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(“Meet Suhad Babaa, Israel/Palestine”, Nobel Women’s Initiative, 1° dicembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

suhad

Suhad Babaa è la direttrice esecutiva di “Just Vision” – “Solo Visione”, un’organizzazione che usa il mezzo del documentario per riformare le narrazioni sull’occupazione israeliana della Palestina e sostenere il lavoro della società civile palestinese e israeliana. Recentemente, Suhad è stata la produttrice del film di Just Vision del 2017 “Naila and the Uprising” (“Naila e la Sollevazione”), che segue la vita e il lavoro di Naila Ayesh e altre donne leader della Prima Intifada.

Come hai sviluppato interesse nel costruire pace in Palestina e Israele?

Io dico sempre che la mia storia mi precede: mio padre è palestinese, mia madre è coreana, e entrambi sono cresciuti nel mezzo di guerra, conflitto e dopoguerra. Crescendo in California, in una casa dove convivevano fedi diverse, ho sempre faticato un po’ con le questioni relative all’identità e con l’impatto di guerra e conflitto sulla nostra famiglia, all’interno di uno scenario fatto di razza, etnia e religione.

Dopo l’11 settembre, ho osservato il governo statunitense cominciare a lanciare la sorveglianza sulle comunità musulmane in tutto il paese. E’ stato allora che mi sono posta domande sul modo in cui ciò che stava accadendo nel Medioriente aveva un impatto sulle nostre stesse pratiche e ancor di più sulle storie che stavamo ricevendo e che influenzavano il modo in cui l’opinione pubblica e il governo avrebbero agito.

Ho finito per trasferirmi in Israele e Palestina dopo l’università e ho lavorato sul campo con incredibili attivisti. Ma le loro voci negli Usa non si sentivano, ne’ erano amplificate localmente. Volevo davvero sostenere il loro lavoro, perciò è stato logico che io sia arrivata a Just Vision, ove il nostro mandato è amplificare le voci dei leader della società civile palestinese e israeliana.

Puoi parlarci del movimento per la pace in Palestina e Israele e del ruolo che in esso hanno le donne?

C’è una lunga eredità di resistenza nonviolenta in Palestina, inclusa la mobilitazione di massa della Prima Intifada – la prima sollevazione che accadde alla fine degli anni ’80. Quando abbiamo iniziato le ricerche per il nostro film documentario più recente sull’istanza, “Naila e la Sollevazione”, ci siamo imbattuti in qualcosa di importante.

Mentre andavamo in profondità, abbiamo capito che parte del motivo per cui il movimento aveva avuto tanto successo era che le donne giocavano un ruolo determinante nel processo decisionale. Sapevamo che la Prima Intifada era stata così efficace, in parte, perché era stata in grado di organizzarsi trasversalmente a genere, classe, partiti politici ed età in Israele e in Palestina. Ma non sapevamo che non solo le donne erano le partecipanti: erano in effetti quelle che chiamavano all’azione.

Le donne sono sempre state in prima linea in Palestina, che si trattasse della Prima Intifada o di Budrus, dove c’era una grande rappresentanza di donne. E perciò la questione per noi, come organizzazione, era assicurarci che fossero visibili. Perché noi crediamo che la loro visibilità conduca alla legittimazione il che nel tempo, alla fine, conduce all’aumento dei loro ruoli guida.

Perché è importante per le donne essere narratrici?

Io penso che sia sempre importante che le comunità possano raccontare le proprie storie. Just Vision è una squadra guidata da donne, sia per intenzione sia per caso. Ma mette in moto le nostre capacità di dar copertura a storie come quella che abbiamo narrato nel documentario “Budrus” e di capire il ruolo che le donne hanno svolto nella città di Budrus. Le donne sono spesso al timone dei movimenti storici, pure restano invisibili nei libri di Storia. E questo ha profonde conseguenze su come vediamo e comprendiamo la Storia, il nostro presente, il nostro futuro e chi sono i nostri leader.

In che modo aumentate la copertura giornalistica e il sostegno ai movimenti per la pace della società civile in Palestina e Israele?

C’è un bel po’ di copertura giornalistica su Israele e Palestina, ma sovente queste storie rinforzano una narrativa di violenza o di sforzi falliti dall’alto in basso. Ciò rende invisibili o criminalizza gli attivisti sul campo e la questione sembra quindi intrattabile. Semplicemente, non è vero. Quando esaminiamo la diseguaglianza, alcune delle oppressioni più profondamente radicate, sappiamo che quel che ci vuole è il potere popolare: comunità galvanizzate per far pressione sui loro leader politici che o non hanno agito o hanno fatto sistematicamente le cose sbagliate. Questo è anche il caso di Israele e Palestina.

Il lavoro di Just Vision consiste nell’essere complementare alla copertura dei media mainstream e nello sfidarla, presentando storie che sono poco documentate, critiche e che, allo stesso tempo, hanno il potere di ispirare, mobilitare e motivare le persone.

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renee

Nel dicembre 2015 la signora Renee Rabinowitz (in immagine – particolare di una foto di Uriel Sinai per il NYT), ora 83enne, era su un aereo della compagnia israeliana El Al diretto da Tel Aviv a Newark in New Jersey. A Renee era stato assegnato il sedile che dava sul corridoio. Il passeggero che doveva occupare il posto del finestrino accanto a lei, in quel corridoio si fermò indignato: lui, ebreo ortodosso, non poteva sedere accanto a una donna, perbacco. La hostess chiese a Renee di spostarsi e sebbene riluttante, lei lo fece. Una volta tornata in Israele, però, denunciò immediatamente la compagnia aerea per discriminazione sessista.

In questi giorni, il tribunale le ha dato ragione e ha ordinato a El Al di smettere di far spostare le donne per appagare le preferenze degli uomini. Dovete sapere che il fenomeno non è affatto circoscritto, in Israele, e che sempre più maschi “devoti” piantano grane negli spazi pubblici affinché le donne siano allontanate da loro. Perciò, la sentenza che Renee ha ottenuto va ben al di là di una vittoria personale.

Questa donna, sfuggita alla persecuzione nazista da bambina, ha dichiarato alla stampa che è “euforica” per la decisione del tribunale perché “la giudice ha capito che non era una questione di denaro; alla fine la compagnia aerea mi ha risarcito con un piccola somma. La giudice ha capito che si trattava di cambiare le politiche di El Al, ciò che è stato ordinato loro di fare.”

Renee, che vive in una casa di riposo a Gerusalemme, ha detto che sta pensando di tornare negli Stati Uniti il prossimo inverno, ma non ha ancora deciso su che aereo salire: “Non avrei problemi a volare di nuovo con El Al. – ha detto – Ma sapete, dipende da chi mi fa il prezzo migliore.”

Maria G. Di Rienzo

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I rischi che fronteggiano hanno molte forme, incluse le molestie, le campagne diffamatorie e la violenza fisica – non solo contro di loro, ma spesso anche contro le loro famiglie. Sperimentano l’esaurimento a causa del loro impegno e il ruolo vitale che giocano è sovente non visibile all’opinione pubblica. Pure, rifiutano di smettere di lottare perché credono che i nostri diritti umani dovrebbero essere protetti e rispettati.”

Chi sono? Sono le difensore dei diritti umani delle donne e così sono presentate nella campagna organizzata da Global Fund for Women, JASS (Just Associates), e MADRE:

https://www.globalfundforwomen.org/defendher/

Mentre crescono estremismo politico e restrizioni dirette ai gruppi della società civile, le difensore si trovano davanti attacchi sistematici che hanno lo scopo di ridurle al silenzio. – continua la presentazione – Dozzine di esse sono state uccise o imprigionate per aver parlato di sesso, per aver difeso i fiumi, per aver portato alla luce la corruzione. Tramite la campagna DefendHer stiamo rendendo visibili il loro ruolo e i rischi da esse affrontati nella speranza che ottengano sostegno e che si rispettino la loro sicurezza e le loro voci. Questa campagna presenta le storie di 14 incredibili difensore dei diritti umani e dei gruppi in tutto il mondo che, nonostante minacce e rappresaglie stanno lavorando per: mettere fine alla violenza contro le donne; far avanzare i diritti delle persone LGBTI; proteggere il pianeta e i diritti delle comunità indigene e molto altro.”

defendher

(Illustrazione originale per la campagna dell’artista femminista María María Acha-Kutscher, https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/03/mujeres )

Poiché l’appello dice chiaramente “diffondete le loro storie, passate parola e accendete conversazioni sul loro lavoro”, ma tradurre tutti i pezzi mi costringerebbe a comprare occhiali nuovi, eccovi un sommario su chi sono queste donne:

Marta Alicia Alanis, lavora in Argentina, fa parte dei Cattolici argentini per l’autodeterminazione e della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito.

Nelle sue parole: “Le donne dovrebbero poter scegliere di diventare madri. Non dovrebbe essere un’imposizione dovuta alla mancanza di accesso a educazione sessuale o contraccettivi, o al destino, o alla semplice sfortuna.”

Alia Almirchaoui, dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (di cui ho parlato spesso). E’ un’irachena di colore sopravvissuta alla violenza e dalla violenza sta difendendo le sue simili. Nelle sue parole: “Nessuna persona è migliore di un’altra. Io sono qui per difendere la diversità all’interno della società.”

Khadrah Al Sana, dell’organizzazione israeliana Sidreh, che difende la sicurezza delle donne beduine. Nelle sue parole: “Le donne devono vivere in dignità e non devono essere separate dalla società in cui vivono: ognuno ha un ruolo importante nella vita e le donne dovrebbero poter dare e ricevere benefici in questo mondo.”

Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, filippina del gruppo etnico Lumad, lavora nelle associazioni indigene femminili e miste (Sabokahan, Pasaka, Bai). Sta difendendo i territori nel raggio del monte Pantaron e chiedendo il ritiro dei gruppi militari e paramilitari.

Nelle sue parole: “Voglio che le giovani generazioni abbiamo una vita migliore di quella che ho fatto io, voglio che godano i frutti dei nostri sacrifici. Il solo ostacolo che la mia età (70 anni) mi pone è qualche limitazione fisica, ma il mio spirito di lotta ha un’energia altissima.”

Azra Causevic, dell’associazione Okvir per i diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transgender ecc. di Bosnia ed Erzegovina: vuole una vita dignitosa, libera dalla violenza per tutti.

Nelle sue parole: Dobbiamo difenderci l’un l’altro sempre, in ogni situazione in cui vediamo ingiustizia, proprio perché sappiamo come ci sente a essere dei sopravvissuti.”

Melania Chiponda, Zimbabwe, della WoMin African Gender and Extractives Alliance. Lavora per i diritti delle donne sulla terra e per mettere fine agli abusi sessuali perpetrati dalle forze di sicurezza. Nelle sue parole: “Se porti via la terra alle donne nelle aree rurali, porti via la loro sopravvivenza. Perciò lottiamo. Perché non abbiamo più nulla da perdere.”

Leduvina Guill, nicaraguense dell’ong Wangki Tangni, difende il diritto di donne e bambine a vivere vite senza violenza. Nelle sue parole: “Combattere la violenza contro le donne è cruciale, perché si tratta delle loro vite; come difensora salvi le vite delle donne. I diritti sono molto importanti, le donne soffrono così tanto quando non hanno diritti.”

Magdalena Kafiar, fa parte del FAMM (Forum giovani donne attiviste indonesiane) ed è ministra della chiesa evangelica. Lavora per la difesa dei diritti delle donne e della terra. Nelle sue parole: “Ormai conosco il pericolo, ma mantengo lo spirito dentro di me e mi muovo in avanti. Devo lottare continuamente per rivelare le ingiustizie in Papua.”

Miriam Miranda, della Organización Fraternal Negra Hondureña (OFRANEH), Honduras. Lotta per il rispetto e la sicurezza delle culture indigene, per l’accesso alla terra e alle risorse, per i diritti delle donne. Nelle sue parole: “La lotta, come la vita stessa, dovrebbe essere gioiosa.”

Irina Maslova, dell’organizzazione Silver Rose, Russia. Agisce nell’ambito della protezione dei diritti umani per tutti, compresi gruppi svantaggiati e donne nelle prostituzione. Nelle sue parole: “La rivoluzione comincia dal basso, quando coloro che sono esclusi da questa vita devono lottare per il loro diritto di rientrarci.”

Honorate Nizigiyimana, dell’organizzazione Développement Agropastoral et Sanitaire (Dagropass), Burundi. Lavora per la pace e la sicurezza delle donne nel suo paese. Nelle sue parole: “Sebbene io sia la più anziana della mia famiglia, sono ancora considerata una persona di poco valore. E’ la cultura attuale del Burundi. Sono questi comportamenti che mi hanno condotta a pensare alla promozione dei diritti delle donne.”

Tin Tin Nyo, dell’Unione donne birmane. Lavora in Thailandia per i diritti delle donne e la loro rappresentazione nelle negoziazioni di pace. Nelle sue parole: “La nostra arma più potente è la nostra voce. Abbiamo verità e sincerità. Queste sono le armi che dobbiamo usare per tutte le donne che sono senza voce e senza aiuto.”

Ana Sandoval, Guatemala, del gruppo di Resistenza Pacifica “La Puya”. Lavora per i diritti comunitari sulla terra e per la chiusura della miniera Progreso VII. Nelle sue parole: “Alla fine, tutte le lotte hanno il medesimo obiettivo: la difesa della vita.”

Menzione di gruppo: Forze unite per i nostri “desaparecidos” in Coahuila e Messico.

Le donne sono Yolanda Moran, Angeles Mendieta, Blanca Martinez. Vogliono giustizia e verità per le famiglie delle persone “scomparse”. Dice Blanca Martinez: “Noi crediamo che bisogna battersi per i propri diritti e difenderli, nessuno li difenderà per noi se non lo facciamo.”

Maria G. Di Rienzo

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(“lessons in decolonization from mother nature” di Amal Rana, poeta pakistana, artista e educatrice. Nonché, nelle sue stesse parole: “Musulmana, di razza mista, orgogliosa di provenire da un’eredità di ghazal – tipo di componimento poetico -, di amore e di combattenti per la libertà”. Amal ha passato l’ultimo anno in Palestina/Israele, come attivista contro l’occupazione israeliana. Trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt: non ci sono maiuscole ne’ nel titolo, ne’ nel testo.)

amal rana

Lezioni di decolonizzazione da madre natura”

mi chiedi:

come descriveresti il colore della luna stanotte?

io non rispondo

perché stanotte

lei è del colore della fame

la bramosia di un milione di oscure diaspore

assetate di notti come questa

in terre madri troppo distanti da abbracciare

ma impresse nel nostro dna

con la doppia elica della memoria e dell’assenza

descrivere questa che è la più infinita delle tristezze

metterebbe la luna in ginocchio

notte di luna

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(“Times of Peace”, di Marva Zohar, trad. Maria G. Di Rienzo. L’Autrice è una giovane israeliana, attivista femminista, che è diventata “doula” (assistente e consigliera per le partorienti) a 17 anni e levatrice a 22. Attualmente sta studiando all’Università Bar-Ilan e preparando una tesi di laurea sulla poesia che documenta la violenza di genere. I suoi versi e i suoi saggi sono stati pubblicati da Ilanot Review, Brickplight, Cactus Heart Press, Tule Review, Gag, Ynet e Midwifery Today Magazine. La poesia che ho tradotto si riferisce al periodo in cui Marva ha prestato servizio volontario come levatrice in Uganda, nel 2010.)

doula

TEMPI DI PACE

Quel pomeriggio sotto il mango

mentre riempivamo certificati di nascita

per bambini con padri sconosciuti,

burocrazia confusa dal caos della guerra,

e tu hai osservato che non conoscevi la tua data di nascita

perché i documenti bruciarono quando i ribelli

diedero fuoco alla capanna,

le tue sorelline troppo piccole per essere schiave sessuali,

il tuo fratellino troppo piccolo per diventare un bambino-soldato,

e tua madre,

intrappolati all’interno,

io mi sono strozzata

non sulle tue parole, ma sul lezzo di sudore sulfureo

che aleggiava dai tuoi pori,

l’odore stesso della paura

e tu hai detto

adesso dobbiamo fare tutta la strada sino al fiume

perché i ribelli hanno pisciato nel pozzo

quel giorno, e ogni giorno in cui sono venuti,

e il vomito mi è salito in bocca

e l’ho inghiottito

allo stesso modo

di quella notte

in cui ebbi a che fare con i ribelli a casa mia

e non erano ribelli per niente

ma uomini, semplicemente uomini che stuprano

in tempi di pace.

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A volte è utile ricordare che mentre noi, in prossimità dell’8 marzo, dobbiamo schivare mimose e spogliarelli (e un sacco di discorsi vieti, inutili, stantii e semplicemente stronzi), molte nostre simili quello stesso giorno cercano di schivare pallottole di gomma e manganelli.

Quest’anno, per fare solo due esempi, è successo in Palestina, al checkpoint di Qalandiya fra Gerusalemme e Ramallah, e ad Algiers in Algeria. Nel primo caso, circa 1.500 fra donne palestinesi e donne israeliane hanno manifestato in modo congiunto e pacifico da ambo le parti del muro che le divide, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e dell’assedio di Gaza e rivendicando i loro diritti, come donne, di sperimentare libertà e vivere in pace.

palestina 7 marzo 2015

La foto riprende un momento della manifestazione in Palestina, 7 marzo 2015. La donna con il megafono è Amal Khreishe, direttrice dell’Associazione Lavoratrici Palestinesi per lo Sviluppo.

Quando le donne di Ramallah hanno raggiunto il checkpoint, armate di voci sicuramente mortali e di pericolosissimi cartelli, i soldati israeliani hanno sparato loro addosso dapprima gas lacrimogeno e spray al peperoncino, per passare ai proiettili di gomma quando è stato chiaro che le donne non se ne sarebbero andate.

Amal Khreishe è stata colpita da una scarica di pallottole e ha dovuto essere trasportata all’ospedale. Sama Aweideh – direttrice del Centro Studi delle Donne, nell’immagine sottostante – ha invece perso i sensi per l’esposizione al gas lacrimogeno ed è stata soccorsa con somministrazione di ossigeno sul posto. (Entrambe si sono riprese e sono attualmente di nuovo al lavoro.)

Sama Aweideh

Le donne dall’altra parte del checkpoint non sono state attaccate, ma hanno espresso angoscia, frustrazione e rabbia nel dover essere testimoni dell’uso ingiustificato della forza contro le dimostranti palestinesi.

In Algeria, il giorno dopo, Cherifa Kheddar – Presidente di “Djazairouna”, l’Associazione delle Vittime del terrorismo islamico in Algeria – è stata assalita dalla polizia ed arrestata assieme a numerose altre donne. Le manifestanti reggevano cartelli con i nomi delle donne uccise dai gruppi armati fondamentalisti in Algeria negli anni ’90 (inclusa la sorella di Cherifa, l’avvocata Leila Kheddar). Rilasciata dopo alcune ore con un bel po’ di lividi che prima non aveva, Cherifa Kheddar è riuscita a scrivere il seguente comunicato l’11 marzo:

cherifa

“In occasione dell’8 marzo, sono stata arrestata per aver organizzato una dimostrazione pacifica in ricordo delle donne vittime del terrorismo (che furono stuprate e assassinate). Le autorità ora stanno negando persino il diritto alla memoria. Sono stata picchiata, insultata, chiamata con epiteti squallidi e volgari all’interno della stazione di polizia ad Algiers. Ho ricevuto il primo colpo mentre ero ancora davanti agli Uffici Centrali delle Poste, e l’ho ricevuto dal comandante della stazione di polizia in persona. Sono stata liberata la sera stessa. Tutto questo per aver semplicemente srotolato uno striscione che mostrava la lista delle vittime.”

Ci sono anche i casi in cui le donne non riescono neppure a raggiungerle, le strade e le piazze in cui intendono protestare: in Cina, il 6 marzo 2015, le hanno arrestate prima, andando a prenderle direttamente in casa senza alcun mandato legale. Le principali attiviste femministe del paese, tutte giovani fra i venti e i trent’anni, hanno passato il Giorno Internazionale della Donna in galera, dove si trovano a tutt’oggi (18 marzo, mentre scrivo). La loro intenzione – pubblica, dichiarata, non in contrasto con la legge – era di distribuire volantini anti-molestie sugli autobus in un’azione concertata.

Sono Li Tingting (conosciuta anche come Li Maizi), attivista per i diritti delle donne e delle persone LGBTQ che lavora per il Centro Yreinping di Pechino, un’ong dedita a promuovere giustizia sociale e salute pubblica; Wei Tingting (soprannominata “Waiting”) dell’Istituto per l’educazione al genere e alla salute di Pechino; Zheng Churan (conosciuta anche come Datu – coniglio gigante) di Guangzhou, attivista femminista antiviolenza a cui nel novembre 2014 le autorità cinesi hanno negato il permesso di viaggiare fuori dal paese per partecipare ad un forum di organizzazioni asiatiche della società civile: la giovane femminista che la sostituì partecipò con la gigantografia di Zheng Churan appesa alla schiena; Wu Rongrong, femminista che lavora in un gruppo di Hangzhou contro la violenza di genere; Wang Man, femminista di Pechino che lavora contro la discriminazione di genere e per il rafforzamento economico delle donne: il suo slogan personale è “Wang Man si dedica a sradicare la povertà”.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l'aspetto di una femminista.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l’aspetto di una femminista.

Dopo alcuni giorni di agghiacciante silenzio da parte delle autorità, i familiari delle giovani sono riusciti a sapere dove si trovano e ad inviare loro abiti, cibo e medicinali e gli avvocati hanno potuto vederle. Secondo altre femministe e alcune giornaliste cinesi, dovrebbero essere rilasciate a breve senza subire ulteriori danni… ovviamente non sempre le attiviste escono da queste situazioni ammaccate ma ancora vive e non sono sempre agenzie di stato a rispondere con la violenza alle richieste e al lavoro delle donne in materia di diritti umani. Il 24 febbraio scorso – a Tripoli, in Libia – abbiamo perso Intissar Al Hasairi, uccisa a colpi di arma da fuoco assieme a sua zia. I due cadaveri sono stati ritrovati nel bagagliaio dell’auto di proprietà dell’attivista. Intissar Al Hasairi era co-fondatrice del Movimento Tamweer, un gruppo che promuove pace e cultura in Libia ed aveva partecipato a manifestazioni che chiedevano uno stato democratico e il rispetto della legge.

Intissar

Tripoli è sotto il controllo di un’alleanza di gruppi islamisti armati, detta “Fajr Libya” (“L’alba della Libia”) dall’estate del 2014. L’alleanza ha creato un governo parallelo a Tripoli, forzando quello esistente a ritirarsi al confine con l’Egitto, ed ha una speciale “lista nera” per chi, sia donna o uomo, lavora per i diritti umani, promuove l’idea di uno stato democratico, chiede il rispetto delle leggi vigenti prima del loro arrivo, eccetera. Fra i bersagli in lista figurava ad esempio l’avvocata per i diritti umani Salwa Bugaighis, poi in effetti uccisa nella propria casa di Benghazi, il 26 giugno 2014, da un gruppo di uomini armati non identificati che indossavano uniformi militari.

Riguardate tutti i volti delle donne di questo articolo, prima di passare ad altro. Ecco che aspetto hanno le femministe, ecco cosa desiderano, cosa fanno, come vivono. Ecco come muoiono. Ecco perché continuano a lottare. Maria G. Di Rienzo

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quercia di palestina

“Sindyanna di Galilea” è il nome comune della quercia palestinese (quercus calliprinos). E’ un albero noto per la longevità e per le proporzioni ragguardevoli che riesce a raggiungere qualora nulla lo danneggi. Nel folklore palestinese questa quercia porta con sé le benedizioni della durata, della stabilità e del radicamento nella terra, e in tempi antichi statue di divinità venivano custodite dalla sua ombra. Le querce così onorate erano dichiarate sacre, e a tutt’oggi sono considerate sacre quelle che crescono accanto alle tombe o in luoghi di culto.

“Sindyanna di Galilea” è anche il nome di un’associazione di donne che esiste dal 1996, con lo scopo di aiutare i coltivatori e i produttori arabi del Territori Occupati, in special modo le lavoratrici degli oliveti. Ecologia, costruzione di pace, cancellazione della povertà, istruzione e commercio equo sono i principi lungo cui queste donne si muovono. La cooperazione fra palestinesi ed ebrei che il loro lavoro concretizza, dicono, è un modo per mostrare che la soluzione al conflitto comincia con il creare opportunità economiche reali. (In Italia, il partner di Sindyanna per il commercio equo è la Cooperativa Chico Mendes.)

mani al lavoro

Il 28 luglio 2014 la Presidente dell’associazione ha reso pubblica la lettera seguente:

“Cari compagni e amici di Sindyanna,

di nuovo la nostra regione si rotola nel sangue del popolo palestinese. E’ come un film a puntate: meno di due anni sono passati dall’Operazione Pilastro di Difesa, ci troviamo nel mezzo dell’Operazione Margine Protettivo, e di nuovo il Primo Ministro Benjamin Netanyahu promette il cessate il fuoco per gli anni che verranno. Molti stanno chiedendo cos’è accaduto al “pilastro” che avrebbe dovuto assicurare felicità e prosperità. I missili e le sirene del “codice rosso” confondono i pensieri, e non è semplice capire perché e come siamo ancora caduti in questa guerra e come possiamo uscirne.

Il governo israeliano ha fatto tutto quel che poteva per perdere il tempo prezioso a sua disposizione, preferendo il mantenimento di una coalizione di destra al raggiungere un accordo con l’Autorità palestinese. Anche prima dell’ultima guerra, la Striscia di Gaza era sull’orlo del disastro umanitario e la situazione di Hamas era disperata: 40% di disoccupazione, 16 ore al giorno di interruzione nella fornitura di elettricità, mancanza di acqua potabile e circa 45.000 impiegati statali senza stipendio.

Il problema è che gli israeliani non vedono ciò che accade a Gaza quando i missili non vengono sparati da là. Perciò è facile per il governo israeliano indurli a credere che sono esposti ad una minaccia esistenziale proveniente dalla popolazione di Gaza, il che giustifica persino aggressioni devastanti come quella a cui stiamo assistendo oggi. L’abisso creato da questa guerra fra gli israeliani e i palestinesi è molto più profondo dei tunnel scoperti a Gaza, guarirne non sarà facile.

Noi “Sindyanna di Galilea” miriamo a costruire ponti fra gli israeliani e i palestinesi. Crediamo che sono unendo le forze fra ebrei ed arabi potremo costruire qui una società equa e giusta. Sino a che ci sarà divisione fra ebrei ed arabi la destra israeliana continuerà a farsi beffe di noi, trascinandoci in guerre insensate che nessuna società umana dovrebbe permettere.

Vorremmo condividere con voi il messaggio che abbiamo ricevuto in questi giorni dal nostro partner palestinese, BFTA di Betlemme: “Sfortunatamente, sembra che tutto ciò che possiamo fare è sperare e pregare affinché questo conflitto cessi presto e la pace con giustizia sia infine realizzata nella regione. Tuttavia, in questo momento vogliamo dare un piccolo ma significativo segno di speranza. Noi stiamo continuando a lavorare con il nostro partner israeliano per il commercio equo, “Sindyanna di Galilea”, tramite i progetti “Commercio equo / Pace equa” che abbiamo ideato insieme. Continueremo a impegnarci per diffondere all’esterno il messaggio della pace e della giustizia, che congiuntamente condividiamo nelle nostre organizzazioni. Stiamo fianco a fianco mentre cerchiamo di superare questo ostacolo che ci è stato messo di fronte, ed abbiamo contatti regolari nel mentre lavoriamo verso la realizzazione di un futuro diverso, più ricco di speranza e pacifico.”

A voi chiediamo di unirci a noi nel protestare contro questa guerra, con dimostrazioni di massa nelle strade o in qualsiasi altro modo potete, per fermare la tragedia umanitaria e raggiungere finalmente una soluzione giusta per l’istanza palestinese. Sinceramente, Hadas Lahav.” (trad. Maria G. Di Rienzo)

stop the war

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ci rifiutiamo di essere nemici

Alcune immagini della campagna “Jews and Arabs Refuse to be Enemies” – “Ebrei ed Arabi rifiutano di essere nemici”, iniziata il 10 luglio scorso.

(hashtag #JewsAndArabsRefuseToBeEnemies)

jasmin osama e figlia

Lei è israeliana, lui è palestinese. Quella in mezzo è la loro bimba. La scritta recita: “Noi siamo una famiglia. Un’alternativa c’è.”

sono ebreo

“Sono ebreo. Smettete di uccidere bambini a Gaza.”

madre israeliana padre palestinese

Non riesco a leggere bene la poesia (ormai ci vedo poco), ma la frase finale dice: “Mia madre è ebrea, mio padre è palestinese. Io sono il loro volto. Israele, lascia vivere la Palestina!” Update: la gentilissima e simpatica Paola Borsoi ha tradotto la poesia per noi. “Conosco un uomo che fotografava il paesaggio che vedeva dalla finestra della stanza dove amava, e non il volto della persona che amava.” Grazie Paola!

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(Intervista a Kim Nam-gil, Privy Magazine, 21 febbraio 2014, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Kim Nam-Gil

Uno dei più burberi critici coreani ha dovuto descriverlo (suppongo tra i denti) come “un attore che perde se stesso in ogni ruolo”. E’ una delle attitudini del 32enne Kim Nam-gil che mi piace particolarmente, la capacità di diventare il personaggio che interpreta andando in profondità, ma se l’artista è sensibile e intelligente, l’uomo lo è ancora di più. E’ l’unico attore famoso del suo paese – in cui la violenza contro le donne, oltre ad essere un problema grave, è normalizzata e giustificata continuamente proprio dai prodotti televisivi e cinematografici – ad aver preso posizione contro la violenza domestica, rilasciando dichiarazioni e girando video.

L’intervista a Kim Nam-gil, priva della menzione di autore/autrice, è dovuta al fatto che la società Privy – proprietaria del magazine – si è consociata con la Star J Entertainment coreana e con il produttore di Hollywood Teddy Zee per… fare il remake di un remake in cui l’attore reciterà. In origine era la serie televisiva israeliana “Prisoners of War”, un successo internazionale premiato persino in Corea del Sud l’anno scorso. La serie è stata replicata negli Usa come “Homeland” – adattando la storia – e lo stesso accadrà per la terza versione, quella asiatica. Anche “Homeland” ha realizzato un boom di ascolti e di critiche favorevoli. L’asse narrativo, adattato o meno, ruota attorno al ritorno a casa di prigionieri di guerra, dati per morti o dispersi, dopo molti anni e alle loro difficoltà nel rientrare in contatto con contesti sociali e personali che non sono ovviamente più come li avevano lasciati. Inoltre gioca sull’estremizzazione che l’esterno fa del loro ruolo per trarne vantaggi, e la linea divisoria fra “eroe di guerra” e “terrorista” è vista com’è in realtà (anche se potrebbe trattarsi di un effetto non predeterminato da chi ha pensato la serie): molto, molto labile se non inesistente.

Del testo di Privy Magazine ho lasciato in disparte domande tipo “Visto che sei qui, quali sono secondo te i migliori 5 ristoranti di Los Angeles” perché mi annoiano e le trovo irrilevanti. Ecco il resto:

Qual è stato il punto di svolta della tua carriera?

Certamente lo sceneggiato “Queen Seondeok”, del 2009, è stato un grosso punto di svolta per me. Lo spettacolo e il mio personaggio, Bidam, sono entrati in relazione con il pubblico e la serie è diventata enormemente popolare non solo in Corea, ma anche in Cina e Giappone. Questo sceneggiato mi ha davvero aperto le porte e mi ha condotto a recitare nel drama “Bad Guy”, che ho amato fare. Mi ha anche aiutato a realizzare il film “Lovers Vanished”, un progetto che mi ha appassionato e che definirei come il “Leaving Las Vegas” coreano.

Sappiamo che sei molto coinvolto nell’aiuto umanitario. Che progetti hai in corso e perché la cosa è così importante per te?

Io so di trovarmi in una posizione molto privilegiata e benedetta, e penso sia mia responsabilità condividere quel che ho con persone che non hanno granché. Se quello che riesco a dare, sia il mio tempo o il mio impegno, accende la speranza in un’altra persona allora per me ha valore. Voglio dire: alla fine tutto ruota attorno alla speranza. Negli ultimi anni mi sono davvero appassionato nel collaborare con le organizzazioni che in Corea aiutano le madri single le quali, io credo, sono le vere eroine della nostra società. (Ndt: lo stigma posto su queste donne, nel paese, è assai pesante.) Faccio anche volontariato nei reparti pediatrici di diversi ospedali. E amo moltissimo gli animali, per cui sto sostenendo un po’ di rifugi sparsi per la Corea.

Ritengo che le istanze ambientali siano cruciali e nel 2009 sono andato in Indonesia quando il terremoto ha devastato il paese. Ho visto così tanta disperazione e povertà che sono stato sopraffatto dal desiderio di aiutare. Ho creato la mia organizzazione nonprofit, “Gilstory” (www.gil-story.com) per fornire sostegno e risorse ai paesi devastati dai disastri naturali e dalla povertà, come l’Indonesia e le Filippine.

Abbiamo sentito che stai imparando il Cinese. Cosa ti ha spinto a studiare questa lingua?

Sono sempre stato una persona curiosa e appassionata, e penso che imparare una lingua tiri fuori questo da me ancora di più. Imparare il Cinese è una sfida, e ciò mi spinge ancora di più a voler trovare la chiave per maneggiare questo linguaggio. Ogni volta in cui penso: “Non so se sono in grado di fare questa cosa”, sono maggiormente spinto a provarci. La ragione iniziale per cui ho scelto il Cinese, penso, è che ho moltissimi fan in Cina e vorrei davvero comunicare con loro, avere delle conversazioni. E se fosse possibile, amerei lavorare in futuro con i tanti straordinari registi di talento che ci sono in Cina.

Cosa c’è nel prossimo futuro di Kim Nam-gil?

Sono assai onorato di essere nella versione coreana di “Prisoners of War”, per un attore è un sogno che diventa realtà far parte del primo remake asiatico di uno show che ha avuto tale successo. L’ultimo film in cui ho recitato, “Pirates: The Bandit Goes to the Sea”, uscirà quest’estate e mi sono divertito moltissimo a farlo.

Kim Nam-Gil pirata

Mi piace lavorare con l’attrice Son Ye-jin e ho imparato un sacco di cose dal regista, Lee Suk-hoon. L’anno scorso è anche uscito un mio CD musicale, “Roman”. Ecco, spero di poter continuare a lavorare in sceneggiati televisivi e film che piacciano alle persone avendo un impatto su di loro: questo mi fa sempre sentire bene.

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(“Palestinians see no hope in these peace talks”, di Karin Råghall e Linda Öhman per “Kvinna till kvinna”, fondazione femminista internazionale con sede in Svezia, 30.8.2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Al 13 settembre, saranno passati vent’anni dagli Accordi di Oslo firmati da Palestina ed Israele. Valutando gli attuali colloqui di pace diretti dagli Stati Uniti, le rappresentanti delle organizzazioni di donne palestinesi sono critiche rispetto ad un processo che sembra ripetere molti errori delle precedenti negoziazioni, senza prendere in considerazione i cambiamenti che sono nel frattempo avvenuti sul territorio. “All’inizio credevo che dovessimo comporre il conflitto, ma dopo vent’anni di negoziazioni il processo è diventato più importante del risultato.”, dice Amal Khreishe, direttrice dell’Associazione delle lavoratrici palestinesi per lo sviluppo (ALPS), organizzazione partner di Kvinna till kvinna.

I colloqui di pace fra negoziatori israeliani e palestinesi sono ripresi nel luglio scorso, a Washington, sotto l’egida del Segretario di Stato statunitense John Kerry. Da allora, molte sessioni di dialogo sono state tenute anche a Gerusalemme e Gerico. Come è accaduto nelle negoziazioni precedenti, le rappresentanti del movimento delle donne palestinese sono escluse ed hanno la sensazione che gli incontri non stiano occupandosi di quel che effettivamente succede sul territorio, e che non abbiano le loro stesse priorità. Inoltre, sentono che l’Autorità Palestinese non le rappresenta.

Naila Ayesh, del “Centro per le questioni delle donne” a Gaza, dice: “I palestinesi non hanno speranza nei colloqui di pace. Le negoziazioni sono destinate a fallire sino a che non adottano un approccio al conflitto basato sui diritti umani. Gli ultimi vent’anni di occupazione hanno portato solo più insediamenti e più furti di terra. Ora, in un momento in cui Israele fronteggia la minaccia dell’isolamento politico, usa la negoziazione come copertura per la colonizzazione e la confisca di terreni che sono sempre continuate. Il risultato sarà una società palestinese ancora più frammentata, e ciò renderà gli obiettivi delle organizzazioni pro diritti umani delle donne sempre più difficili da raggiungere.”

Naila Ayesh

Naila Ayesh dice che lei e altre palestinesi non sono contrarie alle negoziazioni in se stesse. Ma sottolinea come un processo di pace debba mirare a metter fine all’occupazione ed ottenere un completo ritiro israeliano da tutta la terra palestinese occupata sin dal 1967, inclusa la zona est di Gerusalemme: “Il cambiamento deve essere visto sul campo, perché la gente creda che le negoziazioni hanno portato qualche risultato.” Amal Khreishe di ALPS aggiunge che il processo manca di trasparenza: “I dialoghi escludono tutti i partiti politici e la società civile. Solo un ristretto circolo di persone è coinvolto, e sono le stesse che hanno tentato e fallito in precedenza.”

Nessuna organizzazione di donne è stata coinvolta nei colloqui e quando le attiviste hanno tentato di esprimere pareri e preoccupazioni relative alle negoziazioni, i media non le hanno prese sul serio, ma si sono concentrati su come erano vestite e sul fatto che avessero o no la testa coperta.

Amal Khreishe teme che i palestinesi saranno forzati ad accettare un accordo che non risolverà il problema degli insediamenti israeliani o della questione di Gerusalemme, e che esso creerà frustrazione e aumenterà la violenza. “Come difensora dei diritti umani delle donne, vorrei poter cambiare il modo in cui si maneggia la questione “sicurezza” e discutere della sicurezza umana, anziché della sicurezza militare. Ciò potrebbe pavimentare la via verso la democrazia e verso una sicurezza reale.” Sia Naila Ayesh sia Amal Khreishe indicano anche che le negoziazioni non sono condotte fra due poteri eguali. “Negoziazioni dirette, sotto la supervisione degli Stati Uniti, creano solo uno sbilanciamento di potere. Come possiamo aver fiducia che vi sia realmente la volontà di raggiungere l’autodeterminazione palestinese, mentre gli insediamenti si espandono e la violenza continua?”, dice Amal Khreishe.

I colloqui di pace erano a stento iniziati che già Israele annunciava i suoi piani per la costruzione di 2.000 nuove case per coloni ebrei sul territorio palestinese occupato. Ciò ha creato ancora maggior sfiducia fra i palestinesi, già estremamente esacerbati per l’assassinio di tre palestinesi nel campo rifugiati di Qalandia, da parte delle forze di sicurezza israeliane, il 26 agosto scorso.

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