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(“unhaunted” – minuscolo nell’originale, come per i versi che seguiranno – di Jody Chan, poeta, scrittrice, attivista e organizzatrice contemporanea che vive a Toronto in Canada. E’ anche membro delle Raging Asian Womxn Taiko Drummers (RAW): “taiko” è una forma di percussione giapponese, tradizionalmente maschile, che usa grandi tamburi; il gruppo di Jody è un collettivo di donne che “esiste come responso critico e sfida all’oppressione sia sistemica sia interiorizzata”. Nel febbraio di quest’anno, “unhaunted” ha vinto il primo premio per la poesia al concorso “Writing in the Margins – Scrivere nei margini”. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

RAW in action

NON TORMENTATA

dillo alla neve.

dillo alla pallottola ancora calda. dillo

al tunnel della metropolitana quando pensi

di saltare verso la luce in avvicinamento.

il futuro puzza di ripetizione e tu hai paura

di impegnarti. prima di dormire, dillo al ventre vuoto della tua stanza da letto.

quando non riesci a leggere il linguaggio sulla tomba di tua madre

dillo. nei flashback lui picchietta in te, una baionetta attraverso la pietra

ma ti ha lasciato le tue ossa, un amo a cui appendere ogni

frastagliata memoria. il tuo trono calloso. la tua prima

e ultima casa. per anni ti sei cancellata

dalle fotografie, quanto ti ricordano

di lui e di ciò che lui voleva e di ciò che lui ha rubato

e del corpo di lei e il corpo di lei e il corpo di lei

che lascia sul pavimento del corridoio venature di capelli e sangue.

dì che il tuo lignaggio è una lunga treccia di donne, che si scioglie

dalla sua mano, dalla mano di suo padre, di suo nonno.

sradicare un alberello. lucidare il fucile.

strappare la pelle di cotone di un vestito.

tu porti i loro nomi come pesanti vesti cerimoniali. dillo.

legati attorno alla vita un nastro bianco. i rammendi

e gli squarci della storia. hai appreso la violenza come il più dolce degli amori

ma hai appreso dalle persone sbagliate.

lasci cadere la tua voce nell’oceano e lei continua

a precipitare. un ruggito rosso, un rumore di battaglia, la processione di volti

che memorizzi di notte come se la perdita fosse sufficiente a farteli amare

e lo è. una volta, tu e tua madre avete giaciuto da sole, a due piani d’ospedale

di distanza mentre lei smetteva di respirare. una volta, hai cucito il silenzio

nella tua pelle, ma ora la stoffa si sta disfacendo all’indietro.

ti stai piegando lungo il lento arco del battito di un tamburo

largo generazioni. un giorno alla volta. una singola stella, che ruota.

le tue dita, le dita di tua madre, di tua nonna.

sigillare l’impasto. togliere a colpetti il dentifricio dallo specchio.

strattonare una canzone fuori dal polso di un amante.

dì il secreto. dillo al cielo che non ti tormenta.

dì il tuo desiderio più affamato dì oggi

mi arrendo al vivere. dì grazia.

dì rabbia. dì acqua ed elegia.

Io ricordo. Io ricordo. Io ricordo te.

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China 2009

“La Dabu, la matriarca che guida la famiglia Mosuo. Questo ruolo chiave è tenuto dalle donne più anziane fra i parenti. Lei è quella da cui discendono nome e proprietà, maneggia il danaro e organizza le cerimonie religiose.”

Credo sia una buona cosa il riuscire ancora a interessarsi di storia, arte, fotografia ecc. in questo momento così pieno di incertezza e sofferenza: il vostro interesse per “Grande cuori, mani forti” (28 febbraio u.s.) merita dunque una risposta.

Dove sono le altre società matriarcali? (Ovunque.) Sono tutte di antica origine? (No.) Raffigurano semplicemente l’oppressione di genere rovesciata? (Niente di più lontano dalla realtà.) Andate in miniera, allora, e poi vediamo (Questo è lo scemo di turno: adesso gli spiego tutto anche se è probabilmente inutile, così – in caso capisca qualcosa – almeno può uscire dalla garitta dove sta di vedetta contro l’invasione “femminazista” e andare a casa).

Il tratto comune a tutte le società matriarcali è che i figli/le figlie sono primariamente connessi alla madre: portano il suo nome e/o vivono nella casa del suo clan anche quando raggiungono l’età adulta. Spesso eredità e beni passano da madre a figlia. Molte società matriarcali sono agricole, laiche, costruite in modo orizzontale e non gerarchico, basate sull’eguaglianza di genere. In quelle ancora esistenti le donne giocano un ruolo centrale sul piano sociale, economico e (non sempre) politico.

La fotografa cecoslovacca-algerina Nadia Ferroukhi (le immagini qui presenti sono particolari di sue istantanee) ne ha girate parecchie e ha dato testimonianza delle sue esperienze qui:

http://nadia-ferroukhi.com/v4/sets/matriarcat/

Si tratta della serie “Nel Nome della Madre”, a cui ha dato un contributo significativo l’antropologa, etnologa e femminista francese Françoise Héritier (1933-2017).

Nadia ha vissuto con i Mosuo in Cina, i Tuareg in Algeria, i Minangkabau in Indonesia e i Navajo negli Usa – che sono le realtà di segno matriarcale più note, ma ha trovato società simili in Kenya, in Guinea-Bissau, nelle Comore, in Messico. Ritrarre le comunità in modo congruo e dettagliato non è stato facilissimo, spiega la fotografa: “La gente si aspetta da questo risultati spettacolari. Ma in effetti io ho fotografato la vita quotidiana.” Una vita quotidiana lontana dagli stereotipi e dai pregiudizi, in cui un’organizzazione sociale dà valore a ogni suo membro.

Riportare e tradurre tutto il lavoro di Nadia renderebbe questo articolo così lungo da divenire faticoso, perciò ho scelto degli “assaggi” che si accordano al mio incipit.

Comoros 2017

“Una giovane sposa sull’isola di Grande Comore. Dopo il matrimonio, il marito si trasferisce nella casa costruita per lei dalla sua famiglia, dove è considerato un ospite del clan matrilineare.”

NUOVO DI ZECCA:

E’ il villaggio di Tumai in Kenya, nato nel 2001 per fornire rifugio alle donne della tribù Samburu che erano state vittime di violenza domestica / violenza di genere. Simile a Umoja e a Jinwar

(https://lunanuvola.wordpress.com/2019/03/01/jinwar/) – la fondatrice Chili viene in effetti da Umoja – accoglie le divorziate, ha messo fuorilegge le mutilazioni genitali e non ammette gli uomini sopra i 16 anni d’età. Tumai è completamente autosufficiente. Tutte le decisioni sono prese per voto di maggioranza fra le donne, che allevano capre, costruiscono da sole le loro case, vanno a caccia se serve e tengono rituali sacri (allevamento a parte, le altre attività non sarebbero loro permesse in circostanze “normali”).

DIFFERENTI, NON SPECULARI:

Guinea-Bissau – “Lo stile di vita negli arcipelaghi, in particolare sull’isola di Canhabaque (3.500 persone) è stato scarsamente influenzato, quando per nulla del tutto, dalla civiltà moderna. Qui, le case sono di proprietà delle donne e sono gli uomini a trasferirsi dalle loro mogli. Sebbene il padre passi il suo cognome ai figli, è la madre che sceglie il primo nome ed è al suo clan che essi sono affiliati. L’isola è governata da una regina. C’è anche un re (che non è il marito della regina) ma il suo ruolo è limitato: è un semplice portavoce. Ogni villaggio è amministrato da un consiglio di donne, elette a vita.”

Messico – “Juchitán, una città di 78.000 abitanti nello stato messicano di Oaxaca è il luogo dove è nata la madre della pittrice Frida Kahlo. Durante i secoli, uomini e donne hanno sviluppato forme chiaramente identificate di autonomia. Le donne maneggiano il commercio, l’organizzazione di festival, la casa e la strada. Agricoltura, pesca e politica sono responsabilità degli uomini. Questo è uno dei pochi luoghi in Messico dove la lingua e i dialetti Zapotec sono ancora parlati. Usato negli scambi fra donne del vicinato e donne di passaggio, questo linguaggio ha costruito fra le donne una notevole solidarietà. Nome, casa e eredità si trasmettono in linea femminile. Perciò, la nascita di una figlia è fonte di grande gioia.”

Indonesia “La più grande società matrilineare al mondo, composta dai Minangkabau, si trova sulle colline della costa occidentale di Sumatra in Indonesia. Secondo il loro sistema sociale, tutte le proprietà ereditarie passano da madre a figlia. Il padre biologico non è tutore del bambino; è il mamak, il più anziano fra gli zii materni, ad assumere tale ruolo. Durante la cerimonia matrimoniale, la moglie va a prendere il marito nella casa di lui, accompagnata dalle donne della sua famiglia. L’adat, o “legge ordinaria”, determina una serie di regole tradizionali non scritte su questioni matrimoniali e proprietarie. In accordo a queste regole, qualora vi sia un divorzio il marito deve lasciare la casa e la donna mantiene la custodia dei figli e l’abitazione.”

QUESTE IN MINIERA CI VANNO GIA’:

Stati Uniti d’America – “La vita sociale della nazione Navajo è organizzata attorno alle donne, secondo un sistema matrilineare in cui titoli, nomi e proprietà si trasmettono in linea femminile. Quando una ragazza Navajo raggiunge la pubertà deve passare attraverso la Kinaaldá, una cerimonia di quattro giorni che segna il suo passaggio dall’infanzia all’età adulta. Questa cerimonia è collegata al mito Navajo della Donna Cangiante, la prima donna sulla Terra in grado di avere bambini. Nella riserva, le donne sono in genere più attive degli uomini. Non è insolito per loro tornare a studiare tardi durante le loro vite, persino dopo aver avuto figli.”

Usa 2011

Queste donne Navajo lavorano in una miniera di carbone, assicurandosi in tal modo totale indipendenza finanziaria.

Maria G. Di Rienzo

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biscotto grace lee boggs

“Non puoi cambiare nessuna società sino a che non ti prendi responsabilità per essa, sino a che non vedi te stessa/o come appartenente ad essa e responsabile del suo cambiamento.” – Grace Lee Boggs (1915 – 2015).

Il ritratto della citata filosofa, attivista per i diritti civili, politica, scrittrice e femminista che vedete qui sopra è… un biscotto.

Chi lo ha cucinato è la fornaia Jasmine Cho di Pittsburgh (Usa): ne fa molti di simili, ritraendo figure storiche asiatiche-americane, perché vede ciò come un sistema per favorire la rappresentazione di Storia e identità e crede che i biscotti rendano ogni cosa più gradevole, incluso il discorso su etnie e giustizia sociale che riguarda il suo Paese.

“Con tutto quel che è accaduto e sta ancora accadendo in America è molto facile diventare desensibilizzati. – spiega – I biscotti sono invitanti e sollecitano la curiosità: vedo sempre in chi li incontra l’entusiasmo e il desiderio di saperne di più.”

jasmine al lavoro

(Jasmine Cho al lavoro, foto di Kate Buckley)

L’attivismo “dolce” di Jasmine non si limita alle mostre dei suoi biscotti – che, va detto, riscuotono grande successo; tiene incontri e conferenze, usa la sua cucina artistica come terapia con le vittime di violenza (ed è stata premiata dalla sua città per questo) e ha anche scritto e illustrato un libro per bambini, “Role Models Who Look Like Me: Asian Americans & Pacific Islanders Who Made History”, dove le figure ritratte nei biscotti e le loro vicende sono narrate nel modo consueto.

Si tratta, dice sempre Jasmine, delle storie che a lei sono mancate durante la sua infanzia. Cresciuta a Los Angeles, figlia di un rinomato maestro di taekwondo, era l’unica bambina di origine coreana nella sua comunità: “Mi sentivo una minoranza all’interno di una minoranza. E crescendo come asiatica-americana avevo la sensazione di dover accettare l’invisibilità.”

Una sensazione, come è visibile, che la fornaia-artista ha brillantemente combattuto e sconfitto.

Maria G. Di Rienzo

biscotto afong moy

(Il biscotto ritrae Afong Moy, spesso citata come prima donna cinese a mettere piede negli Stati Uniti.)

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kristina wong

Amavo Kristina Wong prima ancora di sapere chi era Kristina Wong. Solo di recente ho scoperto che era lei ad aver messo online il finto sito di “spose orientali per posta”, divertentissimo, irriverente e politicamente efficace, chiamato www.bigbadchinesemama.com

Le fotografie e le biografie delle “spose” in vendita sono esilaranti, ma la scrittura di Kristina non è da meno:

Domanda – Sono un generoso uomo caucasico che cerca una donna asiatica leale, delicata, dal tono di voce soffice (una sorta di esotica Suzie Wong, come nel film “Il mondo di Suzie Wong”). Mi assicuri che troverò una tale riservata e modesta creatura sul tuo sito?

Risposta di Kristina – E che cazzo. Sei così ossessionato dalla tua nostalgia colonialista di conquista globale e mercificazione culturale da pensare che davvero questo tipo di esseri mitologici esista?

Mettiamo i piedi per terra: le donne che sono esposte sui veri siti di spose-per-posta sono donne del terzo mondo che vengono da famiglie povere e stati sociali bassi, che sono costrette ad entrare nella multimiliardaria industria del sesso, o lavorando nei “sex resort” o essendo vendute in giro come spose ordinate per posta. Le donne su questi siti non stanno fantasticando di amarti, ma cercano matrimoni all’estero per sfuggire alle condizioni usualmente brutali e di semi-schiavitù che la vita come sex worker comporta. Se vuoi un costrutto mitico come Suzie Wong, la cosa più simile che puoi cercare di ottenere, per far scopare il tuo triste uccello, è il folletto che sta alla fine dell’arcobaleno.

Domanda – A dire il vero, io non sono un uomo caucasico, ma un asiatico-americano che crede nell’unità razziale e nell’armonia. Il tuo sito fa sembrare gli asiatici-americani peggiori, anziché migliori. Come puoi rompere stereotipi creandone di nuovi? (Ndt: Uhm… questo sfogo di miopia, intesa come lettura non corretta, devo averlo già sentito, ma non mi sembra più fondato di prima.)

Risposta di Kristina – Allora mi stai suggerendo le tattiche imbranate di un accademico da poltrona. Vuoi che io “danzi” attorno al fatto che la frustrazione e la rabbia profondamente intessute nella nostra comunità non devono ricevere risposta. Tipi come te criticano di continuo le poche persone che nella nostra comunità hanno abbastanza coraggio da parlare apertamente perché non sono “buoni rappresentanti” per gli asiatici-americani. Probabilmente ti lamenti perché “Margaret Cho è una disgrazia per gli asiatici” o perché “Amy Tan fa sembrare cattivi gli uomini asiatici”. Prendine atto, nessun asiatico-americano sarà il perfetto rappresentante di una comunità così diversa e ambigua come la nostra. Se non siamo gli esotici fior di loto, allora siamo i Long Duk Dongs (Ndt.: Long Duk Dong è un personaggio del film “Sixteen Candles” – “Un compleanno da ricordare”, del 1984: un goffo e buffo studente asiatico all’estero). Se non siamo nessuno dei due, allora beviamo troppo e picchiamo le nostre mogli. L’idea che sta dietro al mio sito è beccare l’oppressore nell’atto dell’opprimere ed usare il mio personale senso dell’umorismo come forza politica. Voglio sovvertire le aspettative dello stronzetto che cerca piccoli corpi asiatici nudi mostrandogli l’intera “bruttezza” delle dolci ragazze asiatiche. (…) Il progetto è un successo per me, perché sto portando all’esterno una voce che è genuinamente mia, e a così tante persone. E’ bello sapere che ha creato un sacco di rumore.”

Infatti, la sua autrice è stata persino chiamata a tenere lezioni universitarie su questo lavoro… il quale è solo un “segmento” di Kristina Wong: che è attrice comica (secondo Mother Nature Network “Una delle sette più divertenti eco-comiche”), scrittrice per riviste e quotidiani, attivista femminista per la giustizia sociale. Il suo spettacolo “Wong volò sul nido del cuculo” – sino ad ora il più famoso – affronta di petto gli alti tassi di depressione e suicidio fra le donne asiatiche-americane e dal 2006 è andato in tour oltre 40 volte (è diventato anche un documentario filmato: www.flyingwong.com ) Di recente Kristina era in Uganda, per lavorare con il Fondo per l’empowerment globale delle donne: “Così ho avuto modo di imparare qualcosa sull’economia locale e il microcredito. Una volta arrivata a Gulu, ho saputo che l’organizzazione partner locale del Fondo si chiama Vac-Net ed è stata fondata da Bukenya Muusa: insieme, hanno messo in piedi un Premio Donne per le Pace e un Festival di teatro delle donne – due eventi a cui ho partecipato. (…) Mi sono sentita molto umile nel leggere al pubblico di una donna, Naima Evelyn, che era stata rapita dal Lord’s Resistance Army ed è ritornata dalla foresta, dieci anni e quattro figli dopo, con lo scopo di aiutare altre donne. Ho letto di donne che hanno creato circoli per condividere le esperienze della guerra, di quelle che lavorano con le madri sieropositive in prigione.” Il prossimo lavoro teatrale di Kristina, sulla povertà globale, si chiamerà “The Wong Street Journal”. Maria G. Di Rienzo

kristina e octavia

P.S. Nell’immagine qui sopra, Kristina è con la gatta Octavia, in quel momento sua ospite da un paio di giorni e così ribattezzata – c’è bisogno davvero di dirlo? – in onore di Octavia Butler. La storia dietro la micia è triste (il tentativo di suicidio e il conseguente coma della persona con cui stava prima). Il mio augurio e il mio abbraccio agli umani e alla felina coinvolti.

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(tratto da: “A UN Expert on Women Who Refused to Be Silenced”, un più ampio servizio di Barbara Crossette per Passblue, luglio 2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo)

Nafis Sadik

Negli annali globali delle difensore dei diritti umani delle donne durante l’ultimo mezzo secolo, il nome di Nafis Sadik si situerà sempre molto in alto, sebbene si possa sapere poco di lei fra il vasto pubblico. Come dirigente del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione, Sadik organizzò un disparato assembramento di organizzazioni governative e non governative nel 1994, a Il Cairo, convincendole ad adottare un nuovo – e rivoluzionario – consenso internazionale sui diritti delle donne, in particolare per quel che riguardava il controllo dei loro corpi e delle loro vite personali.

Nafis Sadik, medica pakistana e musulmana, continua questa lotta, particolarmente nei paesi in via di sviluppo, dove l’avanzamento dei diritti delle donne incontra il disdegno ufficiale o la letargia. Ora 83enne, in maggio era a Kuala Lumpur per tenere una delle conferenze nell’incontro organizzato da Women Deliver ( http://www.womendeliver.org ) ed alcuni dei suoi commenti sono stati bruschi, e persino acidi. Dev’essersi chiesta, guardando la dichiarazione finale relativa all’incontro, perché si era presa la briga di fare il viaggio. Vecchie, e ora vuote, promesse continuano ad essere calpestate da almeno due decenni dopo che Il Cairo aveva terminato la conversazione su una nota alta. Il contrattacco sui diritti delle donne ha chiesto sino ad ora un prezzo così grande che le attiviste non vogliono una commemorazione della “Conferenza internazionale sulla popolazione e lo sviluppo” de Il Cairo nel 2014, temendo ulteriori passi indietro.

Nata nel 1929 nell’India coloniale del nord, Sadik fuggì con la propria famiglia nella nuova nazione pakistana nel 1947. Dopo la laurea in medicina cominciò a lavorare come ginecologa e ostetrica: l’aver a che fare di prima mano con le sofferenze di troppe donne pakistane diede a Sadik il suo incrollabile impegno a lungo termine sulla salute riproduttiva. Nel 1970, fu nominata direttrice generale del Consiglio nazionale pakistano per la pianificazione familiare, dove il suo ostinato attivismo a favore delle donne attirò l’attenzione dell’allora Fondo delle Nazioni Unite per le attività popolari, oggi Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione (UNFPA). Ne divenne la direttrice esecutiva nel 1987 e mantenne la posizione sino al 2000.

“Ho deciso che se ho un pulpito dovrei usarlo.”, disse Nafis Sadik alla stampa, all’epoca “Non voglio infastidire i governi, ma desidero essere del tutto franca e voglio dir loro esattamente in che situazione il loro paese si trova.” Miniera di dati, Sadik si è sempre presentata agli incontri con ufficiali di governo armata di statistiche che era impossibile negare. Ma l’atmosfera da “club degli uomini” è sempre stata un problema, anche alle Nazioni Unite: “I governi sono uomini, e controllano le istanze relative alle donne. In ogni conferenza, sin da quella de Il Cairo, salute e diritti sono sempre finiti fra parentesi, il che significa “non c’è accordo”. Io continuavo a chiedere ai delegati: Com’è che mettete sempre le questioni delle donne in queste parentesi? Oh, mi rispondevano, è perché i paesi occidentali sono molto interessati ad esse. Allora, dicevo io, voi invece non siete interessati alle vite e alla salute delle donne del vostro paese? Sì, certo, replicavano loro, ma è un buon attrezzo per mercanteggiare.”

Parlando all’incontro di Kuala Lumpur, Sadik ha esternato la propria esasperazione per il passo lento che il cambiamento ha per milioni di donne: “Continuo a trovare politici e leader di nazioni che pensano ai servizi essenziali per le ragazze e le donne come a una questione di carità, di beneficenza, o da delegare ai servizi sociali. In apparenza credono che la gravidanza e il parto siano delle cose che, semplicemente, succedono. Presumo che, nelle loro teste, la morte e la disabilità delle donne siano anche cose che semplicemente “succedono”, al ritmo di 320.000 decessi di madri l’anno, e un numero molto più alto di infezioni e traumi. Sono riluttanti ad estendere informazioni e servizi alle giovani in materia di Hiv/Aids e naturalmente ottengono l’effetto contrario a quel che dicono di proporsi, perché quel che le ragazze non sanno le uccide. In questo stato di negazione, il matrimonio è visto come un porto sicuro per le giovani e le giovanissime: niente di più sbagliato. Ogni anno, 70.000 adolescenti muoiono di gravidanza o di parto, per la maggior parte in Asia del sud e nell’Africa sub-sahariana. In questi paesi, la mortalità materna è la causa più comune di decesso per le ragazze fra i 15 e i 19 anni.

Sadik racconta che fra chi fa le politiche e i benintenzionati outsider si è sentita dire ripetutamente che le donne nei paesi in via di sviluppo non vogliono la pianificazione familiare, non ne hanno bisogno. “Andate in un villaggio qualsiasi, rispondo loro, e dite di essere un medico e parlate con loro. Potete scommettere con me quel che volete, questo è quel che vi chiederanno: C’è un metodo per prevenire la prossima gravidanza che posso tener nascosto a mio marito, che non devo prendere ogni giorno? Questa è la loro preoccupazione principale in India, in Pakistan, in Africa. Andate nei villaggi, gli dico, e fate la prova.”

In numerose occasioni si è tentato di mettere il bavaglio a questa donna, soprattutto quando parla con onestà di educazione sessuale o di mutilazioni genitali femminili (MGF). A Il Cairo, portò con sé un filmato della CNN che mostrava la brutalità e la prevalenza della pratica in Egitto, cose che gli anfitrioni della Conferenza cercavano di negare: “I fatti sono fatti.”, disse Sadik, e lo proiettò. Negli ultimi anni alle Nazioni Unite veniva attaccata con le accuse di “immischiarsi nella politica” e di “non essere sensibile alla diversità delle culture”. “La sensibilità di chi? – rispondevo – Che mi dite della sensibilità delle donne che stanno morendo? E loro: Lo sai, è meglio non toccare le MGF. Gli africani venivano a dirmi: Noi siamo africani, tu sei un’asiatica, perché stai facendo questo? Io replicavo: Perché lavoro alle Nazioni Unite e ho forti sentimenti sulla questione. Allora dicevano: Dovremmo essere noi ad occuparci della cosa. E io ribattevo: Benissimo, cominciate ad occuparvene.” Grazie alla sua ostinazione, molte organizzazioni non governative e molti governi hanno compiuto passi significativi per mettere fine alla pratica.

“Ha tutto a che fare con il controllo delle donne.”, conclude Nafis Sadik, “Il controllo, nient’altro.”

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Fu l’ultima, e la più persistente, oppositrice alla colonizzazione britannica dell’India: più esattamente, del Punjab di cui era regina. Si tratta della Maharani Jindan Kaur, una donna sikh che, a poco più di vent’anni, organizzò due guerre contro gli inglesi e sebbene sconfitta in entrambe continuò ad essere “una spina nella corona” della regina Vittoria d’Inghilterra. Il film documentario sulla sua vita, diretto da Michael Singh nel 2010, si chiama infatti “La regina ribelle – Una spina nella corona”.

“Prevalentemente,” dice in una sua recensione del film Herpreet Kaur Grewal, giovane sikh nata in Gran Bretagna, “se si parla di donne asiatiche si parla di delitti “d’onore”, matrimoni forzati e violenza domestica: e sono tutte cose serissime contro cui dobbiamo continuare a lottare. Ma non vi è alcun modello che possa ispirare le ragazze nei media, nell’arte o nei libri di storia con cui entrano in contatto, soprattutto se come me sono figlie di migranti. Quando ho visto il film sono rimasta colpita da quanto poco sapevo della mia stessa storia. Sono cresciuta a Londra in una famiglia di sikh del Punjab e sebbene guardassi ai miei genitori, alla loro onestà, alla loro fatica, quando pensavo a cosa volevo essere io costruivo un ibrido fra la detective dei gialli per ragazzi Nancy Drew, l’agente televisiva dell’FBI Dana Scully e Bruce Springsteen. Il tratto comune che io trovo in questi tre personaggi è l’aver abbattuto delle barriere per aprire un mondo di possibilità. Non c’era niente del genere nella mia cultura d’origine, o almeno questo era quel che credevo: dopo aver visto “Rebel Queen” mi sono sentita riconnessa ad un passato negletto. Un passato in cui ci sono donne come Mai Bhago, una santa guerriera nelle fila del 10° profeta sikh, il guru Gobind Singh Ji, o Bibi Dalair Kaur, un’altra guerriera del 17° secolo. Non erano solo sikh: la guerriera più nota in India è probabilmente Lakshmibai di Jhansi, una regina hindu che pure combattè contro la colonizzazione. E più vicino al nostro tempo ci sono state donne come Rokeya Hossain, l’autrice del romanzo utopico “Il sogno della sultana”, scritto nel 1905, in cui si descrive un mondo alternativo dove le donne dominano la sfera pubblica. Molte artiste d’origine asiatica, al presente, documentano le difficoltà relative all’avere un’identità “mista”, ma non si raccontano abbastanza storie come quella della Maharani Jindan, storie di quel che è accaduto prima che la mia famiglia dovesse lottare con il fatto di essere asiatica in una società di bianchi. Non siamo venuti all’esistenza nel momento in cui siamo immigrati, questo è quel che voglio dire.”

Non sono riuscita, ancora, a vedere il filmato per intero, ma alcuni spezzoni e trailer sì, e credo di avvicinarmi a capire come deve essersi sentita Herpreet: le sequenze e la vicenda stessa dell’ultima regina del Punjab sono davvero ammalianti. La rivolta di Jindan comincia con la morte del marito nel 1839, quando gli inglesi rifiutano di riconoscerne il figlio Duleep Singh come erede al trono e rivendicano il Punjab (che all’epoca comprendeva una zona più vasta di quella che oggi viene designata con tal nome). Sati e purdah – il destino delle vedove di immolarsi alla scomparsa del coniuge – non significano niente per lei: il Punjab è il suo regno, e lei presiede ogni consiglio di corte, dirige l’attività dei ministri, incontra i capi dell’esercito. Lo storico Peter Bance la definisce “una donna di fegato”, e aggiunge: “Tenne testa agli inglesi molto attivamente.” Altrettanto attivamente, gli inglesi cercarono di sottrarle il consenso del popolo che la proteggeva. Definita come un “serio ostacolo” al governo britannico dell’India, fu messa in moto contro di lei la macchina della propaganda per darle la reputazione peggiore possibile. La campagna denigratoria la definiva la “Messalina del Punjab”, “seduttrice ribelle”, “donna disonesta fuori controllo”, eccetera. Gli intrighi con vari potenti a corte fecero il resto. Fu chiesto a Jindan di cooperare e farsi da parte, ma poiché essa rifiutò e poiché la sua influenza sul figlio era notevole, gli inglesi decisero di separarli. Jindan fu trascinata fuori dalla corte di Lahore per i capelli e gettata in prigione: prima nella Fortezza di Sheikhupura e poi nel Forte Chunar ad Uttar Pradesh. Il figlio Duleep, che aveva allora 9 anni, fu portato in Inghilterra e convertito al cristianesimo. Là condusse l’esistenza tipica di un gentiluomo britannico e scambiava lettere con la regina Vittoria.

Dalla seconda prigione, Jindan riuscì a fuggire travestendosi da servetta. Viaggiò da sola per 800 miglia per raggiungere un santuario in Nepal, dal quale scrisse una lettera al governo britannico in cui si vantava di essere scappata “per magia”. Ma non riuscì più a radunare il suo popolo attorno a sé ed a riconquistare il suo regno. Parecchio tempo dopo, le fu permesso di andare in Gran Bretagna per rivedere il figlio (Jindan morirà due anni più tardi, nel 1863, e sarà sepolta a Londra). La riunione bastò, secondo le parole di quest’ultimo, a cancellare tutto il “lavaggio del cervello” che gli era stato fatto: lui era un sikh, figlio del re e della regina del Punjab, e tale sarebbe rimasto sino alla morte.

Così comincia il bel film che documenta tutto questo: “Una donna indiana che porta una crinolina assieme ai suoi abiti tradizionali, ed un intreccio di perle e smeraldi nei capelli sotto il cappellino, cammina nei Giardini di Kensington nel 1861. E’ l’ultima regina sikh del Punjab ed il suo nome è Jindan Kaur.” Maria G. Di Rienzo

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(Comunicato finale dell’incontro fra sopravvissute al traffico di esseri umani ed alla prostituzione dell’area Asia/Pacifico, Nuova Delhi, 3 aprile 2011, trad. Maria G. Di Rienzo. Fonte: Coalition Against Trafficking in Women.)

In questo incontro, abbiamo condiviso storie di resistenza, di sopravvivenza, di guarigione, di ripresa, di accesso all’istruzione, di auto-organizzazione e di mobilitazione.

Collettivamente, siamo d’accordo sul rigettare la legalizzazione dell’industria della prostituzione che serve come sponda al traffico a scopo sessuale, e sul punire i compratori e gli affaristi, non le donne. Come Fatima, una delle nostre leader, ha detto: “Fino a che ci saranno compratori, non metteremo fine al traffico a scopo sessuale.” Le leggi nella nostra regione hanno a lungo criminalizzato e stigmatizzato coloro che vengono sfruttate come prostitute, mentre sono quelle che le società ed i governi avrebbero dovuto proteggere.

La prostituzione continua ad esistere a causa delle false idee che le donne siano inferiori, oggetti sessuali e a disposizione, e che gli uomini siano superiori, i soli decisori e i soli a poter possedere proprietà. Molte di noi hanno sofferto matrimoni precoci, incesto, stupro, forme diverse di abuso infantile e violenza domestica prima di diventare vittime della prostituzione.

Il sistema può funzionare grazie alla disparità economica fra ricchi e poveri, e perché le politiche dei nostri paesi continuano a fare compromessi con i turisti sessuali, con gli eserciti stranieri e nostrani, e con i grandi affaristi, a spese delle vite e dell’integrità corporea delle donne. Questo è il lavoro delle politiche patriarcali, militariste e neo-liberiste.

Noi ci uniamo alle nostre sorelle nel movimento femminista e nel movimento dei lavoratori che chiedono lavoro, non prostituzione; che chiedono programmi economici che creino impiego locale sostenibile, e che non spingano le donne fuori dai loro paesi; che chiedono la socializzazione dell’economica di cura e cioè il riconoscimento che il lavoro domestico è lavoro; che chiedono più fondi per le donne e meno per le spese militari.

Noi ci uniamo ai movimenti Dalit, dei popoli aborigeni ed indigeni della nostra regione che denunciano come le nostre comunità siano i bersagli del traffico a scopo sessuale e della prostituzione. Abbiamo con noi giovani, inclusi gli uomini, e donne che lavorano a livello di base, che continuano a sfidare non solo i sistemi politici ed economici ma anche le ideologie della mascolinità che tengono le donne in subordine.

Chiediamo servizi sanitari estesi, per noi donne e per i nostri bambini, perché i nostri bisogni rispetto alla salute sono molteplici. Chiediamo agli attivisti che contrastano la diffusione dell’Hiv-Aids di rigettare la legalizzazione dell’industria del sesso, di non rassegnarsi a chiamare la prostituzione “lavoro del sesso”, ma di tornare ad essere attivisti per i diritti riproduttivi e sessuali delle donne, il che concerne il controllo delle donne sui loro propri corpi, non lo sfruttamento di essi da parte dei compratori e dell’industria.

La guarigione femminista dovrebbe riconoscere il continuum della violenza, promuovere famiglie alternative (invece di respingerle nell’area di origine, dove possono essere vittimizzate di nuovo), incrementare il sostegno della comunità e far emergere la creatività femminile. E tutti i servizi devono includere i bambini.

Noi chiediamo progetti generatori di reddito che siano sensibili al genere (lavori non tradizionali) e che onorino i principi della cooperazione, della sostenibilità, della condivisione dei profitti e del commercio equo. I governi dovrebbero provvedere alloggi per le numerose donne e bambine che hanno fatto esperienza della prostituzione e che non possono tornare nelle loro comunità, dove i loro parenti sono coloro che le hanno vendute.

Noi chiediamo assistenza legale gratuita e protezione dei testimoni. Chiediamo ai governi locali e nazionali di coinvolgere le donne nelle decisioni da prendere e di revocare le licenze agli stabilimenti della prostituzione.

Noi, ed in special modo i giovani e le giovani fra noi, chiediamo si favorisca la consapevolezza di genere e chiediamo maggior accesso all’istruzione superiore.

I movimenti sociali devono portare avanti campagne pubbliche di prevenzione ed informazione assieme a noi, ed aiutarci a spostare lo stigma dalle vittime ai perpetratori: i compratori ed il sistema d’affari che ruota loro intorno.

Noi chiediamo l’applicazione dei diritti di cittadinanza a tutti, e specialmente alle donne coinvolte nella prostituzione, come diritti umani fondamentali. Le vittime del traffico oltre i confini non dovrebbero essere rimosse a forza dal paese di destinazione ma fornite di aiuti consistenti in accordo con i principi del Protocollo di Palermo.

Noi rafforzeremo i nostri gruppi di auto-aiuto e le nostre reti fra i giovani, le sopravvissute ed i movimenti sociali. Chiediamo in primo luogo la rimozione delle leggi che criminalizzano le prostitute e che esse siano sostituite con leggi che penalizzano i compratori e gli affaristi. Queste leggi dovrebbero includere l’estradizione di trafficanti e compratori affinché il procedimento legale nei loro confronti sia sicuro.

Nessuno è il nostro proprietario. Non il marito, non il padre, non il magnaccia, non il compratore, non l’industria del sesso. Noi ribadiamo di star lottando per la nostra integrità fisica e la nostra autonomia.

Infine, collettivamente ci promettiamo di continuare il nostro viaggio verso la guarigione, la ripresa, il darsi potere e l’attivismo, nel mentre istruiamo, organizziamo e mobilitiamo noi stesse per cambiare la società e sradicare il patriarcato, il razzismo, il sistema delle caste, il militarismo ed il capitalismo che generano e sostengono la prostituzione ed il traffico a scopo sessuale.

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