore, senza mutande e a disposizione o indisponibili con le mutande di latta.

A questo punto l’unica risposta possibile per lui è: “Se non vuoi rispettare l’umanità e la dignità delle donne smetti di fare il designer. Vai in ospizio, ci sarà sempre posto per te in ospizio – e considerata la valanga di soldi in cui sguazzi sarà persino un ospizio di lusso, con le carte per giocare a tressette filettate in oro. Il personale di sesso femminile te lo terremo distante.”

Maria G. Di Rienzo

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