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Park Hye-su

Annunciato con grande clamore dopo una proiezione riservata, e di sicuro un successo domestico nel 2018 (oltre un milione di spettatori e circa 10 milioni di euro di incasso), il film sudcoreano “Swing Kids” – “스윙키즈” , basato sul musical “Ro Ki-su”, resta un po’ una promessa mancata a livello narrativo e non ha attratto grande attenzione all’estero.

Il motivo principale per cui lo recensisco è nella prima immagine che vedete: ritrae la 24enne Park Hye-su (nel ruolo di Yang Pan-rae), cantante e attrice, che ha reso mirabilmente la fierezza, la brillantezza, la dignità e l’integrità del suo personaggio.

Il miglior dialogo della pellicola si svolge fra costei e il sergente statunitense Jackson (Jared Grimes): quando la ragazza gli chiede quale guaio abbia combinato per essere spedito all’estero e l’uomo le risponde che il suo essere di colore è visto come un guaio di per sé in America, Yang Pan-rae ribatte “Prova a essere una donna in Corea”. Ha detto tutto – e tutto noi abbiamo sentito nella nostra pelle – in sette parole. Dopo aver spiegato che ha “una canzone in testa” ma non riuscirebbe mai a cantarla, Yang Pan-rae decide di “mostrarla” a Jackson e sullo sfondo di “Modern Love” di David Bowie si produce in una performance di danza che è una corsa e un volo verso la libertà: in contemporanea, il protagonista principale Ro Ki-su (Do Kyung-su, anche noto come D.O.) ripete gli stessi movimenti e nella propria mente sfonda porte, abbatte reticolati e sfreccia fuori dal campo di prigionia. I due giovani hanno entrambi un intero nuovo mondo dentro se stessi e la cosa fantastica è che le loro visioni si accordano e si intrecciano a ritmo: è possibile, dice la danza, è possibile vivere insieme e essere liberi, è possibile smantellare le prigioni in cui ci confinano.

In effetti la storia è ambientata nel campo per prigionieri di guerra di Geoje, situato su un’isola e gestito dall’esercito statunitense. Siamo nel 1951, durante il conflitto coreano, e a Geoje i prigionieri divisi fra nord e sud si scontrano frequentemente. Il brigadiere generale Roberts (Ross Kettle), comandante del campo, commissiona al sergente Jackson – con un misto di minacce e lusinghe – una parte del suo programma politico propagandistico diretto a mostrare ai superiori e all’opinione pubblica quanto è bravo. Poiché il sergente nella vita civile era un ballerino di “tap dance” (tip-tap), il comandante vuole che insegni la danza a qualche prigioniero e che organizzi uno spettacolo.

Questa premessa, come innesco narrativo, è di sicuro bislacca e poco credibile ma la maestria degli attori la rende per noi più verosimile di tutti gli elementi drammatici della storia (complotti, lealtà divise e orrori della guerra in generale) che purtroppo non hanno sviluppi significativi ne’ risoluzioni. La dichiarazione al proposito del regista Kang Hyeong-cheol sembra essere quella che mette in bocca a Yang Pan-rae (“Fucking ideology” – “Fottuta ideologia”) e che con un leggero rimaneggiamento diverrà il titolo dello spettacolo di tip-tap: “Fuck ideology” – “Che l’ideologia vada a farsi fottere”. Comunismo e capitalismo sono posti in modo semplicistico e astratto sullo stesso livello: se i coreani non conoscessero entrambi, è il messaggio esplicito, ricorderebbero di essere un popolo e ogni male finirebbe… però al regista basterebbe uno sguardo nemmeno troppo approfondito alle tragedie storiche del proprio paese per rendersi conto che questa è una fantasia consolatoria – senza toccare le suddette “ideologie”, per secoli strettissime divisioni di classe e spadroneggiamenti abominevoli della nobiltà hanno annegato la penisola coreana nella sofferenza e nel sangue.

swing kids 2

Ad ogni modo, tornando alla pellicola, il sergente Jackson riesce a superare le barriere linguistiche e culturali e a mettere insieme la squadra di tip-tap: oltre a Yang Pan-rae, che è un’orfana non prigioniera determinata a salvare i familiari che le restano facendo qualsiasi mestiere, il gruppetto è composto dal soldato cinese aspirante coreografo Xiao Pang (Kim Min-Ho), dal civile Kang Byung-sam (Oh Jung-se) finito nel campo perché accusato falsamente di essere comunista e dal comunista vero e proprio nonché fratello minore di un eroe di guerra nordcoreano Ro Ki-su. L’attore che interpreta quest’ultimo è una star del k-pop e di solito ciò non promette bene per la recitazione, ma Do Kyung-su è stato eccellente nel rendere le trasformazioni del suo personaggio e soprattutto il bruciante desiderio di Ro Ki-su di avere musica – danza – libertà nella propria vita; ad esempio, dopo il primo incontro con Jackson e la “tap dance”, il giovane prigioniero comincia a essere ossessionato dai ritmi che coglie nel quotidiano – dalle palette che battono la biancheria ai colpi di coltello sulle verdure da soffritto, sino al digrignare di denti e al russare dei compagni di camerata durante la notte, tutto gli fornisce una base ritmica su cui ballare.

Il momento migliore del film sono senz’altro i dieci minuti circa dello spettacolo che la squadra di tip-tap mette in scena per Natale (1.49 / 1.59): un’esibizione mozzafiato sulle note di “Sing sing sing” (Benny Goodman) che è possibile rivedere molteplici volte senza perdere una briciola di entusiasmo. Ma è tutto: la fucking ideology ha già preso possesso della scena con il complotto nordcoreano per uccidere il comandante del campo a cui Ro Ki-su dovrebbe prender parte proprio al termine dello show – e le due linee narrative stridono, si scontrano, si contraddicono e collassano. Il fratello del protagonista (l’eroe di guerra che abbiamo scoperto essere un disabile dal fisico imponente e dall’età mentale di un bambino) inscena la sparatoria prevista ma non riesce ad assassinare il generale. L’intero gruppetto di tap dancers, invece, è prevedibilmente massacrato su ordine di costui. Per suscitare maggior orrore in platea, a Ro Ki-su i soldati statunitensi sparano prima alle ginocchia… Sopravvive il solo Jackson, che nel finale vediamo ai giorni nostri come anziano turista nel campo di Geoje: entra nel locale in cui si allenava con i suoi quattro amici e si china, per sfiorare con la mano il pavimento di legno su cui le claquettes delle scarpe da tip-tap risuonavano così bene. Lo schermo si fa scuro e parte “Free as a bird” – “Libero come un uccello” (Beatles, 1995) che ci accompagnerà per tutti i titoli di coda. Al di là delle mie perplessità sulla pellicola nel suo complesso, credo sia un buon messaggio di chiusura:

Free as a bird

It’s the next best thing to be

Free as a bird

(Libero come un uccello / E’ prossima cosa migliore da essere / Libero come un uccello)

swing kids

Maria G. Di Rienzo

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Recensione lampo

Visto “Bohemian Rapsody”. Per chi non lo sapesse, ma credo siano pochi, è un film biografico che racconta lo storia del gruppo musicale “Queen” e soprattutto del suo frontman, il cantante e autore Freddy Mercury.

we will rock you

Posto che:

– odio il brano che dà il titolo al film (ma non quanto “Radio Gaga”);

– alcune parti sono troppo romanzate (soprattutto rispetto alla personalità di Freddy, un po’ meno ingenuo e “vittima” di come viene presentato);

– vi sono errori nella timeline degli eventi (rilasci di album, la dichiarazione del suo stato di salute alla band, che in realtà avvenne anni dopo il Live Aid, ecc.);

– gli attori sono tutti all’altezza della parte e il ritmo è buono (ma non ottimo, alcune lungaggini potrebbero essere tagliate senza compromettere la trama);

– la faccia più bella e vera dell’intero film compare fra i minuti 2.01/2.02, per forse due secondi, ed è il volto di una spettatrice al Live Aid;

– l’unica canzone dei Queen che mi piace è “We will rock you” e per fortuna la fanno sentire per intero…

no, il Golden Globe come miglior film drammatico non ci sta;

sì, Rami Malek (l’attore che interpreta Freddy) meritava un riconoscimento;

e ancora sì, la pellicola riesce efficacemente a rendere l’atmosfera di soffocante panico che si era creata negli anni ’80 rispetto all’Aids, in poche precise sequenze.

Voto finale, severo ma giusto (scherzo): 6.5. Maria G. Di Rienzo

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Dumplin Movie

Esattamente come l’immagine promette, sto per dirvi “tutto quel che avete bisogno di sapere sul film Dumplin’ ” (produzione Netflix).

E’ tratto dal bestseller dallo stesso titolo di Julie Murphy (che ho già lodato in queste pagine).

E’ un film su una ragazza grossa, ma il suo focus NON è il tentativo di costei di cambiare aspetto.

L’amicizia fra donne vi è rappresentata in luce forte e attraente.

I personaggi hanno più di un lato di se stessi da mostrare e si evolvono in sintonia con la storia.

A fungere da “fate madrine” per la protagonista, incoraggiandola a essere sempre e fieramente se stessa, sono alcune “drag queens”.

Nella colonna sonora la parte del leone, o meglio della leonessa, ce l’ha Dolly Parton (cantante country-pop), che ha anche composto musica specificatamente per il film.

La regia è di una donna, Anne Fletcher e la sceneggiatura pure, di Kristin Hahn.

A interpretare la giovane Willowdean Dumplin’ Dickson è Danielle Macdonald, mentre la co-protagonista principale, sua madre Rosie Dickson, è interpretata da Jennifer Aniston (entrambe in immagine qui sotto).

dumplin

Un accenno alla trama, il più possibile privo di spoilers: Willowdean, soprannominata “raviolo” dalla madre (ma nella traduzione italiana verrà fuori qualcosa come “polpetta”) è figlia di un ex reginetta di bellezza che ora funge da giudice in concorsi simili. Rosie non presta grande attenzione alla figlia, se non per farsi scarrozzare in auto da un evento all’altro, e in famiglia Willowdean trova apprezzamento e affetto più dalla zia Lucy, che le fa conoscere sia la musica di Dolly Parton sia Ellen, la ragazza che diventerà la sua migliore amica. La morte della zia e la prima cotta di Willowdean per un ragazzo innescano un processo di riflessione / ribellione che porterà “Raviolo” a iscriversi a uno dei concorsi organizzati dalla madre. Altre ragazze non conformi a standard di bellezza artificiosi e imposti seguiranno il suo esempio…

Maria G. Di Rienzo

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“Eilean a cheò” – “Isola delle Nebbie”

Chi ha orecchie o un cuore che batte nel proprio corpo

chi non canterà con me dei torti che ci hanno fatto?

Delle migliaia di sfollati, derubati

della loro terra, dei loro diritti, di tutto.

Dispersi oltre i mari sognando della

Verde Isola delle Nebbie

Ricordate che siete un popolo.

Sollevatevi per i vostri diritti.

C’è ricchezza sotto le colline su cui siete cresciuti.

C’è ferro e carbone là, grigio piombo e oro,

abbastanza da mantenerci nella Verde Isola delle Nebbie

Ricordate le vostre difficoltà,

mantenete in vita la lotta.

La ruota girerà in vostro favore

grazie alla forza del vostro braccio

e alla durezza del vostro pugno.

Il vostro bestiame sarà sui pascoli

e ognuno avrà un posto.

E la gente del Sud se ne andrà

dalla Verde Isola delle Nebbie.

Io mi asciugherò le guance,

frenerò le mie lacrime,

una nuova primavera è con noi,

molti sono venuti attraverso l’inverno.

Tutt’intorno, nuova erba sta spuntando.

I rami stanno tornando in vita

sulla Verde Isola delle Nebbie.

https://www.youtube.com/watch?v=ehpPLTaFvCc

Questo cantò sul cosiddetto “Ponte delle Fate”, a Skye (isola scozzese), Màiri Mhòr nan Òran e cioè La Grande Maria delle Canzoni (1821-1898) durante un raduno politico dei mezzadri sfrattati dalle terre che lavoravano – per le quali i proprietari chiedevano affitti sempre più esorbitanti – allo scopo di intraprendere produzioni agricole su vasta scala.

Le rimozioni forzate delle famiglie, le sollevazioni e gli scontri con le forze dell’ordine britanniche, i procedimenti legali andarono avanti in pratica per la maggior parte del secolo. Nel 1886 fu approvato il “Crofters Holdings (Scotland) Act”, ma tale legislazione non riuscì a risolvere tutte le dispute sui diritti terrieri, che continuarono durante gli anni fra le due guerre mondiali e nel ventesimo secolo.

Mary of the songs

Màiri Mhòr (Mary MacDonald, MacPherson da sposata – in immagine sopra) è stata un’organizzatrice e un’ispiratrice chiave delle lotte dei mezzadri scozzesi, ma è stata anche molte altre cose: contadina e allevatrice, tessitrice, infermiera e levatrice, domestica, poeta e cantante e narratrice nella sua propria lingua, il gaelico. Fu imprigionata per furto di abiti, attorno ai cinquant’anni, mentre da vedova lavorava come domestica: gli storici sono concordi nel ritenere che le accuse fossero infondate; in più, Màiri fu processata e interrogata in una lingua che non conosceva, l’inglese, e che nessuno si prese la briga di tradurle. La sentenza fu di quaranta giorni di carcere.

Il talento artistico che giaceva dormiente in lei si risvegliò durante la sua incarcerazione e la donna ne fece uno strumento per la liberazione propria e altrui. Nel 1882 fece ritorno permanentemente alla sua isola natale, Skye, e i suoi versi si scagliarono contro la violenza, l’ingiustizia e l’ipocrisia dei potenti. Ciò incluse il clero locale:

I predicatori si curano talmente poco

del maltrattamento del popolo della mia Isola, benché lo vedano,

e sono così silenziosi dal pulpito

da far sembrare che ad ascoltarli ci sia un branco di bestie selvagge.

Nel 19° secolo le donne erano una ristretta minoranza fra i poeti gaelici, tuttavia l’apprezzamento per il lavoro di Màiri attraversò le barriere sociali: nel mentre la sua arte aveva una significativa influenza sulla classe lavoratrice e i mezzadri, essa attirò pure l’attenzione di artisti e studiosi con cui la Grande Maria strinse relazioni d’amicizia.

Maria G. Di Rienzo

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zere

Zere Asylbek (in primo piano nell’immagine) è una diciannovenne del Kirghizistan che in luglio ha rilasciato il suo primo singolo in qualità di cantante. Il video relativo è uscito a metà settembre – https://www.youtube.com/watch?v=ivlRPb75-VU – e le ha già fruttato una valanga di insulti sessisti, soprattutto a sfondo religioso, e minacce di morte. Non sorprendente, visto che il suo paese ha un problema serio di violenza di genere, per il quale le donne “soffrono gravi e sistematiche violazioni dei loro diritti umani a causa di una cultura di rapimento, stupro e matrimonio forzato” (comunicato delle Nazioni Unite, 18.9.2018).

Naturalmente Zere sta anche ricevendo il sostegno e l’incoraggiamento da parte di molte sue connazionali e da comunità femministe in tutto il mondo. La sua canzone si chiama “Kyz” (“Ragazza”):

Vorrei che il tempo passasse, vorrei che arrivasse un tempo nuovo

in cui non mi fanno prediche su come devo vivere la mia vita

in cui nessuno mi dice “Fai questo”, “Non fare quello”

Perché dovrei essere quello che vuoi tu, o quel che la maggioranza vuole,

io sono una persona e ho la mia libertà di parola.

Dov’è il vostro rispetto per me?

Io rispetto te. Tu rispetti me.

Tu e io, insieme,

ehi cara, unisciti a me,

creeremo la nostra libertà.

Come se questo non fosse già abbastanza (è oltraggioso: una giovane donna che chiede rispetto!) Zere Asylbek nel video indossa una giacca aperta su un reggiseno viola e una gonna corta e perciò secondo i suoi aggressori deve cancellare il video, scusarsi con l’intera nazione e merita di aver la testa tagliata.

In un’intervista del 19 settembre per “Freemuse”, Zere ha parlato di un recente femminicidio in Kirghizistan; una ragazza di nome Burulai è stata rapita per costringerla al matrimonio – un’antica tradizione patriarcale, sapete, e perciò non discutibile – ed è morta mentre la polizia l’aveva in custodia: è stata lasciata sola con il suo rapitore, che ormai era un po’ troppo scocciato da tutta la faccenda e l’ha uccisa. Questo è stato uno dei motivi per cui Zere ha creato canzone e video e non intende cedere alle minacce:

“Sicuramente continuerò a cercare di avere un impatto nel mio paese e nel mondo in generale, perché sono una persona creativa e amo impegnarmi in progetti creativi. Ci sono un sacco di ragioni che hanno generato nella mia testa l’idea di creare un grosso impatto e di usare per esso cose che suscitassero reazioni.

Ci sono state molte ragazze come Burulai nel nostro paese e mi piacerebbe che non avessimo più casi del genere. (…) La situazione nel nostro paese e penso in genere nell’Asia Centrale non è così buona in termini di diritti delle donne ed eguaglianza di genere, perché ogni singolo giorno ci sono casi di discriminazione, casi in cui viene applicato il doppio standard. Posso affermare che in pratica ogni ragazza del nostro paese ha subito almeno un tipo di violazione, o molestia, o discriminazione. Questo a me appare terribile.

Le ragazze stesse non vedono alternative. Parecchie di esse credono sia giusto essere trattate in quel modo e ciò è quel che a mio parere limita le loro potenzialità. Limita i loro sogni e le loro idee, perché non vedono alternative. E gli si dice che il loro scopo nella vita è sposarsi e avere una famiglia, dei figli e roba del genere.”

Per quel che riguarda la sua, di famiglia, il padre docente universitario ha dichiarato pubblicamente la “non approvazione” da parte sua e della moglie, ma pure che non intende interferire con le attività della figlia, che lui riconosce come persona titolare del diritto di esprimersi. Non è da ieri che Zere lo fa: è stata una determinata “bambina prodigio” a livello intellettuale, ammessa a frequentare l’università quando di anni ne aveva solo 14.

In un’altra intervista per Radio Free Europe / Radio Liberty, Zere ha sottolineato: “Molta gente dice che la nostra società non è pronta per questo. Quando lo sarà? Cosa deve accadere? Si deve accendere di verde un semaforo? No. Qualcuno deve cominciare.”

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Solo una canzone

Bad Religion – Punk Rock Song (dall’album “The Gray Race”, 1996)

https://www.youtube.com/watch?v=S_Xm9BzpwPc

 

bad religion

Sei stato nel deserto?

Hai camminato con i morti?

Ci sono centomila bambini che sono uccisi per il loro pane

E i dati non mentono, parlano di un morbo umano,

ma noi facciamo quel che ci pare e pensiamo quel che vogliamo

Hai vissuto l’esperienza?

Hai testimoniato la piaga?

Gente che fa figli a volte solo per fuggire

In questa terra di competizione la compassione è scomparsa

Pure noi ignoriamo chi versa nel bisogno e continuiamo a spingerci avanti

Continuiamo a spingerci avanti

Questa è solo una canzone punk rock

scritta per le persone che riescono a vedere che qualcosa non funziona

Come formiche in una colonia facciamo la nostra parte

ma ci sono un sacco di altri fottuti insetti là fuori

E questa è solo una canzone punk rock

Come operai in fabbrica facciamo la nostra parte

ma ci sono un sacco di altri fottuti robot là fuori

Hai visitato il pantano?

Hai nuotato nella merda?

Le riunioni dei partiti e la real politik

Le facce sempre differenti, la retorica identica

Ma noi la ingoiamo e non vediamo nessun cambiamento

Nulla è cambiato

Dieci milioni di dollari per una campagna elettorale perdente

Venti milioni di persone fanno la fame e si contorcono per il dolore

Persone grandi e potenti non hanno la volontà di dare

Sono minuscole per visione e prospettiva

Un bambino su cinque vive sotto la soglia di povertà

Un’intera popolazione non ha più tempo a disposizione

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Felice nella mia pelle

(“Being a woman in rock was me against the world”, di Liisa Ladouceur per Globe and Mail, giugno 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Serena Ryder

Quando Serena Ryder suona a un festival musicale, si accorge sempre se ci sono donne nello staff. “Mettono i cestini per l’immondizia nei bagni. – dice ridendo – E’ una delle molte piccole cose a cui gli uomini non pensano.”

Vincitrice di un Juno Award (ndt.: premi conferiti a musicisti canadesi per i loro avanzamenti artistici e tecnici), la cantante e autrice di “Stompa e ““What I Wouldn’t Do”, è stata in tournée in lungo in e in largo sin dagli anni dell’adolescenza e ha testimoniato molti cambiamenti nell’industria durante gli ultimi tre anni.

“La cosa che trovo completamente diversa, proprio ora, è che c’è maggior senso di comunità. – dice – Quando ho cominciato a fare tournée, sentivo che essere una donna nel mondo rock equivaleva a essere sola contro il mondo intero. La mia strategia di sopravvivenza era diventare “uno dei ragazzi”. Ero brava a bere. Pensavo di dover essere dura tutto il tempo e di non dover mai esprimere le mie emozioni. E’ stato solo quando ho cominciato ad avere più relazioni con altre donne della mia età nella comunità artistica che la mia vita è migliorata molto.”

Una delle alleate di lungo corso di Ryder è la sua manager, Sandy Pandya, che lei descrive come “una regina guerriera, così potente e allo stesso tempo così capace di empatia.” Le due donne lavorano insieme da 15 anni e stanno per imbarcarsi in un nuovo progetto: un collettivo artistico chiamato “Art House”.

“Abbiamo comprato quest’edificio insieme, nella parte occidentale di Toronto, – spiega Ryder – per raggruppare artisti: pittori, cantastorie, musicisti, quanti più possibile, in uno spazio dove possono creare insieme con persone che fanno già quel lavoro da lungo tempo e possono offrir loro scorciatoie che aggirano le stronzate. Sono impaziente di veder tutte/i fiorire.”

“Art House” avrà uno studio di registrazione sul retro, dove Ryder registrerà il suo prossimo album. Il mese scorso il disco del 2006 con cui ha sfondato,”If Your Memory Serves You Well”, è stato ristampato su vinile e lei si sta preparando per la stagione estiva dei festival – bagni accoglienti per le donne inclusi.

“Mi sento fortunata a essere nata nella pelle in cui sono. – dice – Essere una donna in una comunità crescente di donne forti mi ha dato la forza e il bilanciamento di cui sono assai grata.”

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tracey thorn

Tracey Thorn (in immagine), nata nel 1962, è una musicista, cantautrice e scrittrice inglese. Ex membro del duo “Everything But The Girl”, è una solista dal 2000 e tiene una rubrica per The New Statesman dal 2014.

Nello scorso aprile avrebbe voluto rispondere alla richiesta “descrivi te stessa come farebbe un autore maschio” (1): “C’erano migliaia di risposte esilaranti (ndt.: su Twitter), con donne che immaginavano quanto male sarebbero state descritte. Ho pensato di mandare un mio esempio, ma poi ho capito che non avevo bisogno di immaginare questa cosa: sono stata descritta da giornalisti maschi per più di 35 anni.”

Come? Così:

“Non convenzionalmente carina Thorn tuttavia, in qualche modo, riesce a essere curiosamente attraente.”

“La sua faccia può non essere tecnicamente bella, ma ha una risata affascinante.”

“La sua intelligenza brilla attraverso le sue fattezze bizzarre.”

A volte, spiega Tracey, ad essere irritante non è l’insulto sotteso ma l’aver completamente mancato il bersaglio:

“E’ senza trucco.” (Non lo era.)

“Ha addosso una sorta di sottoveste informe.” (Era un abito del marchio Comme des Garçons.)

Qualche settimana prima di scrivere il pezzo da cui sono tratte le citazioni, Tracey si è recata a Bruxelles e a Parigi per rilasciare interviste “e sono stata di nuovo spiazzata dall’assenza di giornaliste che mi intervistassero sul mio nuovo album (2), il quale è stato descritto ovunque come “nove fuochi d’artificio femministi”. Quando il quattordicesimo uomo è entrato dalla porta ho avuto una piccola stretta al cuore. Mi sembra di essere una noiosa che si ripete, ogni tanto, ma mi lascia attonita il fatto che alcuni aspetti di questa industria (ndt.: musicale) restino così dominati dagli uomini. Persino i giornalisti di sesso maschile hanno la buona grazia di notarlo, qualche volta. Uno dei più giovani (anche se non giovanissimo) mi ha detto che ero la terza donna da lui mai intervistata, il che mi ha tolto il fiato.” Perché ovviamente donne musiciste da intervistare, di cui molte di successo, non mancano affatto. Ma persino i loro lavori non sfuggono a un’interpretazione stereotipata:

“Una delle canzoni del mio ultimo disco si chiama “Chitarra”, si tratta di una canzone d’amore per la mia prima Les Paul. C’è incidentalmente la parola “ragazzo” nel testo e il fatto si è impresso nelle teste di un paio di recensori maschi, per cui tutto quel che hanno visto era una canzone su un ragazzo. Questo è il problema, non vero? – conclude Tracey – Ti perdi delle cose quando lasci le donne fuori dal quadro, o vedi i personaggi femminili attraverso il prisma della loro avvenenza, o quando dai per scontato di essere al centro di ogni storia, di ogni testo. Ci scommetto, stai pensando che questo articolo parla di te.”

Maria G. Di Rienzo

(1) https://lunanuvola.wordpress.com/2018/04/04/molta-strada-da-fare/

https://lunanuvola.wordpress.com/2018/04/13/marlowe-era-un-bel-moretto/

(2) “Record”, uscito nel marzo 2018.

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Null’altro importa

Nothing else matters (Null’altro importa), Metallica, 1991 (trad. Maria G. Di Rienzo)

metallica

Così vicino, non importa quanto lontano

non potrebbe venire di più dal cuore

avendo fiducia per sempre in chi siamo

e null’altro importa

Non mi sono mai aperto/a in questo modo

la vita è nostra, la viviamo a modo nostro

tutte queste parole che proprio non dico

e null’altro importa

Cerco fiducia e la trovo in te

ogni giorno per noi qualcosa di nuovo

mente aperta per una visione diversa

e null’altro importa

Non mi è mai importato di ciò che fanno

Non mi è mai importato di quel che sanno

ma io so

Così vicino, non importa quanto lontano

non potrebbe venire di più dal cuore

avendo fiducia per sempre in chi siamo

e null’altro importa

Non mi sono mai aperto/a in questo modo

la vita è nostra, la viviamo a modo nostro

tutte queste parole che proprio non dico

e null’altro importa

Cerco fiducia e la trovo in te

ogni giorno per noi qualcosa di nuovo

mente aperta per una visione diversa

e null’altro importa

Non mi è mai importato di quel che dicono

Non mi è mai importato dei giochi a cui giocano

Non mi è mai importato di quel che fanno

Non mi è mai importato di quel che sanno

e io so

P.S. a) Ho cominciato un altro romanzo – un po’ presto, ma non so quanto tempo ho ancora: chi lo sa, in effetti? b) Continuo ad aspettare che la Coop mi faccia sapere se sono indegna di essere socia da più di vent’anni perché sguazzo nel mio corpo come un pesciaccio felice, alla faccia dei suoi insultatori con laurea; c) Dal mio ultimo “revival” sono passati cinque mesi: quello qui sopra è un ringraziamento ai 909 iscritti a questo blog – ho fiducia in voi.

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Octavia Butler, autrice di sf, ci ha purtroppo lasciato nel 2006 ma non smette di essere amata ne’ di ispirarci: ora il suo romanzo “La parabola del seminatore” (Parable of the Sower, 1993) è stato adattato in senso teatrale-operistico dalla musicista Toshi Reagon (in immagine, con Octavia sullo sfondo).

toshi

Toshi è un’artista eclettica (folk, funk, gospel, blues, rock) che ha condiviso il palcoscenico con colleghi del calibro di Lenny Kravitz, Elvis Costello, Ani DiFranco – solo per citarne alcuni – e la sua band “Toshi Reagon and BIGLovely” ha un pubblico appassionato, entusiasta e fedele.

L’opera tratta dal romanzo è frutto della collaborazione della musicista con sua madre, la dott. Bernice Johnson Reagon, che è un’altra donna-leggenda: attivista per il cambiamento sociale, compositrice, fondatrice di “Sweet Honey in the Rock”, gruppo “a cappella” composto esclusivamente di donne di colore.

La storia della Parabola probabilmente la conoscete: tratta del risveglio spirituale-politico della giovane protagonista, Lauren Olamina, in un’America distopica, spezzata dalla violenza e da un’ingiustizia sistemica, e di come questa “profetessa” trascinerà via via al suo fianco altre e altri, incamminandoli sulla strada della libertà. Visti i temi del romanzo, in cui c’è persino un personaggio che vuole “rendere di nuovo grande l’America” (chi ci ricorda?), Toshi non poteva scegliere ne’ testo ne’ momento migliori. Il 26 febbraio un’altra artista, Jamara Wakefield, ha intervistato Toshi su questo lavoro che sta riscuotendo grande successo sin dal suo debutto a Abu Dhabi, presso il NYUAD Arts Center nel novembre del 2017.

parable poster

Ecco alcune delle cose che la musicista ha detto:

“La mia finestra per arrivare a Octavia Butler sono stati i libri. La mia mamma li ha letti prima di me e io ho cominciato a leggerli nei tardi anni ’80. Ho anche incontrato Octavia un paio di volte, il che è stato fantastico.

Quando osserviamo il suo lavoro, al di là del periodo in cui lei scrive, c’è sempre umanità, anche se le creature non sono umane. E’ interessante per me che sia diventata la madre dell’Afrofuturismo, perché lei non ci ha mai promesso un futuro. Ha solo scritto di tempi futuri. In termini di bilanciamento fra il momento presente e la capacità di avere una visione del futuro, Angela Davis ha parlato in pubblico pochi giorni prima della nostra performance in Connecticut. E’ entusiasta del periodo in cui ci troviamo perché stiamo mettendo in discussione molte istanze contemporaneamente. Ed è proprio così che dovrebbe essere. Sì, le donne dicono “Anch’io”. Sì, stiamo urlando “Le vite nere sono importanti”. Sì, il cambiamento climatico è reale. Sì, sosteniamo i Sognatori. Dovremmo lavorare tutti insieme. Stiamo usando a stento tutte le risorse che abbiamo.

Nei suoi lavori Octavia Butler ci presenta questi periodi devastanti in cui le persone sono costrette a usare tutte le loro risorse. Ne “La parabola del seminatore” tu vedi che le circostanze per i personaggi stanno peggiorando, ma ognuno vuol restare immutato. La lezione, qui, è che dobbiamo cambiare e che dobbiamo usare tutte le nostre risorse. Dobbiamo guardare alla nostra vita e decidere se tollereremo l’orrore.

Abbiamo dovuto rendere la nostra opera un po’ diversa dal libro, perché il libro è enorme. Abbiamo voluto concentraci sull’idea delle due comunità: quella in cui sei nato e quella che ti sostiene. La seconda è una comunità sconosciuta che tu scopri e che ti scopre. Abbiamo pensato di iniziare con la comunità nota e intima e poi di raccontare la storia portando l’intero teatro e il pubblico all’interno di quella comunità. Questo è il motivo per cui le luci sono accese quando la performance comincia. Vogliamo che il pubblico faccia esperienza di uno spazio confortevole e poi attraversi l’esperienza del vedere le cose che si fanno disagevoli. Abbiamo deciso di mostrare quanto fragili diventiamo quando continuiamo a restare attaccati a qualcosa, mentre è il momento di cambiare.”

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