Cosa ci vuole alla classe politica e alla società civile italiane per riconoscere non solo di avere un problema con la violenza di genere, ma di contribuire alla sua gravità fomentandolo, sminuendolo, ridicolizzandolo, giustificandolo e persino esaltandolo?
Pesco a caso dalla cronaca di ieri 16 ottobre 2019, infarcita come ogni singolo giorno di episodi di violenza contro donne e bambine:
“Londra, due italiani condannati per stupro: in un video gli studenti ridevano dopo la violenza”
Ho visto il video. Lorenzo Costanzo e Ferdinando Orlando – 25 e 26 anni – si scambiano un “high five” e si abbracciano dopo aver lasciato una coetanea priva di sensi in un club di Soho. Lei era ubriaca e lo stupro perpetrato nello sgabuzzino del locale le ha inflitto lesioni tali da dover essere sottoposta a intervento chirurgico. Secondo i giornali i due amici avrebbero anche ripreso le loro gesta con i telefonini. Ai giudici hanno detto la solita solfa: “lei era consenziente” – e, non detto ma evidente, come tutte le donne era una troia masochista a cui dev’essere piaciuto immensamente essere lacerata da italici maschioni: dopotutto la violenza estrema rivolta alle donne è il fulcro principale dell’odierna pornografia, che purtroppo è a sua volta il mezzo principale con cui i giovanissimi e i giovani si fanno un’idea di cosa sia la sessualità.
Alle donne piace, quindi, ma gli uomini patiscono molto (probabilmente a causa della dittatura femminazista che impera sul mondo): “Non mi aspettavo una cosa del genere, provo un’enorme sofferenza – ha dichiarato il padre di uno dei due studenti – Vedo soffrire mio figlio per una vicenda che alla base non ha alcuna prova evidente.” A chiosa, i giornalisti aggiungono che la ragazza era troppo strafatta di alcolici per riconoscere senz’ombra di dubbio gli aggressori. Così, un corpo di donna macellato (ma solo un po’, via), video e dichiarazioni degli imputati al processo non bastano: tutti conosciamo ormai le statistiche diffuse da una serie di istituti che vanno dalle Nazioni Unite all’Istat, sappiamo che la violenza di genere è una pandemia e che nessuna nazione ne è immune, leggiamo ogni giorno di vicende efferate e ancora continuiamo a discutere comportamenti e abitudini e tipologia corporea e grado di appetibilità sessuale delle vittime, mettendo sistematicamente in dubbio le loro testimonianze e la loro credibilità – perché un uomo che violenta in fondo non è colpevole di nulla… lei ci stava, lo provocava, a lei piaceva, lei è stata imprudente, lei è stata sconsiderata, non poteva tirarsi indietro all’ultimo momento e così via.
“Pesaro, palpeggia una ragazzina in piazza Puccini. Arrestato.”
Anche qui sono in due e sono italiani (lo specifico in caso mi leggessero per sbaglio i fan di Salvini). Il primo, quarantenne, aggredisce sessualmente una ragazza di 14 anni – a lui perfetta sconosciuta – e il secondo gli fa da palo e da padrino manzoniano minacciando gli amici / le amiche di lei che protestavano.
Cosa fa credere a questi signori, e agli studenti di cui sopra, di essere autorizzati a servirsi della prima femmina che vedono? In primo luogo, il fatto che la violenza di genere è normalizzata e si riproduce grazie a regole sociali: gli stereotipi, le attitudini e le diseguaglianze che riguardano le donne in generale. La violenza sessuale è un derivato diretto della violenza strutturale che consiste nella subordinazione delle donne nella vita sociale, politica ed economica. Tradotto in pratica, costoro sentono di non star facendo nulla che non sia lecito e persino prescrittivo per i “veri” uomini. In secondo luogo, l’esposizione continua alla violenza e alle sue giustificazioni rende gli individui più propensi ad usarla, ad avere comportamenti cronicamente aggressivi e convincimenti che normalizzano e persino romanticizzano le violenza stessa. E’ quest’ultimo il caso del titolo n. 3:
“Adria, interrogato dai giudici il marito strangolatore – Lui è in cura per la tossicodipendenza da eroina, la moglie è ancora gravissima.”
I due hanno una figlioletta di quattro anni, la donna ha alte probabilità di morire a 23: lui la sospettava di infedeltà e inoltre, spiegano i quotidiani, “non ha l’atteggiamento di chi vuol negare l’accaduto: ha di fatto ammesso di aver messo le mani al collo alla moglie in preda ad un raptus di gelosia che però potrebbe costare la vita alla giovane cameriera e madre della loro bambina.” Come possiamo ritenerlo responsabile di un tentato omicidio, andiamo, che sua moglie possa morire sembra un semplice effetto collaterale del romanticismo se continuate a leggere: “Quando si è avvicinato alla moglie per chiederle un ultimo abbraccio le avrebbe detto di essersi reso conto che il loro rapporto era finito ma le ha detto che l’amava ancora, che l’avrebbe amata per sempre. Poi ad un tratto, qualche istante dopo, avrebbe aggiunto che nessuno mai l’avrebbe avuta se non avesse potuto più averla lui. Quindi le ha stretto le mani intorno al collo e l’ha lasciata esanime sul pavimento. (…) Quando la ragazza è stata portata via con l’ambulanza, stando al cognato, il marito si sarebbe messo a piangere.”
Una triste storia d’amore, insomma, basata però solo sulla testimonianza di lui – ed è il fatto che sia un lui a renderla immediatamente verosimile: pensate, aveva quasi tentato il suicidio e poi ha persino pianto. Maledetto raptus, cos’hai fatto a quest’uomo innocente? Qua nessuno scandaglia la sua vita privata con il setaccio per sminuirne la credibilità; negli articoli al riguardo persino il fatto che sia tossicodipendente è usato come una scusante. Se invece è lei a essere intossicata (come nel caso della ragazza londinese) be’, se l’è andata a cercare.
La nostra società non ha solo normalizzato la violenza maschile: l’ha resa romantica, erotica ed eroica. La propone ossessivamente come strategia per risolvere i problemi (non pochi politici italiani hanno pesanti responsabilità in questo), la spande a palate nei prodotti televisivi e cinematografici, la spaccia come ingrediente innato e imprescindibile della mascolinità, e poi casca dalle nuvole quando vengono alla luce le “chat dell’orrore” gestite e usate da minorenni.
“The shoah party“: scambiavano video a luci rosse, immagini pedopornografiche, scritte inneggianti a Adolf Hitler, Benito Mussolini, all’Isis e postavano frasi choc contro migranti ed ebrei.”
Ragazzi, fra gestori e utenti della chat vanno dai 13 ai 19 anni ma sono in maggioranza minorenni che “normalmente non si conoscevano tra di loro ma che condividevano l’inconfessabile segreto di provar gusto in maniera più o meno consapevole nell’osservare quelle immagini di orribili violenze: una neonata di nemmeno un anno seviziata da un adulto, oppure una bambina dall’apparente età di 11 anni mentre fa sesso con due ragazzini, forse di poco più grandi di lei.”
La Procura parla di: “detenzione e divulgazione di materiale pedopornografico, istigazione all’apologia di reato avente per scopo l’incitazione alla violenza e alla discriminazione per motivi razziali”. Se la madre di un tredicenne non avesse scoperto la pedopornografia sul cellulare del figlio e non avesse denunciato, le “scene di una brutalità inenarrabile” avrebbero continuato spensieratamente a circolare. “Abissi di degrado”, tuonano i giornalisti. E’ la “non tanto nuova quotidianità”, rispondo io: dalle cosiddette micro-aggressioni (commenti sessisti / sessualizzati, prese in giro sessiste /sessualizzate, interruzioni aggressive, appropriazione di voci e idee) alle palpate sui mezzi di trasporto e nei luoghi pubblici, dagli assalti nei locali e nelle case allo stupro e all’omicidio – dalla culla alla tomba, passando per il pc e il cellulare, bambine ragazze e donne sono i bersagli privilegiati. La violenza circonda e nutre di veleno maschi e femmine, è nel linguaggio che usiamo, negli “scherzi” (ironia, ironia, e fatevela una risata ogni tanto, prima che la violenza distrugga le vostre vite), nei messaggi dei media che oggettivano le donne e nelle norme di genere che imponiamo proprio a maschi e femmine, tanto per rendere infelici le esistenze di tutti.
La frequente esposizione alla violenza produce un adattamento emotivo: diventa qualcosa di abituale, di “normale”, e l’osservarla è lungi dal fornire uno sfogo mediante aggressioni “simboliche” (che però per chi le subisce nei video sono maledettamente reali): tutte le ricerche effettuate finora dicono l’esatto contrario e cioè che l’esposizione ripetuta alla violenza tende a facilitare l’espressione della stessa. Se poi la violenza è socialmente legata ai concetti di mascolinità, forza, vittoria, sesso, ecc. è inevitabile che spunti di continuo in ogni nostra interazione sociale. Questo è il vero abisso di degradazione collettiva che dobbiamo trasformare e superare.
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