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Da articoli sulla stampa internazionale il 12 dicembre (e loro versioni rivedute e corrette dalla stampa italiana il giorno successivo) ho appreso che Bergoglio ha “congedato” in ottobre tre suoi consiglieri del C-9, un gruppo di nove persone organizzato dal papa stesso nel 2013 con lo scopo di riorganizzare la burocrazia vaticana, ringraziandoli per i “cinque anni di servizio”. I tre sono il cardinale australiano George Pell, il cardinale cileno Javier Errazuriz e il cardinale congolese Laurent Monsengwo Pasinya, rispettivamente di 77, 85 e 79 anni.

Il primo è a processo nella natia Australia per annose denunce di abusi sessuali (lui nega) e formalmente ha ancora una carica in Vaticano nel segretariato economico.

Il secondo è accusato dai sopravvissuti / dalle sopravvissute agli abusi sessuali da parte di sacerdoti del suo paese di aver coperto questi ultimi (lui nega).

Il terzo è semplicemente andato in pensione (mi auguro non vi sia nessuna sorpresa al proposito).

Sullo scandalo che è scoppiato da un paio di mesi attorno al caso di Pell, l’Osservatore Romano ha intervistato il gesuita Hans Zollner il 26 novembre scorso, il quale non ha detto molto di più di “analisi, consapevolezza, vergogna, pentimento, preghiera” eccetera, però sappiamo che la Pontificia Università Gregoriana dal 2012, con il Centro per la protezione del bambino “fornisce educazione e formazione per la prevenzione degli abusi sessuali su minori – dalla formazione di base a quella specialistica – per tutti coloro che lavorano nel campo della tutela dei minori”. Peccato che manchi di fornirla ai sacerdoti semplici e agli augusti cardinali. O, se in realtà li ha invece “formati”, sarebbe interessante sapere cosa i suoi membri / insegnanti / esperti pensano dei risultati.

Solo alcune cose, per finire, sull’abuso sessuale di minori.

Non esiste un predatore “tipo”. Chi abusa di bambine/i può appartenere a qualsiasi classe economica e stile di vita; può essere un familiare e può essere persona stimata e apprezzata a livello sociale.

Nella stragrande maggioranza dei casi chi abusa di un bambino è una persona che il piccolo conosce.

L’abuso sessuale di minori non è limitato a situazioni che includono l’uso di forza fisica. Esporre le bambine / i bambini alla pornografia, per esempio, ha su di loro un significativo impatto emotivo e psicologico.

Qualsiasi sia il tipo di comportamento della bambina / del bambino vittima di abuso sessuale, quest’ultimo non è MAI colpa sua. Ripetiamolo: MAI. Anche se non ha detto “no”, non ha urlato, ha accettato il giocattolo o le caramelle o i complimenti.

Di fatto, la risposta più comune del/della minore all’abuso è il silenzio (gli studi danno cifre attorno al 93%). Bambine e bambini sono confusi rispetto a quel che è accaduto loro, sono spaventati all’idea di non essere creduti e si preoccupano di cosa potrà accadere alla loro famiglia se parlano.

Perché, pensateci: come riesco a riportare – diciamo a 8/10 anni – che Padre Tizio, riverito sacerdote della comunità, amico di mamma e papà, sempre affettuoso e allegro, mio insegnante di catechismo ecc. ecc. mi ha tolto le mutande in canonica? Non è un estraneo ad avermi assalito, è (come la maggioranza delle persone che abusano di bimbe/i) un manipolatore che io conosco e che tutti attorno a me conoscono. Può aver speso tempo e impegno nel costruire una connessione emotiva con me, facendomi sentire “speciale”, e star usando la mia fiducia in lui per usarmi e controllarmi…

I sopravvissuti e le sopravvissute agli abusi testimoniano spesso come il tradimento della loro fiducia sia la parte più devastante di quel che hanno subìto. Per cui: quando trovano il sostegno necessario, l’energia e la forza necessarie a parlare, quando denunciano, abbiamo il solo dovere di ascoltare e di collaborare alla loro ricerca di riparazione e giustizia – non importa quante onorate e finemente orlate sottane sacerdotali finiscano a brandelli, perché non vi è ammontare di stracci equiparabile ai danni che i possessori di sottane hanno fatto a vite altrui.

Maria G. Di Rienzo

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(“Happiness for me is speaking out and standing up for myself” – Kvinna till Kvinna, ottobre 2018, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. L’immagine di Francine Kasimba è il particolare di una foto di Bertin Mungombe.)

Francine

Francine Kasimba è cresciuta circondata da otto sorelle nella Repubblica democratica del Congo. Nonostante avesse così tante sorelle, le è sempre stato detto che sua madre non aveva figli. La ragione? Solo i maschi contavano.

Oggi Francine, a 17 anni, è la presidente della sezione giovanile dell’ong CEDEJ-GL, partner della Fondazione Kvinna till Kvinna, nella città di Uvira. L’organizzazione lavora in diversi modi per rafforzare i diritti delle donne nel paese. Promuove discussioni di gruppo in forma di forum affinché le persone possano parlare delle istanze che le preoccupano. Sia donne sia uomini sono i benvenuti a partecipare e ci sono anche gruppi specifici per la gioventù. CEDEJ-GL usa anche il teatro per suscitare consapevolezza sui ruoli di genere.

Francine era attiva in uno di questi gruppi giovanili. Parlando ad altri della stessa età ha acquisito maggior fiducia in se stessa. Dopo un po’ ha ottenuto un lavoro all’interno dell’ong. Oggi, è la presidente del gruppo giovanile a Uvira, nella zona orientale della Repubblica democratica del Congo lacerata dal conflitto. I gruppi di discussione offrono alla gente lo spazio per parlare dei loro problemi e bisogni: Francine aiuta i partecipanti a trovare soluzioni per essi.

Ora Francine sa di avere il potere di spingersi così distante – nonostante le sia stato detto per tutta la vita che le femmine non hanno valore: “La felicità per me è parlare apertamente e affermare me stessa. Mostro che sono una ragazza, che ho idee e che ho talento.”, dice.

Un soggetto su cui Francine si è concentrata nei gruppi di discussione che ha diretto sono i diritti sessuali e riproduttivi. Ha scelto di occuparsi di come le gravidanze adolescenziali non desiderate possono essere prevenuti tramite il controllo delle nascite, materia che è stata molto discussa nei gruppi giovanili dell’ong.

CEDEJ-GL ha lavorato per i diritti sessuali e riproduttivi anche in altri modi. Nel paese la violenza sessuale nelle scuole è un enorme problema. Per contrastarla, l’organizzazione ha dato inizio a gruppi di discussione nella scuole, a cui le/gli studenti possono rivolgersi per avere sostegno. Ha anche educato gli insegnanti sui diritti umani delle donne e si è assicurata che quelli che abusavano della loro scolaresca fossero sospesi.

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(“Grassroots Organizations are Often the First to Sound the Alarm”, di Agar Nana Mbianda per Women Thrive Worldwide, 7 agosto 2017, trad. Maria G. Di Rienzo.)

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Difendere i diritti umani e coloro i cui diritti umani sono stati violati è un compito pericoloso in tutto il mondo. I difensori dei diritti umani sono spesso la sola forza che sta fra la gente comune e i poteri in carica. Donne e ragazze sovente hanno bisogno di sostegno non solo per i loro sforzi quotidiani diretti a migliorare le loro entrate e il loro status ma, soprattutto, necessitano di sostegno per la loro ricerca di cambiamento.

Le organizzazioni di base della società civile possono amplificare le voci di donne e ragazze con cui lavorano su base giornaliera. Nel caso di Women Thrive, i nostri circa 300 membri in oltre 50 paesi usano campagne di sensibilizzazione come mezzi per influenzare il cambiamento politico, sviluppando consapevolezza sull’importanza dell’eguaglianza di genere. Uno dei membri della nostra Alleanza, il “Forum International des Femmes de l’Espace Francophone” (FIFEF), lavora nella Repubblica Democratica del Congo dal 2012, con lo scopo di migliorare le condizioni di vita socio-politiche delle donne e delle ragazze denunciando gli abusi, la violenza e le diseguaglianze a cui sono soggette. Hanno anche creato un forum internazionale per la difesa e l’avanzamento di donne e ragazze con altri paesi francofoni, aumentando la conoscenza dei loro bisogni e delle loro voci.

FIFEF è stata la prima organizzazione della società civile a far luce sul traffico di circa 500 ragazze e donne congolesi in Libano. Dal 2 al 5 dicembre 2013 hanno organizzato una campagna di sensibilizzazione che ha incluso marce per la pace, dibattiti con gli altri portatori di interesse primario e incontri con le famiglie delle trafficate per ascoltare le loro preoccupazioni. FIFEF ha fatto pressione sulle ambasciate e ha contattato i media per attirare attenzione e mostrare l’impatto che il traffico di esseri umani ha sulle comunità e sulla nazione.

La lotta contro il traffico di esseri umani è la lotta contro coloro che predano sulle fragilità sociali e fisiche come mestiere. Una delle sopravvissute trafficate ricorda: “Appena arrivate, siamo state vittime di stupro e siamo state picchiate. E ci è stato detto che eravamo schiave, persino peggio che schiave.” E’ stato grazie agli sforzi di FIFEF che il 30% di queste ragazze e donne è stato portato a casa.

Essendo FIFEF la prima organizzazione a lavorare sulle istanze delle donne e sulle istanze di genere a Kolwezi City, la sua coordinatrice Denise Nzila è ben consapevole delle molte sfide che il gruppo deve affrontare ma è impegnata con la sua squadra a “lottare per raggiungere gli scopi che conducono alla liberazione delle donne. Io so che vinceremo la partita, amiamo il nostro lavoro… grazie alle donne e alle ragazze.” La campagna di successo di FIFEF è un esempio importante del perché le organizzazioni della società civile devono essere coinvolte nei più grandi spazi decisionali, giacché il loro lavoro può avere un considerevole impatto sul cambiamento sociale e politico. Dal 2013, FIFEF ha contribuito al rimpatrio di alcune ragazze trafficate, tuttavia molte restano in Libano sotto il giogo della schiavitù. Quindi sorge la domanda: FIFEF ha le risorse necessarie per questo lavoro? E ha accesso a fondi che permetterebbero all’organizzazione di avere maggiore impatto sull’istanza?

Noi di “Women Thrive” crediamo che finanziare i gruppi di base della società civile sia un passo cruciale per il cambiamento sociale e politico. Inoltre, questi gruppi possono essere sostenuti con strategie e azioni che li aiutino a produrre risultati migliori e a diffondere le notizie sul loro attivismo e le loro potenzialità. Rinforzando le iniziative in queste aree, continuando a costruire relazioni associative con loro e coinvolgendoli nelle piattaforme decisionali, i governi potrebbero fare grandi passi nella promozione dell’eguaglianza di genere e nella lotta contro la schiavitù moderna.

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(“Women continue to influence society and politics in the DRC”, di Selvi Albayrak per Kvinna till Kvinna, 27 aprile 2017, trad. Maria G. Di Rienzo)

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“Per raggiungere l’eguaglianza, dobbiamo cominciare dall’eguale rappresentanza di uomini e donne nei luoghi decisionali.”, dice Solange Lwashiga – in immagine – la portavoce del movimento nazionale “Rien sans les femmes” (Nulla senza le donne).

Durante il 2015, 15 organizzazioni per i diritti delle donne si sono unite nella lotta per l’eguale rappresentanza nella società e nella politica congolesi. Hanno formato il movimento “Rien sans les femmes” mentre davano inizio a una campagna per istituire la parità di genere nella legge elettorale.

“Nella Repubblica Democratica del Congo, secondo la legge elettorale, le liste dei partiti politici devono includere donne per poter partecipare alle elezioni. Ma un paragrafo all’interno della stessa legge intralcia questo dicendo che tutte le liste, con o senza donne candidate, saranno accettate. Ovviamente i capi dei partiti, specialmente gli uomini, si avvantaggiano del paragrafo con la scusa che non ci sono donne con ambizioni politiche o che semplicemente non sono riusciti a trovare candidate. Noi vogliamo che ciò cambi con la legge sulla parità.”, ci ha detto Solange Lwashiga.

La mobilitazione iniziale fu impressionante. Nel 2015, il movimento “Rien sans les femmes” raccolse oltre 200.000 firme in sole tre settimane su una petizione che chiedeva l’emendamento della legge elettorale. Poco dopo, ebbero la prima apparizione internazionale durante la celebrazione del 15° anniversario della Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite, ove furono assai apprezzate. L’anno seguente, cominciarono a mobilitarsi per implementare effettivamente la legge. “Abbiamo consegnato ai politici e alle autorità amministrative documenti in cui si richiedeva che nominassero donne all’interno delle istituzioni.”, dice Solange Lwashiga. Solo a Bakavu, più di 6.000 persone si organizzarono e si unirono al movimento.

Le maggiori difficoltà che il movimento “Rien sans les femmes” incontra consistono della fragilità del contesto politico congolese. “L’anno scorso le elezioni sono state concordate in base alla Costituzione ma ci sono disaccordi politici fra chi è al potere e chi è all’opposizione.”, dice ancora Solange. Nondimeno, il futuro sembra promettente per “Rien sans les femmes”: hanno un piano d’azione completo con un mucchio di iniziative: “Continueremo anche a fare pressione sulle autorità locali e nazionali affinché implementino gli impegni che hanno preso riguardo alla parità.”

Il movimento “Rien sans les femmes” è cresciuto sino a includere 160 organizzazioni per i diritti delle donne. Durante il marzo di quest’anno hanno tenuto una cerimonia di premiazione nello stadio di Uvira per dare riconoscimento alle autorità che hanno implementato la parità. “Durante il 2016, “Rien sans les femmes” ha spinto le autorità a firmare lettere di impegno così che fossero responsabili dell’implementazione della legge di parità. Abbiamo creato questa premiazione per incoraggiarle.”, aggiunge Solange Lwashiga. Le donne sperano che la cerimonia contribuisca a creare un senso di emulazione per le autorità che stanno ancora prendendo tempo. “Ma siamo state anche molto chiare sul fatto che questi trofei riguardano i progressi fatti sino a oggi. Se cominciano a trascinare la faccenda e a restare indietro, ricorderemo loro che hanno sottoscritto un obbligo a lavorare per la parità.”, conclude.

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(“She disarms rebel groups in DR Congo”, di Cecilia Samuelsson per Kvinna till Kvinna, 18 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo. L’immagine è di Anna Lithander.)

josephine kimbembe

Parte orientale isolata della Repubblica democratica del Congo, Shabunda è stata a lungo caratterizzata dai disordini. Numerosi gruppi armati di ribelli sono attivi nell’area e la violenza è sempre presente, non ultima per le donne che vivono nella città e che sono bersagli ordinari di pestaggi, stupri e abusi sessuali.

Senza accesso all’istruzione e con una libertà di parola limitata, l’influenza delle donne è bassa. Quelle che tentano di reclamare i propri diritti incontrano spesso una forte resistenza. “Secondo questa cultura, una donna non ha il diritto di parlare. Non appena tenta è etichettata come strega, perde la sua reputazione e viene ridotta al silenzio.”, spiega Josephine Kimbembe di Shabunda. Lei è una delle donne determinate che, nonostante la resistenza, hanno osato fare un passo avanti come leader e lavorare per il cambiamento. E’ stato quando ha incontrato l’organizzazione AFEM, partner di Kvinna till Kvinna, che Josephine Kimbembe ha trovato il coraggio di schierarsi a favore dei diritti delle donne.

AFEM, Association des Femmes des Médias, lavora per rafforzare le donne addestrandole alla leadership e all’uso dei media nella loro lotta per il cambiamento. Quando AFEM organizzò un seminario per le donne a Shabunda, Josephine fu invitata a partecipare. “Dicevano che una donna dovrebbe poter reclamare i propri diritti. Che dovrebbe poter lavorare, andare a scuola e diventare una leader, allo stesso modo di un uomo.”, racconta Josephine.

Finito il seminario, Josephine radunò un gruppo di donne e tutte insieme andarono dal presidente del consiglio municipale di Shabunda. Chiesero di essere ascoltate e misero in luce svariati problemi che necessitavano attenzione in città, come lo scarso accesso all’acqua. Il presidente del consiglio municipale chiese a Josephine se lei pensasse che le donne erano in grado di governare e lei non aveva dubbi al proposito. Nel 2013, Josephine fu nominata presidente di uno dei distretti cittadini.

Da allora, ha avuto tempo di portare avanti numerosi miglioramenti. Ora ci sono tre rubinetti pubblici nel distretto e ciò significa che le donne non devono più percorrere lunghe distanze per avere dell’acqua. Le donne che non sanno leggere e scrivere ricevono istruzione e più coppie stanno registrando il loro matrimonio, un cambiamento importante che previene la poligamia e rafforza la posizione delle donne in caso di divorzio. Seguendo l’esempio di Josephine, altre donne sono state nominate in posizioni guida a Shabunda.

In aggiunta al suo lavoro in città, Josephine è riuscita a frenare i gruppi ribelli nella regione, usando anche la radio e il telefono per istruire una giovane leader ribelle sui diritti delle donne e il lavoro di pace. Ha persuaso la leader ribelle ad arrendersi assieme a tutti i suoi miliziani e a consegnare le armi del gruppo, il che ha indotto altri gruppi ribelli a osare la stessa mossa.

Prima del seminario di AFEM, Josephine non credeva di poter essere una leader. Ora sta lastricando la strada per le altre donne: “E’ importante avere donne leader nella comunità. C’è un detto: Istruire una donna è come istruire un’intera nazione.

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(“We can not just be journalists, we need to be activists too!”, di Filippa Rogvall per Kvinna till Kvinna, 4 giugno 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. La foto di Douce Namwezi N’lbamba è di Cato Lein.)

Douce

La seconda guerra del Congo finì nel 2003, almeno sulla carta. Ma nonostante la tregua Douce Namwezi N’lbamba, allora quindicenne, continuava a vedere attorno a sé bambini reclutati come soldati. Il desiderio di contribuire al cambiamento l’ha portata in radio.

Avendo l’opportunità di essere coinvolta in un programma radiofonico mirato a scoraggiare bambini e giovani dall’unirsi a gruppi armati, prese l’occasione. Non molto tempo dopo diventò una presentatrice radiofonica vera e propria.

Oggi, Douce Namwezi N’lbamba ha 26 anni ed oltre ad essere una giornalista è una delle forze motrici di AFEM (Ndt: Association des Femmes des Médias du Sud-Kivu – organizzazione per i diritti delle donne e per la pace)

“Quando lessi di AFEM e della loro visione ne fui impressionata e decisi di unirmi a loro immediatamente. Ho sempre sentito di avere una grande responsabilità nel ruolo di produttrice di programmi: io sono quella che scrive il testo e parla alla radio, e sono anche quella che può portare il cambiamento. Non possiamo essere solo giornaliste, dobbiamo essere attiviste.”, dice Douce Namwezi N’lbamba.

Il suo giornalismo è mettere in luce le storie delle donne. Allo stesso tempo, lo vede come opportunità di monitorare le azione dei politici e dei decisori, di influenzare e contribuire al cambiamento. Ma far sentire la tua voce come giornalista in un paese in cui alle donne tradizionalmente non è permesso parlare è stata un’ardua sfida. “Ci si aspetta da me che io mantenga il silenzio sulla continua oppressione delle donne, perché è considerato vergognoso il parlarne. In Congo, i media sono stati a lungo un privilegio degli uomini. Solo gli uomini hanno il diritto di essere ascoltati e di avere opinioni. Io cerco di portare più donne in onda, per dimostrare che uomini e donne pensano e hanno opinioni allo stesso modo. Non è il sesso di una persona ad essere determinante per questo.”

Secondo Douce Namwezi N’lbamba, i media nazionali non riportano granché sul modo in cui le donne sono investite dai conflitti, come quelli che circondano il commercio di minerali nella Repubblica democratica del Congo, e come ne soffrono. Se cerca di parlarne con i colleghi maschi questi la ignorano. Le donne giornaliste sono viste un po’ come criminali, dice: “Incontro un mucchio di persone a cui non piace quel che faccio. Mi vedono come un bersaglio facile. La gente mi dice che sono una donna cattiva e che dovrei tenere la bocca chiusa. Una “donna cattiva”, in Congo, è una che non è a casa a cucinare e partorire bambini. Poiché non gioco stando alle regole dettate dalla società, molta gente si sente oltraggiata. Allo stesso tempo, ci sono molte persone che sostengono me e quel che faccio, il che è un’importante forza motivazionale.”

Ci sono molti ostacoli da superare per migliorare i diritti umani delle donne in Congo, spiega Douce. Uno è la legislazione, poiché numerose leggi contribuiscono alla discriminazione delle donne. Nel 2013, AFEM presentò un memorandum al Parlamento nel tentativo di cambiare il Codice di famiglia che, fra le altre cose, riduce il diritto ereditario delle donne. Da allora, alcuni articoli della legge sono stati riscritti, come quello che obbligava la moglie a seguire il marito ovunque costui volesse andare: ora può scegliere se seguirlo o meno. AFEM è ancora in contatto con membri del Parlamento che hanno fatto proprio il memorandum e una seconda discussione sul Codice di famiglia si terrà presto in Senato.

Sebbene Douce Namwezi N’lbamba dica di vedere piccoli miglioramenti nello status delle donne, attesta anche che il progresso è troppo lento. Negli ultimi dieci anni, comunque, il numero delle donne giornaliste è aumentato in modo significativo e sempre più donne reclamano i propri diritti, anche se per fare ciò devono contrastare tradizioni e cultura. Esse diventano poi modelli per altre donne.

“Io sogno un mondo di eguaglianza di genere, dove uomini e donne hanno accesso agli stessi diritti politici ed economici, in cui l’eguaglianza è realtà e non solo un concetto scritto nelle dichiarazioni politiche.”

Il sostegno di Kvinna till Kvinna è importante per AFEM, ricorda la giornalista: “Fra le altre cose, ci ha permesso di andare a lavorare nella remota area di Shabunda dove ben poche altre organizzazioni hanno voluto, o osato, andare. Anch’io avevo paura di ciò che sarebbe potuto accadere andando là, ma mi sono aggrappata al mio sogno sapendo che le donne del luogo avevano bisogno di me.”

Shabunda è la più larga area della provincia di Sud Kivu. I gruppi armati ribelli la stanno seriamente devastando. Sebbene la popolazione sia stimata attorno al milione di persone la comunicazione con il resto del paese è scarsa. Da alcuni anni AFEM lavora in loco per i diritti delle donne e la loro partecipazione politica: fornisce addestramento su democrazia, diritti umani e la Risoluzione 1325 delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.

“Molte donne nella regione di Shabunda non sanno di avere diritti. Mi ha aperto davvero gli occhi sentirmi dire da queste donne che loro vedevano istruzione e salute come privilegi, non come diritti. E’ una situazione difficile da cambiare, ma stiamo tentando di indurre le autorità locali a migliorare il loro impegno a rafforzare i diritti delle donne.”

La fama di AFEM si sta diffondendo, nel paese, e l’organizzazione riceve numerose richieste da parte di giornaliste che vivono in altre zone del Congo e chiedono sostegno per progetti simili. AFEM sta in effetti pianificando di diventare un’organizzazione nazionale e di cominciare a cooperare a livello internazionale con gli altri gruppi per i diritti umani delle donne.

“AFEM sta crescendo, – conclude Douce Namwezi N’lbamba – ed oltre a mettere in luce la situazione delle donne usando i media vogliamo promuovere una maggior consapevolezza di genere e un maggior bilanciamento di genere nell’intero paese. Io sono convinta che i media siano un attrezzo importante per ottenere il cambiamento.”

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(“Those in power are afraid of us”, intervista a Gé-Gé Katana di Anna Lithander per Kvinna till Kvinna, 13 novembre 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. L’immagine di Katana è di Cato Lein.)

Katana

Gé-Gé Katana è una difensora dei diritti delle donne che lavora ad Uvira, nella regione orientale della Repubblica Democratica del Congo (RDC) e riveste un ruolo centrale nella lotta per la posizione delle donne nella società, che implica anche un bel mucchio di resistenza. Le minacce contro di lei sono state numerose; è stata imprigionata e costretta all’esilio.

“Sono stata un’attivista da quando ho memoria. La cosa cominciò quando ero piccola e vedevo il modo in cui le donne erano trattate da mio nonno, che era l’anziano del villaggio. Molte donne del villaggio erano costrette a lavorare per lui, a coltivare i suoi campi, a lavare i suoi vestiti e a fare le pulizie in casa sua. Quando arrivava, le donne dovevano inginocchiarsi e acclamarlo. E io mi chiedevo: Cos’hanno fatto per essere punite in questo modo?“, dice Gé-Gé Katana.

A scuola promuoveva i diritti delle bambine e ha continuato sullo stesso sentiero: oggi è la leader di SOFAD (Solidarité des Femmes Activistes pour la Défense des Droits Humains), il cui scopo è arrivare ad includere più donne nelle sedi decisionali dei villaggi e delle città. Un’istanza controversa, in una società in cui una donna è vista come qualcuno che non ha il diritto di parlare contro un uomo, dove le donne non ricevono eredità dai loro padri, dove la violenza contro le donne è un problema grave in generale e non lo è di meno nelle case.

La parte orientale della RDC è stata pesantemente interessata dalla guerra negli ultimi anni ’90, durante i quali milioni di persone persero la vita e la violenza sessuale contro le donne fu usata come tattica di guerra. In quel periodo, Gé-Gé Katana girava per i villaggi attorno Uvira per parlare alle donne e raccogliere prove degli abusi a cui erano soggette: “La preoccupazione principale era che ogni famiglia aveva almeno un figlio nell’esercito. Io dicevo: Dobbiamo opporci alla guerra! Ho tentato di fare in modo che le donne unissero le forze e mettessero fine alle uccisioni.”

Le donne la ascoltavano, ma Gé-Gé Katana cominciò ad avere problemi. Gli uomini la accusavano di essere una simpatizzante del nemico – i gruppi militari provenienti dal Ruanda, mentre questi ultimi si convinsero che stava lavorando contro di loro. E un giorno fu arrestata.

“Mi minacciarono con la galera e la tortura. Mi costrinsero a guardare mentre un prigioniero veniva torturato con chiodi e pestaggi. Quelle immagini vivono ancora nei miei incubi.” Gé-Gé Katana fu rilasciata e messa agli arresti domiciliari. Qualsiasi cosa facesse, era sorvegliata. Poteva andare al lavoro, ma solo se accompagnata dalle guardie. “Imparai davvero cosa significa trauma. Potevo dormire, avevo cibo, ma ero in trappola.”

Dopo mesi di sorveglianza, Amnesty International aiutò Gé-Gé Katana ad essere liberata dagli arresti domiciliari. Per un po’, andò in esilio sulle isole di Capo Verde. Tuttavia, presto cominciò a ricevere informazioni su come suo marito e i suoi bambini erano minacciati a casa, ad Uvira, e là tornò.

Sebbene un trattato di pace sia stato firmato nel 2003, la parte orientale della RDC è ancora una regione instabile. Restano molte gruppi ribelli, collegati alle varie etnie, che attaccano brutalmente la popolazione civile. Sovente, i conflitti ruotano attorno al possesso della terra. SOFAD organizza “club della pace”, dove donne provenienti dai diversi gruppi etnici si riuniscono ed apprendono come reclamare il proprio spazio e far sentire le proprie voci contro la violenza e per la pace.

Attualmente, Gé-Gé Katana è una persona assai rispettata, ad Uvira: “I potenti hanno paura di noi. Capiscono che siamo una forza con cui devono fare i conti. Oggi, quando SOFAD organizza assemblee allargate, la polizia, l’esercito e i politici vogliono partecipare. Sanno di aver bisogno di farsi vedere con noi, di mostrare che sono con noi.”

A Gé-Gé Katana è stata offerta una posizione prestigiosa nel governo, ma ha rifiutato: “Hanno tentato di comprarmi. Corruzione. Il lavoro per il cambiamento dev’essere fatto al di fuori delle strutture esistenti. Per prendere potere, devi sfidare il potere. Ricevo ancora minacce e ci sono posti in cui so di non poter andare, ma ci sono così tante persone a sostenermi che non posso fermarmi. Questo è quel che penso quando sorgono i dubbi. Quelle persone: io lavoro per loro.”

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(tratto da: “A genocide of women is taking place in Democratic Republic of Congo”, intervista alla giornalista, conduttrice radiofonica e attivista per i diritti delle donne Caddy Adzuba Furaha, un più ampio servizio di Teresa Lamas per Women News Network, 28 novembre 2013, trad. Maria G. Di Rienzo.)

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Come può la violenza sessuale trasformarsi in un’arma da guerra?

Caddy Adzuba Furaha: La violenza sessuale diventa un’arma da guerra quando è usata sistematicamente. Quando i ribelli pianificano il saccheggio di un villaggio usano come strategia lo stupro di tutte le donne e bambine, con lo scopo di spezzare la comunità distruggendo i corpi delle donne. In questo modo, ottengono di separare i membri della comunità, di modo che costoro diventano più deboli ed incapaci di difendersi dalla situazione in cui si trovano.

Non si tratta dell’entrare in una casa e violentare tutte le donne qualsiasi sia la loro età. I ribelli armati mutilano i genitali delle donne nel mentre obbligano i membri della famiglia a guardare e a partecipare all’aggressione. I corpi delle donne sono trasformati in campi di battaglia, e questa è la ragione per cui diciamo che si tratta di femicidio, di genocidio delle donne.

I ribelli, inoltre, rapiscono le donne per usarle come schiave sessuali per mesi o anni. I bambini, maschi e femmine, che nascono in questo contesto sono respinti dalla comunità. Le persone perdono la loro umanità, le loro vite, le loro case, i loro figli e diventano profughi interni o rifugiati. L’intero paese è affetto da questa situazione.

Perché le donne come tramite?

Caddy Adzuba Furaha: I gruppi armati hanno capito che la crescita della povertà dovuta agli anni della crisi e della dittatura ha fatto perdere valore al tessuto sociale. Quando i lavoratori salariati hanno smesso di essere pagati, ed erano principalmente uomini, le donne hanno cominciato a prendere nelle loro mani l’economia locale, dando inizio a commerci, orti e piccole imprese, riattivando la vita comunitaria. Sia nei villaggi sia nelle grandi città, le donne stavano costruendo l’economia locale. Perciò, distruggendo le donne finisci per distruggere la vita della comunità intera.

A livello nazionale ed internazionale le conseguenze sono devastanti. In aggiunta al trauma psicologico, il 66% delle donne che hanno sofferto questa violenza sono seriamente affette, tra le altre malattie, da Hiv/Aids, malattie a trasmissione sessuale e fistole.

Come lavori con la radio per suscitare consapevolezza?

Caddy Adzuba Furaha: Come giornaliste e donne congolesi abbiamo creato l’Associazione di donne nei media per denunciare la situazione. Volevamo che le donne rompessero il silenzio della tradizione che proibisce loro di parlare di stupro. Temevano di essere stigmatizzate, per cui il lavoro comincia dal mettere fine alla discriminazione contro le donne che sono state stuprate.

Abbiamo lottato per aprire uno spazio in radio dedicato alla discussione su questi temi, perché le donne non erano nelle posizioni di chi prende le decisioni e i manager in radio preferivano parlare di sport. Avevamo di fronte un paese negligente verso la propria situazione: la gente non comprendeva la gravità di quanto stava accadendo.

Abbiamo parlato con le autorità e scioperato nelle radio convenzionali, chiedendo uno spazio per parlare. Precedentemente, avevamo descritto alla radio ciò che accadeva nei villaggi, quel che avevamo visto: donne stuprate, malate, uccise, e scomparse. Le informazioni arrivarono alle organizzazioni non governative che stavano lavorando sul territorio ed esse cominciarono a curare le donne. Incoraggiate dal risultato del nostro lavoro, le donne cominciarono a parlare da se stesse alla radio di ciò che era accaduto loro.

La radio è molto importante nella Repubblica Democratica del Congo, ogni famiglia ha un apparecchio, perciò è vitale aumentare la consapevolezza tramite la radio. Con Radio Okapi – http://radiookapi.net – un progetto sostenuto dalle Nazioni Unite, noi arriviamo in tutto il paese.

In che modo lavorate per dare assistenza alle vittime?

Caddy Adzuba Furaha: Abbiamo creato l’associazione “Alleanza di donne per la promozione dei valori umani”, in cui lavoriamo con le donne smobilitate e con i bimbi nati come risultato delle violazioni o che hanno perso le loro famiglie, di modo che possano avere un’istruzione e crescere in un nucleo familiare che li ami. Curiamo le donne che hanno sofferto violenza sessuale e le sosteniamo tramite il microcredito, così che possano lentamente cominciare a lavorare.

Operiamo anche con la comunità nel suo insieme, con quelli che chiamiamo “gruppi di de-traumatizzazione”, in cui raduniamo la comunità affinché si parli di ciò che ogni singola persona ha attraversato, mirando alla creazione di una rete di sostegno in cui le persone si aiutino l’un l’altra a superare il trauma.

Perché la comunità internazionale non sta intervenendo, nonostante il conflitto?

Caddy Adzuba Furaha: Gli attori di questa guerra non sono solo africani, le multinazionali giocano uno dei ruoli principali e agiscono riparate dai loro stati nazionali. Ognuno vuole avere una fetta di ricchezza illegale. Dietro a questo conflitto ci sono gli Usa, la Francia, il Belgio, la Gran Bretagna, eccetera. Questi anni spesi a tentare di metter pace fra i paesi dei Grandi Laghi sono stati inutili. Sappiamo che senza il coinvolgimento dei paesi occidentali non possiamo risolvere questo conflitto.

Le ditte manifatturiere di computer e telefoni cellulari non sono in Africa e sono quelle che beneficiano della situazione. Poiché hanno bisogno di coltan (Ndt: columbo-tantalite) e di altri materiali grezzi per fare i loro prodotti, alimentano il conflitto finanziando vari gruppi ribelli affinché continuino la loro guerra. L’Occidente è la mano che tira i fili dietro ad ogni parte del conflitto, ed è per questo che stiamo chiedendo all’Occidente di impegnarsi nel cercare la pace.

Nessuno ha interesse a mettere fine al conflitto?

Caddy Adzuba Furaha: I ribelli stranieri delle Forze per la Liberazione del Ruanda entrarono nella Repubblica Democratica del Congo nel 1994, assieme ai rifugiati del conflitto ruandese. All’epoca, soldati francesi della missione delle Nazioni Unite controllavano il confine. Noi congolesi ci chiediamo come sia possibile che assieme ai rifugiati abbiamo attraversato il confine, con tutte le loro armi, coloro che avevano guidato il genocidio; quelle armi sarebbero state usate più tardi contro i civili congolesi per creare caos e controllare le miniere.

Chiediamo alla comunità internazionale e al nostro governo perché l’esercito congolese non ci difende. Ci viene risposto che siamo sotto embargo per le armi, e perciò il nostro esercito non ha mezzi per difendere la popolazione civile. La sola risposta che otteniamo è che non c’è interesse a portare pace nella regione.

Cos’avete ottenuto con il lavoro a livello internazionale?

Caddy Adzuba Furaha: Le cose cominciano lentamente a muoversi sulla scena internazionale. Gli Stati Uniti hanno bandito l’uso di materiali grezzi congolesi alle loro multinazionali. Inoltre, ci sono sempre più ricerche sulle connessioni fra lo sfruttamento delle risorse minerarie e il proseguimento del conflitto.

Siamo anche riuscite ad attirare l’attenzione sulla violenza sessuale nel nostro paese. Abbiamo presentato una denuncia alla Corte Penale Internazionale portando prove e una lista di vittime. Abbiamo tentato di indurre i loro avvocati a fare ricerche adeguate per cercare di ottenere giustizia. Due congolesi sono in questo momento davanti al Tribunale. Inizialmente, le violenze sessuali non erano fra le accuse loro imputate: sino al 2009, quando abbiamo testimoniato ciò che stava accadendo.

Noi chiediamo siano perseguiti i leader del Fronte di Liberazione Ruandese, che ha al suo interno i perpetratori del genocidio in Ruanda e continuiamo ad accumulare prove e a spingere la Corte Penale Internazionale ad agire contro questi gruppi.

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Il mio nome è Neema Namadamu. Vivo nel Congo orientale, che ha la fama di essere uno dei posti peggiori al mondo per essere donna. Sono nata nel 1969 in un’area molto remota chiamata l’Altopiano di Itombwe. Ero la quarta figlia dei miei genitori, ma in effetti l’unica ad essere sopravvissuta. All’età di due anni ho contratto la poliomielite, che mi ha reso disabile. Poiché mia madre non aveva dato un figlio maschio a mio padre, lui sposò una seconda moglie. Secondo i costumi tribali, una donna non ha davvero consumato il suo matrimonio sino a che non partorisce un maschio. E ove la nascita di un maschio porta mucche in dono ed è l’occasione di festeggiamenti, la nascita di una femmina non viene salutata da nessuna fanfara.

neema namadamu

Naturalmente la decisione di mio padre metteva in “disgrazia” culturale la mia mamma, ma lei era fatta di una stoffa diversa, e respinse qualsiasi tentativo di svergognarla. Invece fece di tutto per sostenermi e proteggere la mia opportunità di avere un futuro. L’amore e il rispetto che mia madre aveva per me hanno sviluppato il mio carattere, ad esempio non ho mai pensato di essere inferiore per via dei miei impedimenti fisici: semmai, forse, speciale. Io mi lavavo in casa con l’acqua tiepida, mentre gli altri bambini dovevano vedersela con le acque fredde del fiume. La mia mamma mi portò avanti e indietro da scuola, sulla propria schiena, per tre anni. Durante il cammino continuava a dirmi che ogni bambino nasce per una propria ragione, e che io avevo scopo e significato nella vita. Sebbene successivamente mi mandasse a vivere con suo fratello in città, di modo che io fossi più vicina alla scuola e ottenessi l’istruzione che lei era determinata a farmi avere, il suo amore avvolgente è rimasto con me per sempre. Grazie a lei, io so senza alcun dubbio che indosso questo corpo particolare per una ragione. Non mi caratterizza, semplicemente mi distingue. Il mio handicap può aggiungere difficoltà alle mie lotte, posso dover impegnarmi di più, combattere con maggior fierezza, ma grazie a mia madre ho questa fiamma che arde dentro me, una fiamma che mi incendia d’amore per le mie sorelle, i miei fratelli, il mio amato paese.

Quando ero in prima liceo ho cominciato a tenere un programma radio settimanale per le persone con disabilità e vado in onda a tutt’oggi. Sono diventata la seconda delle sole due donne della mia tribù ad ottenere un diploma universitario. Sono stata eletta in Parlamento per la mia provincia e nominata Consulente tecnica per il Ministero del Genere e della Famiglia, dove ho prestato servizio per quattro anni. Ho fondato un’organizzazione chiamata ACOLDEMHA, per sostenere le donne disabili e promuovere la loro integrazione nella società. Nel 2009 ho iniziato a fare campagna per lo sviluppo delle telecomunicazioni in Congo e nel 2011 ho formato la mia compagnia, “Go Network”, ottenendo la licenza su tutto il territorio nazionale per internet e tre canali televisivi. Il mio scopo è connettere financo le zone rurali più remote e raggiungere e mettere in comunicazione anche le donne più illetterate con programmi che le informano, le incoraggiano e danno loro potere. Nel 2010 sono stata selezionata come Capo Dipartimento del Ministero dell’Istruzione per i bambini con disabilità della mia provincia (Kivu del Sud), ma non ho budget ne’ salario, per cui questo lavoro è una vera sfida; il maggior ostacolo che si incontra nel raccogliere fondi dall’esterno è che non abbiamo statistiche sui bimbi disabili, e allo stesso tempo non vi sono fondi disponibili per crearle, queste statistiche. Nel 2012 ho aperto un internet café per le donne, cominciando a tenere seminari: ora siamo le Maman Shujaa (Donne Eroine) del Congo, con un’agenda di pace e sviluppo per il nostro paese che dà priorità ai diritti umani, ai diritti per la natura, al diritto al futuro per i nostri figli.

Conosco bene la violenza, ma a chi mi chiede se sono una “sopravvissuta” io rispondo che no, sono una liberatrice. Pretendere che io mi definisca sopravvissuta per ascoltarmi è come forzarmi ad un inchino se voglio avere la pallida speranza che la nostra causa avanzi. In Congo noi non usiamo la parola “stupro”, la chiamiamo violenza. Perché, come donne, siamo stuprate in centinaia di modi ogni giorno e la nostre personalità sono soppresse e negate sin dall’età più tenera senza conseguenza alcuna per i perpetratori. Sicuramente capite che il peggior insudiciamento non è quello che si può fare a un corpo, ma quello che si fa ad una mente. Le donne sono in essenza cuore e resistenza. Per quel che riguarda il cuore, le donne guidano a partire da esso. Le risposte di una donna vengono da là, le sue soluzioni hanno là la loro fonte. Il suo cuore dà la direzione da seguire e presto il mondo la seguirà. Per quel che riguarda la resistenza, una donna può essere considerata da meno sin dall’inizio del suo tempo, e ancora riconosce il valore ineguagliabile della sua forza interiore, della sua quieta saggezza, del suo amore, della sua maternità, del suo potere che continua ad esistere anche quando tutto è contro di lei, contro il suo genere e contro la sua eredità. E lei sorgerà, e raddrizzerà tutti i torti che le sono stati fatti per così lungo tempo, con l’amore invincibile e giusto che sorge da dentro. Eguaglianza. Libertà di essere quel che sei e di lavorare al tuo scopo. Vivere sapendo questo ad ogni respiro che fai.

(Fonti: World Pulse, Allvoices, Namadamu. Trad. Maria G. Di Rienzo)

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(“To change the world, start inside yourself.”, di Zainab Salbi per Women in the World Foundation, 30 aprile 2013, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Vent’anni fa, una studentessa universitaria 23enne, da poco sposata, vide le orribili immagini dei “campi di stupro” in Bosnia sui quotidiani e decise che doveva fare qualcosa al proposito. Così Zainab Salbi, irachena-statunitense, usò i soldi della luna di miele per dare inizio a “Women for Women International”, oggi un’ong nonprofit rispettata a livello globale che lavora con le sopravvissute alla guerra, dall’Afghanistan al Congo, ed ha distribuito più di 100 milioni di dollari ad oltre 350.000 donne. Salbi ha di recente pubblicato il suo ultimo libro “If You Knew Me You Would Care” (“Se mi avessi conosciuta ti importerebbe”), e sta lavorando ad un documentario sulle donne nella cosiddetta “primavera araba”.

zainab

Tu non sei definita da quel che ti accade, ma da quel che fai della tua storia.

Il mondo vede da lontano le donne rifugiate e sopravvissute alla guerra, come vittime. E sebbene le donne soffrano molte delle atrocità della guerra, dagli stupri agli sgomberi forzati, esse non si definiscono in base alle loro storie di vittimizzazione, ma da quel che fanno di queste storie. Mi hanno insegnato il vero significato di termini quali pace, forza, coraggio e bellezza, e mi hanno insegnato ad apprezzare ogni aspetto della vita.

La pace è dentro di te.

Io ho incontrato quel che chiamo il mio Dalai Lama in una donna congolese di nome Nanbito, che vive in una minuscola capanna dal tetto di latta con quattro figli: uno è il risultato di uno stupro. Quando le chiesi cosa “pace” significasse per lei, mi disse: “La pace è dentro il mio cuore. Nessuno può darmela e nessuno può portarmela via.” La sua saggezza è qualcosa che ognuno di noi cerca, anche quando conduciamo vite privilegiate: la semplice pace dentro i nostri cuori.

Possiamo trovare amore nel bel mezzo dell’orrore.

Gli individui si innamorano durante le guerre, si sposano e divorziano, hanno bambini e vanno a feste e perdono persone amate. Ci sono molte durezze ma ci sono anche momenti in cui le persone trovano gioia pur nel mezzo di grandi orrori. L’unico modo in cui possiamo davvero entrare in relazione con le donne sopravvissute di guerra sta nel non vederle come differenti, ma nel vederle come noi stesse. Noi siamo loro. Loro sono noi. Le esistenze sono diverse, i sentimenti sono uguali.

C’è grande bellezza in luoghi inaspettati.

Ho visto donne che avevano attraversato tutta una serie di esperienze terribili, dal matrimonio da bambine alla violenza sessuale al diventare rifugiate, alla guerra e alla perdita di coloro che amavano: e lo viste risollevarsi ancora e ancora, nei modi più magnifici. Ho incontrato donne afgane che hanno ricostruito le proprie vite partendo da zero e ora danno lavoro a centinaia di altre donne ed uomini. Ho incontrato le sopravvissute al genocidio in Ruanda che hanno perdonato gli assassini delle persone che amavano e ora si dedicano all’agricoltura biologica per assicurare un futuro migliore ai loro bambini. Questo e molto altro mi fa credere nella bellezza di questo mondo e nella bellezza dell’umanità a dispetto di tutta l’oscurità. Se le mie sorelle in Congo e in Iraq possono ancora cantare e ballare, chi sono io per non farlo e per non essere grata di tutti i privilegi che ho.

Per cambiare il mondo, comincia con il viaggio interiore.

Se vogliamo cambiare il mondo, le voci delle donne devono essere udite, forti e chiare, in tutti i settori e non essere più confinate in un solo angolo. Ma oltre a ciò, dobbiamo essere il cambiamento che aspiriamo a vedere nel mondo. Tale cambiamento comincia con il viaggio interiore. Ciò che mi spinge avanti è il mio assoluto e pieno convincimento che il cambiamento è possibile ed è possibile per ciascuna di noi vivere la nostra verità e dispiegare il nostro pieno potenziale.

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