(“Respectability Politics: A Bane of Zimbabwean Women’s Organising?”, di Anthea Taderera – in immagine – per HerZimbabwe, 23 gennaio 2015. Trad. Maria G. Di Rienzo. Anthea è, nelle sue stesse parole “un’orgogliosa femminista cristiana, un’avida lettrice e un’amante del cibo”. E’ anche un’avvocata e sta lavorando per aprire uno studio legale che si occupi in particolare di diritto di famiglia e normative che riguardano le donne.)
Credo che molte persone dovrebbero aver familiarità con la politica della rispettabilità, perché essa è correlata ai neri americani o al movimento LGBT. Vorrei, tuttavia, aggiungere i neri africani al mucchio e portare una dinamica leggermente diversa.
I neri africani non sono una minoranza numerica nei nostri paesi, ma noi tendiamo ad essere in secondo piano in termini di potere quando abbiamo a che fare con corporazioni transnazionali e nazioni occidentali. In più, le nostre esperienze recenti in materia di colonialismo e neo-colonialismo mostrano che stiamo ancora invischiati con la politica della rispettabilità in differenti aspetti dei nostri spazi privati e pubblici.
I principi base delle politiche della rispettabilità si accentrano su un gruppo dominante di persone che considerano un determinato raggruppamento inferiore ad esse per mentalità, atti e morale. Perciò, dichiarano che tale segmento della popolazione non è titolato agli stessi diritti di base o alla dignità umana.
Il gruppo oppresso non è ovviamente contento dello status quo e decide che dimostrerà al gruppo dominante che si sbaglia, non solo promuovendo gli stessi standard morali a cui il gruppo dominante aderisce, ma attenendosi ad essi e incoraggiando altri all’interno del segmento oppresso a fare lo stesso. In questo modo diventerà evidente che il gruppo dominante non ha ragione di temere nel trattare gli appartenenti al gruppo oppresso come persone.
Durante la nostra storia coloniale numerosi stereotipi furono fatti circolare sulla natura dei neri africani, fra cui quello popolare dell’africano pigro, rumoroso e generalmente amorale. Questo africano costruito non era, naturalmente, degno di inclusione nelle strutture di potere della società.
La politica della rispettabilità asseriva che tale posizione era in essenza un fraintendimento, e che se noi fossimo riusciti a lavorare più duramente e a cambiare i nostri comportamenti culturali sino a che essi uguagliassero a sufficienze le norme (puritane) dei coloni, allora avremmo avuto un qualcosa su cui appoggiarci mentre rendevano note le nostre doglianze.
La politica della rispettabilità dice che se tu partecipi a una discussione essendo qualcosa di meno dell’immagine della perfetta virtù che una società data attualmente approva, non hai qualifiche per reclamare i benefici dell’umana decenza e della sicurezza.
La politica della rispettabilità si finge anche rivoluzionaria, ma in realtà è solo un’interiorizzazione di un complesso di inferiorità accoppiato all’accordo sull’operare all’interno dei parametri stabiliti, così da non offendere le sensibilità dello status quo.
Questa strategia, essenzialmente, porta alla riforma del minimo indispensabile perché è compromessa nel peggior senso possibile.
Ciò che io trovo particolarmente preoccupante è il modo in cui diversi tipi di attivisti continuano ad affidarsi alla politica della rispettabilità per andare avanti. Ho in mente, nello specifico, persone coinvolte nel movimento delle donne.
Noi ci troviamo spesso in situazioni davvero precarie, dove non vogliamo squalificare il nostro pensiero prima di essere udite parlare. Perciò, cosa facciamo? Politiche a parte, c’è la tendenza a livellare il nostro appagamento, effettivo o percepito, a ciò che il nostro patriarcato considera essere i requisiti di una buona e virtuosa femminilità.
La nostra politica corrente della rispettabilità prescrive che, prima di poter tirar fuori i diritti delle donne, noi si sia viste come buone mogli che soddisfano tutti gli obblighi ascritti ad una moglie, dobbiamo essere buone madri, dobbiamo essere sottomesse a sufficienza e non apertamente interessate alla riforma culturale.
Riguardo a quest’ultima, non dobbiamo mettere troppo in questione pratiche come roora e lobola (Ndt.: due forme di “pagamento” della sposa). Ne’ dobbiamo impegnarci in critiche che possano essere viste come patrocinio di valori stranieri (spesso occidentali). In effetti, dobbiamo mostrarci mentre camminiamo sulla linea del puritanesimo inserita dal colonialismo, molto bene, nella nostra cultura africana e apparire felici di farlo per poter sostanziare il nostro essere africane.
Con questo non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato nell’essere una moglie e o una madre, dico invece che è problematico il continuare ad implicare il tuo fallimento rispetto alla tua femminilità africana se non rivesti questi ruoli. Con l’ulteriore implicazione che a causa di ciò tu non sei degna di essere ascoltata.
Per poter fare esperienza della legittimazione da parte del patriarcato noi non dobbiamo solo essere virtuose, ma dobbiamo mostrare che lavoriamo assai duramente e dobbiamo sembrare abbastanza grate di essere in spazi pubblici. Preferibilmente dovremmo tirar fuori la decadenza morale ed essere molto rumorose al proposito.
Quando accettiamo l’idea che i diritti vadano guadagnati o necessitino di essere garantiti da un’istituzione patriarcale, allora accettiamo anche che queste stesse istituzioni patriarcali abbiano il diritto di riprenderseli. E dobbiamo star sempre in guardia, perché chi ha potere potrebbe decidere che non gli piace come sei diventata, con i diritti, e farti tornare ai giorni gloriosi del tuo assoggettamento.
Non resta spazio per l’identità individuale e quando la percezione della virtù è livellata allo scopo di ottenere l’accesso ai diritti, i diritti che sono concessi sono visti come appannaggio della classe delle “meravigliosamente virtuose”. Un nuovo conformismo è richiesto, un conformismo che è, in essenza, un rifacimento di strutture oppressive patriarcali ma con una nuova vernice: tieni fede alla tua parte nell’accordo e assicurati che la società non imploda.
I diritti ottenuti tramite la politica della rispettabilità hanno incorporata la clausola del buon comportamento, e dove c’è questa clausola dev’esserci controllo per assicurarsi che nessuno sia di nocumento alla causa. Ci diamo l’un l’altra intrusivi consigli non richiesti su come mantenere l’apparenza della virtù. Non è solo per il tuo bene, è per il bene di tutte. Il modo in cui vivi la tua vita diventa materia di pubblico dibattito, come se tu stessi abusando dei diritti concessi in modo così magnanimo dal patriarcato e, nel farlo, provando che i vecchi sostenitori dell’egemonia patriarcale hanno ragione.
Il biasimo delle vittime diventa non solo accettabile, ma necessario. Se la persona soggetta ad un crimine manca di soddisfare gli standard imposti dal patriarcato – non risponde al criterio di “rispettabilità” – la società ha titolo per scaricarla. Ciò significa non solo che la vittima è sottoposta a giudizio, ma che ogni richiesta di riforma della società è sottoposta a dileggio. La società può dire in buona coscienza che la persona si è causata danno da sé, perché non stava seguendo le linee guida raccomandate per la sicurezza.
Un esempio particolarmente pertinente si è dato ad Harare: quando una donna vestita in modo non condonato dal patriarcato (nel caso, una minigonna) è assalita in spazi pubblici, la questione viene riformulata come il suo fallimento nell’attenersi alle norme sociali, mentre la questione reale è il disprezzo della sua autonomia corporea. In più, per assicurare che nel tuo lamentarti del trattamento tu non includa il chiedere alla società di portare un fardello che è tuo e solo tuo, la porta è lasciata aperta a domande intrusive e assolutamente irrilevanti, che cercano di sminuire il danno da te subito. L’esempio classico è: “Cosa indossavi quando sei stata stuprata?”
Quel che abbiamo bisogno di fare, nei nostri movimenti, è considerare le donne un gruppo non omogeneo. Dobbiamo chiederci costantemente se il nostro femminismo è intersezionale o se stiamo sacrificando un po’ di donne in cambio di diritti condizionati. I nostri piani sono problematici se pensiamo che una classe di donne non sia degna di individualità. Ciò significa anche che dobbiamo cercare voci e collaborazioni da donne con un bagaglio culturale differente. Il punto non è avere rappresentazioni simboliche, ma piuttosto connessioni costruite sul dialogo e sulla solidarietà.
Il movimento delle donne deve stare attento all’esclusione o all’inclusione forzata, ma deve avere una visione di progresso. Con la politica della rispettabilità si guadagna poco. Dobbiamo smettere di guardare al patriarcato affinché legittimi le nostre azioni e le nostre richieste.
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