Nel 1999, con la risoluzione 54/120, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite accolse la raccomandazione fatta dalla Conferenza mondiale dei ministri responsabile per la gioventù (Lisbona, Portogallo, 8-12 agosto 1998) e dichiarò il 12 agosto Giorno Internazionale della Gioventù. Dedicato ogni anno a un tema differente – costruzione di pace, dialogo, sostenibilità, lavoro, cambiamento climatico ecc. – incoraggia i giovani a costruirvi intorno eventi e a narrare pubblicamente le loro storie al proposito. Il tema del 2018 è stato “Spazi sicuri per la gioventù”: “I giovani hanno bisogno di spazi sicuri dove poter radunarsi, impegnarsi in attività relative ai loro diversi bisogni e interessi, partecipare al processo decisionale ed esprimere liberamente se stessi. Ci sono molti tipi di spazi, ma quelli sicuri sono quelli che garantiscono la dignità e la sicurezza della gioventù.”
Il brano che segue è tratto dalla testimonianza di Kania Mamonto (in immagine), 25enne indonesiana, resa a Angela Singh e Valeriia Voshchevska in occasione del Giorno Internazionale della Gioventù del 2018, per Amnesty International.
“Almeno mezzo milione di persone furono massacrate durante la tragedia del 1965 (1) in Indonesia e il mio lavoro è documentare le storie dei sopravvissuti. Organizzo gruppi comunitari di sopravvissuti e faccio da ponte fra le generazioni. E’ importante che le persone giovani comprendano il passato del nostro paese. Come attivista per i diritti umani, io non voglio vedere ingiustizie. Voglio lavorare con altri, condividere conoscenza e intraprendere azioni, ma essere un’attivista per i diritti umani in Indonesia non è facile.
Lo scorso aprile, partecipavo a un evento culturale assieme a numerosi altri difensori dei diritti umani. Ero la Maestra di Cerimonie (ndt. presentava e conduceva le attività). Un gruppo violento ci ha costretti a barricarci nell’edificio per otto ore di seguito. E’ stato terrificante.
Più di 200 persone erano intrappolate, bambini inclusi. Gli assalitori hanno usato sassi per spaccare le finestre, ci hanno sparato contro e abbiamo rischiato di essere battuti. Dopo il nostro rilascio, la mia faccia era spalmata su tutti i media.
L’intero incidente è stato assai traumatico. Lavoro molto duramente per rendere possibile il cambiamento, ma non è così che la cosa viene percepita all’esterno. Ho imparato a maneggiare quel che è accaduto e voglio istruire la gente sul lavoro che faccio. Se per alcune persone il mio lavoro è un problema, voglio che ne parlino con me in una discussione aperta.
Lottare per ciò in cui credi non ti rende una cattiva persona. Noi vogliamo giustizia ed eguaglianza.”
Maria G. Di Rienzo
(1) Si tratta dell’operato delle “squadre della morte” dell’esercito durante la dittatura di Suharto: omicidi di massa, torture, stupri, lavoro forzato – il tutto diretto a quanti fossero sospettati di essere comunisti o comunque dissidenti. Nel 2016 il Tribunale internazionale dell’Aja non solo ha condannato gli eventi del 1965 come “crimini contro l’umanità”, ma ha indicato con chiarezza i complici esterni di tali crimini: i governi dell’epoca di Stati Uniti d’America, Gran Bretagna e Australia. Secondo i giudici, gli Usa sostennero l’esercito indonesiano “ben sapendo che era impegnato in un programma di omicidi di massa” e la Gran Bretagna e l’Australia ripeterono e diffusero la propaganda di tale esercito, persino dopo che “era palesemente evidente come omicidi e altri crimini contro l’umanità fossero in corso”.
Se all’annuncio del pronunciamento del Tribunale l’Indonesia fece sapere tramite il suo Ministro per la Sicurezza che nessuno poteva interferire negli affari del paese e che tale paese si sarebbe occupato della questione a modo suo, le tre nazioni summenzionate non commentarono: inoltre, sebbene invitate in precedenza a partecipare alle indagini, snobbarono semplicemente i giudici e non si presentarono.