Feeds:
Articoli
Commenti

Posts Tagged ‘radio’

Se una donna esce di casa e gli uomini non le mettono gli occhi addosso, deve preoccuparsi, perché vuol dire che il suo femminile non è in primo piano. Vedi, tu puoi fare l’avvocato, il magistrato, fare tutti i soldi che vuoi, ma il femminile in una donna è la base su cui si siede il processo. Se gli uomini ti desiderano, sarai un magistrato migliore, una professoressa migliore.”

I giornali mi hanno informato che l’autore di questa opinione è il sig. Raffaele Morelli “psichiatra e psicoterapeuta che ha pubblicato decine di libri, dirige una delle riviste sul “benessere” più note d’Italia e viene invitato regolarmente in tv e radio.” Mi hanno anche mostrato la sua foto in posa, mezzobusto torto con occhiali in mano, che è uno dei format rappresentativi dell’intellettuale di sesso maschile (il più noto è l’uomo con la mano sul mento).

Riporta sempre la stampa che nel successivo confronto con la scrittrice Michela Murgia “ha prima detto di essere stato decontestualizzato, poi, incalzato dalla scrittrice e conduttrice dopo aver pronunciato altre frasi sessiste, ha concluso il suo intervento con Zitta e ascolta!“.

L’ignorante con laurea che rimette le donne al loro posto (nel letto in primis) piace molto ai media italiani: se la stronzata sessista la dice un conduttore qualsiasi possono sorgere dubbi sulla validità della stessa, perciò entra in scena qualcuno con le credenziali giuste a spiegare che una donna può avere qualsiasi tipo di abilità e aspirazione, essere bravissima nel mestiere che si è scelta e persino ricca, ma se le mutande degli uomini non si gonfiano al suo passaggio resta una fallita comunque.

Il “femminile”, com’è noto, si traduce per i misogini con “servizio” – sessuale, emotivo, materiale, di cura, eccetera – all’altro sesso e naturalmente ormai avete letto e forse scritto al proposito di tutto e di più, perciò non intendo annoiarvi con analisi dettagliate ne’, ce ne scampi iddio, suggerire che le autorevoli pensate del sig. Morelli subiscano censura a causa del risentimento delle brutte bieche stronze femministe.

Mi limiterò a consigliare un minimo di fair play: molto è stato detto in passato sul “trigger warning”, nel bene e nel male. Si tratta di un messaggio che precede la fruizione di un qualsiasi prodotto multimediale, avvisando il pubblico che il contenuto potrebbe stimolare negativamente chi ha subito un determinato trauma. Se è vero che evitare tutte le occasioni di stress è impossibile e persino che non affrontare e non contrastare gli stimoli negativi può ritardare la guarigione, è altrettanto vero che come donne non siamo obbligate a mandare giù merda 24 ore su 24.

Dopo che hanno respinto la nostra domanda di assunzione perché le mutande dell’esaminatore non hanno avuto quel che volevano (per nostra scarsa “femminilità” o per nostro rifiuto), dopo aver subito molestie in strada – a scuola – al lavoro – online, dopo essere state assalite, ingiuriate, aggredite, discriminate, umiliate, violate in centinaia di modi diversi ma con incrollabile continuità, potremmo non desiderare intrattenimento che ripete e giustifica tale trattamento.

Perciò egregi presentatori, sceneggiatori, produttori e quant’altro, siate corretti e quando vi proponete di insultarci ulteriormente date l’avviso con qualcosa di questo genere: “Il programma che sta per andare in onda contiene materiale inappropriato per le donne che pensano di essere titolari di diritti umani, cittadine a pieno titolo, degne di rispetto e libere.”

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Sulla diffusa maleducazione della nostra epoca da parecchi anni non ho alcun dubbio: è stata progressivamente legittimata sul piano sociale e politico dallo sdoganamento dell’ignoranza e dalla sua conseguente esaltazione come “virtù popolare”. Più insulti e strilli, più sbagli congiuntivi e condizionali, più invochi e minacci violenze, più diffondi come notizie, certezze, verità rivelate quelle che sono a colpo d’occhio immani sciocchezze, più sei apprezzato – puoi finire persino a governare un Paese: male, va da sé.

In questo scenario, l’aggressione verbale è presentata in termini di “opinione” e “critica”, per cui quando reagisci chiamandola con il suo proprio nome e rendendo chiaro che non intendi accettarla, i violenti si indignano, posano da vittime, urlano alla censura, cercano di ridicolizzarti, ti insultano ulteriormente e così via. E’ la quotidiana manfrina visibile sui social media, su cui personalmente posso persino stendere un velo pietoso, visto che rifiuto questo tipo di interazione.

Quel che invece trovo inammissibile è il trasferimento di tutto ciò sui quotidiani, il cui compito è dare notizie (verificate) nella lingua della propria nazione (nel nostro caso l’Italia). Quando un giornalista non sa, il suo dovere professionale è fare ricerca. Se un giornalista non conosce l’italiano, o lo impara o cambia mestiere. Su questi due punti, non c’è mediazione possibile.

Ieri, raggiunge la cronaca la sentenza del tribunale di Roma che respinge al mittente la richiesta di risarcimento di un’emittente radiofonica nei confronti di Arcigay Roma e Gay Center. I fatti risalgono al settembre dell’anno scorso, quando un conduttore di Radio Globo dà voce al suo “disgusto” nel vedere due uomini che si baciano e lo razionalizza descrivendo la cosa come “non normale”. Le due associazioni summenzionate, dopo avere inutilmente chiesto all’emittente delle scuse formali, chiamano gli inserzionisti pubblicitari al boicottaggio; la radio segue in modo prevedibile e noioso il copione de “se mi dici che ti ho fatto torto, la vittima sono io”: dichiara il suo rispetto per i valori antidiscriminatori sanciti dalla nostra Costituzione (non sono omofobo, non sono razzista, non sono sessista), annuncia di avere persino una persona transessuale in redazione (ho un sacco di amici gay, di amici africani e amo le donne), definisce l’uscita del suo conduttore una legittima opinione personale (adesso non si possono neppure avere delle opinioni, ma l’avete letto Voltaren, ah sì volevo dire Voltaire, sempre con questo politicamente corretto che alla fine è censura), ma le scuse ai froci NO, manco morti. Inoltre, la radio querela Arcigay Roma e Gay Center per i supposti mancati guadagni relativi al boicottaggio – e come abbiamo visto, perde la causa. Ribadiamo: non sono state le associazioni a portare l’emittente in tribunale, è il contrario.

Se l’ignoranza volontaria fosse un po’ meno diffusa, o se i giornalisti radiofonici prendessero sul serio il loro ruolo, Radio Globo non avrebbe mai presentato la denuncia: il chiamare al boicottaggio è un’azione nonviolenta con alle spalle un bel po’ di Storia e non è sanzionabile, poiché non costringe nessuno a comportarsi in un modo o in un altro, bensì si appella alla coscienza civile/democratica di coloro ai quali si rivolge, la cui scelta è parimenti del tutto legittima e non sanzionabile anch’essa. La sentenza, per chi non vive in un mondo che gira attorno al suo ombelico, era scontata.

Se l’ignoranza volontaria fosse un po’ meno diffusa, o se i giornalisti in genere prendessero sul serio il loro ruolo, a commentare i fatti non avremmo letto questo tipo di frasi:

“Si può boicottare un’attività commerciale per protestare contro chi critica i gay.”

Chi ha criticato i gay, scusate, e come? Dire “quel che sei mi fa ribrezzo” non è una critica, è un insulto, oltretutto nella stragrande maggioranza dei casi gratuito, perché chi lo riceve a chi lo vomita non ha di solito chiesto una valutazione sulla propria persona. La critica è la capacità intellettuale di esaminare e valutare l’operato umano, non l’affermazione dei propri sentimenti di disgusto, disagio, rifiuto pregiudiziale di una caratteristica umana.

“La campagna per il boicottaggio è lecita, la difesa della libertà di pensiero un po’ meno. (…) Insomma, o ti pieghi ai diktat del politicamente corretto o peggio per te: finirai “bastonato” due volte.”

Quindi, a Radio Globo uno speaker ha affermato coraggiosamente che la Terra gira intorno al Sole (be’, visti i tempi è più probabile sentirne uno che delira sulla Terra piatta) e Torquemada lo ha trascinato nelle segrete per farlo abiurare? Pare di no. Ha detto che è ora di finirla con sessismo e misoginia e gli hanno dato della “femminazista”, dello zerbino, del frocio, del non-vero-uomo prima di licenziarlo in tronco? Pare di no.

E allora di che “libertà di pensiero” si parla? Prendetene atto, per favore: un’ingiuria (sei disgustoso/a e non normale) non è la libera espressione di un’opinione astratta, ne’ un’intellettuale e audace “scorrettezza” da difendere citando Voltarencioè ok, errore di battitura, volevo dire Voltaire – è un’offesa diretta alla persona che la riceve, punto e basta. Potete continuare all’infinito a suggerire che tale persona dovrebbe prendersi la secchiata di immondizia in faccia e stare zitta, ma siamo sempre in meno disposte/i a farlo. Get over it.

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Ieri Radio Onda d’Urto di Brescia mi ha intervistata (grazie ancora) a causa di questo articolo:

https://lunanuvola.wordpress.com/2018/04/06/senza-tregua/

Il mio intervento non era stato preparato e siamo andati – benone – a braccio, ma ovviamente non avevamo tempo e modo di organizzare un seminario su come trattare decentemente le adolescenti, rispettare la loro umanità e dignità e incoraggiarle ad aver fiducia in se stesse, a realizzare i propri sogni, a perseguire la propria felicità.

Una delle cose che ho detto è che sbattendo loro continuamente in faccia il modello-Barbie e nient’altro la società intera perde i loro talenti: o perché nessuno li prende in considerazione ed esse stesse smettono di farlo, o perché si tolgono la vita.

Girls Inc. è un’associazione, nata nel 1864, che mostra come si può agire diversamente. “Ci concentriamo sullo sviluppo dell’intera ragazza. Ella apprende a darsi valore, a rischiare, e scopre e sviluppa le sue inerenti capacità. (…) Equipaggiamo le ragazze a navigare attraverso le barriere di genere, quelle economiche e quelle sociali, e a crescere sane, istruite e indipendenti.”

anya

Nessuno a Girls Inc. direbbe per esempio ad Anya – in immagine sopra – che è “malata” perché la sua corporatura non risponde agli attuali standard commerciali della bellezza (puah!), ne’ lo direbbe a Leslie (in immagine sotto).

Leslie

Invece, le hanno sostenute affinché realizzassero i loro desideri. Anya frequenta ora il primo anno della facoltà di Giurisprudenza, dopo essere stata rigettata da tutte le università a cui aveva fatto domanda, compresa quella a cui teneva di più, Berkeley. Ma alla fine ci è entrata proprio come voleva: “Non lasciate che la delusione vi scoraggi. Io ero devastata quando non sono riuscita a entrare nella scuola dei miei sogni al primo colpo e avevo voglia di mollare tutto, ma la mia comunità mi ha mantenuta in corsa. Grazie alle mie incredibili insegnanti, alla mia famiglia e alle mie amiche, ho riacquistato fiducia.”

“La sorellanza attorno a lei – dicono a Girls Inc. – ha permesso ad Anya di essere vulnerabile, di aver fiducia in se stessa e di accettare se stessa.” Dopo la laurea, Anya ha in mente di diventare un’avvocata di rappresentanza per i bambini e le bambine nei casi che riguardano la custodia familiare. Quest’estate inizierà un anno di internato nel tribunale apposito. Perché la società avrebbe dovuto buttar via un proprio membro che già in giovane età mostra un’enorme passione civile, perché non somiglia a una bambola gonfiabile? Ai miei occhi tra l’altro, questa ragazza è stupenda.

Proprio come lo è Leslie, che ha immediatamente tornato a ragazze e bambine più piccole di lei tutto quel che aveva ricevuto da Girls Inc.: corsi prescolastici, assistenza allo studio, ripetizioni. “Sono stata ispirata, illuminata e riempita di doni da una squadra di sostegno che non perderò e che certamente non dimenticherò mai. E’ così che sono diventata una persona migliore.” Leslie in futuro vuole essere un’insegnante (già insegna inglese) e rompere i moduli dell’istruzione tradizionale, concentrandosi sul migliorare le vite della prossima generazione, instillando in essa una vera passione per la conoscenza.

Avremmo dovuto dirle: “Guarda, non puoi sfilare per D&G e non puoi partecipare a Miss America, cosa vivi a fare?”, o saremmo contenti di avere un’insegnante simile per i nostri figli e figlie?

Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(“Becoming a Youth Radio Producer in Sumpango, Sacatepequez”, 19 gennaio 2018, Cultural Survival, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Ingrid

Ingrid Aguilar Solloy – in immagine – è una ragazza quattordicenne Maya Kaqchikel che aiuta la mamma nelle faccende giornaliere e si prende cura dei fratelli più piccoli mentre sua madre lavora alla creazione di indumenti Maya tramite la tessitura tradizionale a Sumpango, in Guatemala. Ora è anche una giornalista e annunciatrice radiofonica.

Ingrid spiega che il prossimo anno tornerà a scuola, perché quel che ha imparato sino ad ora durante la serie di seminari tenuti dalla radio locale, “Rinforzare la partecipazione dei bambini alla radio comunitaria”, l’ha resa consapevole dei suoi diritti. Ingrid, assieme a 19 altri/e bambini/e dai cinque ai quattordici anni d’età, ha partecipato ai seminari organizzati da Radio Ixchel (1) a Sumpango, Sacatepequez, su argomenti quali i diritti dei minori, la visione cosmologica Maya, le tradizioni orali, la lingua Kaqchikel, la pittura e l’arte. I laboratori miravano a rendere i bambini consci e orgogliosi della loro identità come persone Kaqchikel e anche a ispirarli a lavorare in radio, essendo centrati sulla creazioni di testi radiofonici, interviste, reportage, registrazione e correzione dei file audio.

“Di solito avevo paura di parlare in pubblico. Ora, sto imparando a trasmettere via radio non sono più così spaventata, sento di aver più fiducia in quello dico e nello stare di fronte a un pubblico. Ho ricevuto molto aiuto.” dice Ingrid, entusiasta del parlare della sua esperienza nell’ottenere il diploma al temine dell’addestramento.

Durante i cinque mesi di seminari, i 19 bambini hanno migliorato le loro capacità di socializzazione così come hanno sviluppato abilità tecniche nella produzione radiofonica. Jorge Ramiro Yol è un genitore che ha motivato la figlia di sette anni, Kimberly, a partecipare. Dice: “Quel che la mia bambina mi racconta è che durante questi mesi di seminari ha appreso che i bambini hanno diritti e responsabilità. L’ho incoraggiata a continuare perché non c’è altro luogo in cui avrebbe potuto imparare quel che sta imparando qui. Durante gli ultimi due mesi è stata in grado di creare annunci, interviste e resoconti su argomenti diversi. Ha fatto pratica su come creare un testo radiofonico, sull’interpretazione di personaggi, sulla registrazione e la messa a punto dei programmi. I programmi sono stati mandati in onda da Radio Ixchel e condivisi con la rete nazionale delle stazioni radio comunitarie.”

Dopo aver completato i laboratori, i partecipanti hanno ricevuto i diplomi di fronte ai loro genitori. Il lavoro è stato reso possibile dal sostegno finanziario (Community Media Grants Program) di Cultural Survival e WACC. (2)

Il “Community Media Grants Project” fornisce opportunità alle stazioni radio di migliorare le loro infrastrutture e sistemi e offre opportunità ai giornalisti/alle giornaliste delle radio delle comunità indigene in tutto il mondo di affinare le loro abilità.

I diplomati fanno ora parte dello staff di Radio Ixchel e creano i programmi del sabato durante “L’ora del paradiso dei bambini”. E’ in questo spazio che Ingrid concretizza il suo sogno di essere una giornalista radiofonica. Questo è solo l’inizio dell’accesso agli spazi radiofonici delle ragazze Kaqchikel a Sumpango: “Io ho saputo dei seminari ascoltando la radio. – dice Ingrid – Apprendere tramite la radio e comunicare è ciò che mi motiva.”

(1) https://lunanuvola.wordpress.com/2012/09/21/la-signora-che-sconfisse-il-diluvio/

(2) Ong che ha come missione la costruzione di comunicazione per promuovere giustizia sociale.

Read Full Post »

(brano tratto da: “Making Women Proud: Rosa Palomino Chahuares and the Women of UMA”, un più lungo articolo di Angelica Rao per Cultural Survival, marzo 2017. Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

rosa

Ci sono alcune persone in questo mondo che davvero illuminano una stanza con la loro presenza. Quando incontri Rosa Palomino Chahuares ti è chiaro che lei è una di esse. Ha un sorriso e una luce nello sguardo che danno energia e ispirano, e il suo indefesso lavoro di una vita intera, diretto a sostenere i diritti delle donne indigene nelle comunità rurali Aymara, ti ricorda che potenziale hai per sconfiggere le avversità quando sei impegnata, ottimista e ti curi davvero della tua causa. “Penso sia questo a distinguerci da altri gruppi, il nostro ottimismo. – dice Chahuares – Noi restiamo sempre positive e crediamo che cose buone accadranno.”

Chahuares ha lavorato in radio e ha fatto attivismo per i diritti delle donne sin da quando aveva 16 anni, promuovendo la lingua e la cultura Aymara e contestando il patriarcato in contesti ove gli uomini rispondono aggressivamente alla parola “femminismo”. Nel 2014 ha ricevuto un premio dal Ministero della Cultura e fa attualmente parte del consiglio d’amministrazione della Rete dei Comunicatori Indigeni del Perù. E’ anche membro dell’UMA – Unione Donne Aymara di Abya Yala, un gruppo assai noto a chi si occupa di diritti umani e media, e non senza ragione: il programma radio delle donne di UMA, Wiñay Pankara (“Sempre in fiore”) porta alla luce la realtà che le donne vivono nelle comunità Aymara, sottolineando gli sforzi di quelle che stanno lavorando per migliorare la situazione. “La comunicazione è la spina dorsale della società. – ebbe a dire Chahuares in un’intervista del 2014 – Wiñay Pankara ha aperto uno spazio nella popolazione Aymara. Le donne hanno perso la loro paura e si sono rafforzate partecipando nei media. Noi donne ora sappiamo cosa sono i nostri diritti, cos’è la nostra cultura, la nostra saggezza. Parlare in radio fa sì che le autorità ci rispettino. Tutti possono ascoltare come partecipiamo e le nostre parole. Anche i nostri figli ci ascoltano, mentre diciamo loro in che stato la Terra si trova.” (…)

Chahuares e le sue compagne attiviste per i diritti delle donne fronteggiano una misoginia profondamente radicata ogni giorno. E’ per esempio accaduto che un gruppo di giovani uomini, che pure lavoravano in radio a un loro programma culturale Aymara, la investissero del loro risentimento per le femministe. Per nulla allarmata dal discorso, Rosa ha mantenuto il suo sorriso e la sua compostezza mentre gli uomini le dicevano che sono le donne le vere “machistas”, che sono le madri a crescere i figli e a renderli quali sono e che le donne sono quelle meno disposte ad aiutare le proprie simili. Chiaramente non era la prima volta che lei sentiva cose simili: quando rispose, lo fece usando il concetto Aymara di “chacha warmi”, che rappresenta la relazione simbiotica e di mutua comprensione fra uomini e donne così come storicamente è intesa nelle comunità Aymara. E’ questo suo talento nel convogliare con facilità messaggi controversi a gruppi ostili a fare di Chahuares una così grande comunicatrice in radio e una figura di spicco per i diritti delle donne in Perù. (…)

A 65 anni, il sogno di Rosa Palomino Chahuares continua a essere che le donne dell’UMA possiedano la propria stazione radio (Ndt. Anche se avessero i fondi, glielo impedirebbe l’attuale legislazione sulle trasmissioni radiofoniche in Perù, che è molto restrittiva). Non le importa se non riuscirà a vederlo realizzato durante la propria vita: “Posso lasciare questo mondo felice, sapendo che le mie due figlie e le altre donne dell’UMA porteranno avanti la lotta a cui io ho dato inizio così tanti anni fa.”

Read Full Post »

Her Liberty (la libertà di lei) Namibia” è un’organizzazione femminista fondata nel 2012 da quattro giovani donne: Jossy Nghipandua e Tanyaradzwa Daringo (giornaliste radiofoniche), Tikhala Itaye e Paskaline Ngunaihe (attiviste per i diritti umani). L’ong è stata creata con la missione di sviluppare, fortificare e incoraggiare nelle donne della loro età le doti di leadership femminista, affinché costoro agiscano come catalizzatrici del cambiamento nelle loro diverse comunità. La visione di “Her Liberty Namibia” è un movimento unito di donne dove le giovani sono indipendenti, sicure di sé e completamente consapevoli della propria abilità di influenzare le società in cui vivono. Lo scopo finale? Non abbiatevene a male, gentili (?) complottisti-gender: è l’uguaglianza di genere.

Tanyaradzwa Daringo

Tanyaradzwa Daringo – in immagine qui sopra – spiega: “Non è facile essere una giovane donna quando l’ambito culturale ti ha insegnato a stare a casa a fare le faccende, o che restare in una relazione in cui si abusa di te va bene perché sei incastrata in una povertà allucinante. Non è facile essere una giovane donna e restare incinta quando sei ancora a scuola, e dover abbandonare gli studi perché non esistono strutture di sostegno che mi incoraggino a continuarli.”

Tikhala Itaye

Tikhala Itaye – sempre in immagine qui sopra – aggiunge: “Viviamo in un mondo in cui ogni giorno vediamo bambine, ragazze e giovani donne affrontare svariate difficoltà. Che siano sfide sociali o economiche, esse pongono barriere che impediscono a costoro di sviluppare il loro pieno potenziale. Io sono profondamente toccata dallo stato in cui si trovano nella nostra società e non ero a mio agio con il fatto di aver avuto accesso a istruzione e opportunità mentre così tante ragazze e donne non lo hanno. Perciò, con le co-fondatrici dell’organizzazione, ho deciso di fare qualcosa.”

Secondo l’Organizzazione Mondiale per la Sanità”, dicono le attiviste sul loro sito, “circa 16 milioni di ragazze fra i 15 e 19 anni e un milione di ragazze sotto i 15 anni partoriscono ogni anno, in maggioranza nei paesi più poveri. Sono dati allarmanti e i problemi delle ragazze che affrontano una gravidanza precoce e non desiderata potrebbero essere prevenuti ed eliminati dai rispettivi paesi.

Come persone giovani, anche senza bisogno dei dati e dell’evidenza su carta, comprendiamo l’importanza e l’urgenza di rafforzare le risposte nazionali all’epidemia di HIV e di ridurre l’impatto delle nuove infezioni sessualmente trasmissibili, di combattere la violenza sessuale e l’abuso, di contrastare le gravidanze precoci e indesiderate e di maneggiare i molti altri problemi che le giovani ragazze africane si trovano di fronte. Le persone giovani sanno e capiscono che le dinamiche sociali sono il solo modo di influenzare e trasformare i mali sociali che affliggono la gioventù quando sono posti come partner chiave in ogni agenda.”

Due anni dopo la fondazione, “Her Liberty Namibia” ne ha avuto la riprova quando ha tenuto un’audizione per realizzare una serie televisiva su HIV/AIDS e violenza (eh sì, Avvenire, mi dispiace..) di genere. Il piccolo annuncio su un giornale locale ha portato all’audizione centinaia di giovani uomini e donne, provenienti da tutto il paese. La serie si chiama “Non baciare e dillo”.

Essendo giovane e femmina, – continua Tanyaradzwa Daringo – io stessa ho trovato barriere nel tentativo di accedere ai miei diritti di salute riproduttiva: se voglio curarmi della mia salute sessuale devo avere il potere di essere informata, devo poter dire se voglio o no fare dei test eccetera, perché nessun altro oltre a ME può capire la pressione sessuale su di me esercitata. Inoltre, in 17 paesi in via di sviluppo, metà della popolazione è minore di 18 anni: solo questo dovrebbe essere sufficiente a chiamarci all’azione, perché se permettiamo che metà della popolazione sia esposta alle infezioni da HIV, ai matrimoni forzati e precoci, alla gravidanza da adolescenti, alla bassa qualità dell’istruzione, all’inaccessibilità dei servizi sanitari, allora perdiamo per strada il 50% del capitale umano che costituirà la prossima generazione in età lavorativa e che può nutrire lo sviluppo economico. I progetti che noi iniziamo nelle comunità speriamo di vederli di generazione in generazione, con i membri delle comunità che li assumono come propri.”

Sul motivo che le ha indotte a chiamare l’organizzazione “la libertà di lei”, Tikhala risponde che volevano un nome con cui le donne potessero identificarsi: “Per essere forti e indipendenti, le donne hanno bisogno di essere libere. Libertà è il nome di una donna forte.”

C’è potere nella parola libertà. – dice Tanyaradzwa – Noi vogliamo un mondo in cui le donne sono libere dall’oppressione, libere dalla dipendenza e libere dalla diseguaglianza.” A tante miglia di distanza e tanti anni di differenza, è esattamente quel che voglio anch’io. Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

Le Isole Fiji, con le loro spiagge color zucchero e gli splendidi paesaggi, sono certamente un bel posto per fare una vacanza, ma sembra che viverci effettivamente essendo donne non sia poi così facile. Il divario di genere è ampio, sostenuto da un’attitudine sociale assai patriarcale e la rappresentanza politica femminile è scarsissima: “Le decisioni non sono prese ne’ per le donne ne’ dalle donne.”, spiega l’attivista locale Sharon Bhagwan-Rolls.

sharon

Ex giornalista radiofonica, nel 2004 Sharon ha creato “FemLINKpacific”, un’ong che fa funzionare due stazioni radio e crea vari altri prodotti mediatici per amplificare le voci delle donne, in special modo quelle povere e svantaggiate: “I governanti, o chiunque altro voglia conoscere lo status delle donne in tutte le sue diversità, non hanno che da sintonizzarsi. La copertura dei media commerciali sulle donne arriva al massimo a qualche celebrità che legge ricette.”

FemLINKpacific” ha addestrato 30 giovani volontarie a produrre programmi radio e le manda in giro in squadre per tutto il paese, con un agevole kit di strumenti che sta in una borsa (la chiamano “radio-valigia”), a intervistare le donne sin nelle più remote zone rurali.

Raccogliendo storie dai centri rurali siamo in grado di dimostrare quali sono i loro bisogni, che si si tratti della salute o della sicurezza economica, e ciò diventa la base del nostro attivismo. Quando connetti tutto, diventa un’agenda nazionale. – dice ancora Sharon – Un punto chiave dell’agenda è raddrizzare lo sbilanciamento di genere in politica. Tramite la radio siamo in grado di collegare le donne ad alcuni processi nazionali e di assicurarci che le loro voci siano udite.” E FemLINKpacific può accreditarsi tranquillamente la maggior parte del merito se le elezioni del 2014 hanno visto passare la rappresentanza femminile in Parlamento da 8 seggi a 50.

La nostra organizzazione è parte di uno sforzo più ampio per costruire società civile. Le nostre radio comunitarie sono importanti perché mostrano le abilità delle donne: noi non ci limitiamo a tirar fuori i problemi che le donne segnalano ma mostriamo che hanno delle soluzioni. Quando fornisci a questo uno spazio mediatico stai sostenendo l’agenda politica femminile.”

(Sharon Bhagwan-Rolls è membro dell’ong internazionale “Gruppo di lavoro su donne, pace e sicurezza”, è presidente della “Partnership Globale per la prevenzione dei conflitti” e presidente amministrativa del Fondo Globale per le Donne, inoltre è consigliera per l’Agenzia Donne delle Nazioni Unite.) Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »

(“We can not just be journalists, we need to be activists too!”, di Filippa Rogvall per Kvinna till Kvinna, 4 giugno 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. La foto di Douce Namwezi N’lbamba è di Cato Lein.)

Douce

La seconda guerra del Congo finì nel 2003, almeno sulla carta. Ma nonostante la tregua Douce Namwezi N’lbamba, allora quindicenne, continuava a vedere attorno a sé bambini reclutati come soldati. Il desiderio di contribuire al cambiamento l’ha portata in radio.

Avendo l’opportunità di essere coinvolta in un programma radiofonico mirato a scoraggiare bambini e giovani dall’unirsi a gruppi armati, prese l’occasione. Non molto tempo dopo diventò una presentatrice radiofonica vera e propria.

Oggi, Douce Namwezi N’lbamba ha 26 anni ed oltre ad essere una giornalista è una delle forze motrici di AFEM (Ndt: Association des Femmes des Médias du Sud-Kivu – organizzazione per i diritti delle donne e per la pace)

“Quando lessi di AFEM e della loro visione ne fui impressionata e decisi di unirmi a loro immediatamente. Ho sempre sentito di avere una grande responsabilità nel ruolo di produttrice di programmi: io sono quella che scrive il testo e parla alla radio, e sono anche quella che può portare il cambiamento. Non possiamo essere solo giornaliste, dobbiamo essere attiviste.”, dice Douce Namwezi N’lbamba.

Il suo giornalismo è mettere in luce le storie delle donne. Allo stesso tempo, lo vede come opportunità di monitorare le azione dei politici e dei decisori, di influenzare e contribuire al cambiamento. Ma far sentire la tua voce come giornalista in un paese in cui alle donne tradizionalmente non è permesso parlare è stata un’ardua sfida. “Ci si aspetta da me che io mantenga il silenzio sulla continua oppressione delle donne, perché è considerato vergognoso il parlarne. In Congo, i media sono stati a lungo un privilegio degli uomini. Solo gli uomini hanno il diritto di essere ascoltati e di avere opinioni. Io cerco di portare più donne in onda, per dimostrare che uomini e donne pensano e hanno opinioni allo stesso modo. Non è il sesso di una persona ad essere determinante per questo.”

Secondo Douce Namwezi N’lbamba, i media nazionali non riportano granché sul modo in cui le donne sono investite dai conflitti, come quelli che circondano il commercio di minerali nella Repubblica democratica del Congo, e come ne soffrono. Se cerca di parlarne con i colleghi maschi questi la ignorano. Le donne giornaliste sono viste un po’ come criminali, dice: “Incontro un mucchio di persone a cui non piace quel che faccio. Mi vedono come un bersaglio facile. La gente mi dice che sono una donna cattiva e che dovrei tenere la bocca chiusa. Una “donna cattiva”, in Congo, è una che non è a casa a cucinare e partorire bambini. Poiché non gioco stando alle regole dettate dalla società, molta gente si sente oltraggiata. Allo stesso tempo, ci sono molte persone che sostengono me e quel che faccio, il che è un’importante forza motivazionale.”

Ci sono molti ostacoli da superare per migliorare i diritti umani delle donne in Congo, spiega Douce. Uno è la legislazione, poiché numerose leggi contribuiscono alla discriminazione delle donne. Nel 2013, AFEM presentò un memorandum al Parlamento nel tentativo di cambiare il Codice di famiglia che, fra le altre cose, riduce il diritto ereditario delle donne. Da allora, alcuni articoli della legge sono stati riscritti, come quello che obbligava la moglie a seguire il marito ovunque costui volesse andare: ora può scegliere se seguirlo o meno. AFEM è ancora in contatto con membri del Parlamento che hanno fatto proprio il memorandum e una seconda discussione sul Codice di famiglia si terrà presto in Senato.

Sebbene Douce Namwezi N’lbamba dica di vedere piccoli miglioramenti nello status delle donne, attesta anche che il progresso è troppo lento. Negli ultimi dieci anni, comunque, il numero delle donne giornaliste è aumentato in modo significativo e sempre più donne reclamano i propri diritti, anche se per fare ciò devono contrastare tradizioni e cultura. Esse diventano poi modelli per altre donne.

“Io sogno un mondo di eguaglianza di genere, dove uomini e donne hanno accesso agli stessi diritti politici ed economici, in cui l’eguaglianza è realtà e non solo un concetto scritto nelle dichiarazioni politiche.”

Il sostegno di Kvinna till Kvinna è importante per AFEM, ricorda la giornalista: “Fra le altre cose, ci ha permesso di andare a lavorare nella remota area di Shabunda dove ben poche altre organizzazioni hanno voluto, o osato, andare. Anch’io avevo paura di ciò che sarebbe potuto accadere andando là, ma mi sono aggrappata al mio sogno sapendo che le donne del luogo avevano bisogno di me.”

Shabunda è la più larga area della provincia di Sud Kivu. I gruppi armati ribelli la stanno seriamente devastando. Sebbene la popolazione sia stimata attorno al milione di persone la comunicazione con il resto del paese è scarsa. Da alcuni anni AFEM lavora in loco per i diritti delle donne e la loro partecipazione politica: fornisce addestramento su democrazia, diritti umani e la Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.

“Molte donne nella regione di Shabunda non sanno di avere diritti. Mi ha aperto davvero gli occhi sentirmi dire da queste donne che loro vedevano istruzione e salute come privilegi, non come diritti. E’ una situazione difficile da cambiare, ma stiamo tentando di indurre le autorità locali a migliorare il loro impegno a rafforzare i diritti delle donne.”

La fama di AFEM si sta diffondendo, nel paese, e l’organizzazione riceve numerose richieste da parte di giornaliste che vivono in altre zone del Congo e chiedono sostegno per progetti simili. AFEM sta in effetti pianificando di diventare un’organizzazione nazionale e di cominciare a cooperare a livello internazionale con gli altri gruppi per i diritti umani delle donne.

“AFEM sta crescendo, – conclude Douce Namwezi N’lbamba – ed oltre a mettere in luce la situazione delle donne usando i media vogliamo promuovere una maggior consapevolezza di genere e un maggior bilanciamento di genere nell’intero paese. Io sono convinta che i media siano un attrezzo importante per ottenere il cambiamento.”

Read Full Post »

(tratto da: “A genocide of women is taking place in Democratic Republic of Congo”, intervista alla giornalista, conduttrice radiofonica e attivista per i diritti delle donne Caddy Adzuba Furaha, un più ampio servizio di Teresa Lamas per Women News Network, 28 novembre 2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

caddy

Come può la violenza sessuale trasformarsi in un’arma da guerra?

Caddy Adzuba Furaha: La violenza sessuale diventa un’arma da guerra quando è usata sistematicamente. Quando i ribelli pianificano il saccheggio di un villaggio usano come strategia lo stupro di tutte le donne e bambine, con lo scopo di spezzare la comunità distruggendo i corpi delle donne. In questo modo, ottengono di separare i membri della comunità, di modo che costoro diventano più deboli ed incapaci di difendersi dalla situazione in cui si trovano.

Non si tratta dell’entrare in una casa e violentare tutte le donne qualsiasi sia la loro età. I ribelli armati mutilano i genitali delle donne nel mentre obbligano i membri della famiglia a guardare e a partecipare all’aggressione. I corpi delle donne sono trasformati in campi di battaglia, e questa è la ragione per cui diciamo che si tratta di femicidio, di genocidio delle donne.

I ribelli, inoltre, rapiscono le donne per usarle come schiave sessuali per mesi o anni. I bambini, maschi e femmine, che nascono in questo contesto sono respinti dalla comunità. Le persone perdono la loro umanità, le loro vite, le loro case, i loro figli e diventano profughi interni o rifugiati. L’intero paese è affetto da questa situazione.

Perché le donne come tramite?

Caddy Adzuba Furaha: I gruppi armati hanno capito che la crescita della povertà dovuta agli anni della crisi e della dittatura ha fatto perdere valore al tessuto sociale. Quando i lavoratori salariati hanno smesso di essere pagati, ed erano principalmente uomini, le donne hanno cominciato a prendere nelle loro mani l’economia locale, dando inizio a commerci, orti e piccole imprese, riattivando la vita comunitaria. Sia nei villaggi sia nelle grandi città, le donne stavano costruendo l’economia locale. Perciò, distruggendo le donne finisci per distruggere la vita della comunità intera.

A livello nazionale ed internazionale le conseguenze sono devastanti. In aggiunta al trauma psicologico, il 66% delle donne che hanno sofferto questa violenza sono seriamente affette, tra le altre malattie, da Hiv/Aids, malattie a trasmissione sessuale e fistole.

Come lavori con la radio per suscitare consapevolezza?

Caddy Adzuba Furaha: Come giornaliste e donne congolesi abbiamo creato l’Associazione di donne nei media per denunciare la situazione. Volevamo che le donne rompessero il silenzio della tradizione che proibisce loro di parlare di stupro. Temevano di essere stigmatizzate, per cui il lavoro comincia dal mettere fine alla discriminazione contro le donne che sono state stuprate.

Abbiamo lottato per aprire uno spazio in radio dedicato alla discussione su questi temi, perché le donne non erano nelle posizioni di chi prende le decisioni e i manager in radio preferivano parlare di sport. Avevamo di fronte un paese negligente verso la propria situazione: la gente non comprendeva la gravità di quanto stava accadendo.

Abbiamo parlato con le autorità e scioperato nelle radio convenzionali, chiedendo uno spazio per parlare. Precedentemente, avevamo descritto alla radio ciò che accadeva nei villaggi, quel che avevamo visto: donne stuprate, malate, uccise, e scomparse. Le informazioni arrivarono alle organizzazioni non governative che stavano lavorando sul territorio ed esse cominciarono a curare le donne. Incoraggiate dal risultato del nostro lavoro, le donne cominciarono a parlare da se stesse alla radio di ciò che era accaduto loro.

La radio è molto importante nella Repubblica Democratica del Congo, ogni famiglia ha un apparecchio, perciò è vitale aumentare la consapevolezza tramite la radio. Con Radio Okapi – http://radiookapi.net – un progetto sostenuto dalle Nazioni Unite, noi arriviamo in tutto il paese.

In che modo lavorate per dare assistenza alle vittime?

Caddy Adzuba Furaha: Abbiamo creato l’associazione “Alleanza di donne per la promozione dei valori umani”, in cui lavoriamo con le donne smobilitate e con i bimbi nati come risultato delle violazioni o che hanno perso le loro famiglie, di modo che possano avere un’istruzione e crescere in un nucleo familiare che li ami. Curiamo le donne che hanno sofferto violenza sessuale e le sosteniamo tramite il microcredito, così che possano lentamente cominciare a lavorare.

Operiamo anche con la comunità nel suo insieme, con quelli che chiamiamo “gruppi di de-traumatizzazione”, in cui raduniamo la comunità affinché si parli di ciò che ogni singola persona ha attraversato, mirando alla creazione di una rete di sostegno in cui le persone si aiutino l’un l’altra a superare il trauma.

Perché la comunità internazionale non sta intervenendo, nonostante il conflitto?

Caddy Adzuba Furaha: Gli attori di questa guerra non sono solo africani, le multinazionali giocano uno dei ruoli principali e agiscono riparate dai loro stati nazionali. Ognuno vuole avere una fetta di ricchezza illegale. Dietro a questo conflitto ci sono gli Usa, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna, eccetera. Questi anni spesi a tentare di metter pace fra i paesi dei Grandi Laghi sono stati inutili. Sappiamo che senza il coinvolgimento dei paesi occidentali non possiamo risolvere questo conflitto.

Le ditte manifatturiere di computer e telefoni cellulari non sono in Africa e sono quelle che beneficiano della situazione. Poiché hanno bisogno di coltan (Ndt: columbo-tantalite) e di altri materiali grezzi per fare i loro prodotti, alimentano il conflitto finanziando vari gruppi ribelli affinché continuino la loro guerra. L’Occidente è la mano che tira i fili dietro ad ogni parte del conflitto, ed è per questo che stiamo chiedendo all’Occidente di impegnarsi nel cercare la pace.

Nessuno ha interesse a mettere fine al conflitto?

Caddy Adzuba Furaha: I ribelli stranieri delle Forze per la Liberazione del Ruanda entrarono nella Repubblica Democratica del Congo nel 1994, assieme ai rifugiati del conflitto ruandese. All’epoca, soldati francesi della missione delle Nazioni Unite controllavano il confine. Noi congolesi ci chiediamo come sia possibile che assieme ai rifugiati abbiamo attraversato il confine, con tutte le loro armi, coloro che avevano guidato il genocidio; quelle armi sarebbero state usate più tardi contro i civili congolesi per creare caos e controllare le miniere.

Chiediamo alla comunità internazionale e al nostro governo perché l’esercito congolese non ci difende. Ci viene risposto che siamo sotto embargo per le armi, e perciò il nostro esercito non ha mezzi per difendere la popolazione civile. La sola risposta che otteniamo è che non c’è interesse a portare pace nella regione.

Cos’avete ottenuto con il lavoro a livello internazionale?

Caddy Adzuba Furaha: Le cose cominciano lentamente a muoversi sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti hanno bandito l’uso di materiali grezzi congolesi alle loro multinazionali. Inoltre, ci sono sempre più ricerche sulle connessioni fra lo sfruttamento delle risorse minerarie e il proseguimento del conflitto.

Siamo anche riuscite ad attirare l’attenzione sulla violenza sessuale nel nostro paese. Abbiamo presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale portando prove e una lista di vittime. Abbiamo tentato di indurre i loro avvocati a fare ricerche adeguate per cercare di ottenere giustizia. Due congolesi sono in questo momento davanti al Tribunale. Inizialmente, le violenze sessuali non erano fra le accuse loro imputate: sino al 2009, quando abbiamo testimoniato ciò che stava accadendo.

Noi chiediamo siano perseguiti i leader del Fronte di Liberazione Ruandese, che ha al suo interno i perpetratori del genocidio in Ruanda e continuiamo ad accumulare prove e a spingere la Corte Penale Internazionale ad agire contro questi gruppi.

Read Full Post »

Quando si reca all’estero per testimoniare ciò che accade nel suo paese, a Chouchou Namegabe fanno sempre la stessa domanda: “Vuoi davvero tornare là?” E quando lei risponde di sì, insistono: “Non hai paura?” “Se c’è un posto dove devo stare,” ribatte lei con fermezza, “è proprio il Congo.”

Chouchou è cresciuta nel Congo orientale, in una famiglia – abbastanza “tipica” – in cui la radio non era accessibile alle donne di casa: tanto per mostrare come la pensava al proposito, Chouchou cominciò la sua carriera di giornalista radiofonica a 17 anni. Due anni più tardi la guerra civile scoppiò e non ci volle molto prima che la stazione radio venisse chiusa dalle milizie. Nel 2001 la stazione riuscì a riprendere le trasmissioni e Chouchou, orripilata dagli stupri di massa e dalle altre continue atrocità subite dalla popolazione civile, diede inizio alla sua lotta: avrebbe fatto parlare le donne attraverso i suoi microfoni, chi era stata usata come involontaria arma da guerra avrebbe potuto testimoniare e svergognare pubblicamente i suoi torturatori.

Dieci anni e oltre 400 interviste più tardi, i suoi programmi settimanali sono oggi trasmessi da 19 stazioni radio congolesi. Realizzare le interviste comporta spesso la difficoltà di maneggiare un enorme carico di sofferenza; uno degli incontri più dolorosi di Chouchou è stato quello con una bambina di circa 6 anni. Era stata stuprata e poi violata di nuovo con rami spinosi. Quando Chouchou la incontrò, distesa in un letto d’ospedale, gli organi genitali interni della bimba erano stati asportati chirurgicamente, e lei era incontinente. La piccola guardò la giornalista e chiese: “Diventerò mai una donna?” Chouchou, in quel momento, ha solo potuto piangere. Ma l’esperienza l’ha radicata ancora di più nei suoi convincimenti: nel 2003 ha fondato AFEM (Associazione di donne nei media) per creare una squadra di giornaliste che promuovessero i diritti umani delle donne. L’associazione ha il proprio studio di produzione e crea direttamente i programmi che distribuisce. Nel 2006, AFEM ha dato inizio al “Club delle ascoltatrici”, che distribuisce gratuitamente radio alle donne, in special modo nelle zone rurali. Tramite la radio, le donne sono istruite sulla necessità di scambiare le loro storie con le altre e di agire in solidarietà con esse. Ogni donna diventa quindi a sua volta una facilitatrice e ne istruisce altre ancora: i Club continuano a proliferare in tutto il paese.

Chouchou non vuole entrare direttamente in politica, ma sostiene le donne che lo fanno; quest’anno AFEM, in vista delle elezioni nazionali e locali, ha organizzato seminari per coinvolgere le donne nel processo ed ha intervistato alla radio tutte le candidate.

Credo nelle donne.”, dice Chouchou, “Credo che le donne trasformeranno questo paese. E faccio la mia parte in questa rivoluzione.” Maria G. Di Rienzo

Read Full Post »