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Riccione, uscita dell’autostrada, 2020:

escrementi pubblicitari

Questa geniale, innovativa, creativa pensata dei pubblicitari (il sesso fa vendere, l’umiliazione delle donne anche – che novità!) fa obiettivamente schifo. In termini più educati del mio, ciò è stato detto abbastanza volte da indurre il proprietario della macelleria Ugolini a dichiarare: “Chiedo scusa. Rimuoverò al più presto il manifesto. Non volevo offendere la sensibilità di nessuno e tanto meno quella delle donne.”

Desidero qui ribadire a lui (quale simbolo odierno di una tendenza sociale) e agli incompetenti misogini a cui ha commissionato il cartellone che la nostra sensibilità è l’ultimo dei problemi in ballo. La lotta contro la pubblicità sessista e oggettivante negli spazi pubblici non ha nulla a che fare con puritani sentimenti di disagio per la nudità dei corpi, con la “decenza” o il moralismo: si tratta del contrasto a un sistema patriarcale che costantemente rinforza le diseguaglianze fra i generi e della conseguente normalizzazione della violenza di genere in tutte le sue forme – per tipologia e posizionamento, per esempio, gli annunci pubblicitari hanno un deciso effetto di sdoganamento e normalizzazione delle molestie sessuali.

Negli spazi pubblici è impossibile evitarli: consapevolmente e inconsciamente ricordano alle donne che sono vulnerabili e imperfette e che è loro dovere conformarsi a un’idea precisa di femminilità, mentre conferiscono agli uomini i privilegi del giudizio e del controllo.

“E’ un’affermazione di potere. E’ un modo per farmi sapere che un uomo ha diritto al mio corpo, ha diritto a discuterlo, analizzarlo, valutarlo e a far sapere a me o a chiunque altro nelle vicinanze il suo verdetto, che a me piaccia o no.” Laura Bates, Everyday Sexism Project.

Inoltre, gli effetti devastanti della pubblicità sessista sulla nostra psiche e quindi sulla nostra salute (un altro tipo di violenza di genere) sono scientificamente dimostrati da decenni: 2002, meta-analisi di 25 studi riporta che la maggioranza delle adolescenti si sente significativamente peggio rispetto al proprio corpo dopo aver visto le immagini di donne proposte dai media; 2008, meta-analisi di 77 studi riporta che l’esposizione ai media è fortemente legata ai problemi di immagine corporea nelle donne – per capirci meglio, i “problemi” si concretizzano in anoressia, autolesionismo, depressione, stress e persino suicidio, eccetera eccetera. Un solo dato: dal 1970 i disturbi alimentari nelle donne sono aumentati del 400%.

“Le donne e le bambine si paragonano a queste immagini ogni singolo giorno. E il fallimento di assomigliare ad esse è inevitabile, poiché sono basate su una perfezione che non esiste.” Jean Kilbourne, ricercatrice universitaria, documentarista, conferenziera, scrittrice.

Infatti le foto dei corpicini senza testa e senza volto – culi, i culi sono sufficienti a definire le donne – sono abbondantemente ritoccate per rimuovere da esse ogni traccia di umanità (i pubblicitari considerano queste tracce “difetti”) e dar loro girovita impossibilmente stretti e pelle luminosa da incontri ravvicinati del terzo tipo. Spesso sono pure “candeggiate”, per così dire, perché il modello proposto è stato pensato come ideale per i (ricchi) consumatori occidentali, ma si è rapidamente diffuso a livello globale: creando un proficuo mercato di creme sbiancanti e tinture ossigenanti che succhia via autostima e soldi a donne di tutto il mondo.

Quindi, signor committente e signori pubblicitari, la mia sensibilità è perfettamente a posto: sono le mie ovaie che girano a paletta.

Maria G. Di Rienzo

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La dipendente del centro sportivo di Verona dice alla stampa che, “come donna”, non si sente “per niente a disagio” per la “bella trovata”: l’immagine di cui parla va in giro sui camion pubblicitari mostrando un fondoschiena mezzo nudo con un timbro su una natica che recita “100% palestra” – il resto della donna non c’è, tanto non serve. La scritta che la illustra è ancora meglio: “Vi facciamo un culo così”. E inoltre, aggiunge l’entusiasta Consuelo, a) se aprite una rivista vedrete “tanti ragazzi a petto nudo” (che però non è un equivalente) e b) la palestra si adegua “a quelli che sono gli standard che si vedono in televisione”.

Non pubblico la foto in questione, che potete ammirare sui quotidiani online e che invece di essere una spiritosa novità è semplicemente la trita e noiosissima ripetizione di centinaia di pubblicità simili, in cui il “culo così” è usato per vendere di tutto – dai lubrificanti alle serate in discoteca. Vi dirò solo che somiglia a questa qui sotto del 2016, che pure pubblicizza una palestra e dice anche al pubblico che ci sono “cose migliori dietro cui essere bloccati che l’auto di fronte”.

gym gb 2016

Sarà evidente, non solo a Consuelo, che i reali destinatari del messaggio-fondoschiena sono gli uomini. Alle donne serve ottenerlo nel suo cosiddetto “centro sportivo” solo per soddisfare le esigenze altrui: non hanno bisogno di quel culo se non per mostrarlo agli uomini e riceverne approvazione. Gli sport non si fanno con le natiche (per quanto sicuramente influenzino tutti i muscoli) e avere quel determinato tipo di natiche non favorirà nessuna grande prestazione atletica – a meno che non si voglia considerare tale il numero di pratiche onanistiche maschili correlate.

La “per niente a disagio” di Verona, però, ha perfettamente ragione quando menziona gli standard televisivi: anche questi con lo sport non hanno una mazza a che fare, ma ormai è chiaro che le donne in palestra ci devono andare per cercare di raggiungerli e non per sfrecciare su una pista o salire poi su un podio.

L’anno scorso (Karsay, Knoll & Matthes) furono resi pubblici i risultati di una meta-analisi di 50 studi che hanno esaminato la relazione fra l’oggettivazione di se stesse delle donne e l’uso regolare di mass media sessualizzati inclusi televisione, riviste, social networks e video games. Le donne ne sono uscite come prodotti / oggetti diretti allo sguardo e alla valutazione maschile (di appeal sessuale), condiscendenti, sottomesse, servili, ridotte in pezzi da mettere in mostra.

Le bambine interiorizzano ideali corporei; le giovani donne sviluppano bassa autostima, disordini alimentari e insoddisfazione rispetto alla propria immagine; le adulte vedono ridursi la loro soddisfazione rispetto alle relazioni e al sesso. Non mi sembra un prezzo equo da pagare per il “culo così”, ma vedete voi.

L’esposizione ai contenuti sessualizzati e stereotipati – dalle pubblicità suddette alla pornografia – non ha però solo influenza su come le donne vedono se stesse, dice il rapporto, ma su come le donne sono percepite dagli altri: “(…) dà forma a credenze e attitudini sulla violenza contro le donne, inclusa la percezione che le donne siano responsabili per detta violenza” e “(…) gli uomini esposti a immagini oggettivate di donne in una varietà di media sono più tolleranti sulle molestie sessuali e la violenza interpersonale, e tendono a reiterare i miti sullo stupro”, nonché più propensi “ad agire in maniera aggressiva nei riguardi di una donna che pensano li abbia respinti”. Non occorre che li rigetti davvero, notate, basta che loro ne siano convinti.

Messaggi di chiusura: a Consuelo convinta che non ci sia “niente di sessista” nei manifesti della palestra per cui lavora – senza offesa, potrebbe e dovrebbe informarsi meglio; agli indignati che non capiscono “cosa ci sia da protestare”: leggete, ve l’ho appena detto.

Maria G. Di Rienzo

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bicky

“L’idea era quella di far sorridere i clienti”, spiega candidamente l’HuffPost italiano. La vignetta pubblicitaria di Bicky Burger, che vedete qui sopra, non voleva “assolutamente promuovere la violenza contro le donne” ha detto l’azienda alimentare belga rispondendo alle proteste, “non era l’intenzione del post”, si trattava solo di dire che “la vendita di falsi Bicky non deve essere fatta”.

Nel comunicato succitato i tizi cercano (ancora) di essere spiritosi: “non picchiate nessuno”, “vogliamo la pace nel mondo”, “il vero Bicky è al potere” ecc. Ovviamente il prendere per i fondelli politici, donne e in genere chi ha protestato non ha sortito l’effetto sperato e la vignetta è sparita.

Come notate, quanto a comprensione della reazione siamo sempre a “se non avevo l’intenzione di farti del male non te ne ho fatto” e “era solo ironia, satira, divertimento, barzelletta” (quest’ultima “spiegazione” implica che se ti stai lamentando sei un/una povero/a idiota ossessionato dal politically correct e senza senso dell’umorismo).

Al di là del fatto che i pubblicitari (di Bicky e non) sembrano totalmente ignari dei modi in cui la violenza nasce, è alimentata e si diffonde, io non capisco cosa ci sia da ridere su una donna presa a cazzotti per aver tentato di consegnare a un uomo un “panino falso”. Inoltre, se la faccenda concerne la vendita di fast food per così dire contraffatto, perché la tipa è abbigliata come se stesse per sfilare sul red carpet o stesse partecipando a una festa dell’alta società? Dovrebbe essere in camice e berretto da cuoca oppure in divisa da fattorina / rider.

E come mai al suo posto non c’è un altro uomo? Be’, è abbastanza semplice:

1. un secondo maschio non avrebbe suggerito un’immediata e totale sconfitta, l’immaginazione di chi guarda la vignetta si sarebbe spostata alla reazione dell’aggredito e alla assai probabile zuffa conseguente – una femmina, invece, le prende e basta come la cronaca in tutto il mondo continua a mostrarci, le prende perché ha spinto con le sue azioni l’uomo a picchiarla e se fa tanto di difendersi è un orrido mostro misandrico su cui schiere di minus habentens potranno produrre asfissianti quanto autorevoli commenti: La violenza non ha genere! Le donne sono violente quanto gli uomini! Le donne straziano gli uomini con la violenza psicologica! Le statistiche sulla violenza di genere sono gonfiate!;

2. la donna, come Sgarbi continua a spiegare in Italia (ma sono sicura che in Belgio abbia epigoni e copie carbone), è infida di natura, traditrice per indole e falsa dalla testa ai piedi: è ovvio che tenti continuamente di truffare gli uomini.

Il prossimo maschio belga che pesta la moglie, la fidanzata, la compagna ecc. potrebbe persino, se colto in flagrante, fornire alla polizia la giustificazione addotta da Bicky Burger: “Era solo una simpatica provocazione”. Provocare, però, ha il significato di incitare ribattute e repliche: la seconda cosa che non capisco è perché i signori di Bicky si agitino così tanto quando ricevono esattamente ciò che hanno chiesto.

Maria G. Di Rienzo

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“Chi prenderà posizione e parlerà per le mie sorelle che sono morte, perché i loro stupratori a pagamento le hanno picchiate troppo forte? Chi prenderà posizione e parlerà per le mie sorelle che sono morte perché la fantasia dei loro stupratori a pagamento era strozzarle mentre le scopavano?

Chi parlerà per le mie sorelle che hanno perso la capacità di dare la vita perché stupratori a pagamento hanno infilato bottiglie, cetrioli, carote, vibratori stupidamente enormi, tacchi di scarpe, manganelli e quant’altro sono riusciti ad architettare con menti distorte, così a fondo e così violentemente nelle loro vagine da danneggiarne il sistema riproduttivo in modo irreparabile?

Chi parlerà per le mie sorelle che non ce l’hanno più fatta a sopportare e hanno scelto l’unica via d’uscita: il suicidio? Chi parlerà per i bambini innocenti che hanno perso le loro madri? Chi parlerà per le mie sorelle che sono così smarrite sulle strade da non fare altro che consumare droghe e alcool sino a che i loro reni e il loro fegato smettono di funzionare? Chi parlerà per le mie sorelle che sono ancora intrappolate in un’esistenza di stupro a pagamento senza modo di uscirne?

“Sex work” è un termine glorificato per lo stupro pagato. Questi non sono bordelli o agenzie di escort o saloni per massaggi o comunque si voglia chiamarli. Non è un lavoro o un’industria. Questo è terrorismo contro le donne – un’aggressione sostenuta a livello internazionale contro donne, ragazze, bambine vulnerabili. Non faranno saltare in aria edifici o se stessi, ma hanno sicuramente fatto saltare in aria la mia mente, il mio corpo e la mia anima. Mi hanno fatta entrare in una camera di tortura da cui non fuggirò mai: persino oggi lotto ancora per sopravvivere, per vivere, per sentire di avere del valore, per essere amata, per sognare.”

Ally-Marie Diamond, attivista indigena, sopravvissuta alla prostituzione, fondatrice del servizio di consulenza per le donne “Tranquil Diamonds” (il brano è tratto dall’articolo “Women of colour speak out against prostitution” di Raquel Rosario Sanchez del 26 aprile 2019).

pagliacci

La Cei ha protestato contro i camion pubblicitari in immagine, che girano per Roma e Milano, per la citazione di Gesù e perché sono visibili dai bambini. I signori di Escort Advisor hanno risposto che “L’obiettivo della campagna è sdoganare un argomento considerato da sempre come scandaloso ma anche sensibilizzare sulla sicurezza che le recensioni garantiscono a tutti, utenti e sex workers. Dobbiamo fare ancora molti progressi in questo senso.”

Il progresso è in effetti auspicabile e costoro potrebbero cominciare a ottenerlo riflettendo su alcuni fatti: 1) le donne sono persone e non prodotti; 2) gli uomini non sono titolati al possesso delle donne; 3) non di solo pene vive l’uomo: un po’ di dignità umana e di rispetto, per favore, per donne e uomini. Le nostre interazioni vanno ben oltre lo sfilatino.

Inoltre, ai sensi dell’art. 3 della L. 20 Febbraio 1958 n. 75 si prevede espressamente la punibilità di “chiunque, in qualsiasi modo, favorisca la prostituzione altrui”. Il reato di favoreggiamento della prostituzione si concretizza, sotto il profilo oggettivo, in qualunque attività idonea a procurare favorevoli condizioni per l’esercizio della prostituzione. Irrilevante il movente dell’azione, ovverosia le ragioni soggettive di chi commette il reato: non è perciò neppure richiesto che il favoreggiamento della prostituzione sia accompagnato da uno sfruttamento economico – che nel caso dei camion pubblicitari sembra comunque presente – bastando la mera agevolazione consapevole di tale attività. Perciò: perché i suddetti camion girano senza problemi?

Maria G. Di Rienzo

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vetrina m&s

Alle clienti la vetrina natalizia di Marks & Spencer, in quel di Nottingham, non è piaciuta. Come vedete, sul lato sinistro ci sono i “completi indispensabili per lasciare un’impressione” per gli uomini e le “indispensabili piccole mutandine raffinate” per le donne.

A dire inizio alla protesta è stata Fran Bailey, che ha pubblicato l’immagine sulla pagina Facebook del gruppo Feminist Friends Nottingham; un estratto del suo commento dice:

“Ok, M&S Nottingham, non abbiamo davvero imparato nulla negli ultimi 35 anni? O sono la sola a trovare questa, l’esposizione nella loro vetrina principale, completamente vomitevole? Il problema è che siamo così vessate da tale tipo di immagini che non le riconosciamo neppure più per quel che sono.” Una normalizzazione degli stereotipi di genere, continua Fran, e un insulto non solo sessista: “must-have”, che io ho tradotto – correttamente – come “indispensabile” ha il significato letterale di “devi averlo” e la donna trova ciò intollerabile in presenza di un largo settore di cittadinanza che si situa sotto la soglia di povertà.

Un’altra donna, Kiri Tunks, ha commentato: “Cari di Marks & Spencer, il vostro divario di genere sugli stipendi è del 12,3% (ndt. le dipendenti sono pagate meno dei dipendenti) e voi pensate che “piccole mutandine raffinate” siano ciò che le donne devono avere? Pagate in modo adeguato il vostro staff femminile e smettete di insultare il resto di noi.”

La foto è così arrivata a “FiLia”, un’ong che organizza la più vasta conferenza femminista annuale in Gran Bretagna, da Sian Steans (l’immagine sotto è sua): “Mi sono sentita a disagio quando l’ho vista. Come femminista e come madre di una bambina mi sono sentita in imbarazzo a doverle spiegare di nuovo perché le donne sono rappresentate con così poco rispetto. Nottingham ha una lunga storia di sostegno ai diritti delle donne. Poiché si tratta della prima città nel Regno Unito che ha reso la misoginia un crimine dell’odio, è deludente vedere in essa una vetrina che riduce le donne alla loro biancheria intima, mentre l’affermazione per gli uomini è come vestire per lasciare un’impressione.”

“FiLia” ha girato l’immagine tramite Twitter e il caso è esploso sui media inglesi (se n’è occupata persino la BBC). Nel frattempo, le attiviste hanno corretto la vetrina, come potete osservare di seguito. La scritta dice che le donne “devono avere” DIRITTI UMANI AL COMPLETO.

vetrina corretta - sian steans

La firma per l’azione stava sul marciapiede, giusto sotto il cartello, ed era fatta con il rossetto: recitava semplicemente la parola “donne”. Il negozio Marks & Spencer ha deciso di oscurare la vetrina. Speriamo che in futuro cambi anche agenzia pubblicitaria.

Maria G. Di Rienzo

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Era il 2015 e un manifesto pubblicitario della Protein World, affisso lungo il percorso della metropolitana, chiedeva alle donne di Londra se i loro corpi erano “pronti per la spiaggia”, assicurando di avere un’intera gamma di prodotti atti a renderle bidimensionali come la loro modella.

https://lunanuvola.wordpress.com/2015/05/14/vivere-vivere/

La protesta che li investì fu enorme, al punto che l’anno successivo il sindaco di Londra bandì gli annunci pubblicitari che “umiliano le persone, in particolare le donne” dall’intera rete dei trasporti pubblici della città.

In questi giorni Navabi, una ditta che produce abiti per taglie larghe, ha lanciato una campagna utilizzando lo stesso stile e gli stessi colori del vecchio poster di Protein World nei suoi manifesti.

ready piccadilly circus

“I nostri corpi sono pronti per la spiaggia”, recita la grande scritta a fianco delle donne ritratte (Bethany Rutter, Lauren Tallulah Smeets e Stephanie Yeboah) mentre una più piccola, evidenziata dallo sfondo nero, dice: “Sono passati tre anni: un piccolo promemoria”.

ready oxford circus

“Sentiamo che le cose non sono cambiate abbastanza da quando apparve l’annuncio originale di Protein World nel 2015. – ha detto Bethany Rutter, che lavora per Navabi come social editor – Dopo tre anni le cose avrebbero dovuto cambiare di più di quanto abbiano fatto, perciò volevamo prenderci un’opportunità di cambiarle. Volevamo dire, senza esitazioni, che non dovrebbe esserci una nuvola nera appesa sulla tua estate perché pensi di non avere il corpo “giusto”. E volevamo mostrare alla gente corpi che non vedono ogni giorno nelle pubblicità.”

Maria G. Di Rienzo

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Così mi strillano ogni giorno diversi luoghi virtuali in cui mi imbatto per le più svariate ragioni (e da cui mi scollego immediatamente): è uno sforzo inutile, perché le intimidazioni hanno su di me il solo effetto di radicarmi nelle mie posizioni e gli appelli alla compassione per il profitto delle compagnie commerciali, purtroppo, non toccano il mio cuore di pietra.

Sì, ho un aggeggio che blocca la pubblicità – o meglio, che tenta di farlo.

Molto spesso l’annuncio è scritto all’interno del filmato o del testo che sto cercando di vedere e svariate finestre si aprono nonostante il famigerato AdBlocker che rischia di ridurre i proprietari del sito in miseria.

Quel che vogliono vendermi tramite esse, in più del 90% dei casi, è pornografia. Ma io non stavo cercando pornografia. Volevo vedere un film non vietato ai minori o leggere un testo parimenti accessibile a ogni fascia d’età. Chi accetta tali pubblicità sui propri siti questo lo sa benissimo ma se ne sbatte: significa che espone volontariamente bambine/i e ragazze/i a una visione mercificata e sempre più violenta della sessualità.

Il restante poco meno del 10% tenta di convincermi a comprare cose che mi renderebbero degna di essere sbattuta / fottuta / spaccata negli scenari pornografici di cui sopra: lingerie pacchiana da sexy shop, porcherie dimagranti, porcherie rassodanti, porcherie volumizzanti ecc. ecc.

Questa è la ragione, signori che vi vantate di aver “beccato” l’AdBlocker, per cui non solo non lo disabilito ma spero di trovarne uno ancora più potente: io ho “beccato” voi. Non vi sembra eccessivo chiedere aiuto a una femminista per il mantenimento dell’oceano di escrementi sessisti in cui annegate le donne?

Maria G. Di Rienzo

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L’ultimo libretto pubblicitario dell’Ikea (valido fino al luglio 2018) che mi è arrivato nella cassetta della posta è decorato da slogan accattivanti quali “Facciamo spazio alla tua voglia di cambiare”, “Facciamo spazio al modo di vivere di ciascuno”, “Crea lo spazio dove esprimere chi sei” e così via.

Ma questa attitudine che suggerisce armonia e accettazione delle differenze è così superficiale e leggera che la sua flessibilità si spinge a tollerare discriminazioni umilianti: purché siano le donne a doverle subire.

In questi giorni, sommersi dalle proteste sui social media, i responsabili di Ikea-Cina hanno dovuto ritirare uno spot televisivo di 30 secondi (una sua immagine è qui sotto).

Ikea china

La storia andava così: una madre arrabbiata dice severamente alla figlia “Se non sei in grado di portare qui un fidanzato, non chiamarmi più mamma.” Nella cultura cinese ciò si traduce “Ti disconosco come figlia, ti rinnego, ti ripudio, non fai più parte della famiglia”. La figlia esibisce all’annuncio una faccia funerea e disperata, ma per fortuna (???) un giovane uomo con un mazzo di fiori appare sulla porta e i genitori deliziati di lei cominciano ad apparecchiare la tavola con stoviglie e decorazioni dell’Ikea. Lo slogan finale suggerisce di “celebrare la vita quotidiana”.

Tutta la menata si basa sulla stigmatizzazione, in atto in Cina, delle giovani donne non sposate prima dei trent’anni. In genere sono donne che hanno una professione stabile e/o un alto livello di istruzione, ma le chiamano “donne scartate” (con il significato di residui, rimanenze, avanzi)… perché vivono benissimo senza marito e – com’è probabile – vivono benissimo anche senza gli accessori Ikea: tant’è che hanno immediatamente chiamato al boicottaggio dei suoi prodotti. Come detto, lo spot è stato rimosso da tutti e quattro i canali televisivi su cui andava in onda e l’Ikea si è scusata pubblicamente.

C’è da aggiungere che nel luglio scorso i produttori delle automobili Audi, sempre in Cina, erano riusciti a fare di peggio: la loro pubblicità paragonava l’acquistare una macchina di seconda mano al controllare minuziosamente difetti e pregi di una ragazza in abito da sposa. Anche in questo caso, la rivolta da parte delle potenziali consumatrici e dei potenziali consumatori è stata immediata.

Forse la divisione marketing dell’Ikea dovrebbe capire che il multiculturalismo non significa avallo di qualsiasi violazione dei diritti umani, purché sia praticata in modo vasto nella società. Altrimenti, sarebbe lecito dirigere la prossima campagna all’Isis mostrando che i coltelli Ikea sono perfetti per sgozzare qualcuno…

Gli standard etici valgono ovunque. Le donne sono esseri umani a pieno titolo ovunque e ovunque hanno diritto al rispetto e a rappresentazioni che rivestano un minimo di dignità. Non sono, parafrasando Douglas Adams e la sua divisione marketing della Società Cibernetica Sirio, “Le amichette di carne con cui è bello stare” e i pubblicitari possono – e sicuramente dovrebbero – fare di meglio: “La Guida galattica per gli autostoppisti definisce la divisione marketing della Società Cibernetica Sirio un branco di idioti rompiballe che saranno i primi a essere messi al muro quando verrà la rivoluzione (…) Curiosamente, un’edizione dell’Enciclopedia Galattica che per un caso fortunato è stata portata da una dimensione temporale di mille anni avanti nel futuro, definisce la divisione marketing della Società Cibernetica Sirio un branco di idioti rompiballe che sono stati i primi a essere messi al muro quando c’è stata la rivoluzione.” (aut. cit., “Guida galattica per gli autostoppisti”)

Maria G. Di Rienzo

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Il 28 marzo scorso il consiglio comunale di Parigi ha votato questo: a partire dal 20 novembre 2017 gli annunci pubblicitari “sessisti e discriminatori” non avranno più spazio in città. Immagini “degradanti” o “disumanizzanti” che “hanno impatto negativo sulla dignità umana, così come quelle che propagandano omofobia, disprezzo per le persone anziane, discriminazione etnica o religiosa” sono bandite.

Alla stampa, la Sindaca di Parigi Anne Hidalgo ha spiegato che città come Londra e Ginevra hanno già adottato misure simili e che era ora di fare un passo verso l’arresto della “diffusione, promozione e valorizzazione di immagini che degradano certe categorie di cittadini/e.” Inoltre, ha detto, “Le conseguenze di queste rappresentazioni degradanti hanno un impatto notevole sulle donne, in special modo su quelle più giovani: mantengono gli standard del sessismo e contribuiscono a trivializzare determinate forme di violenza quotidiana.”

sexiste

Alcuni articoli sull’argomento sostengono che la recente campagna “porno-chic” di Saint Laurent (a cui appartengono le due immagini sopra questo paragrafo) sia stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Raphaëlle Rémy-Leleu, la portavoce del gruppo femminista francese “Oséz le Feminisme!” che ne aveva immediatamente chiesto la rimozione dagli spazi pubblici, ha dichiarato che la campagna: “Tocca tutti i lati del sessismo. Le donne sono oggettificate, iper-sessualizzate e messe in posizioni che esprimono sottomissione.”

E questa qui sotto è la Sindaca. Se avessi un programma di grafica adatto avrei contornato l’immagine di baci e cuoricini. Maria G. Di Rienzo

Anne Hidalgo

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Chiunque sia stato vivo – e pensante – negli ultimi tre decenni è stato sicuramente reso consapevole del concetto di oggettivazione, in particolare dell’oggettivazione delle donne.

Se avete visto un video musicale, guardato un film, sfogliato le pagine di una rivista di moda o persino dato un’occhiata a un cartellone pubblicitario, avete incontrato l’oggettivazione: invece di esseri umani pensanti, desideranti, attivi, le donne sono ridotte a cose o, più di frequente, a parti del loro corpo. Non stiamo guardando donne. Stiamo guardando tette, culi e gambe.

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(La scritta dice: “Scuotila bene e goditela…”)

In una classica discussione sul concetto, la filosofa Martha Nussbaum scrive che: “Si tratta come un oggetto ciò che in realtà un oggetto non è, ciò che è in effetti un essere umano.” E qui sono le sette nozioni, come Nussbaum dice, coinvolte in quell’idea:

USO STRUMENTALE: Chi oggettifica tratta l’oggetto come un attrezzo che serve i suoi scopi.

NEGAZIONE DELL’AUTONOMIA: Chi oggettifica tratta l’oggetto come manchevole di autonomia e autodeterminazione.

INERZIA: Chi oggettifica tratta l’oggetto come manchevole di istanze e probabilmente anche di attività.

FUNGIBILITÀ: Chi oggettifica tratta l’oggetto come intercambiabile – a) con altri oggetti dello stesso tipo; b) – con oggetti di altro tipo.

VIOLABILITÀ: Chi oggettifica tratta l’oggetto come mancante dei limiti dell’integrità, come qualcosa che è permesso rompere e colpire e in cui si può entrare di forza.

PROPRIETÀ: Chi oggettifica tratta l’oggetto come qualcosa posseduto da terzi e che da essi può essere comprato, o che può essere venduto a terzi.

NEGAZIONE DELLA SOGGETTIVITÀ: Chi oggettifica tratta l’oggetto come qualcosa le cui esperienze e sentimenti (se pure li riconosce) non necessitano di essere presi in considerazione

Ad ogni modo, il particolare tipo di oggettivazione che la critica culturale Jean Kilbourne ha etichettato come “smembramento” è così pervasivo da essere spesso ignorato. Quando insegnavo studi di genere, i miei studenti scuotevano le teste confusi quando mostravo loro le immagini della pubblicità. E persino allora pensavano che io fossi andata a pescare di proposito i pochi esempi scioccanti: fino a quando non dicevo loro di sfogliare l’ultimo numero di Vogue o di Cosmopolitan.”

diesel

Sharon L. Jansen, docente universitaria in pensione dopo 35 anni di insegnamento, 14 ottobre 2016, trad. Maria G. Di Rienzo

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