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rewrite her story

“Riscrivete la sua storia – Come gli stereotipi di film e media hanno impatto sulle vite e sulle ambizioni alla leadership di ragazze e giovani donne”: questo è il titolo di uno studio condotto congiuntamente da Plan International

https://lunanuvola.wordpress.com/2019/05/18/chi-ci-rende-insicure/

e dal Geena Davis Institute on Gender and Media

https://lunanuvola.wordpress.com/2016/03/02/se-lo-vedi-puoi-esserlo/

e reso pubblico un paio di giorni fa.

La ricerca ha analizzato 56 film del 2018, di venti diversi Paesi, con record d’incassi e ha ascoltato le opinioni di 10.000 giovani donne in tutto il mondo per capire come queste pellicole le hanno influenzate. Potete leggerla per intero – e vedere il breve documentario relativo – qui:

https://plan-international.org/girls-get-equal/rewrite-her-story

“Sebbene molti siano i fattori che scoraggiano le ragazze e le giovani donne dal perseguire posizioni direttive, l’avere donne leader come modelli ispirativi nei media, così come nella comunità, stimola le ragazze a mirare in alto. – dicono Geena Davis e Madeline Di Nonno nell’introduzione – Se vogliamo vedere più donne in posizioni guida nel mondo reale, le ragazze hanno bisogno di vedere più donne leader nei mondi immaginari dei media dell’intrattenimento.”

Lo studio mostra che tale obiettivo è ancora distante: in pratica, se in un film c’è una donna di potere la si mostra in abiti con profonde scollature e spacchi o seminuda, nel mentre maneggia molestie sessuali e lotta faticosamente per essere ascoltata.

Nelle pellicole esaminate, gli uomini schiacciano le donne per numero (rispettivamente 67% e 33%) e parlano più di due volte tanto, che è la stessa percentuale con cui rivestono ruoli di leadership. Le donne hanno il 30% di possibilità in più degli uomini di indossare vestiti succinti, sono mostrate seminude due volte tanto e completamente nude quattro volte tanto.

Le ragazze intervistate al proposito dicono che i messaggi dell’oggettivazione e della scarsa rappresentazione sono molto chiari: “Sicuramente c’è un impatto – afferma per esempio una diciassettenne peruviana – perché indirettamente i film stanno dicendo alle donne che loro non sono capaci di rivestire ruoli guida nella stessa maniera in cui gli uomini possono farlo.”

Secondo Plan International le ragazze e le giovani “hanno bisogno di vedere se stesse nelle storie che le circondano per raggiungere l’equità di genere e perché la loro capacità direzionale sia riconosciuta e incoraggiata”, pertanto l’ong fa queste raccomandazioni:

– Per esserlo, le ragazze devono vederlo. Bisogna rendere visibili e normali le storie sulla leadership femminile;

– Mettere fine alla sessualizzazione e all’oggettivazione di donne e ragazze sullo schermo;

– Finanziare le registe, le creatrici di programmi e le produttrici e affrontare le molestie e le discriminazioni sul lavoro per incoraggiare le ragazze e le giovani donne a entrare nell’industria dell’intrattenimento ad ogni livello.

Nel rapporto sono comprese diverse interviste proprio a donne che lavorano nel settore, fra cui la regista vietnamita di “The Third Wife” (“La terza moglie”), uscito in Italia il 29 settembre scorso. Il film, ambientato nel Vietnam del 19° secolo, narra la storia di una quattordicenne a cui è imposto il matrimonio. Ash Mayfair, 34enne, ha detto tra l’altro: “Il sapere che le giovani donne hanno necessità di vedere sullo schermo figure femminili potenti e più personaggi che assomiglino loro è la ragione per cui non smetterò mai di fare film. Non smetterò mai di lavorare per portare alla luce più storie di donne, non solo perché sono narrazioni che appartengono al mio genere, ma anche perché sono potenti e preziose esperienze umane.”

Maria G. Di Rienzo

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jacinda

Jacinda Ardern, 37 anni – in immagine – è stata eletta capo di governo della Nuova Zelanda il 26 ottobre 2017. Fa parte del Partito Laburista (socialdemocratico) ed è la più giovane fra i Primi Ministri di tutto il mondo.

La scorsa settimana partecipava al summit per l’Asia Orientale in Vietnam. C’era anche il Presidente degli Usa Trump e sebbene i due si fossero già parlati al telefono quella era la prima volta in cui si incontravano. Così Jacinda ha riportato la scena ai giornali:

“Stavo aspettando di uscire per essere presentata al pranzo di gala del summit, dove tutti sfilavamo, e durante l’attesa Trump si è messo a scherzare con la persona che aveva vicino: gli ha battuto sulla spalla, ha puntato il dito verso di me e ha detto: “Questa signora ha causato un bel po’ di scombussolamento nel suo paese.”, riferendosi alle elezioni, e io ho risposto: “Be’, via, magari forse al 40%.” Allora lui ha ripetuto la frase e io ho detto ridendo: “La sa una cosa, nessuno è sceso nelle strade a protestare quando sono stata eletta io.”

Come ricorderete, le donne invece chiamarono alla mobilitazione (Women’s March) non appena Donald Trump fu eletto e non marciarono solo nelle strade statunitensi, perché la protesta si allargò all’intero pianeta. Per inciso, Jacinda Ardern stessa partecipò alla protesta, nella città neozelandese di Auckland.

Maria G. Di Rienzo

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trinh t

Trinh T. Minh-ha (in immagine) è nata nel 1952 a Hanoi, in Vietnam. E’ regista, scrittrice, saggista, compositrice e docente. Il suo ultimo libro è del 2016 e si chiama “Lovecidal” (“Amoricida”): è una riflessione sullo stato perenne di guerra globale e spazia dagli interventi militari statunitensi in Iraq e Afghanistan all’occupazione cinese del Tibet, concentrandosi sulle dinamiche variabili della resistenza popolare al militarismo e alla sorveglianza e su capacità e implicazioni dell’uso dei social media per mobilitare la cittadinanza. Trinh sostiene che i conflitti generati dal militarismo sono per la maggior parte fumosi e indistinti, le vittorie mai nette ne’ oggettive e l’unica chiara vittoria del militarismo è la guerra in se stessa.

I concetti che Trinh ha coniato di “altrove” e di “altro inappropriato” continuano a intersecarsi e a comparire in ogni sua opera: sono le interazioni transculturali, la produzione e la percezione delle differenze, le intersezioni fra tecnologia e colonizzazione, la creazione e il disfacimento dell’identità.

Parlando del suo film “Forgetting Vietnam” (90 min., 2015), Trinh spiega: “Tutto comincia con Due, come una delle frasi di apertura del film dice. La baia di Ha Long, per esempio, non è solo il “gioiello dell’industria turistica vietnamita”, è il luogo di incontro di due forze fondatrici: Hạ Long, o “il drago calante”, e Thăng Long – l’antico nome della città di Hanoi – o “il drago crescente”. Piuttosto che far riferimento a opposizioni binarie, Due designa qui l’abilità di contenere entrambi. Montagna e fiume; solido e liquido; immobilità e movimento; maschile e femminile; essere stanziali e viaggiare; partire e tornare; Nord e Sud; bassa e alta tecnologia. Ci sono molti di questi “due”, attivi nel film, che regolano la nostra vita nella realtà concreta.

Le femministe da lungo tempo sfidano il dominante ordine patriarcale e la sua monocultura soggettiva di dominio, produzione e sfruttamento. Le femministe hanno propugnato, invece, un ordine di coesistenza, molteplicità e mutuo rispetto per le ricchezze sia naturali sia culturali. La democrazia sta in questa abilità di contenere entrambi, di spezzare il sistema delle opposizioni binarie, di far entrare l’Altro e mettere in discussione l’Uno imperiale e fallico.”

Maria G. Di Rienzo

i due draghi

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Il brano che segue proviene da un articolo più lungo e dettagliato di Anna Zobnina: “WOMEN, MIGRATION, AND PROSTITUTION IN EUROPE: NOT A SEX WORK STORY”, pubblicato da Dignity – Vol. 2 – Issue 1 – 2017, che potete leggere integralmente qui:

http://digitalcommons.uri.edu/dignity/vol2/iss1/1/

Anna Zobnina (in immagine) è la presidente della Rete Europea delle Donne Migranti, nonché una delle esperte dell’Istituto Europeo dell’Eguaglianza di Genere. E’ nata a San Pietroburgo in Russia e ha lavorato in precedenza come ricercatrice e analista per l’Istituto Mediterraneo degli Studi di Genere. (Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Anna Zobnina

Sin dall’inizio della più recente crisi umanitaria, a circa un milione di rifugiati è stato garantito asilo in Europa. Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, nel 2016 oltre 360.000 profughi sono arrivati alle spiagge europee cercando rifugio. Di questa cifra, almeno 115.000 sono donne e bambine, incluse minori non accompagnate. Ciò che alcuni descrivono come una “crisi dei rifugiati” è, in molti modi, un fenomeno femminista: donne e le loro famiglie che scelgono la vita, la libertà e il benessere, opponendosi alla morte, all’oppressione e alla distruzione.

Tuttavia, l’Europa non è mai stata un luogo sicuro per le donne, in particolare per quelle che sono sole, povere e senza documenti. I campi profughi dominati dagli uomini, gestiti da personale dell’esercito e non equipaggiati con spazi divisi per sesso o materiale igienico di base per le donne, diventano velocemente ambienti altamente mascolinizzati dove la violenza sessuale e l’intimidazione delle donne proliferano. Di frequente le donne scompaiono dai campi profughi.

Come le appartenenti alla nostra rete riportano – ovvero le donne rifugiate stesse, che forniscono servizi nei campi – le richiedenti asilo hanno legittimamente paura di fare la doccia nelle strutture per ambo i sessi. Temono di essere molestate sessualmente e quando estranei che si fingono volontari dell’aiuto umanitario offrono loro di accedere a bagni in località “sicure” esterne al campo, le donne non tornano più. Sino a che una donna mancante non è stata identificata ufficialmente, è impossibile sapere se è stata trasportata altrove, se è riuscita a fuggire o se è morta. Ciò che noi, la Rete Europea delle Donne Migranti, sappiamo è che le donne della nostra comunità finiscono regolarmente in situazioni di sfruttamento, di cui matrimoni forzati, schiavitù domestica e prostituzione sono le forme più gravi.

Per capire ciò non è necessario consultare la polizia; tutto quel che dovete fare è camminare per le strade di Madrid, Berlino o Bruxelles. Bruxelles, la capitale dell’Europa, ove la Rete Europea delle Donne Migranti ha la propria sede principale, è una delle molte città europee dove la prostituzione è legalizzata. Se partendo dal suo “quartiere europeo”, l’area di lusso che ospita la clientela internazionale delle “escort di alto livello, andate verso Molenbeek – il famigerato “quartiere terrorista” dove vivono i migranti impoveriti e segregati per etnia – passerete per il distretto chiamato Alhambra. Là noterete gli uomini che si affrettano per le strade, tenendo bassi i volti. Evitano il contatto con gli occhi degli altri per non tradire la ragione per cui frequentano Alhambra: l’accesso alle donne che si prostituiscono. Molte di queste donne provengono delle ex colonie europee, da ciò che spesso è chiamato Terzo Mondo, o dalle più povere regioni dell’Europa stessa. Le donne che vengono dalla Russia, come me, sono pure abbondanti. Nel mentre le latino-americane, le africane e le asiatiche del sud-est sono facili da individuare sulle strade, le donne dell’est europeo sono difficili da raggiungere, poiché i loro “manager” le sorvegliano strettamente e le tengono distanti dagli spazi pubblici.

Si suppone che noi chiamiamo queste donne “sex workers”, ma la maggioranza di esse sarebbe sorpresa da tale descrizione occidentale e neoliberista di ciò che fanno. Questo perché la maggioranza delle donne migranti sopravvive alla prostituzione nel modo in cui si sopravvive a una carestia, a un disastro naturale o a una guerra. Non lavorano in situazioni simili. Un gran numero di queste donne possiede diplomi e abilità che vorrebbe usare in quelle che l’Unione Europea chiama “economie competenti”, ma le politiche restrittive delle leggi europee sul lavoro e la discriminazione etnica e sessuale nei confronti delle donne non permettono loro di accedere a questi impieghi. Il commercio di sesso, perciò, non è un luogo inusuale per trovare le donne migranti in Europa. Nel mentre alcune di esse sono identificate come vittime di traffico o di sfruttamento sessuale, la maggior parte no. Sulle strade e fuori dalle strade – nei club di spogliarello, nelle saune, nei locali per massaggi, negli alberghi e in appartamenti privati – ci sono migranti femmine che non soddisfano i criteri ufficialmente accettati e non hanno diritto ad alcun sostegno.

Nel 2015, la Commissione Europea riportò che delle 30.000 vittime registrate del traffico nell’Unione Europea in soli tre anni, dal 2010 al 2012, circa il 70% erano vittime di sfruttamento sessuale, con le donne e le minorenni che componevano il 95% di tale cifra. Oltre il 60% delle vittime erano state trafficate internamente da paesi come Romania, Bulgaria e Polonia. Le vittime dall’esterno dell’Unione Europea venivano per lo più da Nigeria, Brasile, Cina, Vietnam e Russia.

Questi sono i numeri ufficiali ottenuti tramite istituzioni ufficiali. Le definizioni del traffico di esseri umani sono notoriamente difficili da applicare e coloro che in prima linea forniscono servizi sanno che gli indicatori del traffico a stento riescono a coprire la gamma di casi in cui si imbattono, tanto le pratiche di sfruttamento, prostituzione e traffico sono radicate. Le grandi organizzazioni pro-diritti umani, inclusa Amnesty International, questo lo sanno bene. Pure, nel maggio 2016, Amnesty ha dato inizio alla sua politica internazionale che sostiene la decriminalizzazione della prostituzione. Tale politica patrocina tenutari di bordelli, magnaccia e compratori di sesso affinché diventino liberi attori nel libero mercato chiamato “lavoro sessuale”. Amnesty dichiara di aver basato la politica di decriminalizzazione su una “estesa consultazione in tutto il mondo”, ma non ha consultato i gruppi per i diritti umani quale è il nostro e che si sarebbe opposto. (…)

Secondo Amnesty, quel che proteggerebbe i “diritti lavorativi delle sex workers” è il garantire, per legge, il diritto dei maschi europei ad essere serviti sessualmente su basi commerciali, senza timore di azione giudiziaria. Amnesty precisa che la loro politica si applica solo a “adulti consenzienti”. Amnesty è contraria alla prostituzione di minori, che definisce stupro. Quel che Amnesty omette è che una volta la ragazza rifugiata sia istruita alla prostituzione, è improbabile arrivi ad avere risorse materiali e psicologiche per fuggire e denunciare i suoi sfruttatori. E’ molto più probabile che sarà condizionata ad accettare il “sex work”: e cioè l’etichetta che l’industria del sesso le ha assegnato. Il “lavoro sessuale” diverrà una parte inevitabile della sua sopravvivenza in Europa. In realtà, la linea netta che la politica di Amnesty traccia tra adulti consenzienti e minori sfruttate non esiste. Quel che esiste è la traiettoria di un individuo vulnerabile in cui l’abuso sessuale diventa normalizzato e si consente alla violenza sessuale.

L’invito di Amnesty alle donne più vulnerabili a acconsentire alla violenza e all’abuso della prostituzione è diventato possibile solo perché molti professionisti l’hanno abilitato. E’ diventato un truismo (Ndt: una cosa assolutamente palese e ovvia), ripetuto da accademici e ong, che la prostituzione sia una forma di impiego. Che il commercio di sesso sia chiamato la più antica professione del mondo è ora non solo politicamente corretto, ma la prospettiva obbligatoria da sostenere se ti curi dei diritti umani. Amnesty e i suoi alleati rassicurano anche tutti dicendo che la prostituzione è una scelta. Ammettono che non si tratta della prima scelta per chi ne ha altre, ma per i più marginalizzati e svantaggiati gruppi di donne è proposta come una via accettabile per uscire dalla povertà. In linea con questa posizione Kenneth Roth, il direttore esecutivo di Human Rights Watch ha dichiarato nel 2015: “Tutti vogliono mettere fine alla povertà, ma nel frattempo perché negare alle donne povere l’opzione del lavoro sessuale volontario?”

E’ anche divenuto largamente accettato dal settore dei diritti umani che a danneggiare le donne nella prostituzione è lo stigma. Anche se sappiamo tutti che è il trauma di sospendere la tua autonomia sessuale che occorre in ogni atto di prostituzione a danneggiare e che è il cliente maschio violento a uccidere. Se cercate fra le donne migranti una “sex worker” uccisa dallo stigma non la troverete mai: ciò che troverete è il compratore di sesso che l’ha assassinata, l’industria del sesso che ha creato l’ambiente atto a far accadere questo e i sostenitori dei diritti umani, come Amnesty, che hanno chiuso un occhio.

Le donne arrivano in Europa a causa di disperato bisogno economico e, in numero sempre crescente, temono per le loro vite. Se lasci la scrivania dove fai le ricerche e parli con le donne migranti – le donne arabe, le donne africane, le donne indiane, le donne che vengono da Filippine, Cina e Russia – la possibilità di trovarne una che descriva la prostituzione come “lavoro” è estremamente bassa. Questo perché il concetto di “sex work” non esiste nelle culture da cui noi proveniamo. Proprio come il resto del vocabolario neoliberista, è stato importato nel resto del mondo dalle economie occidentali capitaliste e spesso incanalato tramite l’aiuto umanitario, la riduzione del danno e i programmi di prevenzione per l’AIDS.

Una di queste economie capitaliste in Europa è la Germania, dove la soddisfazione sessuale maschile, proprio come le cure odontoiatriche, può essere apertamente acquistata. Il modello con cui la Germania regola la prostituzione è derivato dalla decriminalizzazione del commercio di sesso nella sua interezza, seguita dall’implementazione di alcune regole. In questo aperto mercato, i compratori di sesso e i magnaccia non sono riconosciuti ne’ come perpetratori ne’ come sfruttatori. Nel periodo fra il 6 e l’11 novembre 2016 quattro prostitute sono state assassinate in Germania. Sono state assassinate in sex club privati, appartamenti-bordello e in ciò che i tedeschi eufemisticamente chiamano “semoventi dell’amore”, cioè roulotte situate in località remote e non protette, gestite da magnaccia e visitate dai compratori di sesso. Almeno tre delle vittime sono state identificate come donne migranti (da Santo Domingo e dall’Ungheria) e per tutte e quattro i sospetti dell’omicidio sono i loro “clienti” maschi.

Stante l’evidenza schiacciante che la completa decriminalizzazione del commercio di sesso non protegge nessuno eccetto i compratori e i magnaccia, si potrebbe concludere che Amnesty, nel prendere la sua posizione, ha trovato l’analisi politica della discriminazione sessista, razzista e di classe che sostiene la prostituzione troppo difficile da affrontare. Ma la domanda che implora una risposta è questa: non sanno nemmeno cosa il sesso è? E’ improbabile che tutti i membri del consiglio direttivo di Amnesty siano casti; di sicuro, almeno alcuni di loro hanno fatto sesso e in tal caso devono sapere che il sesso accade quando ambo le parti coinvolte lo vogliono. Quando una delle due parti non vuole fare sesso, ciò che accade si chiama “esperienza sessuale indesiderata” il che, in termini legali, è molestia sessuale, abuso sessuale e stupro.

Questa violenza sessuale è ciò che la prostituzione è, e non fa alcuna differenza se lei “acconsente”. Il consenso, secondo le leggi europee, dev’essere dato volontariamente come risultato del libero arbitrio di una persona valutato nel contesto delle circostanze in cui si trova (Consiglio d’Europa, 2011). Il consenso non dovrebbe essere il risultato del privilegio sessuale maschile, che è parte delle norme patriarcali. Un atto sessuale non desiderato non diventa un’esperienza accettabile perché l’industria del sesso dice che è così. Non c’è alcun principio morale che lo rende tollerabile per chi è povera, disoccupata, priva di documenti, per chi fugge da una guerra o da un partner violento. (…)

Decriminalizzare la prostituzione normalizza le diseguaglianze di sesso, etnia e classe già incancrenite profondamente nelle società europee e di cui le donne soffrono già in maniera sproporzionata. Aumenta le barriere legali per ottenere impieghi dignitosi che la maggioranza delle donne migranti deve già affrontare, ignorando i loro talenti e derubandole di opportunità economiche. Quel che è peggio, strappa via ciò che persino le più povere e le più svantaggiate donne migranti portano con sé quando si imbarcano in viaggi pericolosi diretti in Europa: il nostro convincimento che una vita libera dalla violenza è possibile e la nostra determinazione a lottare per essa.

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(da un più ampio articolo di Jenny Lý per Loa, 7 dicembre 2016, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Il culto vietnamita delle Dee Madri ha ricevuto riconoscimento dell’UNESCO come “eredità culturale intangibile dell’umanità”. L’annuncio ufficiale è stato dato durante l’11^ “Convenzione per la salvaguardia delle eredità culturali intangibili” tenutasi a Addis Abeba, in Etiopia, dal 28 novembre al 2 dicembre 2016.

La notizia ha prodotto festeggiamenti in Vietnam, in particolare fra la comunità degli aderenti all’antico culto e fra gli studiosi e le studiose che per anni avevano chiesto tale riconoscimento all’UNESCO. Il governo del Vietnam aveva sottoposto ufficialmente il dossier sulle “pratiche relative alla fede vietnamita nelle Dee Madri dei Tre Regni” nel 2015.

festival-ago-2016

Il culto delle Dee madri esprime la necessità spirituale del popolo di onorare gli antenati che proteggono la prosperità della vita ed esprime devozione per la figura materna, il che riflette l’antico sistema matriarcale delle società vietnamite. L’UNESCO attesta che il culto “fornisce basi per le relazioni sociali collegando i membri delle comunità che vi partecipano” e che contribuisce “all’apprezzamento delle donne e dei loro ruoli sociali”.

Le Dee Madri dei Tre Regni rappresentano divinità del cielo, dell’acqua e delle montagne e foreste, e sono state associate sia a figure storiche e reali sia a figure mitologiche.

La pratica chiave della devozione alle Dee Madri è il lên đồng, un rituale in cui una persona va in trance e assume l’identità e l’abbigliamento di una divinità particolare, danzando per onorare le tutte le Dee. Questo rituale si tiene giornalmente nelle cerimonie locali così come nei più grandi festival e nei pellegrinaggi, durante tutto l’anno.

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(Kim Chi tiene un rituale lên đồng per la delegazione del suo tempio, su una barca, durante il festival di Điện Hòn Chén)

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(“Sonnet: Alive”, di Sahra Vang Nguyen, poeta e scrittrice contemporanea – nell’immagine – trad. Maria G. Di Rienzo.)

sahra

Sonetto: Viva

I nostri corpi sono materia solo per momenti

Esplorano profondità che oltrepassano di gran lunga la metafisica

Cuori e anime gentili sono riempiti di grande potenza

Una vita e una morte oltre la tradizione

Allora, quando moriamo, cessiamo di esistere?

I nostri spiriti si sollevano, dolci ossa sotto l’erba,

la massa si scioglie, ombre inframezzate alla bruma

Smettiamo di parlare a coloro che sono andati?

Se la vita oggi è energia racchiusa

i nostri corpi servono come capsule temporali ticchettanti

Quindi, dobbiamo aspettare sino a che le sagome diventino scarti

prima di scegliere di danzare senza le regole?

Intrappoliamo noi stessi all’interno di queste tenere membra,

ma non c’è bisogno che la morte venga da noi per volare a nostro capriccio

spirit dance

Nel 1980 i genitori di Sahra fuggirono dal Vietnam in una barca. Quando dopo molte vicissitudini furono accettati come migranti negli Stati Uniti, il padre cominciò a lavorare in proprio come posatore di pavimenti e la madre aprì una lavanderia automatica. Da bambina Sahra pensava che le professioni dei suoi genitori non fossero proprio “rispettabili” e si vergognava che sua madre lavasse la biancheria dei suoi compagni di classe. Solo dopo anni capì quale sforzo eccezionale era stato per entrambi improvvisarsi “imprenditori” in un nuovo paese, senza conoscerne la lingua o avere alle spalle un’istruzione adeguata. In questo periodo sta infatti producendo un serie di documentari per NBC News chiamati “Self Starters”, che testimoniano storie simili nella comunità asiatica-americana e mostrano, nelle sue stesse parole “le diversità che riguardano non solo etnia, genere e generazione, ma anche industriosità e talento”. Di recente, Sahra ha aperto con tre amiche a Brooklyn un piccolo ristorante, che si chiama “La cucina vietnamita di Lucy”.

Sahra si arrabbia quando “della gente pensa di essere migliore di me. Perché nessuno è migliore di me e io non sono migliore di nessun altro. Scopi, realizzazioni, desideri sono tutti relativi all’unicità di ogni individuo. La vita non è lineare. Perciò concentriamoci meno su quel che la persona accanto a noi ha o sta facendo e concentriamoci di più sul sentiero che solo noi possiamo prendere e sulle cose che solo noi possiamo offrire al mondo.”

E’ anche un po’ risentita con l’industria dell’abbigliamento femminile, perché non solo gli abiti per donne sono sempre più “ristretti e sottili” ma “ci deprivano di funzionalità come le tasche”. Ha ragione da vendere, è una vita che non avere tasche fa incazzare anche me (ma non riuscirete a farmi comprare le vostre borsette orrende e costose, o cialtronissimi designer. Piuttosto tengo chiavi e borsellino fra i denti.). Maria G. Di Rienzo

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Apri la porta al sole

(“Swell”, di Hoa Nguyen, poeta contemporanea, trad. Maria G. Di Rienzo. Hoa Nguyen è nata a Vĩnh Long in Vietnam nel 1967, attualmente vive a Toronto in Canada. Gli spazi fra le parole sono parte integrante dei suoi versi.)

Hoa

Rigonfiamento   tu puoi sognare di più   la terra

si gonfia   semi scoppiano

Io lancio un’occhiata al premio

occhi chiusi nel guardare

Non è tempo di fuggire

Indosso scarpe morbide

e c’è voluto molto tempo

per camminare sino a qui

Gli insetti mi spingono leggermente nei sogni

come le cinque api da miele più

quella strana

Sguardi di ape intelligente che ronza

per dire   Lasciami uscire   La finta

luce ci confonde

confonde la fonte

L’ape operaia mi ha bisbigliato sul collo

direttamente   io non ho spento

le lampade in modo abbastanza veloce

Per favore

   apri solo la porta

al sole

dipinto di maggie taylor

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(tratto da: “Part of Memory is Forgetting”, un più ampio articolo di Cara Van Le, scrittrice e attivista, 2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

guerra vietnam

Non sono quel che si dice “una farfalla sociale”. Amo il calore del mio bozzolo. E’ stato solo dopo un anno di inviti schivati ed un giorno di insegnamento particolarmente difficile che ho accettato di uscire con i miei colleghi. Siamo arrivati al bar, abbiamo messo le tavole vicine, spostato le sedie, e prima che potessi rendermene conto ero bloccata nel mezzo, impossibilitata ad andarmene senza incastrare le gambe della mia sedia con quelle di qualcun altro.

Ci siamo scambiati le piacevolezze usuali. Lavoro, tempo atmosferico, bevande preferite. E preciso come un orologio, quel che mi aspettavo accadde.

Allora”, disse lei spostando lo sguardo dal suo cocktail alla mia faccia, “Qual è… la tua stirpe?” Gli occhi della mia collega si aprirono e le maniche della sua camicia sventolarono in alto e attorno, riflettendo un vago periodo di tempo a cui voleva io risalissi.

Il mio impulso iniziale sarebbe stato quello di sfidarla, ma mi sono trattenuta, perché era una una mia superiore e perché, tutto sommato, sembrava star scegliendo con cautela le sue parole. Più di tutto, sembrava nervosa (a volte mi piace innervosire la gente bianca). Perciò stavo per rispondere gentilmente, ma prima che potessi spiccicare una sola parola, un’altra collega mi interruppe.

E’ una Vietcong.”, disse, buttando giù un lungo sorso di birra. E rise. Io dissi con fermezza che non lo trovavo divertente, il che la fece ridere ancora di più. Ascoltai la sua risata echeggiare nel bar. Era come se qualcosa della mia faccia fosse un indovinello, uno scherzo, e “Vietcong” era la battuta finale. (…)

Avrei potuto parlare ai miei colleghi di come i miei genitori furono entrambi dei rifugiati, e delle decisioni su vita e morte che hanno dovuto prendere ad età inferiori alla nostra. Avrei potuto parlare del massacro di My Lai, dello stupro sistematico di interi villaggi che ha significato meno di un “tanto per dire” in una discussione. Agent Orange, pelle bruciata, amputati da mine, e tutti i bambini morti. Ma non avrei dato loro soddisfazione con le immagini gratuite di una guerra che non ho conosciuto.

La violenza, dopo tutto, è scritta nel lessico di ogni giorno: Queste patatine sono una bomba. Ho fottuto il test. Ho fatto fuori quell’intervista di lavoro. Io parlo la stessa lingua, in modo fluente. E anche se non ero viva durante la guerra, l’ho vissuta da quando sono nata.

Parte della memoria è il dimenticare. In vietnamita, non c’è coniugazione del verbo; capiamo se una frase si situa nel passato dal contesto delle parole che ci sono in essa. Io ho tenuto l’orecchio sul pavimento della nostra casa per anni, ascoltando aneddoti della storia della mia famiglia. Ma è di recente che ho compreso come il più grande indizio fosse il silenzio.

Parte della memoria è il dimenticare. I libri statunitensi di storia celebrano gli anni ’60 e ’70 per il movimento pacifista e gli avanzamenti nel giornalismo e nella letteratura, e i critici cinematografici salutano questo periodo come un rinascimento artistico, cambiando i modi in cui le storie sono raccontate, storie che riflettono l’ambiguità provata dagli americani nel combattere in guerra.

Fa’ che sia l’altro povero bastardo a morire. Good morning, Vietnam. Cinque “dollali”. L’orrore, l’orrore.

E ora suppongo che il definirmi Vietcong da parte della mia collega possa essere una battuta, ma una battuta sul bombardare e mutilare un paese già spezzato, e poi chiamare questo arte.

Al bar, lascio che la conversazione fluttui sopra di me. Hanno già dato inizio a un nuovo soggetto di discussione, sport, viaggi, o minuzie di lavoro. Mentre altra gente arrivava, il tutto si è trasformato in una gara urlata di esperienze di vita vissuta.

Ho partecipato al minimo livello e dato risposte brevi alle loro domande. Ho pensato che era inutile dare risposte a gente che sembrava averle già.

Ho preso l’autobus verso casa, mi sono infagottata nel ricordo della notte, e ho cercato il linguaggio che avrei usato per scriverla.

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Ho Xuan Huong (1772-1822), vietnamita, è verosimilmente l’autrice delle composizioni che seguono. Poiché la raccolta dei suoi versi, preservati per lo più grazie alla tradizione orale, è iniziata circa settant’anni dopo la sua scomparsa, è possibile che fra le 139 poesie – la sua intera opera – ve ne sia qualcuna di mano diversa.

ho xuan huong

Di lei sappiamo pochissimo: forse era una concubina, forse ha avuto diversi amanti, forse era la moglie di un magistrato giustiziato per corruzione, forse è stata coinvolta in affari politici… Di certo c’è che era istruita, di mentalità indipendente, e scriveva nella propria lingua invece che nell’obbligatorio cinese. Per lungo tempo, sino agli anni ’90 dello scorso secolo, l’opera di Ho Xuan Huong è stata tenuta lontana dalle scuole perché, si dice, era troppo “sboccata”. Le prime due poesie che vi propongo sembrano avvalorare questa ipotesi:

Come un frutto sull’albero

(versione riportata da Nguyen Ngoc Bich, traduzione mia)

Sono come una giaca (1) sull’albero.

Per assaporarmi devi penetrare alla svelta, mentre sono fresca: (2)

la buccia rugosa, la polpa densa, sì.

Ma oh, ti metto in guarda dal solo toccare –

il ricco succo fluirà e ti macchierà le mani.

(1) E’ il frutto del giaco, chiamato comunemente in italiano anche catala o con il termine inglese jackfruit.

(2) Il frutto a volte viene perforato per essere portato a maturazione, lasciando fluire il lattice che è assai copioso.

L’eunuco

(versione riportata da Linh Dinh, traduzione mia)

Quale baruffa fra una dozzina di comari

ha fatto sì che gettassero via il tuo cosino dell’amore?

Al diavolo quel topo che squittisce.

Al diavolo quella vespa che ronza.

Chi sa se è soffice o pieno di protuberanze?

Chi sa se è stelo o bocciolo?

Ma comunque sia, deve andar bene.

A te, puttana non ti chiameranno mai.

Già questo verso finale mette in guardia su quale potrebbe essere stato il vero “pericolo” nell’ammettere la poeta nel canone accademico. Adesso leggete le altre due:

Checché il mondo ne pensi

(su una gravidanza inaspettata: versione riportata da Linh Dinh, traduzione mia)

Il mio accettare ha dato come frutto questo guaio.

Non capisci la mia angoscia?

Anche se non era un’unione decisa in cielo

c’è una pennellata di traverso al salice. (3)

E’ un legame che dura cent’anni, ricordi?

Questo fardello d’amore, intendo, che mi porto appresso.

Checché il mondo ne pensi,

avere un figlio senza avere un marito

è una prodezza molto bella.

(3) La parola vietnamita per “cielo” deriva dal cinese. Il carattere cinese che indica il cielo: con una pennellata diversa diventa: e cioè “marito”. Il salice rappresenta classicamente la donna.

Se lo avessi saputo

(sulla poligamia: versione riportata da John Balaban, traduzione mia)

Una sta sotto la coperta, l’altra congela.

Al diavolo, padre, con questa condivisione del marito.

Una volta ogni tanto, forse due volte al mese:

mi fa lo stesso non averlo.

Il proverbio dice di barattare pugni con riso,

ma il riso è ammuffito.

Avessi saputo che le cose sarebbero andate così,

mi sarei sistemata per bene da sola.

Forse, la cosa davvero disturbante non era tanto l’idea di una donna che sembra non avere alcun tabù sul sesso, ma quella di una donna che in effetti contestava la propria posizione “subordinata” con disarmante, chiarissima naturalezza. Ho Xuan Huong, onore a te e alla tua vita e ai tuoi versi. Ti penso con amore. Maria G. Di Rienzo

Festa per la dea - Vietnam

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L’età delle bambine vendute e trafficate a scopo sessuale diventa sempre più bassa, il loro numero sempre più alto. Degli attuali 21 milioni di persone costrette al lavoro forzato – e cioè che per coercizione o inganno svolgono un lavoro che non possono lasciare – 4 milioni e mezzo sono bambine e donne vittime di sfruttamento sessuale. (Agenzia Donne NU, ILO-International Labour Organization).

In India, l’età media delle prostitute nei distretti “a luce rossa” va dai 9 ai 13 anni. (Apne Aap Women Worldwide)

Circa metà delle violenze sessuali in tutto il mondo sono dirette a femmine minori di 15 anni: quindi, si abusa di circa 6.000 bambine al giorno. (Unicef, Right to Education Project)

Una delle ragioni avanzate da vari commentatori per spiegare questi dati è “l’effetto della crisi economica nei paesi poveri”. Sicuramente la miseria gioca un ruolo importante in tali faccende. Ma la vicenda di Minh Dang, statunitense di origine vietnamita, suggerisce che le cause principali sono davvero altre e che molto di quel che c’è scritto all’inizio di questo articolo accade nelle nostre case o in quelle a noi vicine.

 Minh Dang

Minh Dang, oggi 28enne, è un’attivista contro il traffico di esseri umani dell’ong “Don’t sell bodies” (“Non vendete corpi umani”). Suo padre ha cominciato ad abusare di lei quando di anni ne aveva tre. Quando ne ebbe dieci, fu portata a “lavorare” in un bordello: dove, se non doveva andare a scuola, poteva essere lasciata per settimane intere. Allevata nel culto di dover servire i suoi genitori, per lungo tempo Minh ha pensato che la prostituzione fosse uno dei suoi compiti. “Mia madre metteva annunci in vietnamita su giornali e riviste. Mio padre mi portava in quelli che erano caffè di facciata e bordelli nel retro. Non ero l’unica bambina ad essere venduta, in quei posti.”

I genitori di Minh Dang non erano miserabili, ma grazie alla continua vendita della figlia se la sono passata ancor meglio, e la madre ha aperto un salone per la cura delle unghie. Più che la povertà, qui hanno lavorato attitudini patriarcali, sessismo, avidità e insensibilità.

Minh era una studentessa eccellente e manteneva il segreto in modo quasi perfetto: “Due delle mie insegnanti, alle medie, si accorsero in momenti diversi che c’era qualcosa che non andava. Ma non riuscirono a collegare questo “qualcosa” allo sfruttamento sessuale, perché io ero diversa dallo stereotipo della ragazzina abusata.” Quando ebbe 18 anni, e veniva ancora venduta regolarmente, Minh tagliò di netto ogni contatto con i suoi genitori: “Dissi loro che se mi avessero contattata ancora avrei chiamato la polizia.”

Ma restava un mucchio di lavoro da fare, come Minh ricorda, per sentirsi di nuovo umana. “Quando mi prostituivano, mi trattavano come un animale in gabbia allo zoo: i miei movimenti erano limitati e controllati, l’ambiente mi era estraneo, ed ero isolata dalle altre della mia specie. Ero una creatura esotica che la gente poteva guardare e toccare se pagava i miei proprietari, se pagava per avere il privilegio di usare il mio corpo per divertirsi. C’è anche un’altra metafora che mi viene sempre in mente: per lungo tempo ho pensato di essere un’aliena. Ero solo somigliante ad un essere umano. Gli occhi, le braccia, le gambe, la forma del corpo… era tutto simile, ma io non vivevo come un essere umano, non pensavo come un essere umano.

La maggior parte del mio lavoro di guarigione è consistita nel riconnettermi alla mia umanità e all’umanità altrui. Ho dovuto imparare o re-imparare che ero umana, lo ero sempre stata, e che quelli attorno a me, persino quelli che mi hanno ferito in modo così profondo, erano pure umani. Quando avete a che fare con le sopravvissute all’abuso sessuale, che sono state trattate come oggetti, dovete ricordare che sulla loro umanità si è, al minimo, sputato. Dovete ricordare che la relazione base di queste persone con “chi” loro sono e con quello che possono aspettarsi dagli altri, e con ciò che è possibile in questo mondo è stata danneggiata. Per cui, assicuratevi di trattarle da esseri umani. Non separatevi da loro. Quando ascoltate le loro storie non pensate, ad esempio: “Quel che ho passato io è niente, al confronto. I miei traumi sono minori.” Ciò non vi aiuta a vedere la nostra comune umanità. Trovate le vostre personali esperienze con la disumanizzazione ed esaminatele: in questo modo svilupperete quell’empatia che vi sosterrà e vi renderà quindi capaci di sostenere le vittime.

Come amate voi stessi/e? Io non ho bisogno mi amiate in modo differente. Io come sopravvissuta non sono diversa da voi. Voi non siete diversi/e da me. Trovate una via per connettervi alle sopravvissute: non c’è necessità di aver fatto esperienza delle medesime cose per immaginare cos’hanno provato. Voi potete connettervi a me anche se non capite. La maggioranza delle persone che sopravvive allo sfruttamento sessuale non si aspetta che lo facciate: desiderano in primo luogo che le trattiate come esseri umani. E un’ultima cosa: “sopravvissute” non è un titolo che definisce interamente ciò che una persona è. Le sopravvissute hanno interessi e abilità, colori preferiti e animaletti da compagnia, speranze e sogni, sofferenze e rimpianti. Proprio come ciascuno/a di voi, sono persone complesse e sfaccettate.”

Minh ha usato un’altra similitudine per descrivere il suo cammino di guarigione. Dice che è stato come imparare una “nuova canzone”, con un testo diverso che rimpiazzasse la “vecchia canzone”, quella che aveva sentito sino alla nausea durante 15 anni di violenze sessuali: “Il mio nuovo testo parla di libertà, di speranza e di amore.” Maria G. Di Rienzo

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