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Asilo

(“Asylum”, di Hala Alyan, poeta contemporanea palestinese-americana e psicologa clinica. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

asylum seekers

Dissero di bruciare le chiavi

ma solo i nostri capelli presero fuoco.

Camminammo verso i confini

con fotografie e lettere:

qui è dove la morte è diventata

la loro morte, qui è dove

hanno accoltellato i bambini.

I giudici ci chiamano dentro

in base alle nostre città. Jericho. Latakia. Haditha.

Giuriamo su un dio che non abbiamo mai incontrato, di amare

i laghi, le calotte di ghiaccio,

una gelata dietro l’altra,

ma di notte nei nostri sogni

la biblioteca è bruciata,

le pere erano ancora fresche in dispensa.

Abbiamo atteso che il nostro villaggio alluvionato

fosse prosciugato, che i ponti di pietra fossero ricostruiti.

Abbiamo mangiato le chiavi di casa col sale.

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margolyes

L’attrice Miriam Margolyes – in immagine – è nata nel 1941 in una famiglia ebraica. E’ dichiaratamente lesbica e ha una relazione con l’australiana Heather Sutherland dal 1967. E’ una sostenitrice della causa palestinese perché, dice, “Il nostro dovere come esseri umani è testimoniare la verità che vediamo”.

In questo momento Miriam si trova a Londra, nel mezzo della quarantena, ma l’anno scorso ha viaggiato per più di 10.000 chilometri e più di due mesi in Australia allo scopo di realizzare un nuovo documentario della rete televisiva ABC, “Almost Australian”.

I brani che seguono sono tratti da “Miriam Margolyes: ‘The government is utterly deplorable. The world is in chaos’ “, l’intervista che Brigid Delaney le ha fatto per The Guardian il 10 maggio 2020; la traduzione è mia.

“Quello che mi ha sbalordito è che per alcune persone l’economia è più importante della gente e dovremmo uscire dal lockdown e tornare alla normalità. – dice Margolyes – E sembrano perfettamente preparati a sacrificare gli anziani. Questi ultimi sono stati descritti come non importanti per l’economia e come se non dessero alcun contributo.

Una delle cose che devo impedire a me stessa di fare è il leggere i commenti sotto articoli di questo tipo. Quelli del Daily Telegraph sono terrificanti. (…) C’è troppo odio (in Gran Bretagna). Il paese è in uno stato terribile a causa della Brexit e poi del virus. E’ indegno. Non sono contenta dell’Inghilterra. Il governo è totalmente deplorevole.”

Nel documentario citato all’inizio, l’attrice ha parlato con persone affette dalla siccità, persone appartenenti a remote comunità indigene e richiedenti asilo. La giornalista le ha chiesto come ha fatto a entrare in relazione con individui che avevano ogni tipo di retroscena.

“Non mi presento come una celebrità: mi presento come un’amichevole anziana signora. – risponde Margolyes – Sono ancora in contatto con alcune delle persone che ho incontrato per il programma, ci scambiamo e-mail. Tutte le volte in cui faccio cose del genere, non sono oggettiva verso le persone con cui parlo. Devo interagire con loro in modo personale. Non sono una reporter, non ho quel tipo di abilità, ho solo la mia personalità da usare come ponte fra me e le altre persone. E tutto nello show è spontaneo. Non so in anticipo chi incontrerò.”

Prima di accettare l’incarico, Margolyes ha chiesto ai produttori di “Almost Australian” l’assicurazione che le comunità indigene sarebbero state nel programma:

“Ma mi sento ancora turbata dalla relazione fra gli australiani bianchi e le Prime Nazioni. Vorrei che fosse migliore.” Gli australiani possono risentirsi delle critiche, particolarmente di quelle provenienti dagli inglesi, dice l’attrice: “Dicono: Chi diavolo è questa, viene qua, si compra una casa e poi ci getta dentro immondizia? Ma io voglio che l’Australia diventi migliore.”

Maria G. Di Rienzo

Big Fat Adventure

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Gaza Palestine

(Murales a Gaza, Palestina)

“La pace non è solo assenza di guerra. Molte donne durante il lockdown per il Covid-19 fronteggiano violenza dove dovrebbero essere più al sicuro: nelle loro case. Oggi faccio appello per la pace nelle case di tutto il mondo. Chiedo con urgenza ai governi di mettere la sicurezza delle donne al primo posto nel mentre rispondono alla pandemia.”

António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, 6 aprile 2020

(Un esempio? In Turchia la quarantena è cominciata l’11 marzo. Nei seguenti 20 giorni sono state assassinate da partner, mariti, fidanzati ecc. 21 donne.)

Maria G. Di Rienzo

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Quando ieri ho letto che il sig. Salvini ha dichiarato di aver “affidato l’Europa a Maria”, la mia mente ha prodotto alcune buffe – sarcastiche – amare riflessioni.

La prima (giacché è il mio nome): “Veramente non ricordo mi avesse chiesto niente.”

La seconda: “Maria è la dog sitter e Europa è una femmina di alano.”

La terza: “Si riferisce a Maria di Nazareth come se fosse al suo servizio.”

La quarta: “Maria era palestinese.”

Alla fine degli anni ’90, uscì per Harper & Collins “Women in the Bible” – “Donne nella Bibbia”, di Elizabeth Fletcher. Insegnante di religione per un decennio, finissima studiosa, con questo testo calava nella realtà storica i personaggi femminili del Vecchio Testamento, contestualizzandoli.

Bedouin girl

La sua descrizione di Maria di Nazareth è online dal 2006 e la foto sopra è una di quelle che Fletcher ha usato per darci un’idea di come Maria fosse realmente (anche le altre immagini in questo articolo hanno tale scopo). Ve ne traduco un piccolo pezzo:

Chi era Maria di Nazareth?

Dipende da a quale Maria vi riferite. Ce ne sono due:

– una ragazza ebrea di campagna vivente in una remota provincia dell’Impero Romano, e

– la semidea Vergine Maria, nelle chiese cristiane in tutto il mondo.

Questa pagina descrive la prima.

Che aspetto aveva Maria?

Maria, la futura madre di Gesù di Nazareth era una giovane campagnola, probabilmente alta meno di un metro e mezzo, con lucidi capelli neri oliati e divisi nel centro, con la scriminatura dipinta di rosso o porpora. Doveva essere vigorosa, robusta, con piccoli seni paffuti e forti mani scure rese callose dal lavoro. (…)

Peasant woman Ramallah

La sua lingua era l’aramaico. Maria lo parlava con ampio accento galileo, sdegnato dai sofisticati abitanti di Gerusalemme. Doveva essere una che parlava molto e in modo convincente: essere capaci di parlar bene è sempre stata un’abilità apprezzata fra gli ebrei. Maria l’avrebbe pensata allo stesso modo. La sua era una società “orale” dove storie, preghiere e poesie si imparavano a memoria anziché leggendo. Il grande nemico delle società antiche era la noia. Raccontare storie e avere conversazioni significative erano modi per tenere la noia alla larga. Una buona chiacchierata era il passatempo principale. Essere capace di intrattenere le persone ti rendeva prezioso – poiché prima o poi chiunque si annoiava prima che inventassero la carta stampata. (…)

Maria viveva in una famiglia allargata. C’erano almeno otto o dieci persone a dividere la casa. Il nucleo familiare odierno semplicemente non esisteva. Non avrebbe funzionato. C’erano troppe faccende che necessitavano il lavoro collettivo di più persone.

Siamo così abituati ai dipinti di una Maria solitaria o di una Sacra Famiglia di tre persone da aver dimenticato che Maria veniva da una larga famiglia/comunità di Nazareth. Maria e le donne della sua famiglia lavoravano insieme negli stessi modi, condividendo tutto. Il suo lavoro non era limitato alla casa. La Galilea, dove lei viveva, era il paniere del regno ebraico. C’erano frutteti, boschi di olivi e vigne di cui curarsi e naturalmente le coltivazioni di grano piantate e mietute annualmente. Le donne facevano un mucchio di lavoro nei campi. (…)

peasant girl palestine

All’età di 11 o 12 anni, Maria ebbe le prime mestruazioni. Ciò significa che era in età da matrimonio, in aramaico una betulah. Il termine corrispondente in ebraico, l’antica lingua dei testi religiosi, è almah. Ricordate questa parola. Significa “giovane donna in età da marito” – poteva essere vergine, ma non necessariamente. (…)

Era scontato che Maria si sarebbe sposata. Dio aveva dato il comandamento “crescete e moltiplicatevi” a Noè, perciò gli ebrei credevano fosse loro dovere sposarsi e avere bambini. Ogni persona che passava i vent’anni senza essere sposata non stava compiendo la volontà di Dio – il che fa riflettere su Gesù, se fosse sposato o no o chi avrebbe potuto sposare. (…)

La gente nei tempi antichi sapeva che era pericoloso per una donna partorire prima dello sviluppo completo del suo giovane corpo. Poteva ricavarne una disabilità permanente.

Così (dopo il fidanzamento) il matrimonio era differito, usualmente di un anno. In questo periodo non c’erano contatti sessuali fra i due promessi.”

Ma, come sapete, Maria resta incinta. Elizabeth Fletcher sottolinea che le donne della famiglia, grazie anche ai rituali (abluzioni ecc.) e alle necessità relative alle mestruazioni, devono essersi accorte subito che qualcosa non andava. Al di là dello Spirito Santo e della nascita miracolosa da una vergine – concetto che entra successivamente sulla scena narrativa per ragioni teologiche: in questo modo Gesù poteva essere equiparato a divinità precedenti che parimenti vantavano nascite miracolose senza perdere nel confronto – quel che abbiamo è una fidanzata incinta non dell’uomo che sta per sposare e quindi delle nozze messe in discussione.

Ci sarebbe molto altro nell’affascinante e preciso saggio di Fletcher, ma per i miei scopi è sufficiente fermarsi qui. Il finale recita:

“La contadina della Galilea, con i suoi piedi sporchi e la sua figura tarchiata, è stata completamente dimenticata. Durante i secoli, un’altra donna è apparsa al suo posto – innocua, distaccata e amorevole allo stesso tempo, sontuosamente vestita, quasi sempre con un solo bimbo fra le braccia (lo scritto ipotizza con buon margine di probabilità che Gesù non fosse figlio unico).

E’ impossibile riferire questa dea serena a quel che Maria è stata durante la sua vita, una ragazza “disonorata” che si trovò ad essere la madre di un estremista religioso giustiziato come criminale.

Il mondo cristiano ha fatto di Maria una dea, dando all’immagine di lei la forma che serviva ai suoi bisogni. La donna reale è stata persa nelle nebbie del tempo.”

Riassumendo: lo zelota della Padania indipendente ha “affidato l’Europa” – come fosse qualcosa di suo – a un’ebrea palestinese così totalmente diversa dalle sue fidanzate o dalle sue lacchè “giornaliste”, che se la incontrasse per strada la farebbe portar via dalla Digos o le metterebbe in mano di persona un decreto di espulsione.

Maria G. Di Rienzo

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(“Meet Suhad Babaa, Israel/Palestine”, Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

suhad

Suhad Babaa è la direttrice esecutiva di “Just Vision” – “Solo Visione”, un’organizzazione che usa il mezzo del documentario per riformare le narrazioni sull’occupazione israeliana della Palestina e sostenere il lavoro della società civile palestinese e israeliana. Recentemente, Suhad è stata la produttrice del film di Just Vision del 2017 “Naila and the Uprising” (“Naila e la Sollevazione”), che segue la vita e il lavoro di Naila Ayesh e altre donne leader della Prima Intifada.

Come hai sviluppato interesse nel costruire pace in Palestina e Israele?

Io dico sempre che la mia storia mi precede: mio padre è palestinese, mia madre è coreana, e entrambi sono cresciuti nel mezzo di guerra, conflitto e dopoguerra. Crescendo in California, in una casa dove convivevano fedi diverse, ho sempre faticato un po’ con le questioni relative all’identità e con l’impatto di guerra e conflitto sulla nostra famiglia, all’interno di uno scenario fatto di razza, etnia e religione.

Dopo l’11 settembre, ho osservato il governo statunitense cominciare a lanciare la sorveglianza sulle comunità musulmane in tutto il paese. E’ stato allora che mi sono posta domande sul modo in cui ciò che stava accadendo nel Medioriente aveva un impatto sulle nostre stesse pratiche e ancor di più sulle storie che stavamo ricevendo e che influenzavano il modo in cui l’opinione pubblica e il governo avrebbero agito.

Ho finito per trasferirmi in Israele e Palestina dopo l’università e ho lavorato sul campo con incredibili attivisti. Ma le loro voci negli Usa non si sentivano, ne’ erano amplificate localmente. Volevo davvero sostenere il loro lavoro, perciò è stato logico che io sia arrivata a Just Vision, ove il nostro mandato è amplificare le voci dei leader della società civile palestinese e israeliana.

Puoi parlarci del movimento per la pace in Palestina e Israele e del ruolo che in esso hanno le donne?

C’è una lunga eredità di resistenza nonviolenta in Palestina, inclusa la mobilitazione di massa della Prima Intifada – la prima sollevazione che accadde alla fine degli anni ’80. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il nostro film documentario più recente sull’istanza, “Naila e la Sollevazione”, ci siamo imbattuti in qualcosa di importante.

Mentre andavamo in profondità, abbiamo capito che parte del motivo per cui il movimento aveva avuto tanto successo era che le donne giocavano un ruolo determinante nel processo decisionale. Sapevamo che la Prima Intifada era stata così efficace, in parte, perché era stata in grado di organizzarsi trasversalmente a genere, classe, partiti politici ed età in Israele e in Palestina. Ma non sapevamo che non solo le donne erano le partecipanti: erano in effetti quelle che chiamavano all’azione.

Le donne sono sempre state in prima linea in Palestina, che si trattasse della Prima Intifada o di Budrus, dove c’era una grande rappresentanza di donne. E perciò la questione per noi, come organizzazione, era assicurarci che fossero visibili. Perché noi crediamo che la loro visibilità conduca alla legittimazione il che nel tempo, alla fine, conduce all’aumento dei loro ruoli guida.

Perché è importante per le donne essere narratrici?

Io penso che sia sempre importante che le comunità possano raccontare le proprie storie. Just Vision è una squadra guidata da donne, sia per intenzione sia per caso. Ma mette in moto le nostre capacità di dar copertura a storie come quella che abbiamo narrato nel documentario “Budrus” e di capire il ruolo che le donne hanno svolto nella città di Budrus. Le donne sono spesso al timone dei movimenti storici, pure restano invisibili nei libri di Storia. E questo ha profonde conseguenze su come vediamo e comprendiamo la Storia, il nostro presente, il nostro futuro e chi sono i nostri leader.

In che modo aumentate la copertura giornalistica e il sostegno ai movimenti per la pace della società civile in Palestina e Israele?

C’è un bel po’ di copertura giornalistica su Israele e Palestina, ma sovente queste storie rinforzano una narrativa di violenza o di sforzi falliti dall’alto in basso. Ciò rende invisibili o criminalizza gli attivisti sul campo e la questione sembra quindi intrattabile. Semplicemente, non è vero. Quando esaminiamo la diseguaglianza, alcune delle oppressioni più profondamente radicate, sappiamo che quel che ci vuole è il potere popolare: comunità galvanizzate per far pressione sui loro leader politici che o non hanno agito o hanno fatto sistematicamente le cose sbagliate. Questo è anche il caso di Israele e Palestina.

Il lavoro di Just Vision consiste nell’essere complementare alla copertura dei media mainstream e nello sfidarla, presentando storie che sono poco documentate, critiche e che, allo stesso tempo, hanno il potere di ispirare, mobilitare e motivare le persone.

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(tratto da: “Gaza women navigate different forms of siege”, un più ampio servizio della fotografa freelance Asmaa El Khaldi di Gaza, Palestina, per News Magazine TRT World, 3 ottobre 2018. Le immagini sono sue. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Mentre Israele continua a strozzare la città con un assedio militare, alcune donne stanno perseguendo i propri sogni lottando contro varie difficoltà, inclusa l’attitudine bigotta di altri palestinesi. Nella striscia di Gaza le donne si muovono in mezzo a un mucchio di costrizioni – dai reticolati di filo spinato delle forze israeliane ai propri simili palestinesi che dicono loro cosa devono fare e cosa no.

majd - foto di asma el khaldi

L’assedio di Gaza ha prosciugato molti rifornimenti essenziali, incluso il cemento. Un’ingegnera civile di 23 anni, Majd Mashharawi – in immagine sopra – un giorno ha notato un edificio ed esaminandolo ha scoperto che le sue fondamenta erano deboli.

Mashharawi ha deciso di produrre mattoni: molto più durevoli di quelli importati. E si è assicurata che la sua produzione fosse sostenibile a livello ambientale.

Assieme a Rawan Abdulatif ha raccolto tonnellate di cenere di carbone e l’ha trasformata in quelle che loro chiamano “tortine verdi”, un’alternativa al cemento che costa il 25% in meno dei normali blocchi da costruzione. Inizialmente, gli imprenditori edili e i muratori non hanno preso sul serio il lavoro di Mashharawi. Lei se n’è fregata delle prese in giro e del fatto che la chiamassero in modo derisorio “la ragazza dei mattoni”: le lastre di calcestruzzo che lei produce dalla cenere di carbone sono più leggere, assai più forti e più a buon mercato dei mattoni ordinari.

Mashharawi ha vinto diversi premi a livello locale e internazionale, incluso il concorso “Gaza Entrepreneur Challenge”, indetto e sponsorizzato dalle Nazioni Unite in collaborazione con l’iniziativa giapponese Gaza Innovation Challenge (JGIC). La gente sta lentamente dando riconoscimento al suo lavoro. Mashharawi è decisa a realizzare il suo sogno di rendere le “tortine verdi” conosciute in tutto il mondo.

salwa - foto di asma el khadi

Salwa Srour – in immagine sopra – una 52enne palestinese nubile, si è invece assunta il lavoro di guidare per i bambini dell’asilo. Lei e sua sorella Sajeda organizzano un asilo da circa 10 anni. Quattro anni fa, diverse famiglie si lamentarono degli autisti maschi che portavano i loro bambini alla scuola privata. Le due sorelle non volevano perdere i loro scolaretti, perciò Salwa è diventata l’autista dell’autobus scolastico.

Ayisha Hussain è una donna palestinese di 36 anni e ha sette figli. E’ l’unico fabbro di sesso femminile a Gaza. Hussain ha ereditato il lavoro da suo marito vent’anni fa. Quando quest’ultimo si è ammalato, lei è diventata la sola a mantenere economicamente la famiglia.

Lavora sotto una vecchia tenda di tela cerata. Sebbene il lavoro sia duro e le spezzi la schiena, Hussain si sente realizzata. Le sue figlie le danno ogni tanto una mano, sebbene lei non desideri che i suoi bambini facciano la sua stessa vita.

Le piacerebbe avere una vera officina, un giorno. Alcuni dei vicini di casa la sostengono, mentre altri si lamentano dei rumori metallici che vengono dal suo luogo di lavoro. Guadagna dai 4 euro e mezzo ai 10 e mezzo a giornata. Sebbene il danaro non sia sufficiente a coprire le spese primarie di sostentamento, lei è orgogliosa di essere finanziariamente indipendente.

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lena

(“Upon Arrival”, di Lena Khalaf Tuffaha – in immagine – poeta, scrittrice, traduttrice, saggista e giornalista. Lena è l’Autrice di due famose e premiate raccolte di poesie, “Water & Salt” e “Arab in Newsland”. Di origini palestinesi, giordane e siriane, attualmente residente negli Usa, ha vissuto e viaggiato all’interno del mondo arabo e spesso il suo lavoro racconta l’esperienza dell’attraversare confini geografici, culturali e politici, nonché i confini fra i linguaggi e i differenti tempi delle nostre vite. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

IN MERITO ALL’ARRIVO

Dovrai dichiarare la ragione della tua visita.

Non dire è perché voglio camminare lungo vecchie strade

e accarezzare mura di pietra del colore della mia pelle.

Dovrai dichiarare la ragione della tua visita.

Non dire è perché le olive sono pronte per il raccolto

e io attirerò il frutto giù dagli alberi,

lo spremerò in oro liquido.

Dovrai dichiarare la ragione della tua visita.

Non dire è perché la casa dei miei genitori

siede ancora vuota su una scogliera che si affaccia sul mare,

le persiane verdi che mio nonno aveva appena dipinto

restano chiuse e sigillate

e l’esercito ha registrato i titolari della proprietà

come assenti.

Dovrai dichiarare la ragione della tua visita.

Non dire è perché sto portando nella valigia preghiere

per un popolo che attende,

e distenderò per loro

lenzuola ricamate di versi

e le distribuirò su tutta la terra.

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ilo conference

L’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sta tenendo la sua conferenza internazionale n. 107 – dal 28 maggio all’ 8 giugno 2018 – a Ginevra, in Svizzera. Oltre cinquemila funzionari di governo, rappresentanti dei lavoratori e dei datori di lavoro, provenienti dai 187 paesi membri dell’Organizzazione hanno come tema portante di cui discutere, durante questa sessione, il lavoro delle donne e le molestie sul lavoro.

Nel suo intervento d’apertura il direttore generale Guy Rider – in immagine sopra, assieme ad alcune rappresentanti delle lavoratrici – ha presentato il suo nuovo rapporto “L’iniziativa donne al lavoro: la spinta per l’eguaglianza” e ha citato la campagna #MeToo (Anch’io) in questi termini: “La nostra risposta a ogni chiamata all’azione, fatta a voce ancora più alta, dev’essere Anche noi.” e ha invitato i presenti a stabilire negoziati che aprano la strada a posti di lavoro “completamente liberi da violenza e molestie”.

Il rapporto di Rider ha sottolineato in un passaggio particolarmente importante la situazione delle lavoratrici palestinesi: schiacciate da una crisi “umanitaria e dagli uomini creata” che ha quasi totalmente distrutto economia e mercato del lavoro, non trovano impieghi decenti e sono soggette a discriminazione di genere.

“Le donne continuano a essere lasciate indietro nel mondo del lavoro. E di recente le cose sono peggiorate, non migliorate, specialmente in alcune regioni del mondo.”, ha detto Catelene Passchier, delegata dei lavoratori / delle lavoratrici.

Attualmente, 235 milioni di donne in più di un terzo delle nazioni non hanno leggi a cui appellarsi contro le molestie sessuali sul lavoro e, come tutte le violenze, ciò ha un costo: solo nell’industria dell’abbigliamento esso ammonta a 89 milioni di dollari l’anno. Perciò, gli organizzatori della conferenza sperano di far arrivare ai datori di lavoro l’idea che contrastare la violenza non è solo un imperativo etico, ma anche semplice buon senso se si vogliono avere maggiori guadagni. Maria G. Di Rienzo

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Pace

Lisa

(“Peace”, di Lisa Suhair Majaj (nata nel 1960, in immagine). Lisa è una poeta e scrittrice palestinese-americana. E’ cresciuta in Giordania e vive a Cipro. “In tempi difficili, – sostiene – poeti e scrittori hanno sempre fornito salvagenti.”)

PACE

La pace sono due bambini (1) che camminano l’uno verso l’altro da

differenti lati di una barricata. Alle loro spalle ci sono le baracche

di latta dove vivono con i loro genitori nella rabbia e nella

disperazione e nella perdita. Alla barricata solennemente

si mostrano l’un l’altro cos’hanno portato. Un bambino ha una

vanga, l’altro bambino ha un annaffiatoio. Ognuno di loro ha un seme.

Scavano la terra, piantano i semi, spruzzano acqua

con attenzione, poi vanno a casa. Ogni giorno si incontrano di nuovo alla

barricata per vedere se i semi sono cresciuti. Quando i primi

minuscoli germogli emergono loro battono le mani gioiosamente attraverso il

recinto. Quando un bocciolo spunta ridono forte. Quando un

fiore si apre alla luce, petali vellutati come il calore del sole, loro vanno

a casa canticchiando una canzone sul fiore, ognuno nella sua propria

lingua.

kids and flower

(1) “children” può qui indicare indifferentemente due femmine, due maschi, una femmina e un maschio.

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(“Stop policing my body”, di Khulud Khamis, 26 agosto 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. Khulud, in immagine, è una scrittrice e attivista, membro dell’organizzazione Isha L’Isha – Centro femminista di Haifa, nata da madre slovacca e padre palestinese. Vive a Haifa con sua figlia “attraverso l’amore, le parole, la fotografia, la poesia, l’arte, il giardinaggio, la solitudine e l’attivismo femminista”. Di suo in italiano c’è il libro “Frammenti di Haifa”.)

khulud-khamis

Smettete di normare il mio corpo

Voi non

trascinerete il mio corpo attraverso il vostro –

fangoso sporco

campo di battaglia.

Voi non –

mi vestirete

svestirete

controllerete.

Il mio corpo non è

il campo di battaglia

per le vostre morali –

religiose o laiche.

La mia moralità

risiede nel mio cuore

la mia moralità –

non è nascosta nelle pieghe dei miei abiti

(e solo per chiarezza,

il mio onore vive con i miei valori,

e non come voi pensate – nella mia vagina.)

Smettete di vestirci,

svestirci,

smettete di normare i nostri corpi

in nome delle vostre –

false morali e falsi valori.

frammenti-di-haifa

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