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Posts Tagged ‘nigeria’

… la prossima volta. (1)

(tratto da: “Thousands of Nigerian Trafficking Survivors Left Without Food or Money During Italy Lockdown”, di Leah Rodriguez per Global Citizen, 10 luglio 2020. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

thomas reuters foundation - italy

Le bande criminali del traffico a scopo di sfruttamento sessuale hanno lasciato, in Italia, migliaia di sopravvissute prive delle necessità di base durante la pandemia Covid-19.

Le donne sfruttate e i loro figli sono state abbandonate e lasciate in isolamento senza cibo o denaro durante i tre mesi di lockdown nel Paese, che è iniziato a marzo.

“Agli occhi dei trafficanti di sesso queste donne sono subumane, sono sfruttate per arricchire i loro magnaccia che le trattano come fossero bancomat. – così ha detto Alberto Mossino, co-fondatore dell’organizzazione anti-traffico Piam Onlus, al Guardian – E quando il bancomat si esaurisce lo gettano via e ne cercano un altro.”

Diversi gruppi di volontari si sono fatti avanti per sostenere le sopravvissute. Alcune delle donne era state lasciate per strada dopo che i proprietari delle loro abitazioni le avevano buttate fuori, perché non potevano più pagare l’affitto, ha riportato l’organizzazione Dedalus.

L’Italia è diventata una zona calda del traffico sessuale in anni recenti e l’80% delle decine di migliaia di donne nigeriane che arrivano in Italia dalla Libia sono trafficate dalle gang, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM). Queste donne sono forzate alla prostituzione per pagare debiti di oltre 35.000 euro e manipolate tramite rituali di magia nera detti “juju” per infliggere loro paura e tormento psicologico.

Le organizzazioni anti-traffico stanno registrando, durante la pandemia, un aumento delle donne che chiedono aiuto per sfuggire ai loro trafficanti. Le restrizioni sui viaggi e la limitazione dei servizi sociali e pubblici stanno rendendo più difficile alle sopravvissute al traffico di esseri umani lo scappare e il tornare a casa, secondo l’Ufficio delle Nazioni Unite per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (UNODC). L’Ufficio sollecita i governi ad assicurarsi che alle sopravvissute sia garantito l’accesso ai servizi essenziali affinché ricevano sostegno e sia evitato ulteriore sfruttamento sessuale di donne e bambini.

(1) Il titolo è dovuto al fatto che i “clienti” di queste donne sono nostri connazionali ed è grazie alla loro domanda che l‘Italia è diventata una zona calda del traffico sessuale.

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“Mentre a Roma la sindaca Raggi continua a chiedere lo sfratto della Casa delle donne, mentre le vittime rifugiate nel centro “Lucha y siesta” vengono fatte sgombrare dalla giunta capitolina, i centri antiviolenza della rete nazionale “D.i.Re”, annunciano che nelle loro strutture c’è stato un incremento dell’11% di nuovi accessi. “I dati confermano ancora una volta – commenta Antonella Veltri, presidente di D.i.Re – quanto sia importante sostenere con continuità queste strutture, presidi essenziali che consentono alle vittime che hanno subito violenza di recuperare la propria autonomia, centri che restano aperti anche in questi tempi di emergenza Coronavirus, perché la violenza contro le donne non si ferma”.” (da Repubblica, 8 marzo 2020)

(“Why I Stand With Her”, di Hawwah, giornalista e imprenditrice sociale nigeriana, per World Pulse, 2019. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

praising earth

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che è stata considerata persona di nessun rilievo, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei contro cui il mondo ha cospirato deliberatamente per negarle il suo posto in esso, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei la cui infanzia è stata rubata da uomini lascivi senza educazione e autocontrollo, uomini che hanno predato sulla sua innocenza, sulla sua nascita e vulnerabilità, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei a cui senza alcuna istruzione, addestramento, preparazione o esperienza, è stato affidato il lavoro più importante al mondo, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei a cui i sogni sono stati sottratti, le ambizioni fatte a pezzi e il potenziale distrutto, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che vive in coercizione e controllo ed è stata forzata a una vita che non ha mai voluto ne’ negoziato, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che sacrifica tutto e fa ogni compromesso senza che ciò le venga neppure riconosciuto, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che non è mai vissuta ma è meramente esistita così che altri potessero vivere, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che ha dovuto imparare a fare più cose contemporaneamente e lavora dieci volte più duramente per avere solo metà di quel che le è dovuto, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei che è stata manipolata affinché sopporti e accetti l’abuso da coloro che avrebbero dovuto proteggerla, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, di lei i cui sforzi, contributi e qualità sono sovente dimenticati e non apprezzati, non perché non abbiano valore, ma sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco, perché tutte dobbiamo ergerci con lei e per lei.

E’ solo ergendoci insieme che possiamo mettere fine all’abuso, al pregiudizio, alla diseguaglianza, alla discriminazione, all’ingiustizia, alla disumanità, alle violazioni, alle deprivazioni e allo stigma inflitte a lei, sulla base del suo sesso.

Oggi, io sono al suo fianco. E’ solo stando fianco a fianco insieme che possiamo far accadere il cambiamento e darle una vita – non meramente un’esistenza.

E’ stando fianco a fianco insieme che possiamo far ascoltare la sua voce e le sue grida e farle prendere sul serio, validare i suoi sogni e amplificare le sue richieste per i suoi diritti, giacché è una delle creature più importanti su questo pianeta.

Oggi, io sono al suo fianco, di colei che dà alla luce la vita, e giuro di stare al suo fianco sino a che avrò respiro.

Io sono al suo fianco perché IO SONO LEI. Noi tutte siamo LEI.

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(tratto da: “Meet Priscilla Achakpa, Nigeria”, profilo e intervista a cura di Nobel Women’s Initiative, ottobre 2019, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Priscilla Achakpa

L’insigne attivista ambientalista nigeriana Priscilla Achakpa è diventata moglie a 16 anni, madre e poi giovane vedova. Diseredata dalla famiglia del marito e dalla propria è tornata a scuola e ha conseguito lauree specialistiche in gestione d’impresa, amministrazione e sviluppo. Aveva iniziato una carriera come impiegata di banca, poi ha cambiato bruscamente direzione.

Oggi, dirige il Women Environmental Programme (WEP – Programma ambientalista delle donne), un’organizzazione nonprofit, apolitica e non religiosa che affronta le istanze ambientali che hanno impatto sulle vite delle donne stesse. Su tutte: il cambiamento climatico.

Come sei passata dalla banca all’attivismo ecologista?

Avevo la sensazione che qualcosa mancasse – sentivo il bisogno di trovare un lavoro che fosse più stimolante e che mi permettesse di tornare qualcosa alla comunità. Questa sensazione mi spinse ad avventurarmi all’esterno e cominciai a seguire corsi di studio sull’ambiente. Era una cosa completamente diversa, più complessa, più scientifica. Ma volevo una sfida. Volevo un lavoro che ispirasse la mia passione.

Nel 1997, due giornaliste ed io scoprimmo che le industrie tessili nello stato di Kaduna scaricavano rifiuti direttamente nell’ambiente. La maggior parte di essi finiva nel fiume Kaduna, sulle cui rive agricoltori poveri, in grande misura donne, stavano coltivando ortaggi. Cominciavano ad avere malattie della pelle e ne davano colpa alla stregoneria. Coinvolgemmo scienziati che presero campioni, effettuarono esami e scoprirono che tutto nell’area era diventato tossico. Alla fine portammo le industrie in tribunale – per me, fu l’inizio dell’attivismo. Nel 1998 diventammo il Women Environmental Programme, la prima organizzazione femminile nel nord del paese ad entrare nell’ambito dell’ambientalismo.

Perché hai scelto di concentrarti sul cambiamento climatico?

Il nostro programma è attivo in cinque aree tematiche: ambiente, amministrazione, cambiamento climatico, pace e trasformazione del conflitto. Le istanze di genere sono al centro di ogni cosa che facciamo. Includerle è cruciale se i programmi di sviluppo vogliono essere rilevanti e sostenibili.

Il cambiamento climatico è una delle istanze più urgenti della nostra epoca e ha già avuto impatto sulla Nigeria. Lo sconfinamento dei deserti cresce a un tasso sorprendente, il che ha generato crescenti tensioni sulla proprietà terriera, incluse lotte fra gli agricoltori e i pastori nomadi. Questi scontri hanno anche peggiorato le divisioni etniche. Siccità prolungate, ondate di calore e vento hanno interessato il nord, la nostra regione che produce cibo. Il lago Chad, uno dei laghi più grandi del mondo, che in passato forniva acqua e sosteneva le comunità di pescatori, si è ridotto del 95%. Le persone, specialmente le donne, sono state costrette a migrare, il che comporta ulteriori difficoltà. Nei campi per le persone sfollate le donne sono frequentemente molestate e persino stuprate. I fiumi si sono seccati e ciò significa che le donne devono viaggiare per chilometri cercando acqua.

I cambiamenti climatici sono duri di per sé, ma amplificano anche problemi e diseguaglianze che già esistono – inclusa la diseguaglianza di genere. Storicamente le donne hanno avuto minor accesso alle risorse, minor potere nella sfera decisionale: questo ci rende maggiormente vulnerabili ai rischi di estremi eventi climatici. E’ importante rendere il genere centrale nelle strategia di adattamento al clima nel mentre si lavora per migliorare la resilienza ai suoi impatti.

Come si concretizza questo nel lavoro di WEP?

Nella regione in cui lavoriamo, le agricoltrici non avevano la capacità di conservare grandi quantità di raccolti deperibili come i pomodori, i peperoni e altri vegetali. Circa tre mesi fa, siamo state in grado di installare una tenda essiccatrice solare, con tutti i materiali relativi ottenuti localmente. Abbiamo anche lavorato con la comunità, di modo che le donne fossero in grado di effettuare l’essiccazione da loro stesse, il che ha reso l’operazione sostenibile.

Nella comunità si sono formate cooperative per dare turnazione al lavoro. Risultati e testimonianze sono stati straordinari. Meno cibo va sprecato, le sostanze nutritive sono preservate e le agricoltrici possono vendere i prodotti essiccati, il che migliora le loro entrate. Noi abbiamo finanziato questo progetto da sole, come esperimento, ma ovviamente una sola tenda non è sufficiente. Stiamo cercando modi di ampliare la scala dell’intervento, non solo all’interno di questa comunità: abbiamo richieste da moltissime altre.

I ministri dell’agricoltura ne sono rimasti impressionati, ma si sa quanto i governi possano essere lenti ad agire. Stiamo cercando partner che sostengano più interventi di questo tipo.

Tu hai scritto saggi di alto livello accademico sul tuo lavoro e hai partecipato a incontri internazionali sul cambiamento climatico. Ma hai anche detto “il mio vero lavoro è sul campo”. Cosa intendevi?

Quando agiamo globalmente, dobbiamo tradurre quel che facciamo nel contesto locale. Noi lo stiamo facendo – e non solo in Nigeria. Abbiamo uffici Burkina Faso, Togo, Tunisia. Quando ascolto le voci delle donne locali, le donne comuni, donne che sono toccate ogni giorno dal cambiamento climatico e dal come prendersi cura delle proprie famiglie, ne sono ispirata.

Proprio in questo momento, WEP sta lavorando con organizzazioni locali che non avevano mai visto un finanziamento di 1.000 dollari (Ndt. 890 euro) in vita loro. Quando le sostieni, i risultati in quel che fanno sono eccezionali. Non si può sottolineare abbastanza la felicità e l’impegno che questi gruppi a livello di base portano a bordo. Quando ascolto le loro storie, sono spinta a fare di più.

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anti-slavery campaign

“Tre anni fa, ero una madre single con due bambini che viveva con sua madre vedova. La situazione era così difficile che quando un’amica mi ha parlato dell’andare in Germania, gente, sono partita!

Siamo arrivate solo sino in Libia. Sono stata venduta, stuprata e torturata. Ho visto molti nigeriani morire, inclusa la mia amica Iniobong.

Oggi sono una fornaia a Benin e guadagno abbastanza soldi per provvedere alla mia famiglia. I miei ragazzi non cresceranno vergognandosi della loro madre. Il mio nome è Gift Jonathan e non sono in vendita.”

(trad. Maria G. Di Rienzo)

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C’è questo signore, il cui mestiere non so definire con esattezza (twittatore, come neologismo, va bene?), presentato ossessivamente sui media come ministro del nostro governo ma sempre con corredo di panzarotti, ortaggi e calici di vino o mentre presenzia alle sagre – però non è il ministro delle politiche agricole alimentari, forestali e del turismo… misteri italiani (so che avete capito immediatamente chi è).

Uno dei recenti commenti del twittatore è questo: “Undici nigeriani arrestati dai carabinieri per tratta di esseri umani. È successo a Torino: il gruppo convinceva delle ragazze a lasciare l’Africa pagando 25mila euro, ma poi le faceva prostituire. Grazie a Forze dell’Ordine e inquirenti: è l’ennesima dimostrazione che un’immigrazione sregolata è un business per i criminali.”

In realtà è l’ennesima dimostrazione che la prostituzione è inseparabile dalla tratta di esseri umani, e che la prostituzione è una palese violazione dei diritti umani delle persone comprate / vendute, anche quando costoro sostengono si tratti di una loro “scelta”: la violenza non si misura sul grado di acquiescenza della vittima, che può essere ottenuto dal perpetratore e da una società connivente in molteplici modi, ma sull’estensione dei danni causati dalla violenza stessa alla salute fisica e psichica, all’integrità corporea, al godimento di diritti e opportunità e libertà di chi la subisce.

“Non si possono dividere questi due fenomeni (tratta e prostituzione) perché la prostituzione è il luogo dove la tratta avviene e la prostituzione è la ragione per cui esiste la tratta, è il motivo per cui le donne vengono trafficate. Se non ci fosse un mercato non avremmo nemmeno i trafficanti che costringono le donne, (…) è un sistema che mette al primo posto i bisogni egoistici degli uomini che ci fanno violenza.” Rachel Moran, 27 maggio 2018, Roma, Conferenza sull’industria del sesso e la tratta degli esseri umani organizzata da Resistenza Femminista ed altre associazioni.

https://lunanuvola.wordpress.com/2015/09/29/pagata/

E’ interessante anche notare come la notizia di cui sopra è riportata dai media:

“Prostituzione, le maman nei centri d’accoglienza: 11 arresti. Dalla Nigeria alle prigioni della Libia, poi sfruttate da altre donne.”

“I carabinieri sgominano un’organizzazione criminale al femminile specializzata nella tratta delle giovani nigeriane.”

“I carabinieri del nucleo investigativo, coordinati dalla procura di Torino, hanno sgominato un’organizzazione criminale internazionale tutta al femminile specializzata nella tratta di giovani nigeriane destinate alla prostituzione.”

Infatti, gli undici magnaccia nigeriani menzionati dal twittatore erano otto donne e tre uomini. Ma se la proporzione fosse rovesciata, nessuno di noi avrebbe letto definizioni del tipo “un’organizzazione criminale al maschile” o “un’organizzazione criminale internazionale tutta al maschile”. Perché? Be’, perché delinquere è tutto sommato normale per gli uomini. Sommersi da diluvi ciclici di testosterone, vessati dall’impossibile controllo di una forza fisica esorbitante, “naturalmente” inclini alla competizione, al dominio e al controllo, interiormente fragilissimi e perciò soggetti a crolli di autostima devastanti e terrificanti raptus se solo una donna dice loro di no… l’esercizio della violenza è una conseguenza del tutto logica per creature così descritte, il solo difetto nella narrazione è che dipinge creature fantastiche, non uomini in carne e ossa.

Queste icone della propaganda patriarcale hanno anche un “bisogno” di sesso eterosessuale – che nei deliri più spinti può diventare persino un “diritto” – parimenti incontrollabile e che tende a obnubilarli sino a “costringerli” allo stupro. La prostituzione è dunque necessaria al soddisfacimento di un’irrefrenabile necessità creata a tavolino, perché nulla di quanto esposto sopra descrive la realtà ne’ ha un milligrammo di conferma scientifica. La sceneggiata è però del tutto funzionale a presentare la prostituzione come “inevitabile e innocua” (e a tutelare coloro che profittano a vario titolo del giro di miliardi correlato – e no, non sono le donne che si prostituiscono):

“Un effetto devastante della legge regolamentarista è quello di dare un messaggio dannoso e pericoloso all’intera società ovvero che la prostituzione sia inevitabile e innocua. La prostituzione invece è violenza, la domanda maschile è violenza e nei paesi abolizionisti le donne sono decriminalizzate mentre sono i compratori di sesso ad essere criminalizzati in quanto sono coloro che alimentano il mercato dello sfruttamento sessuale. Dobbiamo decidere in che tipo di società vogliamo vivere, la prostituzione è un male sociale, non è necessaria per nessuno. Se una società si batte per l’uguaglianza tra donne e uomini non può promuovere la prostituzione.”

Julie Bindel, 18 marzo 2019, intervistata del TG3.

https://lunanuvola.wordpress.com/2017/09/10/se-muoiono-la-bara-e-gratis/

L’enfasi sulle maman (sono le donne a sfruttare altre donne!) e sui nigeriani (immigrazione sregolata!), in assenza di una sola parola, una sola, sul perché le donne sono trafficate, assolve tranquillamente la legione di spensierati puttanieri che alligna nel nostro paese. Missione compiuta, per giornalisti e twittatore.

Maria G. Di Rienzo

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Uno-due

Sekinat Quadri

“Vorrei dire alle ragazze che hanno paura di tirare di boxe che la boxe non è così difficile. E’ solo diretto, doppio diretto, uno-due.”

Quando la BBC ha chiesto a Sekinat Quadri – in immagine – se voleva mandare un messaggio al mondo, lei ha scelto di dire ciò. I suoi eroi sono Muhammad Ali, la figlia di costui Laila Ali (sul ring dal 1999 al 2005, sempre imbattuta) e la pugile americana Claressa Shields, 23enne due volte campionessa dei pesi medi che pure non è mai stata sconfitta.

Sekinat è nigeriana, ha 7 anni e fa pugilato da due: capitemi, a cinque anni questo scricciolo ha espresso il suo sogno, demolito le resistenze degli adulti a permetterle di impegnarsi a raggiungerlo e sta ispirando altre bambine a imitarla (com’è visibile nella seconda foto).

sekinat in allenamento

A questo punto, fate un bel respiro e guardate diritto negli occhi la vostra giornata. Nessuno ha il diritto di definire chi siete e quel che volete ad eccezione di voi stesse. Diretto, doppio diretto, uno-due.

Maria G. Di Rienzo

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Il 13 marzo scorso, durante l’annuale Commissione sullo status delle Donne tenuta dalle Nazioni Unite, si è tenuto un incontro dal titolo “La violenza non conosce confini”. Organizzazioni della società civile, personale delle NU, testimoni e sopravvissute hanno parlato, dicono i rapporti, degli “orrori della violenza di genere” (che, come sapete, è solo un’invenzione delle femministe, mentre la parola “genere” nasconde una turpe agenda ecc. ecc.).

Fra le relatrici c’erano le due giovani in immagine: la 17enne Hauwa e la 18enne Ya Kaka, venute dal nord della Nigeria a raccontare come sono state rapite da membri di Boko Haram, cosa questi ultimi hanno fatto loro e come sono fuggite dalla brutalità e dalla violenza sessuale continuate.

Hauwa e Ya Kaka

Hauwa è stata rapita quando aveva 14 anni. E’ stata portata in un accampamento nella foresta dove ha subito ogni sorta di abusi. Rimasta incinta, è fuggita perché la paura di morire partorendo è diventata più grande della paura di essere uccisa: “Ho deciso che invece di star quieta e di morire in silenzio nella boscaglia, era meglio morire mentre lottavo per scappare.”

Uscita di soppiatto dall’accampamento durante la notte, ha camminato per una settimana prima di incontrare una donna anziana. Costei l’ha ospitata sino a che Hauwa ha partorito una bimba, poi la ragazza ha ripreso il suo viaggio: “Se fossi rimasta là e i guerriglieri l’avessero scoperto ci avrebbero uccise tutte. La seconda o terza notte, la mia bambina si è ammalata. Eravamo sotto un albero quando è morta. Dapprima credevo dormisse, ma il suo corpo diventava sempre più rigido. Ho scavato una fossa, ho seppellito la bimba e ho continuato a camminare.”

La storia di Ya Kaka è similmente orribile. Era stata rapita assieme a due sorelle, ma è stata subito separata da loro: “Sino a oggi, non le ho più viste e non ho ricevuto alcuna notizia che le riguardi.”

La violenza sessuale diventò la norma della sua esistenza. Anche lei restò incinta e partorì un bambino. Dopo oltre un anno di prigionia riuscì a fuggire e a trovare un campo profughi zeppo di altre sopravvissute. Servizi, cibo e protezione erano scarsi; inoltre, gli abusi non erano finiti: “La notte, quando volontarie e lavoratrici lasciavano l’accampamento, i soldati di guardia allo stesso entravano e ci imponevano di fare sesso con loro.”

Ya Kaka ha dovuto scappare anche da là. Il suo figlioletto si è ammalato ed è morto poco dopo. Le due giovani sono tornate a scuola, ora, ma il pericolo incombe ancora su di loro. Persino il fatto che raccontino le loro storie è rischioso.

“Chiariamoci: Boko Haram sa chi sono. – ha detto Stephanie Sinclair, rinomata fotografa e fondatrice di “Too Young To Wed”, l’organizzazione che ha assistito Hauwa e Ya Kaka – Ma loro vogliono parlare perché ci sono tuttora migliaia di ragazze rapite, nella Nigeria del nord, di cui non si sa nulla.”

Nonostante le sofferenze che hanno attraversato, Hauwa e Ya Kaka hanno detto al loro pubblico di avere speranza. Entrambe hanno dichiarato che mirano a diventare avvocate per difendere e proteggere i diritti umani e che non hanno rimpianti per l’essere uscite allo scoperto.

“Devo condividere la mia storia – ha concluso Ya Kaka – affinché il mondo intero la ascolti.”

Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “What We Want for 2018: The Biggest Movement Leaders Envision the Changes Ahead”, di Beverly Bell per “Yes! Magazine”, 5 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Si tratta di una serie di brevi interviste a attiviste/i di spicco nei movimenti sociali, a cui è stato chiesto cosa prevedono e desiderano per l’anno nuovo. Io ho trovato particolarmente interessanti due donne.)

chiponda

Melania Chiponda (1) – Attivista femminista, fa campagna per la giustizia climatica ed è stata parte della sollevazione che, in Zimbabwe, ha rovesciato Robert Mugabe.

“La marcia di milioni di persone attraverso lo Zimbabwe, il 18 novembre, per la nostra democrazia, per la pace e la salvezza economica ha avuto successo nel far cadere Mugabe. E’ stata una rivoluzione.

Come femminista africana, ho marciato anche per qualcosa che sta più in profondità: per la liberazione delle donne, per l’eguaglianza delle persone di tutte le razze, religioni, generi, gruppi etnici e classi sociali. Ma da un punto di vista femminista la vera rivoluzione non è ancora avvenuta. Il mio sogno per il 2018 e oltre è di un vero cambiamento, non solo un cambio di guardia da Mugabe al suo ex braccio destro, il crudele Emmerson Mnangagwa.

Se vogliamo correggere il sistema politico e il sistema economico, dovremmo liberarci del capitalismo patriarcale. Io mi sento in trappola ove ogni strada di accesso al potere è dominata in modo schiacciante dai maschi. Un sistema economico più cooperativo ed egualitario non può essere basato sulla supremazia maschile.

In un mondo in cui le donne sono viste principalmente come madri e addette al lavoro di cura, e devono sconfiggere la forte resistenza ideologica e politica degli uomini per partecipare ai sistemi politici ed economici, la mia speranza è che noi si dia inizio a una vera rivoluzione contro il capitalismo patriarcale.

okon

Emem Okon – Direttrice del Centro delle Donne per lo sviluppo e le risorse di Kebetkache, un’organizzazione nigeriana eco-femminista che organizza la lotta contro le compagnie petrolifere.

Come donne del delta del Niger, speriamo questo per il 2018: Niente su di noi senza di noi!

Durante questo nuovo anno mireremo a maggior potere per il movimento eco-femminista mentre ci confrontiamo con le compagnie petrolifere che hanno rubato le nostre terre, degradato il nostro ambiente e la biodiversità, e aumentato la violenza.

Mi aspetto maggior visibilità per le donne mentre agiamo per la protezione, la bonifica e il ripristino del nostro ambiente naturale. Prevedo mobilitazioni di donne ancora più vaste e non vedo l’ora di partecipare alle consultazioni con le donne che stanno facendo pressione sulle compagnie petrolifere affinché conducano le valutazioni di impatto ambientale prima di cominciare le attività sulle terre delle loro comunità. Ho la visione delle aspirazioni di chi appartiene alle comunità: l’avere riconoscimento e rispetto dalle compagnie petrolifere.

Infine, prendo speranza dal sapere che spingeremo per una prospettiva relativa ai diritti delle donne mentre ci impegniamo per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e ne controlliamo il progresso, per assicurarci che nessuno sia lasciato indietro e che il governo e le compagnie petrolifere facciano le cose giuste.

(1) Vedi anche:

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/09/13/defendher/

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Solo due su ventisei hanno un nome: Osato Osaro, identificata dal fratello e Marian Shaka, identificata dal marito. Venivano dalla Nigeria e le hanno seppellite tutte a Salerno ieri. La loro età andava dai 14 ai 18 anni. Osato e Marian erano incinte.

salerno funerale

(particolare di una foto di Alessandra Tarantino/AP)

Secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, solo quest’anno sono morte o risultano disperse nel Mediterraneo 2.715 persone che tentavano di raggiungere l’Italia.

I risultati delle autopsie dicono che le ventisei ragazze sono decedute per annegamento e non presentavano segni di stupro o abuso fisico. Tuttavia, è possibile che molte di esse fossero vittime di traffico, giacché la maggioranza delle donne nigeriane in Italia è trafficata per lo sfruttamento sessuale o lavorativo e la Libia, paese da cui sono partite, è diventata uno dei fulcri del traffico internazionale di esseri umani.

Questo il nostro mondo ha offerto a giovanissime donne coraggiose e disperate: essere usate e consumate come oggetti o morire aggrappate a un gommone.

Viste o non viste, conosciute o innominate, ogni ferita inferta a loro sanguina in ognuna di noi; ogni loro morte strappa via da noi un brandello di vita. Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Silent Shame – Bringing out the voices of children caught in Lake Chad crisis” – Unicef – 12 aprile 2017. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

Dada

Dada (nigeriana, in immagine) aveva 12 anni quando Boko Haram entrò nella sua cittadina. Nascoste all’interno della propria casa, lei e sua sorella udirono i colpi di arma da fuoco che risuonavano nelle strade. Quando si fece notte, i membri di Boko Haram arrivarono alla casa, buttarono giù la porta a calci e rapirono entrambe le ragazze.

Furono condotte a un villaggio nella boscaglia composto per la maggior parte di bambine/i. Le ragazze furono messe assieme a centinaia di altre che i membri Boko Haram avevano catturato durante i raid nelle campagne.

Gli uomini prendevano “in mogli” bambine dodicenni, mentre i maschietti erano forzati ad addestrasi al combattimento. Un giorno, radunarono le bambine in cerchio in uno spiazzo e dissero loro di fare bene attenzione. Altri combattenti apparvero trascinando una ragazza e costringendola a giacere sul terreno di fronte al gruppo di bambine terrorizzate.

“Se qualcuno tenta di scappare – dissero come Dada ricorda – questo è il trattamento che vi riserveremo.” Mentre uno avvicinava un coltello alla ragazza, Dada la ricorda urlare: “Perché state facendo questo a me? Ho un bambino!” Gli uomini le segarono la testa dal corpo e gettarono cadavere e testa decapitata nel folto della boscaglia. “Gli occhi della ragazza erano ancora aperti.”, dice Dada pianamente.

Quattro mesi dopo essere stata rapita, Dada era di nuovo seduta nello spiazzo con altre bambine rapite. I membri di Boko Haram si rivolsero a lei e le indicarono un giovane attorno ai 18 anni. Si chiamava Bana ed era un combattente e un capo. “Questo è tuo marito.”, le dissero. Quella notte, Dada fu stuprata per la prima di molte altre volte.

Dada riuscì a fuggire dal campo, attraversando a piedi la savana per giorni, senza cibo, sino a che si imbatté in un accampamento militare in Camerun. La sua pancia aveva continuato a gonfiarsi da un po’ di tempo e lei pensava di avere problemi allo stomaco. Dopo averla sottoposta ad alcuni test medici, i militari le dissero che era incinta.

Oggi sua figlia ha due anni. A Dada piace giocare lei, tenerla in braccio e farle il solletico. “A volte, quando la guardo, divento arrabbiata. – dice Dada – Ma dopo aver riflettuto, mi calmo. Dovunque io vada, non posso stare senza di lei.”

Dada è ora 15enne e vive in un luogo protetto a Maiduguri in Nigeria.

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