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(brano tratto da: “What We Want for 2018: The Biggest Movement Leaders Envision the Changes Ahead”, di Beverly Bell per “Yes! Magazine”, 5 gennaio 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Si tratta di una serie di brevi interviste a attiviste/i di spicco nei movimenti sociali, a cui è stato chiesto cosa prevedono e desiderano per l’anno nuovo. Io ho trovato particolarmente interessanti due donne.)

chiponda

Melania Chiponda (1) – Attivista femminista, fa campagna per la giustizia climatica ed è stata parte della sollevazione che, in Zimbabwe, ha rovesciato Robert Mugabe.

“La marcia di milioni di persone attraverso lo Zimbabwe, il 18 novembre, per la nostra democrazia, per la pace e la salvezza economica ha avuto successo nel far cadere Mugabe. E’ stata una rivoluzione.

Come femminista africana, ho marciato anche per qualcosa che sta più in profondità: per la liberazione delle donne, per l’eguaglianza delle persone di tutte le razze, religioni, generi, gruppi etnici e classi sociali. Ma da un punto di vista femminista la vera rivoluzione non è ancora avvenuta. Il mio sogno per il 2018 e oltre è di un vero cambiamento, non solo un cambio di guardia da Mugabe al suo ex braccio destro, il crudele Emmerson Mnangagwa.

Se vogliamo correggere il sistema politico e il sistema economico, dovremmo liberarci del capitalismo patriarcale. Io mi sento in trappola ove ogni strada di accesso al potere è dominata in modo schiacciante dai maschi. Un sistema economico più cooperativo ed egualitario non può essere basato sulla supremazia maschile.

In un mondo in cui le donne sono viste principalmente come madri e addette al lavoro di cura, e devono sconfiggere la forte resistenza ideologica e politica degli uomini per partecipare ai sistemi politici ed economici, la mia speranza è che noi si dia inizio a una vera rivoluzione contro il capitalismo patriarcale.

okon

Emem Okon – Direttrice del Centro delle Donne per lo sviluppo e le risorse di Kebetkache, un’organizzazione nigeriana eco-femminista che organizza la lotta contro le compagnie petrolifere.

Come donne del delta del Niger, speriamo questo per il 2018: Niente su di noi senza di noi!

Durante questo nuovo anno mireremo a maggior potere per il movimento eco-femminista mentre ci confrontiamo con le compagnie petrolifere che hanno rubato le nostre terre, degradato il nostro ambiente e la biodiversità, e aumentato la violenza.

Mi aspetto maggior visibilità per le donne mentre agiamo per la protezione, la bonifica e il ripristino del nostro ambiente naturale. Prevedo mobilitazioni di donne ancora più vaste e non vedo l’ora di partecipare alle consultazioni con le donne che stanno facendo pressione sulle compagnie petrolifere affinché conducano le valutazioni di impatto ambientale prima di cominciare le attività sulle terre delle loro comunità. Ho la visione delle aspirazioni di chi appartiene alle comunità: l’avere riconoscimento e rispetto dalle compagnie petrolifere.

Infine, prendo speranza dal sapere che spingeremo per una prospettiva relativa ai diritti delle donne mentre ci impegniamo per gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e ne controlliamo il progresso, per assicurarci che nessuno sia lasciato indietro e che il governo e le compagnie petrolifere facciano le cose giuste.

(1) Vedi anche:

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/09/13/defendher/

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In novembre, i militari hanno costretto Robert Mugabe a dare le dimissioni da presidente dello Zimbabwe dopo 37 anni di governo in cui a parte usare il pugno di ferro per restare incollato alla poltrona e zittire qualsiasi tipo di opposizione, l’uomo ha fatto ben poco.

Il 4 dicembre scorso il nuovo presidente Emmerson Mnangagwa ha prestato giuramento: su circa 24 posti disponibili nell’esecutivo, solo quattro sono andati a donne (Ambiente, Turismo, Donne e Giovani, Ministero di Stato per Bulawayo – la seconda città più grande del paese). Le attiviste femministe e per il cambiamento sociale non sono troppo speranzose, visto il modo in cui si è effettuata la transizione, ma molte cercheranno di correggere il tiro nel 2018, presentandosi alle elezioni. La giornalista Tendai Marima, per News Deeply, ha parlato con alcune di loro, fra cui la trentacinquenne attivista per i diritti umani Linda Masarira (in immagine).

Linda Masarira

Sotto Mugabe, Linda è stata in galera per quattro mesi. Si candiderà alle elezioni perché ritiene cruciale per le donne guadagnare visibilità politica. E’ critica, ovviamente, rispetto al ruolo dell’esercito nell’ascesa del nuovo presidente e teme che l’euforia per l’uscita di scena di Mugabe eclissi la possibilità di un vero cambiamento qualora le elezioni confermino Mnangagwa.

“Anche dopo Mugabe, – ha dichiarato – la lotta delle donne continua. Non raggiungeremo quel che vogliamo a breve se le donne non prendono posizione e vigilano. Io ho detto a me stessa che non permetterò a quel che la gente pensa delle donne di ostacolarmi. Ci sono un bel mucchio di etichette appiccicate alle donne. A me è stato detto che sono una “prostituta”, mi è stato chiesto perché non sono sposata e sono stata accusata di voler “agire come un uomo”. Ma avevo già capito che la politica non è per le “brave ragazze” e non è per i codardi. Se vuoi essere la tipica brava ragazza non sopravvivi alla politica. Mnangagwa può metterci in piedi uno spettacolo per i prossimi sei o sette mesi e tutti ne saranno felici, ma se lo votano resteremo sotto il controllo dei militari e sotto il dominio di un gruppetto di uomini.”

Maria G. Di Rienzo

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I rischi che fronteggiano hanno molte forme, incluse le molestie, le campagne diffamatorie e la violenza fisica – non solo contro di loro, ma spesso anche contro le loro famiglie. Sperimentano l’esaurimento a causa del loro impegno e il ruolo vitale che giocano è sovente non visibile all’opinione pubblica. Pure, rifiutano di smettere di lottare perché credono che i nostri diritti umani dovrebbero essere protetti e rispettati.”

Chi sono? Sono le difensore dei diritti umani delle donne e così sono presentate nella campagna organizzata da Global Fund for Women, JASS (Just Associates), e MADRE:

https://www.globalfundforwomen.org/defendher/

Mentre crescono estremismo politico e restrizioni dirette ai gruppi della società civile, le difensore si trovano davanti attacchi sistematici che hanno lo scopo di ridurle al silenzio. – continua la presentazione – Dozzine di esse sono state uccise o imprigionate per aver parlato di sesso, per aver difeso i fiumi, per aver portato alla luce la corruzione. Tramite la campagna DefendHer stiamo rendendo visibili il loro ruolo e i rischi da esse affrontati nella speranza che ottengano sostegno e che si rispettino la loro sicurezza e le loro voci. Questa campagna presenta le storie di 14 incredibili difensore dei diritti umani e dei gruppi in tutto il mondo che, nonostante minacce e rappresaglie stanno lavorando per: mettere fine alla violenza contro le donne; far avanzare i diritti delle persone LGBTI; proteggere il pianeta e i diritti delle comunità indigene e molto altro.”

defendher

(Illustrazione originale per la campagna dell’artista femminista María María Acha-Kutscher, https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/03/mujeres )

Poiché l’appello dice chiaramente “diffondete le loro storie, passate parola e accendete conversazioni sul loro lavoro”, ma tradurre tutti i pezzi mi costringerebbe a comprare occhiali nuovi, eccovi un sommario su chi sono queste donne:

Marta Alicia Alanis, lavora in Argentina, fa parte dei Cattolici argentini per l’autodeterminazione e della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito.

Nelle sue parole: “Le donne dovrebbero poter scegliere di diventare madri. Non dovrebbe essere un’imposizione dovuta alla mancanza di accesso a educazione sessuale o contraccettivi, o al destino, o alla semplice sfortuna.”

Alia Almirchaoui, dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (di cui ho parlato spesso). E’ un’irachena di colore sopravvissuta alla violenza e dalla violenza sta difendendo le sue simili. Nelle sue parole: “Nessuna persona è migliore di un’altra. Io sono qui per difendere la diversità all’interno della società.”

Khadrah Al Sana, dell’organizzazione israeliana Sidreh, che difende la sicurezza delle donne beduine. Nelle sue parole: “Le donne devono vivere in dignità e non devono essere separate dalla società in cui vivono: ognuno ha un ruolo importante nella vita e le donne dovrebbero poter dare e ricevere benefici in questo mondo.”

Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, filippina del gruppo etnico Lumad, lavora nelle associazioni indigene femminili e miste (Sabokahan, Pasaka, Bai). Sta difendendo i territori nel raggio del monte Pantaron e chiedendo il ritiro dei gruppi militari e paramilitari.

Nelle sue parole: “Voglio che le giovani generazioni abbiamo una vita migliore di quella che ho fatto io, voglio che godano i frutti dei nostri sacrifici. Il solo ostacolo che la mia età (70 anni) mi pone è qualche limitazione fisica, ma il mio spirito di lotta ha un’energia altissima.”

Azra Causevic, dell’associazione Okvir per i diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transgender ecc. di Bosnia ed Erzegovina: vuole una vita dignitosa, libera dalla violenza per tutti.

Nelle sue parole: Dobbiamo difenderci l’un l’altro sempre, in ogni situazione in cui vediamo ingiustizia, proprio perché sappiamo come ci sente a essere dei sopravvissuti.”

Melania Chiponda, Zimbabwe, della WoMin African Gender and Extractives Alliance. Lavora per i diritti delle donne sulla terra e per mettere fine agli abusi sessuali perpetrati dalle forze di sicurezza. Nelle sue parole: “Se porti via la terra alle donne nelle aree rurali, porti via la loro sopravvivenza. Perciò lottiamo. Perché non abbiamo più nulla da perdere.”

Leduvina Guill, nicaraguense dell’ong Wangki Tangni, difende il diritto di donne e bambine a vivere vite senza violenza. Nelle sue parole: “Combattere la violenza contro le donne è cruciale, perché si tratta delle loro vite; come difensora salvi le vite delle donne. I diritti sono molto importanti, le donne soffrono così tanto quando non hanno diritti.”

Magdalena Kafiar, fa parte del FAMM (Forum giovani donne attiviste indonesiane) ed è ministra della chiesa evangelica. Lavora per la difesa dei diritti delle donne e della terra. Nelle sue parole: “Ormai conosco il pericolo, ma mantengo lo spirito dentro di me e mi muovo in avanti. Devo lottare continuamente per rivelare le ingiustizie in Papua.”

Miriam Miranda, della Organización Fraternal Negra Hondureña (OFRANEH), Honduras. Lotta per il rispetto e la sicurezza delle culture indigene, per l’accesso alla terra e alle risorse, per i diritti delle donne. Nelle sue parole: “La lotta, come la vita stessa, dovrebbe essere gioiosa.”

Irina Maslova, dell’organizzazione Silver Rose, Russia. Agisce nell’ambito della protezione dei diritti umani per tutti, compresi gruppi svantaggiati e donne nelle prostituzione. Nelle sue parole: “La rivoluzione comincia dal basso, quando coloro che sono esclusi da questa vita devono lottare per il loro diritto di rientrarci.”

Honorate Nizigiyimana, dell’organizzazione Développement Agropastoral et Sanitaire (Dagropass), Burundi. Lavora per la pace e la sicurezza delle donne nel suo paese. Nelle sue parole: “Sebbene io sia la più anziana della mia famiglia, sono ancora considerata una persona di poco valore. E’ la cultura attuale del Burundi. Sono questi comportamenti che mi hanno condotta a pensare alla promozione dei diritti delle donne.”

Tin Tin Nyo, dell’Unione donne birmane. Lavora in Thailandia per i diritti delle donne e la loro rappresentazione nelle negoziazioni di pace. Nelle sue parole: “La nostra arma più potente è la nostra voce. Abbiamo verità e sincerità. Queste sono le armi che dobbiamo usare per tutte le donne che sono senza voce e senza aiuto.”

Ana Sandoval, Guatemala, del gruppo di Resistenza Pacifica “La Puya”. Lavora per i diritti comunitari sulla terra e per la chiusura della miniera Progreso VII. Nelle sue parole: “Alla fine, tutte le lotte hanno il medesimo obiettivo: la difesa della vita.”

Menzione di gruppo: Forze unite per i nostri “desaparecidos” in Coahuila e Messico.

Le donne sono Yolanda Moran, Angeles Mendieta, Blanca Martinez. Vogliono giustizia e verità per le famiglie delle persone “scomparse”. Dice Blanca Martinez: “Noi crediamo che bisogna battersi per i propri diritti e difenderli, nessuno li difenderà per noi se non lo facciamo.”

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “My mother raised me a feminist”, un più ampio articolo di Edinah Masanga per World Pulse, 9 agosto 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Edinah – in immagine – è giornalista, attivista per i diritti delle donne nonché fondatrice e presidente dell’ong “Women Empowerment Foundation Scribes”.)

Edinah Masanga

Io sono una femminista che è stata cresciuta da femminista senza saperlo, in un piccolo e povero villaggio rurale distante circa 120 km. da Harare nello Zimbabwe. Tutti si conoscevano e le tradizionali norme culturali erano messe in pratica esattamente nello stesso modo da decenni, come se facessimo le prove a teatro.

Io sono la quarta figlia in una famiglia che ha quattro maschi e due femmine. Sono arrivata subito dopo l’ultimo fratello, l’ingegnere aeronautico Simbarashe Masanga che a scuola era un genio. Si impegnava ed era intelligente, ma io pure.

Gli altri lo chiamavano “Dottor Masanga” (dalla maggioranza dei ragazzi svegli ci si aspettava diventassero dottori in medicina) ma salutavano me come “cognata” e “nuora”. Era chiaro sin dall’inizio che io venivo cresciuta per il matrimonio e lui per la vita professionale. Non da qualcuno in particolare, dal sistema nel suo complesso.

Non sono mai stata notata per le mie capacità negli studi ma presa di mira per il mio corpo sì. Ho seni grandi e i miei genitori non potevano permettersi di comprarmi un reggiseno, perciò non ne ho mai indossato uno durante tutta l’adolescenza e i seni hanno cominciato a pendere un po’ quando avevo 15 anni. Così per il villaggio diventai una “puttana” perché i seni pendenti dovevano significare che qualcuno si sdraiava spesso sopra di me. Nessuno pensò al fatto che mi mancava il reggiseno (odio i reggiseni a tutt’oggi).

La nostra sussistenza, come famiglia rurale povera, dipendeva dal lavorare la terra e il fatto che i miei genitori fossero da soli nei campi confondeva la gente. Era consuetudine che le bambine dessero una mano a lavorare la terra mentre i bambini portavano al pascolo il bestiame, ma io non ho mai messo piede nei campi. Per la maggior parte del tempo ero dentro casa con i miei libri.

La gente del mio villaggio non riusciva a capirlo e si lamentava con mia madre perché, secondo loro, stava crescendo una ragazza pigra. “Chi mai vorrà sposarla se non sa neppure cucinare e pulire?”, le dicevano. Spesso la conversazione di mia madre con altre donne del villaggio concerneva il difendere me e la mia “pigrizia”. Loro non ne sapevano niente, ma mia madre mi stava incoraggiando a perseguire istruzione e indipendenza economica, piuttosto che il matrimonio. “Il matrimonio non è uno scopo, è una scelta, ma l’indipendenza economica è la tua vita.”, mi ripeteva continuamente. Non mitigava i termini e mi diceva che avevo bisogno di soldi per vivere, non di essere brava nelle faccende di casa: “Per cucinare, devi avere cibo.”.

Mio fratello, il genio, non svolgeva alcuna faccenda domestica ed era lodato anziché criticato per questo. Nessuno suggeriva che la sua vita sarebbe finita male a causa della “pigrizia” – forse perché il sistema stava crescendo “domestiche” per lui. C’era la doppia aspettativa, per me, che io fossi brillante e una brava donna di casa. Io ero brillante, ma non ho mai avuto riconoscimento per ciò, solo critiche alla mia “pigrizia”.

Mi era anche richiesto di essere bella e di mantenere fermi i miei seni anche senza reggiseno. Dovevo preservare la mia immagine come ragazza decente, una che fosse buon materiale da matrimonio. Si dava per scontato che io fossi cresciuta per servire gli uomini in un mondo di uomini.

Io piangevo quando le vecchie mi pizzicavano i seni per controllare se stavano diventando più soffici (essendo quella la “prova” che gli uomini si sdraiavano spesso su di me) ma mia madre, femminista inconsapevole, mi consolava e mi ricordava che la cosa migliore non era essere una vergine ma una donna con una professione e un mezzo di trasporto proprio. Ad ogni modo io non avevo avuto rapporti sessuali, ma non sapevo come difendere me stessa, i miei seni ciondolavano a causa del loro stesso peso.

Non potevo difendere il mio corpo dagli standard che erano stati fissati secoli prima della mia nascita. Non potevo difendere la mia brama di istruzione in un mondo in cui le ragazze erano cresciute per diventare buone mogli. Non potevo difendere la mia incapacità di lavorare nei campi nei periodi in cui non ero a scuola. Una cosa era chiara: le ragazze erano addestrate a essere serve e mogli, i ragazzi a essere i padroni di casa, dottori, ingegneri eccetera.

Devo dire che mio fratello notò tutto: le critiche, lo svergognamento, i giudizi che dovevo affrontare ogni giorno. Cominciò a difendermi. Diceva alle persone di notare e valutare chi io ero. Quando qualcuno criticava me perché ero pigra e lodava lui perché era un genio, lui rispondeva: “Ma io non sono migliore di Eddie.” Nonostante lui difendesse il mio essere brillante negli studi ciò non era abbastanza. Dovevo essere una potenziale brava moglie per un uomo. Perciò il ritornello cambiò da “E’ pigra.” a “Speriamo che trovi un marito a cui piaccia l’idea di una moglie che va al lavoro.”

Perciò, ora mi era permesso eccellere negli studi, ma non avere ambizione. Qualsiasi cosa volessi fare, dovevo prendere prima in considerazione le necessità degli uomini. Le mie decisioni, il mio corpo, dovevano piacere agli uomini, altrimenti io ero un fallimento.

Mia madre, la femminista inconsapevole, diceva delle donne del villaggio: “Certo, sono perbene e sgobbano duramente, ma cosa possiedono che appartenga loro? Vuoi somigliare a loro, avere dieci figli, camminare scalza e lavorare nei campi per l’intera tua vita?” La parole di mia madre mi aprirono gli occhi. Mi hanno ispirato a volere di più dalla vita. Mi hanno fatto sapere che quel che c’era intorno a me, ragazze che abbandonavano la scuola per sposarsi e avere figli in giovane età, non era tutto quel che c’era.

Le sue parole mi hanno fatto capire questo: ciò che le persone accettano come “normale” ed etichettano come “buono” non equivalgono sempre a cose giuste.

Ogni giorno, mia madre mi sussurrava parole che mi rinforzavano come donna. Non immaginava di star crescendo una femminista, di esserlo lei stessa. Lei era la madre di cui ogni ragazza ha bisogno e lo è ancora. Mi ha sostenuto e aiutato a volere di più. Io non ho sprecato gli insegnamenti di mia madre.

Sono uscita dal liceo come la miglior studente anche se avevo perso più lezioni degli altri perché non potevamo pagare le rette. Sono riuscita a lasciare il villaggio e a diventare una giornalista di successo e una nota attivista per i diritti delle donne nello Zimbabwe.

Sono passata dall’essere scalza, senza mutande e affamata all’essere ben nutrita. Enfatizzo il cibo perché i ricordi più traumatici della mia infanzia riguardano l’andare a letto avendo fame. Ma in quei ricordi affamati e dolorosi c’è pure la voce di mia madre che mi esorta a essere forte. A essere una femminista.

Ora vivo in Svezia, mi guardo indietro ogni giorno e mi sento privilegiata a essere qui, intendendo “qui” come livello del mio potere, non come posto. Ho una voce. Ho una vita. Ho un futuro. Ma non sono cieca al fatto che ciò è accaduto per le parole di indipendenza e fierezza che mia madre mormorava al mio orecchio. Il suo costante ricordarmi che se non avessi raggiunto l’autonomia economicamente avrei dovuto dipendere da uomo per tutta la mia esistenza, che avrei saputo cucinare bene e pulire bene ma non avrei avuto cibo da cuocere o casa da pulire, ha dato forma alla mia vita.

La sua voce mi ha portato, soggettivamente, “al massimo”: nel mio caso l’avere quattro mura, elettricità, cibo, vestiti, mutande e l’aver costruito una casa per i miei genitori in una cittadina urbanizzata è il massimo che sognavo mentre vivevo nella colante capanna di fango di mia madre.

Tutto perché la mamma, la femminista inconsapevole, mi ha cresciuta dicendomi di credere in me stessa e di essere me stessa. Ha cresciuto una femminista.

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skhumbuzo khumalo

Ho gli incubi quasi ogni notte. E’ come se fosse successo appena ieri. Mi dissero: Hai bisogno di essere raddrizzata, altrimenti ti uccideremo. Gli omosessuali sono demoniaci e posseduti. Uno di loro allungò la mano verso la teiera e mentre io lo guardavo piena di orrore mi gettò l’acqua bollente addosso. Ho provato un dolore incredibile. Mi sono coperta di grosse bolle che da allora sono diventate cicatrici. Sono stata fortunata a uscirne viva. – così Skhumbuzo Khumalo, lesbica 24enne originaria dello Zimbabwe, ricorda la tortura subita per mano di un gruppo di poliziotti. – Ma dopo l’aggressione ho sentito che la mia dignità, il rispetto per me stessa e la mia fiducia erano svanite. Non potevo più vivere in quel modo.”

Nel suo paese l’omosessualità maschile è illegale e sebbene quella femminile non sia menzionata nel codice penale, l’intera comunità LGBT subisce attacchi violentissimi dalle forze dell’ordine, incoraggiate dal Presidente Mugabe.

Khumalo ha lasciato il suo paese nel 2014 e ha chiesto asilo in Gran Bretagna, asilo che le è stato garantito nel giugno 2015. Mentre passava settimane nel centro di detenzione, però, ha dovuto subire un’ulteriore umiliazione: i funzionari che si occupavano del suo caso le hanno chiesto di “provare” che era lesbica producendo fotografie di natura esplicita.

Non avevo scelta, sebbene non fossi a mio agio nel condividere cose del genere. L’ufficiale cominciò a scorrere le immagini mentre io era seduta di fronte a lui. E’ stato estremamente degradante. Mi ha fatto un mucchio di domande molto personali e poi mi ha chiesto di tornare a casa, di andare a vivere in un’altra città e di nascondere il fatto che sono gay. Ho pensato: come si può nascondere il fatto che ami una determinata persona? E’ ridicolo. L’idea di essere costretta a tornare nello Zimbabwe mi faceva desiderare di suicidarmi, perché era meglio che fossi io a mettere fine alla mia vita, piuttosto che altri a casa lo facessero per me.”

Forse non lo sapevate (ne dubito) ma noi donne, dalla culla alla tomba e ovunque culla e tomba siano situate, siamo solo materiale da YouPorn. Ci è concesso avere una sessualità se essa è funzionale al soddisfacimento dello sguardo e dell’interno-mutanda degli uomini, e pertanto dev’essere visibile e pubblica. D’altronde, a quello serviamo, no? Nessuna donna al mondo ha mai altro pensiero e altro desiderio e altro interesse che non sia servire, sessualmente e non, l’altra metà dell’umanità.

Qualche giorno fa, una pagina web umoristica italiana ha usato una fotografia di tre giovani donne, completamente vestite, attorno al tavolo di un laboratorio mentre maneggiano provette: lo scopo dell’immagine era suggerire la parola “chimiche” in un rebus. Ma i commenti erano di questo tono: “Io nella foto vedo solo una cosa a tre lesbo”.

Immaginate quanto dev’essere terribile l’esistenza di cotale individuo?

Pierantonio, guarda chi c’è, ti ricordi le tue cugine?” – “Io vedo solo un affare lesbo fra due racchie.” (le ragazze gli somigliano, è per questo che le giudica brutte)

Pierantonio, la dottoressa vorrebbe visitarti.” – “Io vedo solo una puttana in camice bianco.” (e nessuno lo cura)

Pierantonio, l’agente ti ha chiesto i documenti.” – “Io vedo solo una troia con la pistola.” (e finisce in questura)

Eh sì, è duro vivere senza riuscire mai a togliersi le fette di culo-tette-cosce dagli occhi… Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Love me despite, can we get along? (A peace song)” – di Chibairo per World Pulse, 20 gennaio 2016. Chibairo, che vive in Zimbabwe, è nelle sue stesse parole cittadina-giornalista, scrittrice, organizzatrice comunitaria e madre: “Io credo che ogni aspetto della vita di una donna sia altamente politico, perché le donne lavorano duramente ogni giorno per mettere il cibo in tavola e per far stare in salute i loro familiari e provvedere ad altre necessità.”. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

chibairo

Odiami pure per altre cose, sorella mia,

ma non odiarmi perché sollevo in alto il mio pugno.

Non biasimarsi per questo, no, non farlo.

Il pugno è un linguaggio

che enfatizza la mia storia.

Il pugno è un simbolo che conosco sin dal mio letto di nascita,

poiché sono nata con i pugni chiusi.

E’ stata la lezione sui riti di passaggio di mio padre

e ha liberato il mio paese dagli invasori.

Alza il tuo palmo aperto, lascia che io alzi il pugno

e vivremo per sempre in armonia

nonostante le nostre differenze.

Le mie eroine e i miei eroi, passati e presenti,

hanno alzato questo pugno nella boscaglia, per ravvivare la lotta.

Questo pugno, sorella mia,

ha contenuto in sé l’acceleratore della rivoluzione,

la rivoluzione che mi ha riportato la mia terra e la mia dignità.

Non chiedermi di alzare il palmo aperto,

da dove vengo io il palmo aperto

è un’icona per gli addii.

Io non ho motivo per dire “addio” di già.

Mia nonna mi ha insegnato a non dirlo mai,

mi ha insegnato ad abbracciare tutte le persone con amore e con potere.

Alza il tuo palmo aperto, lascia che io alzi il pugno

e vivremo per sempre in armonia

nonostante le nostre differenze.

feminist fist

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(“No More Apologies for Violence” di Lilian Lindani Mwaita Cirambadare, attivista dello Zimbabwe, per World Pulse, 8 luglio 2015. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

lilian

Cosa avrei potuto fare di diverso? Avrei dovuto indossare gonne larghe, mettermi a dieta così che il mio ampio didietro si notasse meno, avrei dovuto sorridere in modo più modesto, avrei dovuto evitare di parlare con lui, avrei dovuto essere invisibile, mio padre non avrebbe mai dovuto morire?

Avrebbe dovuto, mio padre, lasciarmi un fondo fiduciario che mi avrebbe permesso di essere autosufficiente? Non avrei mai dovuto andare a vivere con i miei parenti, in primo luogo?

Così tante domande mi tormentavano e non avevo risposte sul perché lui mi molestava sessualmente. Mi ricordo guardarmi dal di fuori mentre pensavo a come dovevo rispondere alle sue avances sessuali, alle sue mani tentacolari che strisciavano su di me, alle allusioni oscene dirette a me, agli sguardi laidi gettati al di sopra della testa di mia zia mentre sedevamo a cena.

Egli era, dopotutto, il mio tutore da quando mio padre era morto. Mi chiesi se si sentiva legittimato o se in effetti maturava proprio dei benefici speciali perché mi mandava a scuola e aveva provveduto a mettere un tetto sopra la mia testa e del cibo nel mio stomaco.

Queste erano le mie opzioni: potevo stare al gioco quel tanto, cercando di sottrarmi al pericolo e di non creare agitazioni; potevo denunciarlo a mia zia e mettere fine alla sua predazione di me, anche se questo avrebbe significato distruggere il loro matrimonio ed alienarmi dalle persone che mi avevano preso in casa; potevo denunciarlo alla polizia e rischiare di alienarmi l’intera famiglia per aver deciso da sola.

Secondo le norme culturali attuali, la risoluzione della faccenda spettava agli altri miei zii, così la affidai a loro. In quel momento loro sapevano già delle molestie ma avevano scelto di lasciar perdere momentaneamente, perché era più importante per loro che io finissi la scuola e avessi un posto dove stare e, nel frattempo, era lavoro mio proteggermi da quest’uomo nella sua stessa casa.

Mia zia fu volonterosa nel perdonargli questa trasgressione, uno fra gli innumerevoli torti che lui le ha fatto. Fu invece indisponibile a dubitare di lui quando lui gli disse che io mentivo sulle molestie, anche se non era la prima volta che molestava sessualmente qualcuna: in precedenza il suo bersaglio era stata una domestica. Credermi avrebbe frantumato la perfetta bugia ricamata del loro matrimonio ed avrebbe deprezzato lei fra le sue amiche di chiesa. Lei stessa ha sofferto abusi sessuali in giovane età e io pensavo che avrebbe dovuto capire meglio il trauma da me attraversato. Il fatto che lei mi condannasse rese le cose peggiori. Mi indusse a credere che la faccenda era davvero assai più grande di me e che io non potevo cambiarla in alcun modo.

Mi ritrovai ad essere giudicata secondo il mito della purezza, il paradigma della brava ragazza che mette l’enfasi sul restare caste delle donne e fonde l’astinenza con la responsabilità. Il mio caso fu pure giudicato secondo le linee del mito della debolezza maschile: esso suggerisce che gli uomini sono tutti trogloditi brutali e iper-sessuali, che la loro civilizzazione è una nebbia pronta ad evaporare in ogni momento.

Mi sono sentita dire che gli uomini, azionati dalle irresistibili forze del cromosoma Y e del testosterone, devono essere lodati per il minimo sforzo che compiano nel trattenersi; che la loro “innata” vulnerabilità alle tentazioni suggeriva come fosse affar mio proteggere mio zio da se stesso.

Ricordo anche troppo vividamente la vergogna che ho provato quando non avrei dovuto provare vergogna, l’orribile senso di colpa quando non ero colpevole. Sembrava che io dovessi alla coppia il tenerli insieme, che dovessi alla mia famiglia l’oblio della mia sofferenza. Era più importante io riconoscessi il bene che avrebbe fatto a tutti la mia bocca chiusa. Io sono stata socializzata a pensare nei termini della collettività, senza dare importanza al danno individuale causato, ma la vicenda portò in superficie come lo stesso sistema che in apparenza avrebbe dovuto proteggermi, il patriarcato, stava invece lavorando per soffocare in me la mia stessa vita.

Quando le donne soffrono di abusi sessuali io sono pronta a lottare per loro con tutto quello che ho e ad usare la legge a loro beneficio. Tuttavia sono consapevole che quella stessa legge sarebbe utilizzabile da me e io non l’ho usata per portare il perpetratore in tribunale. Così tanti fattori sono intervenuti nella mia decisione, ultimo ma non minore l’essere disturbata dal rivivere il trauma. Immagino ci siano un mucchio di donne che hanno affrontato il medesimo dilemma e non hanno cercato giustizia nella legge.

Io spero che un giorno le donne si solleveranno e smetteranno di vivere in uno stato di miseria predestinata. Io spero che la mia conoscenza derivata dall’esperienza contribuirà a creare il mondo in cui ciò accade. E’ ora che smettiamo di scusarci per la violenza commessa contro di noi.

Spero che un giorno la famiglia – così altamente valutata nelle nostre strutture sociali – proteggerà le donne e le bambine, e smetterà di cercare giustificazioni per gli uomini che fanno torto alle donne.

Io ho la visione di un mondo dove le donne non devono scusarsi per l’essere donne come io ho dovuto – e ancora devo – fare.

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“Come femministe dobbiamo sforzarci di essere più inclusive e riconoscere che il personale è politico e il politico è personale. Ogni piccolo atto che va contro il patriarcato o la diseguaglianza, che sia il chiedere di andare a scuola, o il rifiutare di sposare l’uomo che tuo padre ha scelto per te, è un atto di difesa dei diritti umani delle donne, e un atto che pone chi lo compie a rischio di violenza e punizioni. Sono queste azioni apparentemente semplici a possedere l’effetto domino che cambia società e culture.”

Ndana Bofu-Tawamba, 23 aprile 2015 (trad. Maria G. Di Rienzo).

Ndana

Ndanatsei (Ndana) Bofu-Tawamba, nativa dello Zimbabwe, ex direttrice del distaccamento Donne delle Nazioni Unite ad Harare, è la presidente e la direttrice di Urgent Action Fund-Africa e fa parte del consiglio di gestione dell’International Network of Women’s Funds. In pratica maneggia fondi d’emergenza per rispondere alle crisi umanitarie e quelli necessari a donne e ragazze, come redistribuzione delle risorse, per trasformare le loro vite e le loro comunità in modo che i loro diritti siano riconosciuti e protetti: questi ultimi si chiamano, udite udite, programmi per la giustizia di genere. (Aaargh, il complotto-gender!!!)

Ndana ha una collezione di lauree e diplomi universitari conseguiti in Francia, in Gran Bretagna e nel suo paese, il cui focus va dalle intersezioni fra genere e conflitti ai sistemi per la prevenzione della diffusione dell’Hiv/Aids al maneggio del personale. E’ così bella che potrei guardarla per ore.

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(“Respectability Politics: A Bane of Zimbabwean Women’s Organising?”, di Anthea Taderera – in immagine – per HerZimbabwe, 23 gennaio 2015. Trad. Maria G. Di Rienzo. Anthea è, nelle sue stesse parole “un’orgogliosa femminista cristiana, un’avida lettrice e un’amante del cibo”. E’ anche un’avvocata e sta lavorando per aprire uno studio legale che si occupi in particolare di diritto di famiglia e normative che riguardano le donne.)antheaCredo che molte persone dovrebbero aver familiarità con la politica della rispettabilità, perché essa è correlata ai neri americani o al movimento LGBT. Vorrei, tuttavia, aggiungere i neri africani al mucchio e portare una dinamica leggermente diversa.

I neri africani non sono una minoranza numerica nei nostri paesi, ma noi tendiamo ad essere in secondo piano in termini di potere quando abbiamo a che fare con corporazioni transnazionali e nazioni occidentali. In più, le nostre esperienze recenti in materia di colonialismo e neo-colonialismo mostrano che stiamo ancora invischiati con la politica della rispettabilità in differenti aspetti dei nostri spazi privati e pubblici.

I principi base delle politiche della rispettabilità si accentrano su un gruppo dominante di persone che considerano un determinato raggruppamento inferiore ad esse per mentalità, atti e morale. Perciò, dichiarano che tale segmento della popolazione non è titolato agli stessi diritti di base o alla dignità umana.

Il gruppo oppresso non è ovviamente contento dello status quo e decide che dimostrerà al gruppo dominante che si sbaglia, non solo promuovendo gli stessi standard morali a cui il gruppo dominante aderisce, ma attenendosi ad essi e incoraggiando altri all’interno del segmento oppresso a fare lo stesso. In questo modo diventerà evidente che il gruppo dominante non ha ragione di temere nel trattare gli appartenenti al gruppo oppresso come persone.

Durante la nostra storia coloniale numerosi stereotipi furono fatti circolare sulla natura dei neri africani, fra cui quello popolare dell’africano pigro, rumoroso e generalmente amorale. Questo africano costruito non era, naturalmente, degno di inclusione nelle strutture di potere della società.

La politica della rispettabilità asseriva che tale posizione era in essenza un fraintendimento, e che se noi fossimo riusciti a lavorare più duramente e a cambiare i nostri comportamenti culturali sino a che essi uguagliassero a sufficienze le norme (puritane) dei coloni, allora avremmo avuto un qualcosa su cui appoggiarci mentre rendevano note le nostre doglianze.

La politica della rispettabilità dice che se tu partecipi a una discussione essendo qualcosa di meno dell’immagine della perfetta virtù che una società data attualmente approva, non hai qualifiche per reclamare i benefici dell’umana decenza e della sicurezza.

La politica della rispettabilità si finge anche rivoluzionaria, ma in realtà è solo un’interiorizzazione di un complesso di inferiorità accoppiato all’accordo sull’operare all’interno dei parametri stabiliti, così da non offendere le sensibilità dello status quo.

Questa strategia, essenzialmente, porta alla riforma del minimo indispensabile perché è compromessa nel peggior senso possibile.

Ciò che io trovo particolarmente preoccupante è il modo in cui diversi tipi di attivisti continuano ad affidarsi alla politica della rispettabilità per andare avanti. Ho in mente, nello specifico, persone coinvolte nel movimento delle donne.

Noi ci troviamo spesso in situazioni davvero precarie, dove non vogliamo squalificare il nostro pensiero prima di essere udite parlare. Perciò, cosa facciamo? Politiche a parte, c’è la tendenza a livellare il nostro appagamento, effettivo o percepito, a ciò che il nostro patriarcato considera essere i requisiti di una buona e virtuosa femminilità.

La nostra politica corrente della rispettabilità prescrive che, prima di poter tirar fuori i diritti delle donne, noi si sia viste come buone mogli che soddisfano tutti gli obblighi ascritti ad una moglie, dobbiamo essere buone madri, dobbiamo essere sottomesse a sufficienza e non apertamente interessate alla riforma culturale.

Riguardo a quest’ultima, non dobbiamo mettere troppo in questione pratiche come roora e lobola (Ndt.: due forme di “pagamento” della sposa). Ne’ dobbiamo impegnarci in critiche che possano essere viste come patrocinio di valori stranieri (spesso occidentali). In effetti, dobbiamo mostrarci mentre camminiamo sulla linea del puritanesimo inserita dal colonialismo, molto bene, nella nostra cultura africana e apparire felici di farlo per poter sostanziare il nostro essere africane.

Con questo non sto dicendo che ci sia qualcosa di sbagliato nell’essere una moglie e o una madre, dico invece che è problematico il continuare ad implicare il tuo fallimento rispetto alla tua femminilità africana se non rivesti questi ruoli. Con l’ulteriore implicazione che a causa di ciò tu non sei degna di essere ascoltata.

Per poter fare esperienza della legittimazione da parte del patriarcato noi non dobbiamo solo essere virtuose, ma dobbiamo mostrare che lavoriamo assai duramente e dobbiamo sembrare abbastanza grate di essere in spazi pubblici. Preferibilmente dovremmo tirar fuori la decadenza morale ed essere molto rumorose al proposito.

Quando accettiamo l’idea che i diritti vadano guadagnati o necessitino di essere garantiti da un’istituzione patriarcale, allora accettiamo anche che queste stesse istituzioni patriarcali abbiano il diritto di riprenderseli. E dobbiamo star sempre in guardia, perché chi ha potere potrebbe decidere che non gli piace come sei diventata, con i diritti, e farti tornare ai giorni gloriosi del tuo assoggettamento.

Non resta spazio per l’identità individuale e quando la percezione della virtù è livellata allo scopo di ottenere l’accesso ai diritti, i diritti che sono concessi sono visti come appannaggio della classe delle “meravigliosamente virtuose”. Un nuovo conformismo è richiesto, un conformismo che è, in essenza, un rifacimento di strutture oppressive patriarcali ma con una nuova vernice: tieni fede alla tua parte nell’accordo e assicurati che la società non imploda.

I diritti ottenuti tramite la politica della rispettabilità hanno incorporata la clausola del buon comportamento, e dove c’è questa clausola dev’esserci controllo per assicurarsi che nessuno sia di nocumento alla causa. Ci diamo l’un l’altra intrusivi consigli non richiesti su come mantenere l’apparenza della virtù. Non è solo per il tuo bene, è per il bene di tutte. Il modo in cui vivi la tua vita diventa materia di pubblico dibattito, come se tu stessi abusando dei diritti concessi in modo così magnanimo dal patriarcato e, nel farlo, provando che i vecchi sostenitori dell’egemonia patriarcale hanno ragione.

Il biasimo delle vittime diventa non solo accettabile, ma necessario. Se la persona soggetta ad un crimine manca di soddisfare gli standard imposti dal patriarcato – non risponde al criterio di “rispettabilità” – la società ha titolo per scaricarla. Ciò significa non solo che la vittima è sottoposta a giudizio, ma che ogni richiesta di riforma della società è sottoposta a dileggio. La società può dire in buona coscienza che la persona si è causata danno da sé, perché non stava seguendo le linee guida raccomandate per la sicurezza.

Un esempio particolarmente pertinente si è dato ad Harare: quando una donna vestita in modo non condonato dal patriarcato (nel caso, una minigonna) è assalita in spazi pubblici, la questione viene riformulata come il suo fallimento nell’attenersi alle norme sociali, mentre la questione reale è il disprezzo della sua autonomia corporea. In più, per assicurare che nel tuo lamentarti del trattamento tu non includa il chiedere alla società di portare un fardello che è tuo e solo tuo, la porta è lasciata aperta a domande intrusive e assolutamente irrilevanti, che cercano di sminuire il danno da te subito. L’esempio classico è: “Cosa indossavi quando sei stata stuprata?”

Quel che abbiamo bisogno di fare, nei nostri movimenti, è considerare le donne un gruppo non omogeneo. Dobbiamo chiederci costantemente se il nostro femminismo è intersezionale o se stiamo sacrificando un po’ di donne in cambio di diritti condizionati. I nostri piani sono problematici se pensiamo che una classe di donne non sia degna di individualità. Ciò significa anche che dobbiamo cercare voci e collaborazioni da donne con un bagaglio culturale differente. Il punto non è avere rappresentazioni simboliche, ma piuttosto connessioni costruite sul dialogo e sulla solidarietà.

Il movimento delle donne deve stare attento all’esclusione o all’inclusione forzata, ma deve avere una visione di progresso. Con la politica della rispettabilità si guadagna poco. Dobbiamo smettere di guardare al patriarcato affinché legittimi le nostre azioni e le nostre richieste.

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“Quando racconto la storia di mia madre, la dico con potere e coraggio, non dal punto di vista di un essere singhiozzante, indifeso e sconfitto. Lei è un modello e un’ispirazione. Più importante ancora, lei è l’eroina della propria storia, non solo una vittima.” Così Hellen Matsvisi, giovane scrittrice femminista dello Zimbabwe, spiega il suo romanzo “Quel che loro chiamano amore”, un testo in cui dà testimonianza di come la madre uscì dalla relazione violenta con il proprio marito, che l’aveva anche infettata con l’Hiv. Constance lasciò la casa con i due bambini, Hellen e suo fratello, trovò lavoro come domestica e crebbe i figli da sola. “Un atto di sfida, mentre il resto dei membri della famiglia le faceva pressione affinché restasse. – prosegue Hellen – E il mio scritto è una deliberata celebrazione del coraggio delle donne che trovano potere in se stesse per cambiare le loro vite. Ciò che il patriarcato chiama “amore” è sottomissione e silenzio.”

Hellen con due sorelle di Katswe, lei è la prima da sinistra.

Hellen con due sorelle di Katswe, lei è la prima da sinistra.

Dal 2011, Hellen è un membro della Katswe Sistahood (Sorellanza Katswe), un movimento femminista che intende decostruire i tabù e gli stigma che circondano i corpi delle donne e la sessualità. Sono donne giovani e giovanissime, ma il loro creare spazi per la mobilitazione contro la violenza e per i diritti di salute sessuale e riproduttiva comincia in un modo molto antico, con i cosiddetti pachotos o “chiacchiere accanto al focolare”. Hellen le ha incontrate così. All’epoca, stava lottando per poter proseguire la propria istruzione e trovare un impiego che le garantisse indipendenza, contro le convinzioni del fratello che la voleva in casa: “Morivo dal desiderio di andare all’università, di approfondire i miei studi. Un giorno sgattaiolai fuori di casa per andare a trovarmi un lavoro part-time. Quando la sera tornai, mio fratello mi picchiò sino a ridurmi a una polpetta, solo perché ero uscita di casa senza il suo permesso.” Hellen si sentiva paralizzata, le sembrava che le sue probabilità di emergere da quell’ambiente tossico fossero sempre più limitate.

Poco tempo dopo, vide un gruppo di giovani donne entrare nella casa accanto alla sua. “Erano così gioiose, così vibranti, che suscitarono la mia curiosità.” Hellen andò a incontrarle e cominciò a partecipare alle loro attività: “Un giorno mi portarono ad uno dei pachotos, in un sobborgo vicino. C’erano donne rurali e donne delle città, donne istruite e donne analfabete, donne dai diversi orientamenti sessuali… Fui meravigliata da come si rispettavano l’un l’altra, e da come facevano a turno nel narrare le loro esperienze di vita e nel condividere storie di resistenza e di successo contro il patriarcato. Ho tratto incredibili benefici da queste discussioni. Ho imparato un mucchio di cose sui diritti delle donne. Ho compreso pienamente che quel che mio fratello mi stava facendo era sbagliato e che io avevo diritto alla libertà. Grazie a Katswe, ho trovato la forza e il coraggio di iscrivermi all’Università delle Donne in Africa, dove mi sono laureata in Studi di Genere. Per me, il femminismo è il reclamare il nostro potere come donne ed usare quel potere a beneficio di ogni altro attorno a noi. Ho imparato che viviamo tutte nella “Casa del padrone” (Ndt: Audre Lorde: “Non possiamo smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”) e che dobbiamo sezionare il concetto di potere per capire come le strutture visibili, invisibili e nascoste del potere stesso lavorano insieme per opprimere le donne. Il cambiamento inizia con il riconoscere il proprio potere individuale e il passo successivo è collegarlo con altri per costruire forti movimenti contro l’oppressione. Il mio tipo di attivismo preferito è infatti l’educazione popolare femminista, un modo molto diverso di apprendere rispetto a quel che fai a scuola: è più partecipativo, più pratico e riflessivo. Credo che noi femministe siamo in grado di operare il cambiamento.”

Stuprata ma non ridotta al silenzio - Manifestazione di Katswe

Stuprata ma non ridotta al silenzio – Manifestazione di Katswe

La testimonianza di Hellen Matsvisi è stata raccolta da JASS (Just Associates), un’organizzazione internazionale femminista fondata nel 2003 da attiviste, educatrici e studiose di 13 nazioni al fine di costruire e mobilitare il potere collettivo delle donne per la giustizia. A tutt’oggi, JASS fornisce sostegno e training alle attiviste ed alle organizzazioni femministe in 27 diversi paesi: “Chiamiamo le metodologie che usiamo educazione popolare femminista. Cominciando con la condivisione di storie e preoccupazioni, le donne generano analisi, nuove conoscenze e piani pratici per l’azione e la collaborazione.” Maria G. Di Rienzo

Avviso: per qualche giorno non avrò modo di occuparmi del blog. Approfittatene per vagare fra gli oltre 1.200 articoli che contiene… a presto, la vostra Vecchiaccia.

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