Il grande mare
mi libera, mi muove,
come la forte corrente del fiume porta via un’alga
La Terra e i suoi venti possenti
mi muovono, mi portano via
e la mia anima è trascinata in alto nella gioia
Così cantò Uvavnuk, tornando a casa la notte in cui testimoniò da vicino la caduta di un meteorite. Stiamo parlando dell’inizio del ventesimo secolo (primi del ‘900). Alcuni resoconti dicono che questa donna Inuit sia stata effettivamente colpita dalla palla di fuoco che aveva visto nel cielo.
Certo è che subito dopo diventò una angakkuq, una sciamana, e che compose molte altre canzoni. Le persone che la ascoltavano cantare “si sentivano liberate dal loro fardello di azioni cattive e sbagliate; il male e l’inganno svanivano come un pizzico di terra soffiato via da una mano”.
La palla di fuoco, spiegò Uvavnuk, aveva aperto in lei “una sensibilità telepatica” con cui percepiva “azioni e intenzioni nascoste”. (Tutte le parti virgolettate sono tratte dal racconto della vicenda scritto dall’esploratore Knud Rasmussen e chiamato “La canzone di Uvavnuk”.)
Come sciamana fu grandemente amata e rispettata dalla sua gente, gli Iglulik: Uvavnuk li guariva e portava loro fortuna e anche dopo la sua morte molti erano convinti che persistesse nel proteggerli. Oggi Uvavnuk è considerata una poeta orale, giacché gli Inuit (o eschimesi) non hanno scrittura.
Mentre leggevo le poche notizie accessibili su questa donna, tempo fa, una cosa continuava a girarmi in mente: che la parola eschimese “anerca” significa allo stesso tempo respiro e poesia. Maria G. Di Rienzo