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“Tre anni fa, ero una madre single con due bambini che viveva con sua madre vedova. La situazione era così difficile che quando un’amica mi ha parlato dell’andare in Germania, gente, sono partita!

Siamo arrivate solo sino in Libia. Sono stata venduta, stuprata e torturata. Ho visto molti nigeriani morire, inclusa la mia amica Iniobong.

Oggi sono una fornaia a Benin e guadagno abbastanza soldi per provvedere alla mia famiglia. I miei ragazzi non cresceranno vergognandosi della loro madre. Il mio nome è Gift Jonathan e non sono in vendita.”

(trad. Maria G. Di Rienzo)

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(“What My Muslim Religion Really Says About Women”, relazione di Alaa Murabit per TED Talk luglio 2015, trad. Maria G. Di Rienzo.)

alaa murabit

Ogni giorno, lavoro per amplificare le voci delle donne e portare alla luce le loro esperienze e la loro partecipazione ai processi di pace e alle risoluzioni di conflitti e, a causa di questo mio lavoro, comprendo che il solo modo di assicurare globalmente la piena partecipazione delle donne è reclamare la religione.

Questa cosa è di vitale importanza per me. Come giovane donna musulmana, sono molto orgogliosa della mia fede. Mi dà la forza e la convinzione necessarie a fare il mio lavoro ogni giorno. E’ la ragione per cui sono qui di fronte a voi.

Ma non posso fingere di non vedere i danni che sono stati fatti in nome della religione, non solo la mia, ma tutte le principali fedi mondiali. La mistificazione, l’abuso e la manipolazione delle scritture religiose ha influenzato le nostre norme sociali e culturali, le nostre leggi, le nostre vite quotidiane, al punto che a volte neppure lo riconosciamo.

I miei genitori si sono trasferiti dalla Libia, nell’Africa del nord, al Canada nei primi anni ’80 e io sono la figlia di mezzo di undici bambini. Sì, undici. Mentre crescevo, vedevo i miei genitori, entrambi persone devote e spirituali, pregare e lodare Dio per le loro benedizioni: naturalmente io sono una di esse, ma in mezzo alle altre.

Erano gentili e spiritosi e pazienti, illimitatamente pazienti, del tipo di pazienza che sei forzato ad avere quando hai undici figli. Ed erano onesti. Non mi hanno imposto la religione attraverso una lente culturale. Ero trattata come gli altri, ci si aspettava da me le stesse cose. Non mi è stato insegnato che Dio giudica diversamente basandosi sul genere.

E la comprensione di Dio che hanno i miei genitori, come misericordioso e benefico amico e provveditore, ha dato forma al modo in cui io guardo il mondo. Ora, ovviamente, il mio contesto familiare aveva benefici addizionali. Essere una di undici bambini è diplomazia di base.

Ancora oggi, quando mi chiedono se ho frequentato una scuola particolare, tipo “Sei andata alla Scuola di governo Kennedy?”, io li guardo e rispondo “No, sono andata alla Scuola Affari Internazionali Murabit”. E’ estremamente esclusiva. Dovete parlare con la mia mamma per entrarci. Fortunatamente per voi, è qui. Ma essere una di undici bambini e avere dieci fratelli e sorelle ti insegna un mucchio di cose sulle strutture di potere e sulle alleanze. Ti insegna a concentrarti; devi parlare velocemente o dire meno cose, perché verrai sempre interrotta. Ti insegna l’importanza del mandare messaggi. Devi fare domande nel modo giusto per avere le risposte che vuoi, e devi saper dire “no” nel modo giusto per mantenere la pace.

Tuttavia, la lezione più importante che ho appreso crescendo è l’importanza di essere al tavolo. Quando si ruppe la lampada preferita della mamma io dovevo essere là mentre lei tentava di scoprire come e chi, perché dovevo difendere me stessa, perché se non lo fai il dito viene puntato contro di te e in men che non si dica sei in castigo. Non sto parlando per esperienza personale, certo.

Nel 2005, quando avevo 15 anni ed avevo finito le medie, mi sono spostata da Saskatoon in Canada alla città natale dei miei genitori in Libia, Zawiya, una città molto tradizionale. Badate, ero stata in Libia prima solo in vacanza e come bambina di sette anni era tutto magico. Gelato e spiaggia e parenti entusiasti.

Saltò fuori che non era lo stesso per una giovane signora di 15 anni. Mi si introdusse rapidamente agli aspetti culturali della religione. Le parole “haram”, che significa “proibito dalla religione”, e “aib” che significa “culturalmente inappropriato”, erano inopinatamente usate come sinonimi, come se fossero la stessa cosa e avessero le stesse conseguenze. E mi trovavo di continuo a dibattere con compagni di classe e colleghi, professori, amici e persino parenti che mettevano in discussione la mia capacità decisionale e le mie aspirazioni. E pur avendo le basi che i miei genitori mi avevano dato, mi sono trovata a dubitare del ruolo delle donne nella mia fede.

Dovete sapere che alla Scuola Affari Internazionali Murabit noi prendiamo i dibattiti molto seriamente e la regola numero uno è “documentati”, perciò è quel che feci e rimasi sorpresa dalla facilità con cui trovavo, nella mia fede, donne che erano leader, che erano innovative, che erano forti – politicamente, economicamente e persino militarmente.

Khadija finanziò il movimento islamico al suo nascere. Non saremmo qui se non fosse per lei. Perciò, perché non imparavamo nulla di lei? Perché non imparavamo le storie di queste donne? Perché le donne erano relegate a posizioni precedenti agli insegnamenti della nostra fede? E perché, se siamo eguali agli occhi di Dio, non siamo eguali agli occhi degli uomini?

Per me, si è trattato di tornare alle lezioni che ho appreso da bambina. Chi prende le decisioni, chi controlla il messaggio, siede al tavolo e sfortunatamente, in ogni singola religione mondiale, non sono le donne. Le istituzioni religiose sono dominate dagli uomini e guidate da leader uomini, e creano politiche che assomigliano a loro, e sino a che non cambiamo interamente il sistema, non possiamo realisticamente aspettarci la piena partecipazione economica e politica delle donne. Le nostre fondamenta sono spezzate. La mia mamma dice sempre che non si può costruire una casa diritta su fondamenta storte.

Nel 2011 esplose la rivoluzione libica e la mia intera famiglia era in prima linea. E c’è questa cosa eccezionale che accade durante un conflitto, uno spostamento culturale, per quanto temporaneo. Per la prima volta io sentivo che non solo era accettabile io fossi coinvolta, ma era incoraggiato. Era richiesto. Io e le altre donne avevamo un posto al tavolo. Non dovevamo stare al tavolo a tenerci le mani con un medium, eravamo parte della costruzione decisionale. Eravamo condivisione di informazioni. Eravamo cruciali. E io volevo e avevo bisogno che quel cambiamento fosse permanente.

Alla fine, non è così facile. Ci sono volute poche settimane prima che le donne tornassero ai ruoli precedenti, e la maggior parte di esse fu spinta a farlo dalle parole di leader religiosi e politici, molti dei quali citavano scritture religiose in propria difesa. E’ così che guadagnano sostegno popolare per le loro opinioni.

Perciò, inizialmente, mi sono concentrata sull’aumentare il potere politico ed economico delle donne. Pensavo che questo avrebbe condotto a cambiamenti culturali e sociali: ma funziona solo un poco, non moltissimo. Così ho deciso di usare la loro arma difensiva come mia arma offensiva, ed ho cominciato anch’io a citare e sottolineare le scritture islamiche.

Nel 2012 / 2013, la mia organizzazione ha guidato la più vasta campagna mai tenuta in Libia. Siamo entrate nelle case e nelle scuole e nelle università, persino nelle moschee. Abbiamo parlato a 50.000 persone direttamente e a centinaia di migliaia tramite tabelloni, annunci televisivi e radiofonici, posters. E voi vi state probabilmente chiedendo come ha potuto un’organizzazione per i diritti delle donne fare questo in comunità che si opponevano alla nostra stessa esistenza.

Ho usato le scritture. Ho usato i versetti del Corano e i detti del Profeta, gli Hadith, i quali sono per esempio: “Il migliore di voi è colui che tratta al meglio la propria famiglia”, “Non permettere che tuo fratello opprima qualcun altro”. Per la prima volta, i sermoni del venerdì tenuti dagli imam delle comunità locali promuovevano i diritti delle donne. Istanze tabù sono state discusse, come la violenza domestica. Le politiche sono cambiate. In alcune comunità abbiamo dovuto spingerci sino a dire: Vi opponete alla Dichiarazione Internazionale dei Diritti Umani perché non è stata scritta da sapienti religiosi, be’, gli stessi princìpi stanno nel nostro libro, per cui devono essere state le Nazioni Unite a copiare.

Cambiando il messaggio, siamo state in grado di fornire una narrazione alternativa che promuoveva i diritti delle donne in Libia. E’ qualcosa che viene replicato in questo momento a livello internazionale e so che non è facile, credetemi, lo so. I liberali diranno che state usando la religione e siete conservatrici cattive. I conservatori vi diranno un mucchio di cose fantasiose. Io ho sentito di tutto, da “I tuoi genitori devono vergognarsi terribilmente di te” – falso, sono i miei più grandi fans – a “Non vivrai sino al tuo prossimo compleanno.” – sbagliato di nuovo, perché l’ho fatto. E resto profondamente convinta che i diritti delle donne e la religione non si escludano mutualmente.

Ma dobbiamo essere al tavolo. Dobbiamo smettere di rinunciare alle nostre posizioni, perché restando silenziose permettiamo la continuazione delle persecuzioni e degli abusi diretti alle donne in tutto il mondo.

Chi ha detto lottiamo per i diritti delle donne e contro l’estremismo con bombe e guerre ha completamente mutilato società locali che hanno bisogno di risolvere queste questioni per diventare sostenibili.

Non è facile sfidare i messaggi religiosi distorti. Avrete in risposta la vostra dose di insulti, di ridicolizzazione e di minacce. Ma dobbiamo farlo. Non abbiamo altra opzione che reclamare il messaggio dei diritti umani, i princìpi della nostra fede, non per noi, non per le donne nelle nostre famiglie, non per le donne in questa stanza, e persino non per le donne là fuori, ma per le società che saranno trasformate dalla partecipazione delle donne. E l’unico modo in cui possiamo far questo, la nostra sola opzione, è essere e rimanere sedute al tavolo.

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A volte è utile ricordare che mentre noi, in prossimità dell’8 marzo, dobbiamo schivare mimose e spogliarelli (e un sacco di discorsi vieti, inutili, stantii e semplicemente stronzi), molte nostre simili quello stesso giorno cercano di schivare pallottole di gomma e manganelli.

Quest’anno, per fare solo due esempi, è successo in Palestina, al checkpoint di Qalandiya fra Gerusalemme e Ramallah, e ad Algiers in Algeria. Nel primo caso, circa 1.500 fra donne palestinesi e donne israeliane hanno manifestato in modo congiunto e pacifico da ambo le parti del muro che le divide, chiedendo la fine dell’occupazione israeliana e dell’assedio di Gaza e rivendicando i loro diritti, come donne, di sperimentare libertà e vivere in pace.

palestina 7 marzo 2015

La foto riprende un momento della manifestazione in Palestina, 7 marzo 2015. La donna con il megafono è Amal Khreishe, direttrice dell’Associazione Lavoratrici Palestinesi per lo Sviluppo.

Quando le donne di Ramallah hanno raggiunto il checkpoint, armate di voci sicuramente mortali e di pericolosissimi cartelli, i soldati israeliani hanno sparato loro addosso dapprima gas lacrimogeno e spray al peperoncino, per passare ai proiettili di gomma quando è stato chiaro che le donne non se ne sarebbero andate.

Amal Khreishe è stata colpita da una scarica di pallottole e ha dovuto essere trasportata all’ospedale. Sama Aweideh – direttrice del Centro Studi delle Donne, nell’immagine sottostante – ha invece perso i sensi per l’esposizione al gas lacrimogeno ed è stata soccorsa con somministrazione di ossigeno sul posto. (Entrambe si sono riprese e sono attualmente di nuovo al lavoro.)

Sama Aweideh

Le donne dall’altra parte del checkpoint non sono state attaccate, ma hanno espresso angoscia, frustrazione e rabbia nel dover essere testimoni dell’uso ingiustificato della forza contro le dimostranti palestinesi.

In Algeria, il giorno dopo, Cherifa Kheddar – Presidente di “Djazairouna”, l’Associazione delle Vittime del terrorismo islamico in Algeria – è stata assalita dalla polizia ed arrestata assieme a numerose altre donne. Le manifestanti reggevano cartelli con i nomi delle donne uccise dai gruppi armati fondamentalisti in Algeria negli anni ’90 (inclusa la sorella di Cherifa, l’avvocata Leila Kheddar). Rilasciata dopo alcune ore con un bel po’ di lividi che prima non aveva, Cherifa Kheddar è riuscita a scrivere il seguente comunicato l’11 marzo:

cherifa

“In occasione dell’8 marzo, sono stata arrestata per aver organizzato una dimostrazione pacifica in ricordo delle donne vittime del terrorismo (che furono stuprate e assassinate). Le autorità ora stanno negando persino il diritto alla memoria. Sono stata picchiata, insultata, chiamata con epiteti squallidi e volgari all’interno della stazione di polizia ad Algiers. Ho ricevuto il primo colpo mentre ero ancora davanti agli Uffici Centrali delle Poste, e l’ho ricevuto dal comandante della stazione di polizia in persona. Sono stata liberata la sera stessa. Tutto questo per aver semplicemente srotolato uno striscione che mostrava la lista delle vittime.”

Ci sono anche i casi in cui le donne non riescono neppure a raggiungerle, le strade e le piazze in cui intendono protestare: in Cina, il 6 marzo 2015, le hanno arrestate prima, andando a prenderle direttamente in casa senza alcun mandato legale. Le principali attiviste femministe del paese, tutte giovani fra i venti e i trent’anni, hanno passato il Giorno Internazionale della Donna in galera, dove si trovano a tutt’oggi (18 marzo, mentre scrivo). La loro intenzione – pubblica, dichiarata, non in contrasto con la legge – era di distribuire volantini anti-molestie sugli autobus in un’azione concertata.

Sono Li Tingting (conosciuta anche come Li Maizi), attivista per i diritti delle donne e delle persone LGBTQ che lavora per il Centro Yreinping di Pechino, un’ong dedita a promuovere giustizia sociale e salute pubblica; Wei Tingting (soprannominata “Waiting”) dell’Istituto per l’educazione al genere e alla salute di Pechino; Zheng Churan (conosciuta anche come Datu – coniglio gigante) di Guangzhou, attivista femminista antiviolenza a cui nel novembre 2014 le autorità cinesi hanno negato il permesso di viaggiare fuori dal paese per partecipare ad un forum di organizzazioni asiatiche della società civile: la giovane femminista che la sostituì partecipò con la gigantografia di Zheng Churan appesa alla schiena; Wu Rongrong, femminista che lavora in un gruppo di Hangzhou contro la violenza di genere; Wang Man, femminista di Pechino che lavora contro la discriminazione di genere e per il rafforzamento economico delle donne: il suo slogan personale è “Wang Man si dedica a sradicare la povertà”.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l'aspetto di una femminista.

Li Tingting / Maizi. La scritta sulla maglietta dice: questo è l’aspetto di una femminista.

Dopo alcuni giorni di agghiacciante silenzio da parte delle autorità, i familiari delle giovani sono riusciti a sapere dove si trovano e ad inviare loro abiti, cibo e medicinali e gli avvocati hanno potuto vederle. Secondo altre femministe e alcune giornaliste cinesi, dovrebbero essere rilasciate a breve senza subire ulteriori danni… ovviamente non sempre le attiviste escono da queste situazioni ammaccate ma ancora vive e non sono sempre agenzie di stato a rispondere con la violenza alle richieste e al lavoro delle donne in materia di diritti umani. Il 24 febbraio scorso – a Tripoli, in Libia – abbiamo perso Intissar Al Hasairi, uccisa a colpi di arma da fuoco assieme a sua zia. I due cadaveri sono stati ritrovati nel bagagliaio dell’auto di proprietà dell’attivista. Intissar Al Hasairi era co-fondatrice del Movimento Tamweer, un gruppo che promuove pace e cultura in Libia ed aveva partecipato a manifestazioni che chiedevano uno stato democratico e il rispetto della legge.

Intissar

Tripoli è sotto il controllo di un’alleanza di gruppi islamisti armati, detta “Fajr Libya” (“L’alba della Libia”) dall’estate del 2014. L’alleanza ha creato un governo parallelo a Tripoli, forzando quello esistente a ritirarsi al confine con l’Egitto, ed ha una speciale “lista nera” per chi, sia donna o uomo, lavora per i diritti umani, promuove l’idea di uno stato democratico, chiede il rispetto delle leggi vigenti prima del loro arrivo, eccetera. Fra i bersagli in lista figurava ad esempio l’avvocata per i diritti umani Salwa Bugaighis, poi in effetti uccisa nella propria casa di Benghazi, il 26 giugno 2014, da un gruppo di uomini armati non identificati che indossavano uniformi militari.

Riguardate tutti i volti delle donne di questo articolo, prima di passare ad altro. Ecco che aspetto hanno le femministe, ecco cosa desiderano, cosa fanno, come vivono. Ecco come muoiono. Ecco perché continuano a lottare. Maria G. Di Rienzo

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(“Are Women Really Peaceful?”, di Sanam Naraghi Anderlini, 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Sanam Naraghi Anderlini è la co-fondatrice di International Civil Society Action Network (ICAN) – http://www.icanpeacework.org -, una rete internazionale della società civile. Esperta di genere e conflitto, Sanam fu una dei membri della società civile che parteciparono alla stesura della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.)

sanam

Sono davvero pacifiche, le donne?

Questa è la domanda che inevitabilmente sorge durante ogni discussione sull’inclusione o il contributo femminile alla costruzione di pace.

Per alcune donne occidentali l’assunto che le donne siano orientate alla pace implica l’essere troppo “soffici”. E’ spiacevole, perché il dialogo, la diplomazia e il compromesso sono faccende molto più dure e complesse dell’affidarsi alle opzioni militari.

Le persone mettono in discussione l’essere orientate alla pace delle donne puntando il dito su leader come Margaret Thatcher, Golda Meir ed altre che hanno guidato i loro paesi in guerra. Indicano le donne che si uniscono a ISIS o i membri femmine nei movimenti di ribelli armati, come Farc in Colombia o i maoisti in Nepal, per provare che le donne non sono pacifiche.

Questi esempi raccontano solo una piccola parte della storia. Metà dell’umanità non può essere omogenea nelle sue azioni. Anche il contesto va preso in considerazione.

Ci sono tre modi di rispondere alla domanda. Il primo potrebbe essere: no, le donne non sono pacifiche. Come individui, le donne possono essere violente o sostenere la violenza. Molte si uniscono ad eserciti, gruppi armati o altri movimenti che predicano e perpetrano violenza.

Per alcune donne il servizio militare è la strada verso l’eguaglianza, l’empowerment e fuori dall’oppressione. Numerose donne nepalesi nel movimento maoista si sono unite alla lotta per i principi di eguaglianza e giustizia sociale asseriti dal movimento. Si uniscono dopo aver testimoniato l’uccisione dei propri padri, mariti o fratelli da parte dell’esercito. Alcune fuggono dalla violenza nelle loro case o per vendicare il proprio stupro. Alcune sono forzate.

Ci sono situazioni in cui donne spingono i loro parenti maschi alla vendetta o a cercare retribuzione per la violenza da loro subita, ma globalmente le donne sono ancora una minoranza nei gruppi armati o negli eserciti.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è: sì, se le azioni collettive delle donne, come movimenti organizzati per lottare per i propri diritti di base e l’autodeterminazione, sono prese in considerazione. Attraverso la Storia e il mondo, l’organizzarsi collettivo delle donne ha le sue radici nella nonviolenza e usa la resistenza civile e altre tattiche simili per arrivare ai suoi scopi.

Il movimento delle donne afgane è uno di questi casi. Nonostante trent’anni di guerra e di oppressione diretta, nonostante minacce di morte e aggressioni, le donne afgane continuano la loro lotta per i diritti e la pace in modo nonviolento.

Vi è inerente ironia e contraddizione, in questo. Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sono onorati per la loro aderenza alla nonviolenza. Ma la maggior parte delle leader e delle attiviste nei movimenti per i diritti delle donne sono tipicamente ne’ celebrate ne’ onorate, mentre quelle che hanno usato violenza sono spesso ricordate nelle narrazioni storiche.

La risposta finale è considerare come le donne, collettivamente e individualmente, contribuiscono a metter fine alla violenza e alla costruzione di pace, durante le guerre e nei contesti interessati da conflitti.

Sovente, le esperienze personali hanno spinto le donne come singoli individui a sollevarsi come attiviste per la pace. In Sri Lanka, Visaka Dharmadasa ha incanalato il dolore seguito alla sparizione del figlio (che era nell’esercito) verso il cercare il leader dei ribelli e l’iniziare con lui un dialogo che ha contributo a un “cessate il fuoco”. Lei scelse di pensare ai ribelli, in maggioranza giovani uomini, attraverso la lente di una madre, anche se costoro erano responsabili della sua perdita.

Allo stesso modo negli Usa, donne che avevano perso figli e mariti l’11 settembre non solo istigarono la Commissione 11/9, ma stabilirono organizzazioni umanitarie che promuovono l’empatia per le vittime di violenza e celebrano la diversità religiosa.

Questa capacità di lavorare su un dolore profondo volgendolo in positivo è una qualità straordinaria.

In Somalia, un gruppo di donne anziane appartenenti all’elite usarono il proprio status per interagire con i clan guerreggianti e incoraggiarono la loro partecipazione ai colloqui di pace, e negoziarono la riapertura dell’aeroporto e dell’ospedale con i ribelli di al-Shabaab.

Non tutte le donne in un movimento per i diritti umani delle donne fanno attivismo pacifista.

Non tutte le donne pacifiste emergono dai movimenti per i diritti umani.

Sebbene siano una minoranza, le donne che combinano l’attivismo per la pace con l’attivismo per i diritti gettano ponti sui divari e attirano sostenitori da ambo le parti. I loro successi sono basati su tecniche che esse stesse hanno ideato, spesso specifiche per un dato contesto culturale, e radicate nel loro invisibile potere.

In molti paesi, le donne hanno usato scioperi del sesso come tattica all’interno del loro più ampio sforzo per metter fine agli scontri.

In Sierra Leone, donne anziane appartenenti alla chiesa chiesero un incontro con un leader del movimento ribelle. Furono insultate e come risposta si sfilarono le vesti e rimasero nude, conoscendo alla perfezione le conseguenze. La loro azione accese la mobilitazione degli uomini appartenenti alla chiesa e ciò portò alla fine della violenza.

In Liberia, donne si interposero direttamente durante le resistenze al processo di disarmo e convinsero i giovani uomini a consegnare loro le armi.

In numerosi scenari, le donne hanno portato informazioni e prospettive importanti ai processi di pace su istanze quali sicurezza, giustizia, governance e recupero economico. Mentre i belligeranti sono spesso concentrati sulla propria quota di potere, le donne sono concentrate sulle responsabilità verso le loro comunità, famiglie e bambini.

Persino donne anziane dei movimenti ribelli del Salvador e del Guatemala, che entravano nelle negoziazioni come combattenti stagionate e rappresentanti dei loro gruppi, diventarono subito consapevoli dei gruppi marginalizzati, fra cui le donne – e parlarono in loro favore.

Invariabilmente, la loro comprensione della pace e della proverbiale “tavola della pace” ha più sfumature ed è più complessa di quella dei partiti in guerra o dei mediatori. Le donne sanno che metter fine alla violenza è una priorità, ma riconoscono anche che ciò non può essere fatto in modo efficace senza affrontare le cause profonde della guerra ed articolare una visione condivisa di pace e società.

In nessun altro luogo questo è tanto visibile quanto nell’odierno Medio Oriente. Nella lotta contro gli estremismi insorgenti e il militarismo di stato, le donne in Siria, Libia, Iraq, Egitto ecc. osano contrapporsi e intervenire. Sono le prime a rispondere con soccorso, cura e “normalità” nel bel mezzo del caos. E nonostante tutta la violenza e le minacce di morte, sanno che le risposte militari non metteranno mai fine alla crisi. Si basano sulla loro propria storia e difendono diritti umani, pluralismo e pace. Esse sono l’unico movimento transnazionale che sta offrendo una visione condivisa e dei valori condivisi, in alternativa a visione e valori degli estremisti.

“Chiediamo al mondo: perché ci aiutate ad ucciderci l’un l’altro? – ha detto un’attivista siriana – Perché non ci aiutate a parlare l’uno all’altro?”

Le donne sono gli assetti chiave per la pace, eppure la comunità internazionale persiste nell’ignorarle o marginalizzarle. Forse è il momento di girare sottosopra la domanda iniziale.

Perché il mondo continua ad ignorare o indebolire donne che sono abbastanza coraggiose da lottare per la pace, pacificamente?

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(“They are ready to kill me”, Radio Netherlands Worldwide, 21.7.2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

Hanan Al-Newaisery

L’avvocata libica Hanan Al-Newaisery si è occupata spesso di madri straniere i cui figli sono portati via dai padri libici dopo che la coppia si divide. Durante un recente caso simile, Al-Newaisery e suo padre sono stati aggrediti dai sostenitori dell’ex marito. L’avvocata non si sente più al sicuro: “Così tanta gente era là a guardare, e nessuno ha fatto nulla.”

Un martedì mattina, Al-Newaisery aveva appena terminato un’udienza in tribunale, era entrata in automobile e si stava preparando a lasciare il parcheggio. Accanto all’ingresso del tribunale, un uomo l’ha bloccata mettendosi di mezzo e le ha detto di uscire dall’auto. Il padre dell’avvocata, che l’aveva assistita durante l’udienza e stava vedendo quel che accadeva, si è precipitato in suo soccorso. Mentre l’uomo lo schiaffeggiava, altri due si sono uniti a lui ed hanno cominciato a somministrare all’anziano scariche con le pistole elettriche.

Al-Newaisery ha visto il proprio padre giacere indifeso a terra. “Continuavano a colpirlo, mentre stava già sanguinando. I passanti non hanno fatto nulla, ne’ lo staff del tribunale è andato a soccorrerlo. Quando ho tentato di uscire dall’auto per aiutarlo, il solo commento che ho ricevuto da un passante è stato: Non potresti coprirti prima la testa, donna? Gli ho chiesto se era più scioccato dai capelli di una donna che da un anziano pestato a sangue.” Gli aggressori hanno infilato il padre di Al-Newaisery in una macchina e se ne sono andati con lui.

L’avvocata era stata avvisata. Quando ha cominciato a lavorare per una madre europea che voleva poter vedere il suo bimbo piccolo, l’ex marito libico di quest’ultima l’aveva chiamata e le aveva detto di abbandonare il caso. Altrimenti, aveva minacciato, il giorno dell’udienza sarebbe stato l’ultimo della sua vita. Aveva indirizzato minacce anche al padre di lei, che dirige la “Fondazione per il sostegno ai diritti dei bambini libici”, di cui sua figlia è co-fondatrice.

Sono sei anni, ormai, che Al-Newaisery patrocina le madri straniere che tentano di riavere i propri figli dopo che i padri libici li hanno letteralmente rapiti. E in questi sei anni ha ricevuto un’infinità di minacce. “In teoria”, spiega l’avvocata, “la legge libica è quasi egualitaria, se paragonata alle leggi di altri paesi arabi. Se una madre accetta di restare in Libia e di crescere il figlio come musulmano, può averne la custodia. Ma c’è una resistenza “culturale” a questo: in realtà, le persone non accettano l’idea che una madre straniera abbia diritti in Libia, neppure se è una convertita all’Islam. I media e le fonti ufficiali restano in silenzio su questa materia .”

Dopo aver passato ore ed ore al tribunale di Misrata, disperata ed esausta, infine Al-Newaisery ha ricevuto notizia da alcuni poliziotti che suo padre era stato trovato e che lo avrebbero riportato da lei. “Quando arrivò, era conciato malissimo. Aveva lividi e ferite dappertutto, un occhio quasi completamente distrutto. Il messaggio che ci hanno mandato è molto chiaro: Tu e tua figlia dovete smettere di fare questo lavoro, o vi faremo smettere noi. Sono pronti ad uccidere.”

Quel che spaventa di più l’avvocata non sono le minacce in sé: “Sono i testimoni, quelli che vedono l’ingiustizia e non la rifiutano, e sono le autorità che non prendono alcun provvedimento. Se il giudice è spaventato, il pubblico ministero viene minacciato quotidianamente e l’avvocato viene picchiato per strada, come si suppone possa funzionare un sistema giudiziario?”

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Magdulien Abaida

Magdulien Abaida, 25enne libica, ha appena ottenuto l’asilo in Gran Bretagna. Da ora in avanti vivrà a Sunderland, sulla costa nordorientale del paese. Pensa che se dovesse tornare in Libia non ne uscirebbe viva. “Se le milizie dovessero avermi ancora nelle loro mani non mi lascerebbero andare.” Una fedelissima di Gheddafi? Tutto il contrario. Quando le sollevazioni cominciarono in Libia nel febbraio 2011, Magdulien organizzava i rifornimenti di cibo e medicinali per i ribelli e andò a cercare alleanze contro il regime in Egitto e a Parigi. Non appena Tripoli, la sua città, fu sotto il controllo dei ribelli nell’agosto successivo, la giovane vi tornò per far campagna sui diritti delle donne, in particolare per assicurarsi che vi fosse eguaglianza nella Costituzione che sarebbe stata scritta. Come altre attiviste, era preoccupata dalla crescente influenza dei fondamentalisti islamici, e come loro restò orripilata quando nell’ottobre 2011 Mustafa Abdul, il capo del Consiglio transizionale nazionale, usò il suo primo discorso pubblico dopo la caduta di Gheddafi per proporre di facilitare agli uomini la possibilità di avere più di una moglie. “Fu un grande shock per noi. Non era per questo che avevamo fatto la rivoluzione, non perché gli uomini potessero sposare quattro donne. Volevamo più diritti, non la distruzione dei diritti di metà della società.”

Quest’estate Magdulien si trovava a Benghazi per partecipare ad un conferenza sulle donne: l’assemblea fu interrotta e sciolta da uomini armati. Il giorno successivo, la giovane donna fu rapita dagli stessi uomini dalla sua stanza d’albergo. La rilasciarono dopo poche ore, ma la ripresero ancora l’indomani e la tennero prigioniera in una base delle milizie. Le milizie di cui si parla sono gruppi armati che si sono formati con il solo scopo di combattere Gheddafi ma che da allora non si sono più sciolti e agiscono indipendentemente sulla scena libica. Molti, come quello che ha tenuto prigioniera Magdulien, hanno un forte orientamento islamista. Lei non ha ancora capito cosa volessero esattamente: “Mi lasciarono nella stanza, poi uno di loro entrò e cominciò a prendermi a calci. Poi prese a picchiarmi con il calcio del fucile. E continuava a dire: Se ti uccido e ti seppellisco qui nessuno lo saprà mai. Mi ha chiamato “spia d’Israele”, “puttana” e “cagna”. Pensavo che sarei morta in quel posto.” Magdulien fu lasciata andare malamente ferita dal pestaggio, e non ha sopportato il terrore di essere catturata una terza volta, magari quella definitiva: in settembre è fuggita in Gran Bretagna.

Amnesty International (AI), che ha sostenuto la sua richiesta di asilo, dice che si tratta di un caso emblematico. “Documentiamo questo tipo di comportamento sin dalla caduta del regime.”, afferma la ricercatrice per il Nord Africa di AI Diana el-Tahawy, “Le milizie armate agiscono completamente al di fuori di ogni controllo. Ve ne sono centinaia in tutto il paese che arrestano persone illegalmente, le detengono in condizioni di incommunicado, e le torturano. Ci sono persone che sono morte di queste torture. Quando sono stata in Libia lo scorso settembre, in un solo giorno ho incontrato tre famiglie che avevano perso loro membri in questo modo. Ciò accade mentre il governo pare non avere la volontà o la capacità di mettere un freno alle milizie.” Sempre in settembre, folle inferocite hanno attaccato le basi dei miliziani a Benghazi, chiedendo una fine alle scorrerie e ai crimini delle brigate. Di recente il governo, tramite il nuovo Ministro della Giustizia Salah Marghani, ha assicurato che intende occuparsi delle violazioni dei diritti umani nel paese, in particolare nelle prigioni e nei centri di detenzione, pur avvisando che si tratta di “un grosso problema” (e che quindi non sarà facile risolverlo).

Magdulien trova la sua situazione ironica: “E’ molto brutto, dopo che ti sei messa in pericolo e hai lavorato duramente per questa rivoluzione, scoprire che alla fine devi andartene perché non sei più al sicuro. Durante le sollevazioni eravamo uniti, lavoravamo insieme, ma ora una situazione del genere appare davvero difficile. Continuerò a fare del mio meglio per la rivoluzione, da qui.” Non mi permetterei mai di dare consigli a Magdulien Abaida, solo rispetto e solidarietà, e tuttavia non posso fare a meno di pensare che è solo la millesima volta in cui sento questa storia: finché serve è “Venite, sorelle della rivoluzione, abbattiamo il tiranno!”, e non appena il tiranno è caduto: “Andate, sorelle della rivoluzione, andate a casa, lasciate agli uomini questo sporco lavoro (il potere, la politica, la scena pubblica, i diritti, l’economia)” Forse, quando cominciamo a costruire barricate assieme agli uomini, dovremmo seguire un materno consiglio irlandese: Love everybody, trust only the few – Ama tutti, fidati solo di pochi. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: BBC, Awid, Safe World for Women)

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(“Why do they hate us?” di Mona Eltahawy, giornalista egiziana, per www.foreignpolicy.com 24.4.2012. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Di Eltahawy ho in precedenza tradotto un’intervista, qui postata il 30.11.2011 con il titolo “La nostra rivoluzione continua”)

In “Vista in distanza di un minareto”, la scomparsa e troppo dimenticata scrittrice egiziana Alifa Rifaat comincia la sua novella mostrando una donna così indifferente al sesso con suo marito che mentre quest’ultimo si concentra sul proprio piacere lei nota una ragnatela che deve spazzare via dal soffitto e rumina sul ripetuto rifiuto dell’uomo di prolungare il coito fino a che anche lei provi un orgasmo, “nel preciso intento di infliggerle una privazione”. Mentre il marito si nega per l’ennesima volta, la chiamata alla preghiera lo interrompe, e lascia la stanza. Dopo essersi lavata la donna si perde in preghiera – e la trova così più soddisfacente del sesso coniugale da non veder l’ora di pregare di nuovo – poi interrompe le sue riflessioni per preparare il caffé al marito. Nel portarglielo e nel versarlo nella tazza di fronte a lui, la donna nota che è morto. Perciò chiede al figlio di andare a chiamare un medico e: “Tornò in soggiorno e si versò del caffé. Era sorpresa dalla propria calma.”

In meno di tre pagine e mezza Rifaat mostra la triade di sesso-morte-religione, è un bulldozer che frantuma la negazione e l’attitudine difensiva per andare al cuore pulsante della misoginia in Medio Oriente. Non c’è modo di zuccherare questa cosa: non ci odiano a causa delle nostre libertà, come vuole lo stanco cliché post 11 settembre americano. Noi non abbiamo libertà perché ci odiano, come questa scrittrice araba dice con forza. Sì: ci odiano. E deve essere detto. Qualcuno potrebbe chiedersi perché tiro fuori la questione ora, mentre la regione si solleva motivata non dall’usuale astio per Stati Uniti ed Israele, ma da una comune richiesta di libertà. Dopotutto, non dovremmo pensare ad ottenere i diritti di base, prima che le donne chiedano un trattamento speciale? E cos’ha a che fare il genere, o se vuoi il sesso, con la Primavera Araba? Ma io non sto parlando del sesso nascosto dagli angoli scuri e dalle camere chiuse. Un intero sistema politico ed economico – un sistema che tratta metà dell’umanità come animali – dev’essere distrutto assieme alle altre più ovvie tirannie che soffocano il futuro della regione. Fino a che la rabbia che investe gli oppressori seduti nei nostri palazzi presidenziali non si estende agli oppressori che abbiamo per le strade e in casa nostra, la nostra rivoluzione non è neppure cominciata.

Perciò: sì, le donne hanno problemi in tutto il mondo; sì, gli Stati Uniti devono ancora eleggere una presidente; sì, le donne continuano ad essere oggettificate nella maggioranza dei paesi “occidentali”… e questo è il modo in cui di solito la conversazione si chiude quando tenti di discutere il perché le società arabe odiano le donne. Ma lasciamo un attimo perdere cosa gli Usa fanno o non fanno alle donne. Nominatemi un paese arabo, ed io vi reciterò una litania di abusi nutriti da una combinazione tossica di cultura e religione che pochi sembrano volere od essere in grado di sciogliere, e chi ci tenta viene rubricato come “blasfemo” e “offensivo”. Ma quando più del 90% delle donne sposate in Egitto – inclusa mia madre e cinque delle sue sei sorelle – hanno avuto i genitali mutilati in nome della modestia, allora dobbiamo sicuramente darci tutte alla blasfemia. Quando le donne egiziane sono soggette ad umilianti “test di verginità” solo per aver parlato a voce alta, non è il momento di stare zitte. Quando un articolo del codice penale egiziano dice che se un marito ha picchiato la moglie “avendo buone intenzioni” lei non può ottenere nessun risarcimento legale, allora che la political correctness vada all’inferno. E cosa sono, di grazia, le “buone intenzioni”? Includono legalmente ogni pestaggio che “non sia grave” o “diretto al volto”.

Questo significa che quando parliamo dello status delle donne in Medio Oriente esso non è migliore di quel che pensavate. E’ molto, molto peggiore. Anche dopo tutte queste “rivoluzioni” è opinione generale che vada tutto bene fino a che le donne sono coperte ed inchiodate nelle case, fino a che alle donne è proibita persino la semplice mobilità di guidare le proprie auto, fino a che le donne sono costrette a chiedere il permesso agli uomini per viaggiare, ed impossibilitate a sposarsi o a divorziare senza l’approvazione del loro “guardiano” maschio. Non c’è un singolo paese arabo che si situi nei primi 100 posti del Rapporto mondiale sul divario di genere. Poveri o ricchi, noi tutti odiamo le nostre donne. I confinanti Arabia Saudita e Yemen, ad esempio, possono essere ad eoni di distanza per quanto riguarda il PIL, ma sono separati di soli quattro posti nella lista summenzionata, con l’Arabia al 131° posto e lo Yemen al 135°: notate bene, su 135 paesi. Il Marocco, spesso lodato per il suo codice familiare “progressista” (un rapporto di “esperti” occidentali del 2005 lo definisce “un esempio per i paesi musulmani che mirino ad integrarsi nella società moderna”) è al 129° posto della lista: secondo il Ministro marocchino della Giustizia, nel 2010 si sono sposate 41.098 ragazzine sotto i 18 anni.

E’ facile vedere perché lo Yemen sia il paese all’ultimo posto; è un paese in cui il 55% delle donne sono analfabete, il 79% non fa parte della forza lavoro, ed un sola donna siede in un Paramento di 301 persone. Le notizie orribili di ragazze dodicenni che muoiono di parto fanno ben poco per arginare la marea dei matrimoni di bambine. Invece, i chierici bollano di apostasia chi si oppone alla pedofilia di stato, perché il Profeta Maometto – secondo loro – sposò la sua seconda moglie Aisha quando lei era bambina. In Arabia Saudita, dove il matrimonio di bambine è pure comune, le donne sono delle minori per tutta la vita, al di là della loro età o della loro istruzione. Le saudite superano di gran lunga i loro coetanei di sesso maschile nei campus universitari, ma sono ridotte al vedere uomini molto meno qualificati di loro controllare ogni aspetto delle loro vite. Sì, questa è l’Arabia Saudita, il paese in cui la sopravvissuta ad uno stupro di gruppo è stata condannata alla galera per “essere salita in un’automobile con un maschio non suo parente” ed ha avuto bisogno della grazia da parte del re per uscirne; il paese in cui una donna che ha infranto il divieto di guidare un’automobile è stata condannata a dieci frustate e di nuovo ha avuto bisogno della grazia; il paese in cui le donne non sono ne’ elettrici ne’ eleggibili ma dove viene considerato un “progresso” il decreto reale che promette di farle votare alle quasi completamente insignificanti elezioni locali, nel – trattenete il fiato – 2015. Le cose vanno così male per le donne in Arabia Saudita che queste minuscole paternalistiche pacche sulle loro spalle sono riportate con enorme delizia, mentre il monarca dietro di esse, Re Abdullah, è salutato come “riformatore”. La risposta del “riformatore” alle sollevazioni esplose attraverso la regione è stata quella di intorpidire il proprio popolo con altre elargizioni governative di questo tipo, soprattutto agli zeloti salafiti da cui la dinastia reale saudita riceve la propria legittimazione. Re Abdullah ha 87 anni. Aspettate solo che salga al trono il suo successore, il Principe Nayef, un uomo uscito direttamente dal Medioevo. La sua misoginia ed il suo bigottismo faranno sembrare Re Abdullah la femminista Susan B. Anthony.

E allora, perché ci odiano? “Perché gli estremisti si concentrino sempre sulle donne resta un mistero, per me.”, ha detto di recente la Segretaria di Stato statunitense Hillary Clinton, “Però lo fanno tutti. Non fa differenza il paese in cui si trovano o la religione che professano. Vogliono tutti controllare le donne.” E Clinton è la rappresentante di un’amministrazione che sostiene apertamente molti di questi despoti misogini. Il tentativo di controllare le donne da parte di tali regimi spesso nasce dal sospetto che, senza controllo, una donna è a un passo dalla ninfomania. Osservate il popolare chierico conservatore e conduttore televisivo Yusuf al-Qaradawi su Al Jazeera: aveva sviluppato uno straordinario attaccamento alle sollevazioni della Primavera Araba – non appena si accorse della loro portata – inflessibilmente convinto che esse avrebbero eliminato i tiranni che a lungo avvevano oppresso lui e la Fratellanza Musulmana da cui lui è spuntato. Potrei tirarvi fuori dalla Fratellanza un po’ di cose sulla Donna Insaziabile Tentatrice ma resto nel mainstream con Qaradawi, che ha un pubblico considerevole, televisivo e non. Sebbene dica che le mutilazioni genitali femminili non sono obbligatorie e abbia persino emanato una fatwa al proposito (attenzione, lui le chiama “circoncisioni”, con un eufemismo che tenta di parificarle alla circoncisione maschile), lui personalmente è “favorevole ad esse, stanti le circostanze del mondo moderno. Chiunque pensi che la circoncisione è il modo migliore di proteggere le sue figlie dovrebbe farlo. L’opinione moderata è in favore del praticare la circoncisione per ridurre le tentazioni.” Perciò, persino tra i “moderati” i genitali delle ragazze devono essere mutilati per assicurarsi che il loro desiderio sia tagliato via quando è ancora in boccio.

Quando l’Egitto ha bandito la pratica nel 2008, non è stato sorprendente che alcuni legislatori della Fratellanza Musulmana si siano opposti, ne’ che alcuni si oppongano tutt’ora, compresa la parlamentare Azza al-Garf. Ma a non sapersi controllare sulle strade sono gli uomini: che si sia in Marocco o nello Yemen la molestia sessuale è endemica ed è per il bene degli uomini che le donne sono incoraggiate a coprirsi. A Il Cairo abbiamo un vagone solo per donne, in metropolitana, per evitare le mani vaganti (o peggio) degli uomini. In Arabia Saudita ci sono innumerevoli “viali per famiglie”, strade che impediscono l’ingresso agli uomini soli. Spesso sentiamo di come le economie disastrate del Medio Oriente stiano impedendo a molti uomini di sposarsi, e c’è persino chi usa quest’argomentazione per spiegare il crescere delle molestie sessuali in strada. Nel 2008, una ricerca del Centro egiziano per i diritti delle donne rivelò che più dell’80% delle egiziane avevano subito molestie sessuali e che più del 60% degli uomini ammetteva tranquillamente di molestarle. Comunque, non abbiamo ancora sentito niente di come le economie collassanti influiscano sul potersi sposare delle donne. Le donne hanno desideri sessuali oppure no? Apparentemente, la Giuria Araba ancora non conosce le basi della biologia umana. Entrate in quella chiamata alla preghiera e nella sublimazione attraverso la religione che la scrittrice Rifaat introduce così brillantemente nel suo racconto. Proprio come i chierici di regime cullano i poveri della regione con promesse di giustizia e di vergini nubili nell’altro mondo, così le donne sono ridotte al silenzio da una combinazione mortale di uomini che le odiano nel mentre reclamano di avere Dio fermamente dalla loro parte.

Torno all’Arabia Saudita, ma non perché quando ho vissuto in questo paese all’età di 15 anni sono stata traumatizzata sino a diventare una femminista (non ho altro modo per descrivere la mia esperienza), ma perché il regno continua indisturbato a venerare un dio misogino e non ne soffre alcuna conseguenza, grazie al doppio vantaggio dell’avere il petrolio e i due luoghi più sacri dell’Islam, la Mecca e Medina. Quando io ero in Arabia Saudita, durante gli anni ’80 e ’90, esattamente come oggi, i chierici in televisione erano ossessionati dalle donne e dai loro orifizi, soprattutto da ciò che può uscire da essi. Non dimenticherò mai quello che disse che se un neonato di sesso maschile ti ha bagnata con la sua pipì puoi pregare indossando gli stessi vestiti, ma se a bagnarti è stata una neonata ti devi cambiare. Cosa ci sarà di così impuro nella pipì di una neonata, mi chiedevo. Ora lo so. Odio per le donne. E quanto le odia, le donne, l’Arabia Saudita? Abbastanza da far morire 15 ragazzine nell’incendio della loro scuola, alla Mecca, nel 2002: la “polizia morale” impedì loro di uscire dall’edificio in fiamme, ed impedì ai vigili del fuoco di salvarle, perché le ragazze non indossavano i fazzoletti e i mantelli che le donne sono obbligate ad indossare negli spazi pubblici. E niente è accaduto. Nessuno è stato processato. I genitori sono stati zittiti.

Tuttavia, questo non è un mero fenomeno saudita. L’odio islamista per le donne divampa attraverso tutta la regione. In Kuwait, dove gli islamisti hanno combattuto per anni contro l’avanzamento delle donne, si sono scagliati con tutti i mezzi contro le quattro che finalmente erano riuscite ad entrare in Parlamento ed hanno richiesto che le due senza fazzoletto indossassero l’hijab. Quando il Parlamento kuwaitiano si è sciolto e ricomposto lo scorso dicembre, un parlamentare islamista ha chiesto alla nuova Camera – priva ora di legislatori di sesso femminile – di discutere la sua proposta di legge su “l’abbigliamento decente”.

In Tunisia, il paese a lungo considerato la cosa più simile al faro della tolleranza nella regione mediorientale, lo scorso autunno il partito islamista Ennahda ha conseguito la maggioranza nel voto per l’Assemblea Costituente. I leader del partito hanno giurato di rispettare la legge tunisina del 1956 sullo status delle persone, una legge che dichiara “il principio di eguaglianza fra uomini e donne” come cittadini e cittadine, e bandisce la poligamia. Ma le docenti e le studentesse universitarie hanno cominciato ad essere assalite e minacciate dagli islamisti subito dopo, perché non portavano l’hijab, e molte attiviste per i diritti umani delle donne si stanno domandando come tutto questo parlare di “legge islamica” influirà sulla legislazione effettiva sotto cui si troveranno a vivere nella Tunisia post-rivoluzione.

In Libia, la prima promessa del capo del governo ad interim, Mustafa Abdel Jalil, fu di non toccare le restrizioni che lo scomparso dittatore libico aveva posto sulla poligamia. In caso stiate pensando a Muammar al-Qaddafi come ad un illuminato di qualche tipo, vi ricordo che sotto il suo regime le bambine e le donne che sopravvivevano agli stupri o che erano sospettate di “crimini morali” venivano scaricate nei “centri di riabilitazione sociale”, vere e proprie galere da cui non potevano uscire a meno che un uomo decidesse di sposarle o i parenti di riprenderle in famiglia. E poi c’è l’Egitto. L’Egitto dove, a meno di un mese dalla caduta del presidente Hosni Mubarak, la giunta militare che lo ha rimpiazzato – nello sforzo di “proteggere la rivoluzione” – ci ha inavvertitamente ricordato le due rivoluzioni di cui le donne hanno bisogno.

Dopo aver ripulito Piazza Tahrir dai dimostranti, i militari hanno incarcerato dozzine di attivisti femmine e maschi. I tiranni opprimono, picchiano e torturano tutti, lo sappiamo. Ma questi ufficiali hanno riservato un trattamento speciale, il “test di verginità”, alle attiviste: violenza sessuale camuffata da ispezione medica, con un dottore che inseriva le dita nelle loro vagine in cerca di imeni. (Il dottore è stato denunciato e prosciolto senza danni in marzo.) Cosa possono sperare le donne dal nuovo Parlamento egiziano, dominato com’è da uomini fermi al settimo secolo? Un quarto dei seggi parlamentari sono dei salafiti, i quali credono che mimare gli usi e costumi dell’epoca del Profeta Maometto sia una prescrizione adeguata ai tempi odierni. Lo scorso autunno, sui loro manifesti elettorali, i salafiti del parito Nour hanno messo un fiore al posto di ognuna delle facce delle loro candidate. Le donne non devono essere viste o udite, persino le loro voci sono una tentazione, perciò se ne stanno nel Parlamento egiziano, coperte di nero dalla testa ai piedi e non si sognano di spiccicare una parola. Questo nel bel mezzo della rivoluzione egiziana! Una rivoluzione in cui le donne sono morte, sono state picchiate, colpite da armi da fuoco, assalite sessualmente, nel mentre lottavano fianco a fianco con gli uomini per liberare il paese dal Patriarca con la maiuscola, Mubarak: e ancora ci sono così tanti patriarchi con la minuscola ad opprimerci.

La Fratellanza Musulmana, che detiene quasi la metà dei seggi nel nostro nuovo e rivoluzionario Parlamento, non crede che le donne (e nemmeno i cristiani, se è per questo) possano aspirare alla presidenza. La donna che guida il “comitato femminile” del partito ha detto di recente che le donne non dovrebbero protestare o sfilare in manifestazione perchè “è più dignitoso se i loro mariti o i loro fratelli protestano in nome loro”. L’odio per le donne è profondo nella società egiziana. Quelle di noi che hanno marciato e dimostrato hanno dovuto navigare attraverso una marea di aggressioni sessuali, sia da parte degli uomini del regime sia, tristemente, da parte dei nostri compagni rivoluzionari. Quel giorno dello scorso novembre in cui subii le aggressioni sessuali sulla Strada Mohamed Mahmoud (vicino a Piazza Tahrir) da almeno quattro poliziotti antisommossa, ero stata in precedenza molestata da un uomo nella stessa Piazza. E sebbene noi si sia svelte nell’esporre le violenze del regime, quando siamo violate dai nostri civili concittadini subito pensiamo che siano agenti provocatori o delinquenti comuni, perché non vogliamo “macchiare” la rivoluzione.

E allora che c’è da fare? In primo luogo smettiamo di far finta di niente. Chiamiamo l’odio con il suo vero nome. Resistiamo al relativismo culturale essendo consapevoli che persino nei paesi in cui si danno rivoluzioni e sollevazioni le donne restano le merci di scambio più a buon mercato. A voi – al mondo esterno – verrà detto che è la nostra “cultura” o la nostra “religione” a fare questo o quello alle donne. Cercate per favore di capire che quelle definizioni di cultura e religione non sono mai state stabilite dalle donne.

Le sollevazioni arabe possono aver avuto la loro scintilla in un uomo arabo, Mohamed Bouazizi, l’ambulante tunisino che si diede fuoco per disperazione, ma saranno portate a compimento dalle donne arabe. Amina Filali, la ragazza sedicenne che ha bevuto veleno dopo essere stata costretta a sposare il suo stupratore e picchiatore: lei è la nostra Bouazizi. Salwa el-Husseini, la prima donna egiziana ad opporsi ai “test di verginità”; Samira Ibrahim, la prima a denunciarle in tribunale, e Rasha Abdel Rahman, che ha testimoniato al suo fianco, queste sono le nostre Bouazizi. Non abbiamo bisogno che muoiano per essere tali. Manal al-Sharif, che ha passato nove giorni in prigione per aver infranto il bando che il suo paese mette alle donne automobiliste, è la Bouazizi dell’Arabia Saudita. E’ una forza rivoluzionaria composta da una sola donna che si oppone ad un oceano di misoginia. Le nostre rivoluzioni politiche non avranno successo sino a che non saranno accompagnate da rivoluzioni del pensiero: rivoluzioni sociali, sessuali, culturali, che rovescino i Mubarak che abbiamo in testa o nel letto.

Tu lo sai perché ci hanno fatto il test di verginità?”, mi ha chiesto Ibrahim dopo che avevamo marciato per ore, a Il Cairo, lo scorso 8 marzo, per onorare il Giorno Internazionale della Donna. “Vogliono ridurci al silenzio.”, le ho risposto, “Vogliono ricacciare le donne nelle case. Ma noi non ci faremo mandare da nessuna parte.”

Siamo qualcosa di più di un fazzoletto in testa e di un imene. Ascoltate le voci di quelle di noi che stanno lottando. Amplificate le voci della regione e infilate all’odio il dito in un occhio. C’è stato un periodo in cui essere un islamista era la posizione politica più vulnerabile, in Egitto o Tunisia. Sappiate che oggi la posizione politica più difficile è essere donna.

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Il vento del cambiamento ha cominciato a soffiare in Tunisia, ma poi si è diffuso in Egitto, Libia, Yemen, Algeria, Sudan, Bahrain, Siria… e voci di donne cantano nel vento.

 

“Le donne tunisine hanno partecipato ad ogni singola manifestazione prima e dopo la caduta del regime di Ben Ali, cercando un ruolo nuovo per il futuro e tentando di ottenere che le loro voci fossero ascoltate.”, dice Hedia, quarant’anni, responsabile della raccolta dati per il Centro di istruzione e ricerca delle donne arabe in Tunisia, “Rappresentano generazioni diverse ed hanno retroscena molto differenti, ma c’erano tutte, quelle con l’hijab e quelle con la minigonna. C’è una consapevolezza molto alta, fra le donne, del fatto che dovremmo muoverci per non essere escluse o marginalizzate. Nonostante l’intensa partecipazione alle proteste, la presenza delle donne nel primo e nel secondo governo provvisorio che si sono formati non la riflette.”

Le fa eco l’attivista egiziana Amal Sharaf, insegnante d’inglese 36enne: “Metà delle persone presenti in Piazza Tahrir erano donne. C’è una generale richiesta, nell’opinione pubblica, di partecipazione collettiva alla politica, perciò anche le donne devono farne parte. Mia madre mi ha detto per anni di star lontana dalla politica, perché secondo lei ci avrei guadagnato solo dei mal di testa, ma oggi la sua prospettiva è cambiata: Stai attenta alla controrivoluzione, mi dice un po’ scherzando e un po’ sul serio.”

Nel frattempo, le siriane mettono le mani avanti: “Il nostro motto è “Per una società libera dalla violenza e dalla discriminazione”, perciò condanniamo l’uso della violenza da qualunque parte arrivi. Il governo dev’essere responsabile per le azioni delle sue forze di sicurezza, non solo con la retorica, ma attraverso un’indagine reale e trasparente che riguardi chiunque agisca in modo violento. L’uso o persino la minaccia della violenza da parte dei manifestanti è anche per noi interamente inaccettabile. Il fine non giustifica i mezzi. Il nostro scopo è una cittadinanza autentica, che contrasti ogni uso di violenza o divisione etnica e tribale. Diamo il benvenuto ad ogni progresso nella pratica della cittadinanza, perché crediamo che essa aiuti la causa della nonviolenza e le istanze relative alle donne, ai bambini ed alle persone in difficoltà. Infine, condanniamo nel modo più assoluto ogni persona o gruppo che impieghi retorica settaria, etnica o tribale: confinarsi in tali identità ristrette va contro l’aspirazione di ogni cittadino e cittadina siriani che vogliono godere del loro diritto fondamentale all’eguaglianza, eguaglianza di diritti e di doveri, al di là della razza, della religione, del genere o di ogni considerazione discriminatoria.” (tratto dal comunicato dell’Osservatorio delle donne siriane, 23.3.2011)

Un’altra Amal (Basha), yemenita del Forum delle sorelle arabe per i diritti umani, sembra avere la stessa visione: “Una vera democrazia significherà necessariamente eguali diritti ed eguale partecipazione per uomini e donne. Alle donne nel nostro paese non è permesso prender parte alle decisioni, non sono riconosciute come uguali esseri umani e non sono nei posti dove meriterebbero di essere per capacità e qualifiche. La discriminazione è il nostro grande problema: verso le donne, fra uomini, fra nord e sud del paese. Quel che c’è di positivo nel movimento in Yemen è che la chiamata al cambiamento ha unito le persone da nord a sud. In questo momento, tutti gli yemeniti vogliono un cambiamento. Le richieste di separazione da parte del sud del paese sono cessate. La richiesta è la stessa da parte di tutti: cambiamento, cambiare il regime, cambiare il sistema. Un paese moderno, rispetto per la legge, una Costituzione che rifletta la volontà del popolo ed assicuri il bilanciamento fra i vari poteri: questo è ciò che la gente chiede, metter fine all’oppressione, alla carcerazione di migliaia di persone, e all’uso della guerra come mezzo per risolvere i problemi.”

Amal Basha, assieme ad una ventina di organizzazioni di volontariato, organizza l’assistenza alle manifestazioni pacifiche, composte per la maggioranza di studenti: hanno creato comitati per la salute, per il coordinamento fra dimostranti, per l’informazione, per la protezione dalla violenza. Amal è un po’ preoccupata dalla scarsa visibilità internazionale della protesta: “La comunità internazionale non deve tacere su quel che accade in Yemen. La gente in Libia ha dovuto fronteggiare una repressione brutale e non vogliamo che quel che sta succedendo in Libia succeda anche a noi.”

Attenta agli sviluppi nei vari paesi arabi è anche la tunisina Hedia: “Al di là di quel che sarà il risultato delle proteste in ogni nazione o di che impatto la partecipazione delle donne ha ora, il vero indicatore sarà quanto la loro partecipazione nel fare la storia si rifletterà nel partecipare dopo al processo decisionale. Questa è la cosa più importante, ciò che verrà.”

Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Gulf News, Women Living Under Muslim Laws, The Guardian, Syrian Women Observatory, Sisters’ Arab Forum for Human Rights)

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E’ un fatto non molto noto che i nazisti sponsorizzarono la distribuzione delle fiabe dei fratelli Grimm agli allievi delle scuole elementari. I nazisti consideravano i testi dei Grimm “tedeschi in quintessenza” e “alfieri valorosi della Germania in guerra” (vedasi

Ruth B. Bottigheimer, saggio contenuto in “The Reception of Grimms’ Fairy Tales”, 1993). Ancor meno noto è che le forze di occupazione inglesi e statunitensi requisirono tutti i libri dei Grimm dalle scuole tedesche e li ricollocarono in svariate biblioteche. Gli uni e gli altri, sembra, erano perfettamente a conoscenza dell’effetto di desensibilizzazione che le narrazioni violente, ripetute ad oltranza, generano in chi le riceve – e parecchie fiabe dei Grimm sono la versione efferata di storie preesistenti.

Gli anni dell’infanzia sono vulnerabili in modo particolare all’effetto della desensibilizzazione, ma non è che la psiche adulta sia corazzata contro di esso: semplicemente, bisogna ripetere il messaggio di più, e condirlo con qualche giustificazione pseudo-ideologica di cui i bambini non hanno bisogno. Alla fine, di fronte alla violenza, all’ingiustizia, alla sopraffazione, alla guerra, alla degradazione, noi potremo dire le parole di comodo che socialmente è sensato dire, esprimere argomentati ragionamenti che razionalizzano gli abusi, e dormirci sopra: il nostro cuore non avrà avuto il minimo sussulto, i nostri occhi saranno rimasti asciutti ed i nostri affari – che, ci assicura la propaganda, resteranno intoccati da tutto ciò – andranno avanti come di consueto. Commettere abusi a danno di un altro essere vivente ci sembrerà sempre meno disdicevole, ed il nostro esempio di adulti rafforzerà l’effetto di desensibilizzazione prodotto nei piccoli dalle narrazioni e dalle immagini che glorificano la violenza, propinate loro da tutti i media con cui vengono a contatto.

La recita è ossessivamente replicata, così pervasiva, che è capace di cancellare persino la memoria recente. Fra persone che conosco stanno girando angosciosi quesiti del genere: se parliamo del disastro nucleare in Giappone ci dicono che ne stiamo approfittando, non è meglio star zitti? Se ci opponiamo ai bombardamenti in Libia diranno che siamo complici delle crudeltà di Gheddafi, non è meglio lasciar perdere? Se difendiamo ancora la scuola pubblica poi ci accuseranno di volere il 6 politico e le lauree collettive, non è meglio parlare d’altro? A costoro, di fronte al massiccio spiegamento mediatico di menzogne, e grazie all’erosione desensibilizzante, le proprie cause appaiono deboli. Basta un insulto ipocrita e gratuito a farle vacillare.

Ma chi è un avvoltoio o uno sciacallo: chi cerca di salvare esseri umani e l’intero pianeta con essi, o chi distrugge entrambi per avidità di profitto? Solo per fare un esempio, nell’ex Unione Sovietica non c’è stato solo Chernobyl tanti anni fa, sapete. Nel Kazakistan dell’est, dove si sono fatti “test atomici” a ripetizione, un milione e mezzo di persone sono state esposte all’avvelenamento nucleare ed il loro intero sistema di produzione e consumo di cibo è tuttora contaminato: il tasso di cancri è solo cinque volte più alto di quello nazionale, una bazzecola, che siano talleri, rupie, certificati di credito o contratti transnazionali, il vecchio buon soldo è sempre qualcosa per cui vale la pena uccidere.

Chi sono i signori che oggi piangono le vittime di Gheddafi, non sono proprio quelli che gli hanno stretto la mano, o l’hanno persino baciata in perfetto stile mafioso, l’altro ieri? Credetemi, ad un morto ammazzato non fa differenza se la bomba – prodotta di solito negli stessi stabilimenti – gliela fa cadere addosso un dittatore o un presidente democraticamente eletto: avrebbe comunque preferito continuare a vivere. E chi è che vi dice panzane sulla scuola pubblica, forse la Ministra che l’ha distrutta?

Chi vi propina le manovre economiche sacrificali, continuando ad infilare l’invisibile mano del mercato nelle tasche dei salariati, vi dice anche che se tutti i governi mondiali sottraessero un solo quarto alla cifra che spendono annualmente in armamenti (un trilione e mezzo di dollari) potrebbero dare cibo, istruzione e servizi sanitari a tutta la popolazione della Terra? Vi dicono che l’intero budget delle Nazioni Unite corrisponde all’1,8% delle spese militari mondiali?

Spesso mi domando, con un certo grado di sconforto, cosa gli italiani sono diventati. Sono sicura, tra l’altro, che lo sconforto ha una dimensione collettiva e che chi si arrovella su “cosa diranno di noi” (siamo pochi e soli eccetera) lo prova in modo considerevole. Ma è tempo di uscire da questa sindrome, di creare passione e potere condiviso, di aver lingue veriterie e menti magiche, di essere profeti manovali, poeti guaritori, giullari della metamorfosi. E’ tempo di guardare tutto con gli occhi resi splendenti dalle idee che ci frullano in testa come lucciole sotto la luna. E’ tempo di tessere tanti fili provenienti da luoghi diversi nel più fantastico e desiderabile degli arazzi, un pianeta su cui si possa vivere, creare, condividere: in pace.

Maria G. Di Rienzo

P.S. Proverbio cinese: “Fa’ felici coloro che ti sono vicini, e quelli che sono lontani verranno.”

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(France and Italy share strong ties with Libya’s Gadhafi, di Daniela Stahl e Christoph Wöss per Deutsche Welle, 22.2.2011, trad. Maria G. Di Rienzo)

Italia e Francia stanno nervosamente osservando gli sviluppi in Libia. Entrambe le nazioni europee hanno condannato la violenta repressione delle proteste anti-regime, ma entrambe hanno molto in gioco quando si tratta di questo paese ricco di petrolio.

Nel mentre il regime libico si trova sotto pressione, la stessa cosa accade ai suoi partner del nord. Sia il governo francese sia il governo italiano condividono lucrosi legami economici con la Libia.

I due membri dell’Unione Europea hanno condannato l’uso della forza, da parte del leader libico Moammar Gheddafi, per schiacciare le proteste, con il presidente francese Nicolas Sarkozy che ha chiesto uno “stop immediato” alla violenza. Pure, in entrambi i paesi resta la domanda su come l’agitazione, ed il potenziale rovesciamento del regime di Gheddafi, possano influire sugli interessi nazionali.

Le relazioni di Roma con Tripoli sono influenzate, principalmente, dalla dipendenza dell’Italia dalla Libia per arginare l’immigrazione illegale dall’Africa. Le guardie costiere dei due paesi cooperano nel tenere in stato di detenzione i migranti senza documenti nel Mediterraneo, e nel rimandarli ai paesi d’origine. Il ruolo della Libia nel tener fuori i migranti indesiderati è valutato circa cinque miliardi di dollari (3,7 miliardi di euro) dall’Italia, che ha promesso di investire tale somma nelle infrastrutture libiche nei prossimi 25 anni, come “riparazione” per la sua sanguinosa dominazione coloniale (1911-1943). Si dice che i fondi debbano servire a costruire, tra le altre cose, un’autostrada costiera nel paese nordafricano.

Le pratiche anti-immigrazione su cui Gheddafi ed il primo ministro italiano Silvio Berlusconi si sono accordati, nel loro trattato d’amicizia del 2008, violano la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo status dei rifugiati. Tuttavia, sino ad ora, hanno protestato solo i gruppi per i diritti umani. Il presidente italiano Giorgio Napolitano ha difeso il discutibile record di Gheddafi sui diritti umani, dichiarando di aver udito Gheddafi “parlare con grande moderazione e con senso del dovere rispetto ai problemi più difficili che il continente africano affronta.”

L’amicizia con la Libia ha anche dato sicurezza all’Italia per la fornitura di energia, ed il gruppo italiano ENI ha una forte presenza nella nazione ricca di petrolio. D’altra parte, Gheddafi gioca un ruolo nell’economia italiana sin dagli anni ’70. Oggi, la Libia ha investimenti nell’industria aerea italiana Finmeccanica e nella seconda banca più grande d’Italia, la Unicredit. Giovanni Agnelli, industriale italiano deceduto, difese una volta la sua scelta di vendere quote della Fiat a Gheddafi dicendo che gli investimenti delle nazioni ricche di petrolio in occidente avrebbero funzionato da deterrente all’aumento dei prezzi del petrolio.

Una massiccia tenda in stile beduino, eretta a Parigi nel dicembre 2007, divenne il simbolo dell’attitudine conciliante della Francia verso la Libia. La tenda fu eretta per ordine di Gheddafi davanti all’ Hotel Marigny, dove risiedono di solito gli ospiti importanti in Francia. In questa tenda ricevette le sue visite, estendendo la sua permanenza da tre giorni a sei.

La segretaria di stato francese per i diritti umani, Rama Yade, fu oltraggiata dalla visita di Gheddafi, dicendo che la Francia non era “un tappetino dove un leader – terrorismo o non terrorismo – potesse pulirsi i piedi sporchi del sangue dei suoi crimini.” Pure, quando Gheddafi tornò a casa, la Francia aveva piazzato 10 miliardi di euro nei suoi accordi con la Libia, inclusa la costruzione di un impianto ad energia atomica, un impianto di desalinizzazione e 21 aeroplani Airbus.

Il primo ministro francese Francois Fillon difese gli interessi della Francia, facendo riferimento alle cinque infermiere bulgare rilasciate dalla custodia libica un anno e mezzo prima, dopo aver ricevuto sentenze alla pena capitale con l’accusa di aver diffuso il virus Hiv fra i bambini: “La Francia sta ricevendo il colonnello Gheddafi perché egli ha liberato le infermiere bulgare. E perché il colonnello Gheddafi si sta impegnando per la reintegrazione del suo paese nella comunità internazionale.”, ed aggiunse come monito, “Tutti coloro che volessero darci lezioni dovrebbero pesare cautamente le loro parole.”

Le infermiere furono rilasciate grazie alla pressione francese il giorno dopo l’incontro di Sarkozy e Gheddafi a Tripoli, incontro che servì a forgiare i piani per gli accordi franco-libici siglati più tardi a Parigi.

La Francia cominciò a coltivare la sua relazione con la Libia nel 2003, sotto il predecessore di Sarkozy, Jacques Chirac. Chirac volò in Libia immediatamente dopo che le sanzioni delle Nazioni Unite contro il paese erano state tolte. Durante quella visita, Chirac chiese a Gheddafi riparazione per 170 milioni di euro per il bombardamento di un DC-10 francese nel 1989, in cui morirono 170 persone, fra cui 53 cittadini francesi.

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