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Posts Tagged ‘social media’

Quel che segue è un esempio dei numerosi tweets dal contenuto simile (o addirittura identico), relativi alla finale degli Europei di calcio, che girano in questi giorni:

“giuro se vedo ancora un post degli inglesi con scritto itscominghome do di matto, ma che cazzo deve tornare a casa dato che non avete mai vinto un europeo?” (letterale)

C’è scritto “sta venendo a casa”, cervellini splendenti, “sta tornando” sarebbe stato it’s coming BACK home.

Questa è precedente, ma in tema. Si tratta della “traduzione” (da bocciatura) di un testo di Bob Marley fatta da una persona contraria alle “pagliacciate” di Black Lives Matter che “non si inginocchierà mai e poi mai”:

PRENDI SU, STAI IN PIEDI

STAI IN PIEDI PER LE TUE DESTRE

PRENDI SU, STAI IN PIEDI

NON DARE VIA LA LOTTA

Get up si traduce con ALZATI (non “prendi su”)

Stand up significa sì “stai in piedi” ma in questo caso, che non è il comando di un insegnante a un allievo bensì un invito, è preferibile tradurre con ERGITI

For your rights si traduce con PER I TUOI DIRITTI (non “per le tue destre”)

Don’t give up the fight si traduce con NON ABBANDONARE LA LOTTA

Alzati, ergiti

ergiti per i tuoi diritti

alzati, ergiti

Non abbandonare la lotta

E quindi… OK NON BOOMERS! Fate un figurone!!!

Una vecchia signora scarmigliata.

(Tornerò sul tema, perché merita.)

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(lettera e testamento: devo essere a breve operata agli occhi e sto scrivendo con gran fatica – mi scuso per gli eventuali errori dovuti a ciò.)

Capisco. La comunicazione “social media style” in voga è così veloce-effimera che ascoltare, riflettere, acquisire informazioni ed elaborarle è difficile. Di più: lo si stima noioso e sorpassato.

Quindi, per incapacità o per volontà, un numero enorme di persone battibecca e non discute, fa battute e passa oltre (l’argomento del giorno scade talmente in fretta da suscitare il legittimo sospetto che sia adulterato a priori), riduce a tifoseria da stadio ogni platea e taglia con l’accetta del noi/loro qualsivoglia argomento.

Ripeto, questo lo capisco: ma oltre a non aver intenzione di adeguarmi ciò che davvero non comprendo è perché agiscano in tal modo quelli e quelle che da tale modalità non guadagnano niente. La notizia stupirà qualcuno, tuttavia fatevi forza e accettate il fatto che la maggioranza degli esseri umani non lavora nell’ambito marketing yourself / shaming others – definibile con il neologismo “itagliese” payed rincoglioned autoincensing.

Meno comprensibili ancora sono coloro che apparentemente riconoscono la situazione (Bufale.net) e però si rivolgono agli altri così:

“Analizza la situazione, anziché fare l’ultras: Fedez c’ha il cu*o al caldo ed è vero: influencer, marito della Ferragni, imprenditore, rapper. Non vive come me e te in un bilocale (anzi, nemmeno quello), non conta i centesimi a fine mese e non posta da uno smartphone riadattato, è verissimo. Però tutto questo se lo è costruito, non è che lo ha ottenuto ieri e ha lottato per ottenerlo, fra lavoro e amore. E ora può far sentire la sua voce gestendo le conseguenze di esse.” (era “essa”, presumo).”

Vedi, miserabile stronzo, tu non sei riuscito a costruire niente, lavoro e amore ti sono andati a rotoli perché non hai lottato abbastanza o non hai lottato “bene” – e nemmeno ti sei procurato gli amici “giusti” che ha lui: finanziatori, banchieri, azionisti e cialtroncelli disposti a dar spettacolo per costoro a mo’ di giullari di corte. Come se si potesse arrivare ad essere ricchi sfondati con la lotta, il lavoro e l’amore, che al massimo costituiscono il cv e il saldo del conto corrente di innumerevoli attivisti / attiviste per il cambiamento sociale su tutto il pianeta. E come se arrivare ad essere ricchi sfondati giustificasse la piramide sociale dell’esclusione.

Ora, lo so che la prossima citazione è stata strombazzata dalla destra per screditare quanto il rapper ha detto sul palco del Concertone, su cui non ho nulla da eccepire, ma non resta per questo meno problematica:

“Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing / Ora so che ha mangiato più würstel che crauti / Si era presentato in modo strano con Cristicchi / Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?”. Le spiegazioni dell’autore sono ugualmente motivo di perplessità: 1) il pezzo si chiama “Tutto il contrario” ed esprime quindi il contrario di quel che lui pensa; 2) ha cambiato idea, proprio come Salvini (che le cambia velocissimamente); 3) era giovane.

Converrete che convivono male: rivendico, abiuro, non mi assumo responsabilità perché ho scritto ‘sta roba quando ero innocente e ignorante. Trovo inadeguato conferire a costui la palma di paladino dei diritti umani: domani potrebbe cambiare di nuovo idea. Io scrivevo anche da adolescente proprio come lui, ma non ho mai partorito stronzate del genere. L’idea per cui non esistono inferiori da sbertucciare non l’ho cambiata mai e me vanto.

Inoltre, per la milionesima volta: l’outing te lo fanno gli altri (Tizio è una checca, gne gne gne!) – quando esci tu (Sono Tizio e sono gay, e allora?) si chiama coming out. E questa è la spia del perché trovo inadeguato anche porgli in capo la corona d’alloro di difensore della comunità lgbt: conoscerà individui che ne fanno parte, ma sembra ignorare storia e istanze relative ad essa. Preferisco, gusti personali, che il pavimento me lo aggiusti un piastrellista piuttosto di uno che dice: “Sì dai, lo faccio io, ho visto online un video sul reparto piastrelle di Leroy Merlin! Poi te lo racconto su Instagram! Solidarietà al gres porcellanato! Click, like, money money money!!!”

Poi, mi ripeto ancora a beneficio degli estrapolatori di parole che faticano troppo a seguire un discorso intero, tutto quel che ha detto il 1° maggio era vero – non concordo sulle modalità espressive, ma questa è di nuovo questione di gusti – ed era stato detto da parecchie persone prima di lui e persino meglio di lui: sono quelle di cui sopra, con lotta – lavoro – amore in attivo, prive però dell’amplificatore mediatico a disposizione del rapper influencer imprenditore e quant’altro.

Una seconda vicenda che ha (per certi versi incredibilmente) sofferto della mancanza di ascolto e della comunicazione frammentata – vacua – fulminea da web è stata quella relativa a Rula Jebreal e al suo annuncio via social che avrebbe annullato la partecipazione già concordata a “Propaganda Live”, per correttezza e fedeltà ai suoi principi che non prevedono l’essere l’unica donna in un parterre di ospiti composto da uomini (sebbene le fosse già capitato, come hanno notato in molti/e). Diego Bianchi e compagnia sono cascati dalle nuvole, si sono arrampicati sugli specchi (ci sono due giornaliste fisse in studio, cerchiamo le persone per le loro competenze al di là del loro sesso, abbiamo preso il Diversity Media Award ecc.) e io credo che tutti i protagonisti di questa vicenda fossero in buona fede, una buona fede che ha però come fondamenta una notevole superficialità.

E’ possibile che Jebreal durante la conversazione telefonica di ingaggio, per così dire, non abbia chiesto chi altri era presente quella sera? Io sono la Signora Nessuno, di solito chiamata a tener conferenze e incontri a titolo gratuito, però lo faccio – e se la compagnia non mi piace spiego direttamente agli organizzatori perché non potranno contare su di me. Sono femminista da oltre 45 anni. Cerco di comportarmi come un civile essere umano da quando ne ho memoria e con chiunque: peccato che tale attitudine mi torni sempre meno indietro… anche e soprattutto da molte persone che considero “alleate” o “vicine”. Con costoro mi sembra di essere passata da The times, they are a’changin a The times have changed for the worst.

Comunque, come probabilmente saprete io non ho la tv: spesso però vedo “Propaganda Live” online la mattina successiva alla sua messa in onda. Venerdì prossimo questa sua stagione si chiude, perciò mi permetto di chiedere a chi crea e gestisce il programma se nella prossima qualcosa può davvero cambiare nell’attitudine diretta alle donne. Numeri a parte, che come vi hanno ribadito sono pure importanti (chi non c’è non si vede e non si sente), vi illustro dei piccoli esempi. Mi piacerebbe:

1. che Marco Damilano – dopo aver puntualmente ricordato come qua e là ci fossero donne, quando ha incontrato Tizia, cosa ricorda di Caia – non scendesse dal palco dopo un’ultima frase a effetto del tipo “Il mondo degli uomini”. Sono una outsider, lo so, ma questo mondo è anche mio e non sono un uomo. Ogni tanto mi piacerebbe fare brevemente esperienza dell’inclusione;

2. che Marco D’Ambrosio Makkox facesse una ricerca su quante bambine / ragazze / donne si tolgono la vita dopo aver sperimentato innumerevoli aggressioni dirette ai loro corpi non conformi; dopo, decida lui se per prendere in giro Meloni una frase del genere è accettabile: “Ricordo che da bambina a scuola tutti mi bullavano perché ero cicciona… compresi quindi la sofferenza dei discriminati perché diversi… e fu allora che decisi di diventare fascista!”.

Gli altri paragoni usati nel fumetto (pubblicato da L’Espresso) mettono a confronto situazioni che oggettivamente non sono paragonabili per magnitudo – per dirne una, dar fuoco per sbaglio alla casa e capire “chi fugge dopo aver perso tutto”: l’effetto comico sta proprio in questo. Però le “ciccione bullate” come Beatrice Inguì

https://lunanuvola.wordpress.com/2018/04/06/senza-tregua/ – si buttano sotto il treno a 15 anni e a me non fa ridere;

3. che l’ospite fisso Memo Remigi riflettesse sul rispondere con icone di applausi e pollici alzati al genio che gli scrive su Twitter: “Per incrementare le vaccinazioni suggerirei, per il periodo estivo, alle infermiere che se lo possono permettere, di indossare mascherina e grembiule trasparenti sopra un bikini”. Perché chi decide cosa io mi posso o non posso permettere, in base a quali parametri e in forza di quale investitura da mio giudice?

Il corpo di una donna NON è un luogo pubblico, non è arena di dibattito per gli uomini quali esseri superiori – consumatori – acquirenti e le donne costituiscono comunque la metà della gente che deve vaccinarsi: e guardate che suggerire un trattamento simile (con l’infermiere “figo” a torso nudo e slippini ripieni) non solo non guarisce alcuna ferita ma è impossibile. Le posizioni di potere e di legittimazione da cui donne e uomini partono sono troppo diseguali. Persino Benni rinunciò, a suo tempo, dopo aver ipotizzato di sbottonare gli abiti delle infermiere per far entrare i pazienti in sala operatoria in ottime condizioni di spirito (“Elianto”): “Era allo studio un analogo trattamento per le degenti donne”. E allo studio è rimasto e rimarrà ancora a lungo, giacché la portata dell’oggettivazione dei corpi delle donne è così enorme e pervasiva, così intessuta di discriminazione e violenza, da non permettere paragoni.

Come ho detto all’inizio l’ascolto prende tempo, può essere faticoso e persino doloroso, ma se vogliamo capirci, vivere insieme e fare di questo mondo il “mondo degli uomini e delle donne”, qualcosa che valga la pena lasciare alle future generazioni, credetemi: non abbiamo altra scelta.

Maria G. Di Rienzo

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Ora che la Rai (servizio pubblico), nel mezzo di ipocrite e superficiali manfrine sulla violenza contro le donne, vi ha fornito il tutorial su come si fa la spesa sembrando una perfetta cretina (eseguito da professionista di balletti attorno a un palo e presentato da professionista che asserisce di rappresentare la “categoria donna” e ci assicura di combattere ogni giorno per ciò in cui crede, ma purtroppo non ci dice in cosa le sue credenze consistano), mi sento perfettamente legittimata a produrre tutorial anche io.

Oggi, perciò, la vecchia cessa femminista vi spiegherà professionalmente – come attivista antiviolenza e trainer alla nonviolenza – quali concetti avreste dovuto trovare in articoli e servizi relativi al 25 novembre, Giorno internazionale contro la violenza di genere. Questi:

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Si definisce violenza di genere la violenza diretta contro una persona sulla base del suo genere o sesso.

Il termine “sesso” si riferisce alle differenze biologiche esistenti fra maschio e femmina, mentre “genere” si riferisce alle differenze sociali tra essi: che sono apprese, che possono cambiare nel tempo e che variano grandemente sia fra le culture che all’interno delle culture stesse. Il genere è una variabile socio-economica, culturale e politica che può essere utilizzata per analizzare ruoli, responsabilità, opportunità e bisogni di donne e uomini.

La violenza di genere prende molte forme – può essere fisica, sessuale, psicologica, economica, legale, sociale, culturale ed essere tollerata o attivamente alimentata all’interno della famiglia e della comunità o dagli stati e dalle istituzioni.

Dall’insulto alla molestia, dalla minaccia al pestaggio, dall’umiliazione alla restrizione del godimento di diritti umani universali, dallo stupro all’omicidio – ogni manifestazione della violenza di genere è profondamente radicata in convincimenti culturali discriminatori e attitudini che perpetuano diseguaglianza e mancanza di potere, in particolare per donne, ragazze e bambine.

Contrastare la violenza di genere richiede la comprensione delle sue cause e dei fattori che ad essa contribuiscono, i quali spesso fungono da barriera a responsi e prevenzioni efficaci.

La causa principale della violenza di genere è lo status diseguale di uomini e donne (patriarcato) nato dal convincimento che queste ultime siano inferiori e che, assieme ai bambini / alle bambine e ad altri soggetti di “basso rango”, debbano essere controllate, dirette e dominate. La violenza riceve giustificazione da questa e altre idee socio-culturali normative su ciò che la “mascolinità” e la “femminilità” dovrebbero essere.

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Poiché tracciare la violenza in cronaca, nelle buste paga o nelle sentenze dei tribunali è – relativamente – abbastanza facile, nella prossima tranche del tutorial ci concentreremo sui fattori culturali che legittimano la violenza QUOTIDIANAMENTE su media e social media, il cui effetto “sfugge” di continuo agli occhi del pubblico nonostante la loro tossicità sia persino comprovata da una tonnellata di studi e ricerche.

Ripartiamo dalla pagliacciata della spesa “sexy” citata all’inizio: le reazioni ad essa avevano prodotto la cancellazione del programma, ma Rai 2 lo ha mandato tranquillamente in replica il mattino dopo, assieme a signorine in lingerie e a una professionista di reggiseni che spiegava le meraviglie del push-up (colonna sonora: “9 settimane e ½”). Vi sembra che abbiano capito qualcosa delle rimostranze? No, ovviamente: ignorano o preferiscono non considerare le basi che ho citato sopra.

La tizia in micro-gonna (una mini sarebbe stata troppo lunga), con ombelico scoperto e un chilometro di tacchi, che spiegava come mostrare meglio il culo se qualcosa durante la spesa cade sul pavimento doveva essere divertente, atta ad alleggerire questo clima opprimente da pandemia, ha dichiarato sempre la conduttrice sedicente paladina delle sue simili, ma qualcosa non ha funzionato in troppe/i si sono posti infatti questa domanda: si può sapere perché se dobbiamo divertirci la prima cosa che viene in mente agli sceneggiatori televisivi è sbeffeggiare le donne in quanto tali?

Stereotipi e pregiudizi sono formidabili alimentatori della violenza: tutti i cosiddetti “crimini dell’odio” si costruiscono attorno al disprezzo che stereotipi e pregiudizi veicolano; le aggressioni, i pestaggi “domestici”, gli stupri, i femicidi e la ri-vittimizzazione di chi ciò subisce hanno come base tale disprezzo. La ridicolizzazione delle donne può farvi avere qualche “like” in più o divertirvi personalmente ma la sua ricaduta resta il sangue: perché la violenza ha bisogno, per essere agita, della disumanizzazione dei suoi bersagli.

Ieri 26 novembre 2020 in cronaca c’erano i soliti risultati della ricetta:

Pordenone: “E’ arrivato in Questura con le mani ancora sporche di sangue, dopo aver ucciso la compagna con numerose coltellate al collo. La vittima, 33 anni, era la mamma di due bambini di 8 e 3 anni.”

Firenze: “Picchia la compagna e non apre la porta ai soccorritori. Arrestato un uomo di 25 anni per maltrattamenti e lesioni gravi. La donna ha 25 giorni di prognosi. Era già stata aggredita altre volte.”

Come la società italiana ha preparato questo?

1. Dando la colpa alle vittime (“L’aggressore fiuta la preda”, “Cosa si aspettava, di andare a recitare il rosario”, “E’ stata ingenua – stupida – complice”);

2. Giustificando gli assalitori (colti da raptus, obnubilati da alcolici e sostanze varie, giustamente furiosi per le azioni compiute dalle loro vittime, depressi, abbandonati, ecc. ecc. ecc.);

3. Scusando e premiando ed esaltando l’oggettivazione delle femmine di qualsiasi età: (“Ben venga, con le giuste precauzioni, anche la sensualità dei bambini come parte dell’essenza umana, che non ha nulla che vedere con la perversione.” riferito alle adolescenti con le dita in bocca e l’ombelico al vento usate per pubblicizzare automobili);

4. Aggredendo a colpi di svergognamento qualsiasi femmina, di qualsiasi età, rifiuti di aderire al modello in voga (magra – preferibilmente bionda tinta – tette gonfiate – cosce liposucchiate – professione obbligata influencer o youtuber o fashionista) o ne sia impossibilitata per qualsivoglia motivo;

5. Continuando a sparare ignoranti cazzate immani e ignoranti volgarità abissali su cosa sono le donne e cosa sono gli uomini tramite social media, programmi televisivi e simili.

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Fase 3 del tutorial: BREAK FREE!!!

L’immagine “sociale”, ossia la visione che altri hanno di noi e dei gruppi a cui apparteniamo (per caso o per scelta), gioca un ruolo assai importante in un vasto raggio di processi psicologici – relazioni interpersonali, scelta del/della partner, espressione delle emozioni, solo per citarne alcuni.

Tuttavia, ognuno di noi ha molto più controllo su questo lato della propria vita di quanto sia stato indotto a credere: possiamo decidere cosa fare dei messaggi che ci investono.

* Cominciate prestando attenzione a come vi sentite rispetto a essi.

Vacca, troia, puttana, cicciona, brutta, sciatta, “inchiavabile” eccetera non sono “critiche costruttive” di cui dovete tener conto per programmare le vostre azioni future, sono insulti tesi a ferirvi: non hanno alle spalle alcuna logica, alcun dato, alcun ragionamento e meno che mai vengono proferiti “per il vostro bene” visto che l’unico loro scopo è distruggere la vostra autostima e zittirvi.

Perché mai la cosiddetta opinione sul vostro conto del primo stronzo che passa dovrebbe avere più valore della vostra e perché mai dovrebbe esserle delegata la capacità di dirigere la vostra vita (di cui il suo detentore- o la sua detentrice – non sa un piffero)? C’è un’unica esperta della mia esistenza, che vive nella mia pelle: me stessa. Mi sembra ovvio che le decisioni su tale esistenza io sia più qualificata a prenderle rispetto al suddetto stronzo.

* Escludere dalla vostra cerchia le persone distruttive non è censura, è buonsenso.

Però, se “bannare” il tal follower è una semplice azione alla vostra portata, è molto più difficile evitare i messaggi pubblicitari o le narrazioni abominevoli contenute nei programmi televisivi e negli articoli di giornale. Cercate narrazioni alternative: non solo esistono ma sono prodotte in base a principi di civiltà e ad analisi scientifiche, storiche, sociologiche. Una volta che vi siate formate/i una base di conoscenza sulla relazione fra pregiudizi, stereotipi e violenza diffondetela come se non ci fosse un domani… anche perché in questo modo favorirete per altri esseri umani la possibilità di averlo, un domani.

* Sottraete il vostro consenso alla violenza.

So che non l’avete dato formalmente, ma il silenzio è spesso interpretato per tale, perciò protestate, urlate, dissentite, battete mestoli sulle casseruole. E come vi arriva “eeeh… questo è bigottismo” oppure “bisognerebbe capire quanto violenta era la donna psicologicamente” o ancora “questo è un delinquente, il fatto che sia maschio non ha nessuna importanza” e “ma invece hai letto di quella che ha ucciso il suo bambino?”… tornate al punto precedente e cancellate questi ipocriti dai vostri contatti. Non vogliono discutere con voi, non gli interessa una mazza quel che dite, non sono disposti ad imparare niente e la violenza (soprattutto quella contro le donne) gli piace. Avete tempo da perdere, voi?

Maria G. Di Rienzo

P.S. A differenza di note personalità che fissano a circa 600 euro il biglietto per assistere a una loro “lezione di trucco”, l’autrice sunnominata vi ha offerto questo tutorial del tutto gratuitamente – e ne va fiera.

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creepy

Ieri è salito alla ribalta il titolo sul “dramma dei papà separati” con cui Il Mattino dava notizia dell’omicidio per strangolamento di due dodicenni da parte del proprio padre, poi suicidatosi (per inciso, l’uomo non era neppure ancora un “papà separato”: il procedimento legale per la separazione dalla moglie era appena iniziato). Sicuramente ne avete letto abbastanza, con questi tormentoni a fare di tutti gli articoli lo stesso articolo: “lui non aveva accettato la separazione ormai alle porte”, “non risultano tensioni precedenti nella coppia”, “una famiglia tranquilla e normale”, “chi avrebbe mai potuto pensare a una cosa del genere”, “tragedia” – e meglio ancora i carabinieri che cercano di capire “se la tragedia è stata programmata oppure no”.

E’ molto importante, pensano i sedicenti giornalisti italiani, presentare il tutto come un fulmine a ciel sereno (raptus), un’inspiegabile disgrazia che manda in pezzi uno scenario fiabesco: “Fino al giorno della tragedia, – scrive Repubblica – nella famiglia Bressi si ritraevano solo sorrisi. Come nelle tantissime foto che postava il padre con Elena e Diego in montagna, e poi al mare in Liguria, e ancora sui pattini a rotelle, come la mamma, istruttrice. Questa vacanza a Margno con i due figli Mario Bressi l’aveva voluta per cercare di trascorrere del tempo da solo con loro. Sapeva che la moglie voleva separarsi da lui.” Sapeva! Lo aveva scoperto chissà come – pensate forse che la moglie gliene abbia parlato? Certo che no, ha continuato a sorridere mentre complottava con l’avvocato! – e quest’evento inaspettato e sconvolgente e incredibile ha mandato in pezzi una vita fatta tutta di felici selfie su Facebook.

Perché vedete, chi ha scritto ‘sta manfrina pensa che gli assassini siano quelli che vede al cinema o su Netflix. Devono avere una storia morbosa e torbida alle spalle. I loro post sono pieni di oscuri simbolismi e citazioni religiose e gli eventuali sorrisi presenti sono ghigni agghiaccianti. Vestono di nero, con cappucci e cappelli tirati sugli occhi oppure indossano maschere horror o si truccano grottescamente da personaggi dei fumetti. Non basta loro uccidere: smembrano le vittime, le tatuano, gli infilano corna d’alce nel cranio, ne cucinano pezzi alla brace o in salmì.

Gli assassini virtuali sono iscritti così confortevolmente in un’alterità palese che quelli che ammazzano mogli, compagne, figlie e figli nella realtà non possono aver ucciso sul serio. Erano persone normali, tranquille, educate – sorridenti. Mario Bressi sui social sorrideva a tutto spiano, perdinci, quindi nel suo caso “cosa sia successo in questi ultimi giorni da solo con i figli in montagna resta un mistero”.

Il mistero è svelato sullo stesso quotidiano nel medesimo giorno (28 giugno 2020): “Tre i messaggi whatsapp che Mario Bressi, l’uomo che ha ucciso i suoi due gemelli di 12 anni nella loro casa di villeggiatura in Valsassina e poi si è tolto la vita, ha inviato tra le 2 e le 3 di ieri alla moglie, Daniela Fumagalli. L’ultimo dei messaggi, da quanto emerge dalle indagini, sarebbe in realtà una lunga lettera in cui l’uomo, 45 anni, lancia pesanti accuse alla moglie ritenendola colpevole di aver rovinato la loro famiglia, si dice in crisi e disperato, e lancia accuse pesanti: “E’ tutta colpa tua”.” Pare che rispetto ai figli le avesse anche comunicato “Non li rivedrai mai più”. Li amava tanto da strozzarli per vendicarsi della moglie “colpevole”.

Ora, vorrei solo dire agli autori degli articoli di guardare meno American Horror Story e di più la quotidianità, dove un gran numero di uomini con concezioni proprietarie e patriarcali della famiglia dicono cose orrende e sorridono, fanno cose abominevoli e sorridono, vanno sorridendo a votare i peggiori misogini sul mercato, si tolgono il cappello per salutare il vicino di casa – sorridendo – mentre nell’altra mano reggono la borsa in cui sta un martello, un’ascia, una pistola.

Norman Bates e Arthur Fleck mi fanno meno paura.

Maria G. Di Rienzo

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stop

“Guarda com’erano belli magri!”, disse qualche anno fa una dirigente di una grande cooperativa di distribuzione alimentare, indicando la fotografia di bambini denutriti nell’immediato dopoguerra. Nessuno dei presenti le rispose che se era uno scherzo non faceva ridere e neppure la invitò a considerare l’ipotesi di cercare di curarsi dall’ossessione “grassofoba”. Perché quel giorno, come tutti i giorni da anni e prima e dopo quello specifico giorno, non c’era media cartaceo o virtuale che non avesse minimo un articolo (ma in genere sono più d’uno) su come perdere peso, sul dovere di perdere peso – soprattutto per le donne, sulle conseguenze apocalittiche del non perdere peso (ormai le hanno dette proprio quasi tutte: mancano l’invasione di cavallette e la peste bubbonica).

Poi ieri, 23 giugno 2020, arriva in cronaca quel che è la “normale” vita da perseguitati destinata ai bambini che non sono “belli magri” – espressione che ormai è una figura retorica, in quanto i due termini sono diventati sinonimi. I giornali lo fanno così:

– Napoli, bullizzata dagli amici perché obesa: 12enne in ospedale

– Bullizzata su instagram perché obesa, 12enne finisce in ospedale per una sincope

– Napoli, bullizzata dagli amici su Instagram: «Fai schifo, cicciona», 12enne finisce in ospedale

All’interno dei pezzi si specifica che la ragazzina è stata insultata, minacciata, svergognata con immagini pubblicate online… non a causa della stronzaggine abissale e dell’interiorizzazione dell’odio grassofobo da parte dei suoi aguzzini (un 14enne e una 13enne) ma “per i suoi chili di troppo” o perché “è sovrappeso”. Nessuno usa la semplice parola “grassa” o qualcuno dei suoi equivalenti eufemistici quali tondetta, paffuta eccetera: capite, facendolo si potrebbe suggerire fra le righe che la condizione della fanciulla sia accettabile, invece la sua responsabilità nel non essere aderente al modello prescritto socialmente dev’essere chiara.

Le minacce si sono estese alla madre che ha cercato di mettere fine allo stalking: i due sbruffoncelli la informano che si sta organizzando un pestaggio della ragazzina e che “più continui più la pestiamo… dimostra un po’ di affetto per tua figlia”. Dopo il crollo della dodicenne, la madre ha presentato denuncia ai carabinieri.

Cosa credete ci fosse tutt’intorno alla notizia? Diete, prove bikini, ululati finto-medici, perentori inviti a “mettersi in forma” e il nuovo sensazionale metodo “pincopallo” con cui la celebrità di turno è dimagrita.

L’avvocato dei due giovanissimi bulli (come futuri mafiosi promettono bene, ma potrebbero avere carriere eccellenti anche nell’ambito fitness) troverà assai facile argomentare che le loro azioni erano motivate dalla preoccupazione per la salute fisica e mentale della loro “amica” – letteralmente infatti, almeno per il momento, hanno distrutto entrambe.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “The stranded babies of Kyiv and the women who give birth for money”, un lungo e dettagliato servizio di Oksana Grytsenko per The Guardian, 15 giugno 2020, trad. Maria G. Di Rienzo. Ndt: Kyiv è la capitale dell’Ucraina che siamo soliti chiamare Kiev, con la sua pronuncia russa.)

hotel venice

(Neonati partoriti da madri surrogate ucraine all’Hotel Venice a Kyiv. Particolare di una foto di Sergei Supinsky/AFP.)

Alcuni stanno piangendo nelle loro culle; altri sono cullati o nutriti con il biberon dalle bambinaie. Questi neonati non sono nella nursery di un reparto maternità: stanno in fila fianco a fianco in due grandi sale da ricevimento di un albergo dall’improbabile nome “Hotel Venezia” situato alla periferia di Kyiv e protetto da mura esterne e filo spinato.

Sono bambini di coppie straniere nati da madri surrogate ucraine nel Centro per la riproduzione umana della BioTexCom che ha base a Kyiv ed è la più grande clinica di questo tipo al mondo. Sono arenati nell’albergo perché i loro genitori biologici non sono stati in grado di viaggiare fuori o dentro l’Ucraina da quando, in marzo, i confini sono stati chiusi a causa della pandemia Covid-19. (…)

La BioTexCom ha rilasciato materiale video dall’hotel a metà maggio per sottolineare il doloroso dilemma dei genitori e per fare pressione affinché la chiusura dei confini sia mitigata. La situazione critica dei neonati ha fatto scalpore in tutto il mondo ma, a distanza di un mese, circa 50 bambini restano nell’albergo e la saga sta gettando una dura luce sull’etica e sulle dimensioni della crescente industria commerciale delle gravidanze in Ucraina.

Mykola Kuleba, il difensore civico dei bambini per l’Ucraina, dice ora che riformare il sistema da lui descritto come una violazione dei diritti dei minori non è stato sufficiente e che i servizi di maternità surrogata per le coppie straniere in Ucraina dovrebbero essere banditi.

Tuttavia, in un’economia impoverita, dove lo stipendio medio è di trecento sterline al mese e la guerra con la Russia e i suoi sostenitori continua, molte donne indigenti – in special modo nelle piccole città e nelle zone rurali – si stanno ancora mettendo in fila per restare incinte per denaro, anche se stanno pagando, come gli attivisti credono, un alto prezzo psicologico e in termini di salute.

A Vinnytsia, una città a sudovest di Kyiv, Liudmyla sta ancora aspettando il saldo della sua parcella per aver partorito una bimba a febbraio per conto di una coppia tedesca. Manda regolarmente messaggi all’agenzia (non la BioTexCom) che, sostiene, le deve 6.000 euro: “Continuano a rispondermi che non possono mandarmi l’intera somma a causa del lockdown.”

Sebbene Liudmyla, 39enne, abbia ricevuto il trasferimento di embrione a Kyiv e abbia passato la maggior parte della sua gravidanza a Vinnytsia, l’agenzia le ha chiesto di partorire in Polonia, di modo che la neonata fosse registrata là. Il personale ospedaliero non sapeva che Liudmyla era una madre surrogata, perché la maternità surrogata è bandita in Polonia, come nella maggioranza degli stati europei.

“Non volevo darla via, piangevo.”, ricorda Liudmyla. Dice che dopo essersi presa cura di lei per due giorni nel reparto maternità, lasciarla andare è stato uno strazio. Commessa e madre single, Liudmyla ha faticato per anni per trovare una casa per se stessa e i suoi tre figli che fosse migliore della singola stanza in cui vivevano in un ostello. Perciò nel 2017 andò a una clinica per la maternità surrogata e con il denaro ricevuto fu in grado di accendere un mutuo per un appartamento. Anche se finì in terapia intensiva a causa delle complicazioni relative alla gravidanza, Liudmyla decise di avere un secondo bambino surrogato per poter pagare la maggior parte del mutuo.

Non esistono statistiche ufficiali, ma si stima che diverse migliaia di bambini nascano ogni anno in Ucraina da madri surrogate. L’80% di questi bambini sono per coppie straniere, le quali scelgono l’Ucraina perché il procedimento è legale e a buon mercato.

Il prezzo di un pacchetto per la maternità surrogata in Ucraina parte da 25.000 sterline, con la madre surrogata che ne riceve minimo 10.000. Ai genitori promessi è generalmente richiesto di essere coppie eterosessuali sposate e di documentare la propria diagnosi di sterilità. Le cliniche e le agenzie mettono i loro annunci sui giornali, sui trasporti pubblici e sui social media.

Tetiana Shulzhynska, 38enne, scrive a questi ultimi tentando di persuadere le donne a stare distanti dalla maternità surrogata, poiché pensa che alcune di loro finiranno per pagarla con la propria salute o persino con le loro vite. “Nei contratti proteggono solo i bambini, non si curano di noi.”, dice seduta sul letto nella sua piccola casa di legno a Chernihiv, nel nord dell’Ucraina.

tetiana

(Tetiana Shulzhynska sfoglia i suoi referti medici nella sua casa di Chernihiv, nell’Ucraina del nord. Foto di Anastasia Vlasova.)

Shulzhynska, una madre di due figli che lavorava come autista di filobus, andò a una clinica per la maternità surrogata nel 2013, perché aveva disperato bisogno di ripagare un prestito bancario. Era così in bolletta che la clinica le mandò i soldi per pagarsi il biglietto fino a Kyiv.

Si accordò per restare incinta a beneficio di una coppia italiana e dopo due mesi si trovò ad avere quattro embrioni vivi in grembo. La famiglia biologica decise di tenerne solo uno e il resto fu rimosso chirurgicamente. Nel maggio 2014, Shulzhynska partorì una bimba che diede ai genitori. Ricevette un compenso di 9.000 euro.

Sette mesi più tardi andò all’ospedale con terribili dolori di stomaco. I medici le diagnosticarono il cancro cervicale. Le ci è voluto quasi un anno per raccogliere i soldi necessari all’intervento chirurgico. Shulzhynska sospetta che il cancro sia stato causato dalla sua maternità surrogata, anche se non ha prove. Di recente ha ordinato le stampelle perché i suoi medici hanno in programma di amputarle la gamba sinistra, ora affetta dal cancro che si propaga. Nel 2015, Shulzhynska ha denunciato la BioTexCom per i danni causati alla sua salute, il che ha dato avvio a indagini penali ancora in corso.

Yuriy Kovalchuk, un ex pubblico ministero il cui ufficio ha trattato una serie di indagini penali sulla

BioTexCom nel 2018 nel 2019, dice che almeno tre donne si presentarono alla polizia per aver subito la rimozione dell’utero subito dopo aver condotto gravidanze surrogate organizzate dalla compagnia commerciale. Racconta che altre indagini riguardavano accuse di frode e persino, nel 2016, di traffico di esseri umani dopo che una coppia italiana aveva scoperto nel 2011 che i bambini che si erano portati a casa non avevano con loro relazione genetica. Kovalchuk è stato rimosso dal suo incarico l’anno scorso e crede che ciò abbia avuto il risultato di arrestare le indagini sulla BioTexCom. In maggio ha scritto all’ufficio del difensore civico dettagliando le sue preoccupazioni sulla clinica.

All’ “Hotel Venezia” Albert Tochilovsky, il proprietario della BioTexCom, non nega che ci siano stati scambi negli embrioni durante le procedure attuate nel 2011 che hanno condotto all’indagine per traffico di esseri umani. Dà la colpa dell’errore alla mancanza di esperienza, giacché la clinica allora aveva solo un anno. “Non penso che solo noi si abbia commesso errori in questo campo. Se qualcuno cominciasse a controllare i DNA ci sarebbero un bel po’ di scandali.”

Tochilovsky sostiene che in almeno tre casi i genitori hanno rifiutato i bambini surrogati perché erano nati con problemi di salute. Il caso più noto è quello di Bridget, la figlia di una coppia americana che è nata nel 2016 e ora vive in un orfanotrofio a Zaporizhia, nell’Ucraina orientale. (…)

Le madri surrogate si stanno organizzando sui social media, dove condividono consigli e avvisi sulle agenzie. Svitlana Sokolova, ex madre surrogata e ora attivista dell’ong “Forza delle Madri”, che aiuta le madri surrogate, dice che ha cominciato a ricevere più lamentele su supposti maltrattamenti durante la quarantena per il Covid. Un gruppo di donne ha raccontato che il loro contratto le obbliga all’impianto di embrioni per un anno sino a che restano incinte. “Tramite questo contratto le donne diventano una sorta di proprietà privata.”, dice Sokolova.

Maryna Lehenka, avvocata de “La Strada – Ucraina”, dice che l’organizzazione di beneficenza riceve circa 100 chiamate l’anno da madri surrogate che lamentano lo stress di cui fanno esperienza dopo aver consegnato i bambini, o i problemi causati dagli ormoni che assumono per aumentare le probabilità di restare incinte. Lehenka menziona il caso di una donna che entrò in clandestinità in un villaggio, perché non voleva dar via il neonato surrogato.

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unfinished puzzle

1. DI COSA SI DISCUTE (tratto da: “What Is Autogynephilia? An Interview with Dr Ray Blanchard”, di Louise Perry, novembre 2019, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo):

Ray Blanchard è professore aggiunto di psichiatria all’Università di Toronto, specializzato nello studio della sessualità umana con particolare focus sull’orientamento sessuale, le parafilie e i disturbi relativi all’identità di genere. Fra gli anni ’80 e ’90 ha elaborato una teoria sulle cause della disforia di genere che classifica le donne transessuali (nati maschi che si identificano come donne) in due gruppi separati.

Il primo gruppo è composto da donne transessuali “androfiliache”, che sono attratte esclusivamente da uomini e hanno comportamento e apparenza marcatamente femminili sin da giovane età. Tipicamente, costoro iniziano il processo di transizione medico da maschi a femmine prima dei trent’anni.

Il secondo gruppo è motivato alla transizione come risultato di ciò che Blanchard chiama “autoginefilia”: un orientamento sessuale definito dall’eccitazione sessuale al pensiero di essere donna. Gli autoginefili sono tipicamente attratti da donne, anche se possono identificarsi come bisessuali o asessuali. E’ più probabile che attuino la transizione più tardi e che sino a quel punto siano stati convenzionalmente mascolini nella presentazione di se stessi.

Sebbene la tipologia di Blanchard sia sostenuta da un vasto numero di sessuologi e altri ricercatori, è rigettata in modo veemente da attivisti trans che negano l’esistenza dell’autoginefilia. La storica della medicina Alice Dreger, il cui libro del 2015 “Galileo’s Middle Finger” includeva il dar conto della controversia sull’autoginefilia, riassumeva il conflitto così:

“C’è una differenza cruciale fra l’autoginefilia e la maggior parte degli altri orientamenti sessuali: questi ultimi non sono eroticamente bloccati dal semplice avere un’etichetta. Quando dici al comune uomo gay che è omosessuale, non stai disturbando le sue speranze e i suoi desideri sessuali. Per contro l’autoginefilia si comprende forse meglio come “un amore che vorrebbe davvero tu non dicessi il suo nome”. Il massimo erotismo dell’autoginefilia sta nell’idea di diventare realmente una donna o di essere realmente una donna, non nell’essere un nato maschio che desidera essere una donna.”

Ray Blanchard (dall’intervista che segue la presentazione tradotta sopra):

“Paradossalmente, gli sforzi degli attivisti transessuali per sopprimere completamente ogni menzione dell’autoginefilia nel dibattito pubblico hanno avuto come risultato un’aumentata consapevolezza al riguardo. Penso che questo comportamento controproducente sia persistito perché l’idea dell’autoginefilia è troppo vicina alla verità. Se non avesse nessuna risonanza con loro l’avrebbero semplicemente ignorata e l’autoginefilia sarebbe diventata una delle ipotesi dimenticate, fra le tante, sui disturbi relativi all’identità di genere.

Attualmente, molte persone eterosessuali M-F (nella loro descrizione, donne transessuali lesbiche) presidiano militarmente e incessantemente i forum in cerca di ogni menzione dell’autoginefilia. Se un nuovo arrivato pensa che essa descriva la sua esperienza, gli viene immediatamente detto che il suo pensiero è sbagliato e che l’autoginefilia non esiste. (…)

So che è possibile discutere dell’autoginefilia in modi onesti e spassionati – o persino compassionevoli – perché l’ho visto accadere sul mio account Twitter. In alcune occasioni alcuni autoginefili (anonimi) hanno pubblicato serie organizzate e ben articolate di spiegazioni su come ci si sente ad essere eccitati sessualmente al pensiero o all’immagine di se stessi come donne, su come queste emozioni sessuali si colleghino all’emergere dell’avversione per i loro corpi maschili e al loro desiderio di avere un corpo femminile, sugli effetti deleteri dell’autoginefilia e della disforia di genere sulle loro relazioni personali e il loro umore e stato in generale. Questi spunti di discussione hanno sempre stimolato alcuni altri a scrivere messaggi in cui apprezzavano l’onestà e il coraggio, assieme a dichiarazioni di simpatia. Nessuno ha mai detto: “Adesso che conosco meglio la tua tipologia mi disgusti ancora di più”, sebbene gli utenti di Twitter non siano noti per autocontrollo o generosità. Non so se sia possibile discorrere della questione in arene più pubbliche, probabilmente non al momento a causa dell’attuale politicizzazione del termine autoginefilia.

Anne A. Lawrence, medico, che ha scritto la più esauriente monografia accademica sull’autoginefilia, “Men Trapped in Men’s Bodies”, transessuale M-F che si è sottoposta a transizione medico-chirurgica, era un autoginefilo lei stessa.”

2. CHI DISCUTE (tratto da: “Forced Teaming, Feminism, LGB and ‘Trans Rights’, di Dr. Em, 25 maggio 2020, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo):

Le femministe sostengono che il genere è un meccanismo di un sistema di oppressione, costituito da stereotipi sessisti costruiti ad arte e poi usati per sfruttare le donne: per esempio la nozione che poiché sei femmina vuoi naturalmente aver cura e pulire o quella per cui per natura il sesso femminile è sottomesso e gentile.

I diritti delle persone LGB si basano sull’idea che l’attrazione fra membri dello stesso sesso è reale e normale e ad essa dovrebbero essere garantiti gli stessi diritti e lo stesso rispetto di cui gode l’eterosessualità. Il transgenderismo / transessualismo, per contro, afferma che il genere – l’oppressione delle donne e gli stereotipi sessisti – sia innato, o qualcosa a cui conformarsi alterando il corpo a causa dell’opprimente sconforto dovuto a questo disturbo. La disforia di genere dichiara che è la persona a essere sbagliata, non il sessismo culturale, lo sfruttamento o l’oppressione. Il motto è: “Cambia la persona, non il sistema!”

Il transgenderismo / transessualismo ha cominciato a negare l’esistenza e l’importanza del sesso binario, il che nega a ruota la realtà dell’attrazione fra persone dello stesso sesso, manipolata come “attrazione per lo stesso genere”. Se le lesbiche possono avere peni, la sessualità diventa l’attrazione per gli stereotipi sessisti, per i manierismi e per le scelte di moda. (…)

L’oppressa non può costruire critiche e sfide quando l’oppressore siede alla stessa scrivania e guarda quel che fa da dietro la sua spalla. La presenza dell’oppressore, inoltre, eviscera gli argomenti rendendoli situazionali (basati su circostanze) anziché concreti: “Ma questo è carino”, “A volte le persone nascono sbagliate”, “Lui dice di essere una lesbica ma in realtà sa che non è così, tu sii gentile”. Ciò apre la porta alla trattativa sui diritti e sulle linee di confine delle donne e alla negoziazione sulla realtà stessa dell’attrazione fra persone dello sesso sesso.

La violazione del limite è la chiave. Essendo il primo limite la definizione della donna, poi della femmina, il successivo è la percezione di sé, poi sono violati spazi fisici e risorse.

De Becker (Gavin De Becker, autore di “The Gift of Fear”) dice che se qualcuno ignora la parola “no”, ciò è il segnale più significativo a livello universale del fatto che non ci si dovrebbe fidare di quella persona. I maschi hanno chiesto di continuo di essere inclusi nella definizione di “femmina” e di continuo non hanno ascoltato il “no” delle donne, hanno continuato a usare spazi per sole donne dopo i ripetuti “no” di diverse di noi. I maschi stanno dicendo alla comunità LGB che l’attrazione per lo stesso sesso è bigotta e stanno rifiutando di ascoltare il “no” che ricevono in risposta.

Ignorare un singolo “no” è un segnale d’allarme, ma ignorarne un mucchio è una sirena e l’idea che ci voglia di più di questi no per capire è manipolazione.

3. COME SI DISCUTE (tratto da: “Facebook Community Standards Allow The Promotion Of Violence Against Women”, di Roger Dubar, 28 maggio 2020, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo):

“Va perfettamente bene, secondo i Facebook Community Standards, pubblicare articoli sul prendere a pugni le donne. Prenderle a pugni sulla gola sembra essere particolarmente popolare.

Questa è una battuta, ovvio. Non puoi pubblicare sul prendere a pugni una donna qualsiasi o tutte le donne: devi assicurarti che il tuo post tratti dell’incoraggiare violenza verso donne che hanno opinioni sbagliate sull’ideologia di genere.

Molti anni fa, lavoravo nell’ambito del diritto di famiglia. C’era uno scherzo famoso fra gli avvocati che si occupavano di violenza domestica e faceva più o meno così:

“Cos’hanno in comune un migliaio di mogli pestate? Semplicemente non ascoltano.” Se lo scherzo vi sconvolge, sappiate che non dovrebbe. E’ la precisa giustificazione usata dagli uomini che picchiano le loro mogli e le loro compagne.

Su Facebook, tu puoi pubblicare sul prendere a pugni (o a pugni sulla gola) le donne finché ti pare. Devi solo chiamare prima queste donne “TERF”. Quest’ultimo era l’acronimo per “femminista radicale trans-escludente”, ma non si deve “escludere le persone transessuali” o essere una “femminista radicale” per diventare “TERF”. Tutto quello di cui si ha bisogno è avere un’opinione leggermente differente dalla persona che ti chiama “TERF”.

Pensi che dovrebbe esserci una discussione sull’accesso di maschi biologici che si identificano come donne agli sport femminili e alle prigioni femminili? Sei una TERF.

Pensi che le donne transessuali meritino amore e rispetto, ma che non in tutti i casi siano effettivamente di sesso femminile? Sei una TERF.

Pensi che chiunque dovrebbe poter indossare quel che vuole ed esprimersi come vuole, ma che nessuno dovrebbe essere forzato a pensare o a fingere di aver davvero cambiato sesso? Sei una TERF.

E sei una persona transessuale come Debbie Hayton, frustrata dall’attivismo trans intollerante e iperbolico? Non sei meglio di una collaborazionista nazista.

E promuovere odio e violenza contro le TERF è ok. Dicono così i Facebook Community Standards.

Ma un momento, direte voi: Facebook non permette la promozione della violenza contro le donne in sé – è solo per le donne che hanno opinioni sbagliate.

Queste donne se la sono voluta. Come sempre, semplicemente non ascoltano.

Io venivo regolarmente bullizzato perché giudicato “non conforme” in materia di genere mentre crescevo. Ora, tuttavia, gli stessi bulli che mi dicevano che non ero abbastanza maschio, o che sembravo una femmina, stanno dicendo alle donne che meritano violenza se dicono che il sesso biologico è reale o che gli uomini non dovrebbero identificarsi come donne negli spazi delle donne.

Non penso che Facebook, la corporazione multimiliardaria fondata da Mark Zuckerberg, creda vada bene promuovere violenza contro le donne che non si adeguano: penso che i diritti delle donne non significhino molto per la maggioranza delle persone. Penso che, proprio come diceva sempre mia madre, le donne siano invisibili.

Ad ogni modo, i Facebook Community Standards permettono comunque la promozione della violenza contro le donne non accondiscendenti.”

4. DI COSA NON SI DISCUTE:

18 maggio 2020 – Londra, Regno Unito:

Il Ministero della Giustizia britannico ha rivelato che prigionieri maschi che si identificano come donne sono responsabili di una quota di aggressioni sessuali esponenzialmente più alta della loro proporzione nella popolazione delle carceri femminili. Il Ministero ha riconosciuto che, nel mentre la percentuale dei detenuti maschi che si identificano come transgender ammonta all’1% delle 3.600 persone detenute nelle carceri femminili, essi hanno commesso il 5,6% degli assalti sessuali denunciati. Le donne stuprate da questi individui sono a rischio di gravidanza, di malattie sessualmente trasmissibili e lesioni ai genitali e possono essere di nuovo traumatizzate se erano state vittime di precedenti abusi.

19 maggio 2020 – Bridgend, Galles, Regno Unito:

Un venticinquenne condannato per violenze sessuali, che si identifica come donna, è stato di recente di nuovo incarcerato per aver infranto due volte l’ordine di restrizione relativo agli assalti sessuali, cosa che ha ammesso.

Leah Harvey, in precedenza noto come Joshua, era finito in galera nel 2018 per aver incitato una bambina a compiere atti sessuali dopo averle inviato foto e video pornografici di se stesso. (Uso il maschile perché il corpo con cui ha fatto questo lo è) Dopo due sole settimane dal rilascio, nell’ottobre dello scorso anno, ha molestato due ragazzini di fronte ad agenti di polizia, vantandosi con loro di essere pedofilo. Successivamente, in novembre, è andato a molestare due ragazze adolescenti che lavorano alla cassa di un negozio di cibo da asporto. Quando la prima ragazzina lo ha ignorato, il sedicente pedofilo le ha gettato addosso del cibo; quando sempre costei gli ha detto di non toccarla, ha tentato di infilarsi dietro al bancone dicendo di avere “una sorpresa per lei”. Mandato via, è tornato tre giorni dopo, ha trovato un’altra adolescente alla cassa, le ha chiesto il nome e poi l’ha chiamata a voce alta 15 volte, le ha domandato se era abbastanza grande per avere una relazione sessuale e si è offerto di portarla fuori.

2 giugno 2020 – Manukau City, Auckland, Nuova Zelanda:

Il 47enne Kylie So, che si identifica come donna, è stato posto in carcere con l’accusa di aver ucciso un 71enne, Robert Dickie, in casa del quale si era trasferito. Dopo quattro giorni di coabitazione l’anziano è scomparso e sebbene il corpo non sia ancora stato ritrovato, le analisi della polizia scientifica nella sua casa hanno rilevato “un’ingente quantità di sangue versato”.

Inizialmente, l’accusato era stato incarcerato in una prigione maschile e non aveva eccepito al proposito (come la legge neozelandese gli permette di fare), ma convinto da zelanti attivisti transgender ha poi cambiato idea ed è stato trasferito nella prigione femminile a Wiri.

Attualmente ci sono 33 persone che come lui si identificano donne nelle carceri neozelandesi, 18 delle quali sono dentro per crimini violenti, inclusa l’aggressione sessuale. Dal gennaio 2017, sei assalti sessuali sono stati perpetrati da individui che dicono di essere donne transessuali contro donne prigioniere.

5 giugno 2020 – Melbourne, Victoria, Australia:

Al momento dell’arresto per stalking a danno di una donna, l’ex giocatore di football australiano Dean Laidley, 53enne, indossava un abito e biancheria femminili, trucco, una parrucca bionda e 0,43 grammi di metamfetamina nel reggiseno. L’arresto è avvenuto in flagrante: Laidley si trovava fuori dalla porta di casa della sua vittima. A costei ha mandato oltre 100 messaggi di minacce usando telefono e e-mail, l’ha fotografata per ogni dove, ha richiesto i video delle telecamere di sorveglianza che la riguardano al complesso residenziale, perché la ritiene una troia e una puttana.

Secondo il suo avvocato bisogna compatirlo, perché soffre di disforia di genere. Tra l’altro, quando ha cominciato a perseguitare la donna era fuori dal carcere su cauzione – e al carcere era stato condannato per violenza domestica.

7 giugno – Khon Kaen, Thailandia:

La polizia sta chiedendo aiuto all’opinione pubblica per rintracciare il 28enne Thanphicha Rodnongkheng, che si identifica come donna e che è sospettato dell’omicidio del suo compagno convivente. La vittima è il 27enne Manop Amthao, il cui cadavere è stato ritrovato – con due ferite mortali da coltello al petto – nella casa in affitto in cui i due vivevano. L’arma del delitto è stata abbandonata nel lavandino della cucina. Una videocamera ha registrato Rodnongkheng il giorno precedente il ritrovamento, mentre si allontana dall’area con una borsa a tracolla e due borse di plastica a mano.

7 giugno 2020 – Brisbane, Queensland, Australia:

Uno stupratore recidivo di bambini, 34enne, è stato rilasciato dalla prigione il 4 giugno scorso, dopo aver dichiarato che gli ormoni che ha cominciato ad assumere in carcere, per la transizione sessuale, hanno diminuito la sua possibilità di violare bambini in futuro.

Jeffrey Terrence Anderson è stato condannato nel 2008 per lo stupro di un dodicenne e di due bambini di sei anni a cui faceva da babysitter. In prigione il sig. Anderson ha cominciato a identificarsi come donna e ha mutato il suo nome in Rose. Tuttavia, le guardie carcerarie hanno continuato a trovare immagini di bambini e persino una storia da lui scritta in cui dettaglia la fantasia di stuprare un bambino di tre anni almeno sino al 2017. Adesso è libera, sottoposta a supervisione per dieci anni e ha la proibizione di incontrare minorenni. L’attrezzatura con cui stuprava, comunque, è ancora al suo posto.

PRECISAZIONI:

a) J.K. Rowlings non mi piace, ne’ come persona ne’ come scrittrice. Che siano le donne ad avere le mestruazioni, però, resta vero anche se lo dice lei.

b) Sono qui che aspetto la ripetizione ad libitum del mantra “Gli uomini transessuali sono uomini” e che qualcuno cominci a pretendere la dicitura “persone che donano sperma” al posto di “donatori”, anche se possono farlo solo gli uomini, esattamente come mestruare possono farlo solo le donne.

Ma non succede, perché?

c) Aspetto anche le “vagine-vulve da uomo”, equivalenti dei “peni da donna” e l’accusa di bigottismo e fobia e discriminazione al maschio gay che non voglia andare a letto con il “maschio che ha la vagina” perché semplicemente preferisce altro.

d) Con questo pezzo – davvero troppo lungo – mi prendo un intervallo. Au revoir.

Maria G. Di Rienzo

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my body my rules

(Il MIO corpo, le MIE regole)

Non sarò breve: per cui mettetevi comode/i oppure passate ad altro. Ieri l’HuffPost pubblica in una delle sue rubriche una lettera a cui dà il titolo “Il dovere della bellezza”. La scrive, secondo la sua stessa presentazione, “Marta Benvenuto, 35 anni, 110 e lode in Filosofia, senior digital marketing analyst”. Alcuni brani del testo (le sottolineature sono mie):

“Il 25 aprile la gente cantava dai balconi ‘Bella ciao’. Nei 200 metri concessi allora per una passeggiata sono passata sotto un balcone dal quale un ragazzo cantava ‘Bella ciao’. Complice il 25 Aprile l’ho guardato e gli ho rivolto un ampio cenno di saluto. Poi ho visto un gatto dietro a un cancello e sono andata lì. Intanto continuava a suonare ‘Bella ciao’. Guardavo il terrazzo, c’era il ragazzo, una ragazza, una birra. Ero felice.

E mentre il partigiano moriva cento e cento volte per la libertà il ragazzo ha gridato dal terrazzo: ‘Ehi culona! Puttanona! Tu col gatto guarda che culone da puttanone!’. Io non ho detto niente. I 200 metri che mi erano sembrati così pochi sono diventati infiniti. Improvvisamente non c’è stato altro da sapere di me, non è rimasto altro di me, solo il mio culo grasso. Mi sono arrabbiata per non aver risposto.

Perché noi abbiamo il dovere d’essere belle. Prima d’essere brave o buone. E poi, quando siamo belle, d’essere puttane o frigide. E quando siamo bionde stupide. E quando siamo stupide almeno educate. E quando siamo ricche d’essere passate sotto qualche tavolo, quando siamo giovani di ascoltare e quando siamo vecchie di scomparire. E quando non vogliamo compagni d’essere lesbiche, e quando siamo lesbiche d’esserlo sotto i vostri occhi di maschi, solo per il vostro piacere, mai per il nostro.

E quando vogliamo godere il dovere di fare figli, quando li facciamo il dovere di non pesare sul nostro padrone e capo. Di rientrare in un cassetto costruito da un uomo per noi. Un cassetto di soli doveri. Che a un uomo non sono richiesti, mentre può essere brutto, stupido, ricco, scapolo, vecchio, sterile e tante altre cose per le quali non esiste nemmeno un corrispettivo declinato al maschile. Questi stessi uomini hanno il potere di giudicarci e noi, il dovere di tacere.

Noi dobbiamo vergognarci anche della vostra stupidità. Voi dovete solo vivere, senza nemmeno la decenza di lasciare in pace i partigiani morti, fascisti che non siete altro, fascisti dentro, che non vi meritate ‘Bella ciao’. Me la merito io, io che posso fare qualunque cosa, anche ingrassare, se mi va.”

I commenti (di molti uomini) sono impagabili: ha generalizzato, le persone così sono una minoranza malata di mente e bisogna solo compatirli, con gli stupidi è meglio tacere, adesso mi vergogno di essere un uomo ma non capisco perché Gesù non ha voluto la parità di genere fra gli apostoli (dopo questa stronzata si sente un genio, capite), non scambiamo l’ironia (???) per il mondo reale. Ovviamente, Marta: sono tutti fuori bersaglio. Lei ha ricevuto l’aggressione, ha dettagliato la mera realtà delle vite delle donne – e le vittime sono loro. Se mi permette, un po’ distante dal fare centro è anche lei quando si premura di far notare “Mi alleno molto, pochi uomini riescono a starmi dietro”. E’ una sua scelta e spero che si diverta nel farlo, ma a chi legge appare come una giustificazione: guardate che sono già una di quelle a posto, perciò non venite a consigliarmi nutrizionisti e palestre.

Comunque, la lettera mi serve qui come incipit e ne ringrazio l’Autrice. Quel di cui voglio parlarvi è il culo grasso. Proprio.

Il dovere di essere “belle” e “in forma” – ove la bellezza e la forma sono costrutti ideali che trovano validazione solo nello sguardo maschile – si nutre del fanatismo che circonda il peso corporeo, soprattutto il peso delle donne, alcune delle quali non hanno atteggiamenti così diversi da quelli dei farabutti che si sentono autorizzati a insultare sconosciute dai balconi con tutto lo spettro delle prescrizioni patriarcali a sostenerli: pensano di essersi guadagnate la bellezza/magrezza con il duro lavoro, la palestra, il centro benessere, l’estetista e la parrucchiera e il trucco copiato dall’influencer di turno, contando le calorie e piangendo davanti allo specchio… perché diavolo voi dovreste spassarvela quando loro soffrono ogni giorno per somigliare a x o y? E’ solo giusto, solo normale che dobbiate tollerare il loro odio insensato. In più, quando maschi (in stragrande maggioranza) e femmine vomitano la loro schifosa cascata di offese e ingiurie hanno il coraggio di tirare in ballo la vostra salute, di cui non sanno un piffero ma su cui possono ripetere a oltranza tutte le minchiate che hanno letto e sentito in giro. Perché la guerra al culo grasso è fatta di propaganda.

In caso non sia chiaro: si spremono miliardi dalla truffa del “grasso mortale” e dell’ “epidemia di obesità” (che non esiste). La cultura della dieta è una truffa, tanto più che sempre più studi stanno dimostrando che la perdita di peso non migliora i biomarcatori della salute. Sin dal 2002, ricerca dopo ricerca, salta fuori questo: le persone grasse con problemi cardiaci o renali, diabete, polmonite e varie malattie croniche se la cavano meglio e vivono più a lungo di quelle con le stesse patologie e peso cosiddetto “normale”. Certo, a meno che a forza di sentirsi urlare che sono schifose e rivoltanti si buttino sotto un treno, o si sottopongano a interventi chirurgici che le uccideranno più alla svelta.

Ma che dico mai, questo o quella non sono dimagriti con la dieta? Sì, e le probabilità che hanno di mantenere la perdita di peso per cinque anni o più sono le stesse del sopravvivere alla metastasi del cancro al polmone: 5 per cento. Auguri.

Non sono notizione che vi dò io tirandole giù dal cielo assieme alla Luna. I medici, persino quelli che vogliono far finta di niente, le conoscono. Sanno che affamarsi, perdere peso, riguadagnare peso e rimettersi a dieta sono azioni causa di malattie cardiache, resistenza all’insulina, alta pressione sanguigna e aumento di peso a lungo termine. Sanno che la mortalità più bassa si registra in individui classificati “sovrappeso” o “leggermente obesi” dal Body Mass Index.

Nella realtà, non nei sogni dei nutrizionisti da palcoscenico o da social media, il 97% delle persone dimagrite riguadagna il peso perso e ne aggiunge un po’ entro tre anni. Se il dietologo di grido vi sbandiera le sue “ricerche” lasciate pur perdere i parametri scientifici di controllo (è raro che li abbiano) e chiedetegli solo di dimostrare che esse hanno seguito le persone oltre lo spartiacque dei tre anni: se la risposta è no mandatelo a zappare, affinché faccia meno danni.

Il giudizio sul culo grasso è morale, non clinico. E trattare il dimagrimento come imperativo morale sostiene la violenza sistemica contro le persone grasse, in tutte le sue forme.

“La chirurgia bariatrica è una barbarie, ma è il meglio che abbiamo.” ha dichiarato David B. Allison, docente universitario di biostatistica. Il meglio che abbiamo ha come effetti malnutrizione, blocchi intestinali, disordini alimentari, infezioni e morte. Non male. Storicamente, prima di amputare o legare lo stomaco agli schifosi pigri che si ingozzano da mane a sera (nell’abominevole immaginario creato ad arte) la “medicina” ha prescritto loro altre “cure”: il lockdown meccanico delle mascelle, per esempio. Se queste merde persone non possono aprire bocca mica possono schiaffarci dentro la fetta di tiramisù, giusto? E che dire delle operazioni chirurgiche al cervello per infliggere salutari lesioni all’ipotalamo? Perché ai “ciccioni” è stato fatto anche questo.

Poi c’è chi dirà di essere in grado di provare che i medicinali per la perdita di peso sono sicuri ed efficaci. Il fen-phen? Buonissimo! Ha danneggiato irreparabilmente le valvole cardiache solo a un terzo delle persone che l’hanno preso. L’orlistat? Una figata! Rovina il fegato e dona il brivido di incontrollabili evacuazioni a tutti. Sibutramine, dite? Splendido! E’ solo che non si fa in tempo a dimagrire per bene, perché si schiatta prima di infarto.

Nessuno riesce a collegare scientificamente la perdita di peso all’acquisto di “miglior salute”. Il meccanismo causa-effetto semplicemente non c’è. L’unico studio che in materia ha seguito i propri soggetti per più di cinque anni (Look AHEAD, 2013) ha per esempio constatato che i diabetici (tipo 2) che avevano perso peso avevano sofferto degli stessi problemi di salute di quelli che non lo avevano perso. Lo dicono gli esperti, quelli veri, quelli che hanno speso tempo e risorse a indagare in modo scientifico e che non si aspettavano proprio risultati di questo genere ma una volta che li hanno ottenuti hanno avuto l’onestà intellettuale di ammetterli. Io non sono un’esperta, ma sono stata costretta ad assumere un notevole ammontare di informazioni – e a confrontarle e verificarle – da due fattori: 1) mia madre era diabetica e io l’ho accompagnata ai controlli mensili all’ospedale per più di 15 anni, sciroppandomi vasta letteratura medica in merito; 2) non sopporto la superficialità e la disinformazione che nutrono scherno e aggressioni a varie tipologie di persone, quelle grasse comprese. Perciò continuo a informarmi, sempre.

Ma l’American Medical Associaton ha detto che l’obesità è una malattia!

Sì, del tutto arbitrariamente, in modo non scientifico e contro il parere del suo Comitato su Scienza e Salute Pubblica. Girano un sacco di soldi e di conflitti di interessi in loco, l’ho dettagliato altre volte (consulenze, proprietà di azioni nell’industria dietetica, mazzette vere e proprie, ecc.), ma la cosa bella – si fa per dire – è che persino i semplici umili dottori di famiglia americani che diagnosticano questa malattia ai loro pazienti possono guadagnare qualcosa, aggiungendo il codice di tale diagnosi alla loro parcella e caricandola. Il dio $$$ è con loro.

Poiché siamo umani, persino noi non conformi, nei primi tempi della pandemia abbiamo sperato che messi di fronte a una vera emergenza sanitaria i “grassofobi” avrebbero cominciato a riflettere sulle loro ossessioni e magari a studiare. Poiché siamo umani, questa speranza spirata sul nascere alza un poco la testa ad ogni nuovo conto dei morti da coronavirus (31.610 ieri in Italia) e poi ricade miseramente fra i meme di “prima e dopo” la quarantena sull’orrore del prendere peso, fra i consigli illuminati (dal faro dell’ignoranza) di youtuber e influencer e fankazzistas e laureati su wikipedia o direttamente on the road perché fanno la corsetta tutti i giorni, fra le diete proposte da celebrità milionarie che, con lo sfondo delle loro lussuose magioni, ci mettono in guardia: attenzione, potreste mangiare di più per lo stress e il costumino di quando avevate 13 anni non andarvi più bene!

Il tutto mentre la gente comune soffre per l’isolamento, per la perdita di lavoro e di reddito, per il timore del contagio, per il parente morto o in terapia intensiva. E questi gli dicono di concentrarsi sul girovita. Dare alla faccenda l’aggettivo abominevole non rende appieno il disgusto che provo.

Bisogna dire, però, che c’è chi gli fornisce il retroscena adatto: i sedicenti professionisti che ignorano a bella posta le ricerche sul peso e le loro implicazioni. Con il coronavirus hanno fatto di peggio, rendendo il peso una caratteristica ancora più patologica. Il BMI è stato scorrettamente indicato come fattore di rischio sia per l’essere infettati sia per il soffrire di sintomi più gravi e il peso viene usato come fattore squalificante quando le risorse sono scarse (i ventilatori sono pochi? Be’, togliamone uno alla cicciona e uno al vecchio inutile). Mi ripeto, ma anche qui il meccanismo causa-effetto è inesistente: medici e scienziati con maggior deontologia professionale lo stanno facendo presente, dati e ricerche alla mano, ma l’artiglieria pesante in funzione 24 ore su 24 che urla “il grasso uccide!” impedisce di ascoltarli. E molti loro colleghi continueranno a prescrivere trattamenti che non funzionano per una condizione che non è una malattia. In due studi che ho letto (2003 e 2016) numerosi dottori definiscono i loro pazienti grassi “non adattati”, “eccessivamente autoindulgenti”, “disturbanti (alla vista)”, “brutti”. Si può star certi che, privi di pregiudizi come si dimostrano, avranno senz’altro a cuore la salute di queste persone e, fedeli al giuramento di Ippocrate, si impegneranno per fare diagnosi accurate. Forse no, facciamo qualche esempio internazionale:

– nel 2017 la studente Beth Dinsley ricevette valanghe di complimenti perché era dimagrita. Nel dicembre dello stesso anno, durante un controllo ospedaliero di routine, scoprì che continuava a perdere peso perché aveva un cancro alle ovaie;

– nel 2018, Rebecca Hiles raccontò in un’intervista che i medici avevano ripetutamente sottovalutato i suoi violenti attacchi di tosse e la difficoltà respiratoria come sintomi relativi al suo peso. Aveva un cancro al polmone. Il risultato del non essere stata presa sul serio perché non adattata e autoindulgente è stata l’asportazione dell’intero polmone sinistro. Se la prima volta in cui andò dal dottore, cinque anni prima, questo l’avesse vista come un essere umano il polmone poteva essere salvato;

– nel 2019 il medico di Jen Curran giudicò la presenza di proteine nella sua urina durante la gravidanza e dopo come un problema di peso. Se dimagriva sarebbe andato tutto a posto. Per fortuna costei cercò una seconda opinione: e seppe di avere un cancro al midollo osseo.

Se poi volete un po’ di vittime italiane, da quelle che si sono suicidate grazie al bullismo continuo diretto ai loro corpi, a quelle che sono state macellate e uccise dalla chirurgia bariatrica di cui sopra o dalla liposuzione non dovete far altro che frugare questo blog o usare google.

Secondo la dott. Emma Beckett, scienziata che lavora su cibo e nutrizione all’Università di Newcastle in Australia, “Noi non mangiamo per mantenere una taglia, ma per mantenere i nostri corpi in salute ora e nella vecchiaia. Entrare in un vestito più stretto vale l’avere ossa fragili o un cancro all’intestino più tardi? Mi piacerebbe se smettessimo di concentrarci sul peso e ci concentrassimo sul nutrimento e sulla gioia.” Sarebbe bello, in effetti.

Stamane i giornali riportano l’appello a favore degli anziani di intellettuali e politici italiani: “Non sono scarti”. La petizione intende chiedere “a tutti i governi dell’Unione una maggiore etica democratica che passi dal rispetto degli anziani e dal rifiuto di una “sanità selettiva” che privilegi la cura dei pazienti più giovani a scapito degli over 65″. I promotori e i firmatari giudicano – giustamente – ciò “umanamente e giuridicamente inaccettabile” e sentono la necessità “di un vero cambio di prospettiva e di un recupero dei valori morali, civili e deontologici delle nostre società”.

Okay. Neppure i “culi grassi” sono scarti. Non devono rispondere del reato di “non conformità”. Non stanno togliendo niente alle vite degli idioti che li insultano dai balconi, neppure e meno che mai in senso economico, giacché sono le galline dalle uova d’oro spremute dall’industria dietetica, farmaceutica e di medicina “estetica”. A quando un’iniziativa simile per costoro, intellettuali e politici di cui sopra?

Infine, una volta per tutte: gli esseri umani non sono giocattoli. Non vi piacciono le persone grosse? Sono stracazzi vostri e non siete autorizzati a rovesciare il vostro disprezzo da farabutti sulle loro facce o sui loro culi. Non siete autorizzati a spingerle verso la disistima, i disturbi alimentari, le conseguenze dei traumi relativi ai vostri assalti – suicidio compreso. A me, vedete, è quel che fate a non piacere.

Maria G. Di Rienzo

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Shanley Clemot Maclaren ha cominciato a contrastare il sessismo al liceo, assieme alla sua “amica di lotta” (così le due si definiscono) Hajar Errami, e lo ha fatto così bene da essere invitata a parlarne due anni fa con Marlene Schiappa, Segretaria di Stato francese per l’eguaglianza fra donne e uomini. Sono seguiti articoli e presenze televisive, ma il tutto strettamente concordato e monitorato – e se non soddisfacente rimandato o rigettato – dalle due giovani, tanto che alcuni pezzi su di loro avevano un incipit del tipo: “E’ più facile incontrare un Ministro che queste due ragazze”.

Shanley

Foto da Le Monde

In questi giorni Shanley ha di nuovo l’attenzione della stampa: ha infatti passato diverso tempo a tracciare e denunciare siti di “revenge porn” dopo aver notato un aumento di fotografie e video di ragazze nude sui social media, corredate dai loro nomi e dall’indicazione delle città in cui abitano.

Shanley ha rilevato che almeno 500 account di questo tipo, denominati “fisha” dal verbo afficher – svergognare, sono comparsi in Francia sin dall’inizio nel marzo scorso delle misure di quarantena contro il coronavirus.

Lavorando con un’avvocata e circa venti amiche/amici, la giovane femminista è riuscita a far cancellare più di 200 account esponendoli ai network di riferimento, alla polizia e al Ministero degli Interni. Da quando ha dato inizio in aprile alla campagna #stopfisha per rintracciare le vittime di questo tipo di pornografia e aiutarle a denunciare gli abusi, riceve ogni giorno messaggi di adolescenti depresse e in panico.

L’abuso online ha conseguenze serie, ha detto la 21enne Shanley ai giornali: “Le ragazze cominciano a pensare al suicidio, o sono picchiate dai loro familiari quando costoro vedono i contenuti espliciti che le riguardano. Una volta che sei etichettata come “troia” è finita. E quando queste ragazze torneranno a scuola è molto probabile che debbano subire molestie.”

Il primo amore di Shanley era un ragazzo astioso e violento, uso ad aggredirla fisicamente; quando mise fine alla storia, la giovane iniziò un percorso di riflessione: “Mi dissi che era ora di ricostruire me stessa. Pensavo fosse soltanto la classica relazione andata storta. E poi ho fatto un sacco di ricerche, scoperto migliaia di altre donne che avevano sofferto in vicende simili alla mia, e ho capito che non si trattava di qualcosa di personale, ma che era strutturale. Era una delle tante conseguenze del sessismo.

Maria G. Di Rienzo

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love them all

(I corpi delle donne non sono proprietà pubblica)

Dalla stampa, 2 maggio: “Giovanna Botteri protagonista dell’ironia di Striscia la notizia che ha chiamato in causa il web, risponde: “Non si può dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non le meritano.”

Poche righe, piene di intelligenza e dignità, pubblicate da Giovanna Botteri sul sito del sindacato dei giornalisti della Rai per rispondere alla tempesta di tweet di cui suo malgrado è stata protagonista. Non per un suo servizio giornalistico ma perché vittima dell’ironia del tg satirico Striscia la notizia, ispirato, così hanno detto, proprio da quel che circolava sul social. L’abbigliamento, l’acconciatura, il trucco.”

Errore n. 1: denigrare qualcuna perché non risponde al modello in voga di “donna scopabile” non è ironia ne’ satira, è un’aggressione vigliacca, odiosa e idiota.

“A telespettatori e utenti non è sfuggito che a ironizzare sia stata anche Michelle Hunziker, criticata aspramente per le parole pronunciate nel servizio. La showgirl è nota per il suo impegno contro le violenze sulle donne con la onlus Doppia Difesa, ed è stata lei a pubblicare su Twitter la difesa di tutta la redazione: “Body shaming contro Giovanna Botteri? Una fake news.”

Errore n. 2: la notizia farlocca è “l’impegno della showgirl contro la violenza sulle donne”, perché “Doppia Difesa” è a mio avviso un’operazione pubblicitaria priva di memoria, di competenza specifica e di efficacia: ha un approccio meramente legale, non sa cosa sia il femminismo (e probabilmente lo schifa) e scarica la responsabilità della violenza su chi la subisce.

“Mi piacerebbe che l’intera vicenda – dice Giovanna Botteri – prescindendo completamente da me, potesse essere un momento di discussione vera, permettimi, anche aggressiva, sul rapporto con l’immagine che le giornaliste, quelle televisive soprattutto, hanno o dovrebbero avere secondo non si sa bene chi. Qui a Pechino sono sintonizzata sulla Bbc, considerata una delle migliori e più affidabili televisioni del mondo. Le sue giornaliste sono giovani e vecchie, bianche, marroni, gialle e nere. Belle e brutte, magre o ciccione. Con le rughe, culi, nasi orecchie grossi. Ce n’è una che fa le previsioni senza una parte del braccio. E nessuno fiata, nessuno dice niente, a casa ascoltano semplicemente quello che dicono”.

Errore n. 3: mi scusi, Botteri, ma “ciccione” non è l’opposto di “magre”, è un insulto.

Maria G. Di Rienzo

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