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Posts Tagged ‘prigioni’

Premessa n. 1: chi ammette di non capire molto di un argomento o di aver bisogno di ulteriori informazioni ha tutta la mia comprensione, ma quando è così credo sarebbe meglio per lui/lei astenersi dal piazzare comunque pubblicamente commenti a casaccio, tanto per stare in ballo. Se non sai le mosse e non senti bene la musica aspetta qualche momento a bordo pista, osserva, ascolta, apprendi – e poi decidi se ballare o no.

Premessa n. 2: sono stata paziente e ho tradotto a beneficio dei confusi, ma non chiedetemi altri interventi in merito, di commentare questo o quello, che ne penso del tal fatto eccetera. La questione non rientra nelle mie priorità e la chiudo qui. Sbattendo la porta, se volete.

Maria G. Di Rienzo

Kathleen Lowrey è una docente associata di antropologia all’Università di Alberta, in Canada. Il 12 giugno scorso ha scritto un lungo e dettagliato articolo per “Quillette” di cui, di seguito, traduco alcuni brani.

“Io sono una delle molte accademiche che è stata “cancellata” perché ha un tipo sbagliato d’opinione – o quasi cancellata, perlomeno. Mentre scrivo, resto una professoressa di antropologia all’Università di Alberta e dal luglio 2019 sono stata presidente per i programmi del dipartimento relativi agli studenti. Era una nomina che doveva durare tre anni. Ma nello scorso marzo sono stata rimossa da quella posizione a causa delle lamentele di uno studente ufficioso, il quale ha dichiarato che lo facevo sentire “non al sicuro” quando argomentavo le critiche femministe alle attuali teorie sul genere. (Ndt.: Lowrey usa “they, them” per indicare lo studente senza specificarne il sesso, cosa che io non posso imitare nella traduzione, giacché volgerebbe al plurale un discorso riferito a una terza persona singolare.)

All’inizio di questo mese, la mia collega Carolyn Sale ha scritto un resoconto sul mio caso per il blog del “Centro per la Libera Espressione” all’Università di Ryerson. Come tende a succedere con queste controversie, ciò ha fatto sì che studenti e colleghi passassero al setaccio i miei social media in cerca di altro materiale “critico sul genere”. Quando l’hanno trovato, hanno chiesto che io sia licenziata dalla mia posizione di ruolo e accusata formalmente di “discorso d’odio”. (…)

Ricordo di essermi imbattuta (Ndt: attorno al 2010) in un sito web chiamato “Gender Trender”, gestito da una femminista radicale lesbica con lo pseudonimo Gallus Mag. Dapprima, lo scorrevo come un’anacronistica curiosità – uno strambo avamposto di un’era femminista del passato. Ma lo stile della prosa di Gallus era divertente e diretto, al contrario della maggioranza degli studi accademici sul genere e io mi sono trovata a tornare sul sito più volte per vedere che cosa quel vecchio dinosauro (così la immaginavo) aveva scritto di nuovo.

Ma al di là della maniera sardonica con cui presentava le informazioni, finii per capire quanto serio fosse ciò che Gallus documentava. Fra le altre cose, trattò nel 2016 l’omicidio di due lesbiche e del loro figlio a East Oakland, crimine di cui il pubblico ministero accusò un uomo che si identificava come trans, Dana Rivers (che era anche stato uno degli organizzatori di “Camp Trans”, una campagna contro il festival musicale per sole donne, chiamato Michfest, durante gli anni ’90).

Gallus non era paranoica quando descriveva la “cancellazione del femminile” e la “cancellazione delle lesbiche”, ne’ nella sua insistenza sul fatto che l’ideologia di genere – la quale include il convincimento che un uomo possa diventare donna, e viceversa, semplicemente dichiarando di essere tale – serviva gli interessi degli uomini.

Cominciai anche ad apprezzare la sua affermazione che i media del mainstream erano spesso riluttanti nel riportare fatti che gettavano dubbi sull’ideologia di genere ortodossa. Per quel che riguarda il blog di Gallus, soggetto a continui attacchi da parte di attivisti trans, fu prima censurato e poi rimosso da WordPress nel 2018, quando lei raccontò la storia di Jonathan Yaniv – un eccentrico misogino canadese che è riuscito a cancellare dalle piattaforme dozzine di donne che esprimono disgusto per la sua volgarità sessuale aggressiva (o che rifiutano di chiamarlo “Jessica”). (…)

L’ideologia di genere contemporanea richiede reverenza acritica per costrutti di genere retrogradi, come l’idea che un bambino a cui piaccia giocare a servire il tè o piacciano i bei vestiti possa essere giudicato “nato nel corpo sbagliato” e perciò sia davvero, a tutti gli effetti, una bambina.

Qualsiasi fossero gli scopi iniziali dei sostenitori dell’ideologia di genere, questo sistema di convincimenti sta conducendo a orrori reali inflitti a donne e minori. L’attivista Heather Mason, per esempio, ha documentato le molestie e gli abusi che sono prevedibilmente risultati dall’aver trasferito uomini che si identificano come donne nelle prigioni femminili. Nel 2005, l’anno in cui mi sono trasferita a Edmonton dagli Stati Uniti, la tredicenne Nina Courtepatte fu stuprata, uccisa a martellate e al suo cadavere fu dato fuoco su un campo di golf di Edmonton. Il suo assassino ora dice di identificarsi come donna e si trova in un carcere con prigioniere di sesso femminile:

https://torontosun.com/news/world/hunter-psychopathic-child-sex-killer-uses-trans-card

Qualcuno è preoccupato del diritto di queste carcerate a “spazi sicuri”?

Oppure leggete questo resoconto di un’operazione chirurgica raffazzonata per la “riassegnazione di genere” compiuta su una donna:

https://glinner.co.uk/interview-with-scott-newgent/

o il resoconto di quest’altra su un minore:

https://www.womenshealthmag.com/health/a30631270/jazz-jennings-surgery-complications/

Avete letto nulla sui rischi mortali associati alle medicine che bloccano la pubertà?

https://thefederalist.com/2018/12/14/puberty-blockers-clear-danger-childrens-health/

Sapete cos’è una “trans-vedova”?

https://www.transwidowsvoices.org/

O un “detransitioner” (Ndt. Persona che si è sottoposta a pratiche per il cambio di sesso e che vuole tornare al sesso originario.) ?

https://www.feministcurrent.com/2020/01/09/detransitioners-are-living-proof-the-practices-surrounding-trans-kids-need-be-questioned/

Io sì. E non posso disimparare nulla di tutto questo.

Se non volete esaminare nessuno dei link, guardatevi in video la femminista cilena Ariel Pereira che parla in modo assai efficace delle sue esperienze di transizione e de-transizione:

https://www.youtube.com/watch?v=kFyQ5EStiRs

(…)

Chiuderò su un punto derivato dalla mia ricerca nei bassopiani dell’America del Sud. Ho lavorato per oltre vent’anni con persone indigene che parlano Guaraní, in special modo in Bolivia.

Una delle caratteristiche che segnarono l’incontro fra le popolazioni che parlano Guaraní e i colonizzatori europei fu il modo in cui i missionari – i più famosi per questo sono i gesuiti – interpretarono la cosmologia Guaraní come perfettamente compatibile con la teologia cristiana.

Trovarono che particolarità dei miti e delle pratiche religiose Guaraní fossero “prefigurative” dell’avvento di Cristo, o segnate da un effettivo incontro precedente con la cristianità: per esempio, le storie dell’eroe culturale Pai Sume furono interpretate come se includessero la visita del discepolo Tommaso.

Il modo in cui l’ideologia trans contemporanea assimila qualsiasi tipo di pratiche culturali al mondo a prove dell’esistenza di una universalità trans – hijras nell’Asia del Sud, persone con “due spiriti” nel Nord America, bancis in Indonesia, bacha bazi e bacha posh in Afghanistan, “vergini giurate” nei Balcani e così via è molto simile.

Come per le proiezioni europee e cristiane sulla cultura Guaraní, ciò accade quando aderenti a una visione del mondo totalizzante sottomettono la verità sul mondo esterno ai loro ristretti preconcetti.

L’antropologia mi ha insegnato come individuare questo istinto. Le femministe critiche sul genere mi hanno insegnato come ci si confronta con esso.”

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sarah

(“The Rainbow Flag” di Sherry Argonne, giovane cantautrice e poeta – dall’età di 8 anni – contemporanea. Trad. Maria G. Di Rienzo.

In immagine c’è Sarah Hegazi (1990 – 14 giugno 2020), attivista lesbica egiziana, morta suicida. Fu arrestata, imprigionata e torturata per tre mesi nel 2017 per aver sventolato la bandiera arcobaleno a un concerto.

Questa traduzione è per lei.)

LA BANDIERA ARCOBALENO

Non andartene senza me nella tua borsa

in un luogo dove la gente rispetta la Bandiera Arcobaleno

Io sono nata per essere chi voglio essere

aspettandomi che le persone mi avrebbero accettata

ma ho capito che devo lottare per quello che voglio

lottare per me stessa e stare in prima linea

Sto dicendo qualcosa di sbagliato?

Voglio solo un po’ di luci colorate

Sto solo descrivendo la mia vita in una canzone

Sto chiedendo i miei ben noti diritti

Non sono una hooligan, non sono malvagia

Sto liberando la Bandiera Arcobaleno

Ero solita tenere un occhio chiuso

Ora sono pronta a volare

via verso un luogo dove il sole sorge

dove puoi cadere ma poi sopravvivi

Chiedo l’impossibile?

Voglio la pace nel mondo

Niente razzismo, niente politicanti

Voglio solo sentire inneggiare alla libertà

Tu sei liberata, che tu sia bianca o nera

sei nata per lottare per la libertà della Bandiera Arcobaleno

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Park Hye-su

Annunciato con grande clamore dopo una proiezione riservata, e di sicuro un successo domestico nel 2018 (oltre un milione di spettatori e circa 10 milioni di euro di incasso), il film sudcoreano “Swing Kids” – “스윙키즈” , basato sul musical “Ro Ki-su”, resta un po’ una promessa mancata a livello narrativo e non ha attratto grande attenzione all’estero.

Il motivo principale per cui lo recensisco è nella prima immagine che vedete: ritrae la 24enne Park Hye-su (nel ruolo di Yang Pan-rae), cantante e attrice, che ha reso mirabilmente la fierezza, la brillantezza, la dignità e l’integrità del suo personaggio.

Il miglior dialogo della pellicola si svolge fra costei e il sergente statunitense Jackson (Jared Grimes): quando la ragazza gli chiede quale guaio abbia combinato per essere spedito all’estero e l’uomo le risponde che il suo essere di colore è visto come un guaio di per sé in America, Yang Pan-rae ribatte “Prova a essere una donna in Corea”. Ha detto tutto – e tutto noi abbiamo sentito nella nostra pelle – in sette parole. Dopo aver spiegato che ha “una canzone in testa” ma non riuscirebbe mai a cantarla, Yang Pan-rae decide di “mostrarla” a Jackson e sullo sfondo di “Modern Love” di David Bowie si produce in una performance di danza che è una corsa e un volo verso la libertà: in contemporanea, il protagonista principale Ro Ki-su (Do Kyung-su, anche noto come D.O.) ripete gli stessi movimenti e nella propria mente sfonda porte, abbatte reticolati e sfreccia fuori dal campo di prigionia. I due giovani hanno entrambi un intero nuovo mondo dentro se stessi e la cosa fantastica è che le loro visioni si accordano e si intrecciano a ritmo: è possibile, dice la danza, è possibile vivere insieme e essere liberi, è possibile smantellare le prigioni in cui ci confinano.

In effetti la storia è ambientata nel campo per prigionieri di guerra di Geoje, situato su un’isola e gestito dall’esercito statunitense. Siamo nel 1951, durante il conflitto coreano, e a Geoje i prigionieri divisi fra nord e sud si scontrano frequentemente. Il brigadiere generale Roberts (Ross Kettle), comandante del campo, commissiona al sergente Jackson – con un misto di minacce e lusinghe – una parte del suo programma politico propagandistico diretto a mostrare ai superiori e all’opinione pubblica quanto è bravo. Poiché il sergente nella vita civile era un ballerino di “tap dance” (tip-tap), il comandante vuole che insegni la danza a qualche prigioniero e che organizzi uno spettacolo.

Questa premessa, come innesco narrativo, è di sicuro bislacca e poco credibile ma la maestria degli attori la rende per noi più verosimile di tutti gli elementi drammatici della storia (complotti, lealtà divise e orrori della guerra in generale) che purtroppo non hanno sviluppi significativi ne’ risoluzioni. La dichiarazione al proposito del regista Kang Hyeong-cheol sembra essere quella che mette in bocca a Yang Pan-rae (“Fucking ideology” – “Fottuta ideologia”) e che con un leggero rimaneggiamento diverrà il titolo dello spettacolo di tip-tap: “Fuck ideology” – “Che l’ideologia vada a farsi fottere”. Comunismo e capitalismo sono posti in modo semplicistico e astratto sullo stesso livello: se i coreani non conoscessero entrambi, è il messaggio esplicito, ricorderebbero di essere un popolo e ogni male finirebbe… però al regista basterebbe uno sguardo nemmeno troppo approfondito alle tragedie storiche del proprio paese per rendersi conto che questa è una fantasia consolatoria – senza toccare le suddette “ideologie”, per secoli strettissime divisioni di classe e spadroneggiamenti abominevoli della nobiltà hanno annegato la penisola coreana nella sofferenza e nel sangue.

swing kids 2

Ad ogni modo, tornando alla pellicola, il sergente Jackson riesce a superare le barriere linguistiche e culturali e a mettere insieme la squadra di tip-tap: oltre a Yang Pan-rae, che è un’orfana non prigioniera determinata a salvare i familiari che le restano facendo qualsiasi mestiere, il gruppetto è composto dal soldato cinese aspirante coreografo Xiao Pang (Kim Min-Ho), dal civile Kang Byung-sam (Oh Jung-se) finito nel campo perché accusato falsamente di essere comunista e dal comunista vero e proprio nonché fratello minore di un eroe di guerra nordcoreano Ro Ki-su. L’attore che interpreta quest’ultimo è una star del k-pop e di solito ciò non promette bene per la recitazione, ma Do Kyung-su è stato eccellente nel rendere le trasformazioni del suo personaggio e soprattutto il bruciante desiderio di Ro Ki-su di avere musica – danza – libertà nella propria vita; ad esempio, dopo il primo incontro con Jackson e la “tap dance”, il giovane prigioniero comincia a essere ossessionato dai ritmi che coglie nel quotidiano – dalle palette che battono la biancheria ai colpi di coltello sulle verdure da soffritto, sino al digrignare di denti e al russare dei compagni di camerata durante la notte, tutto gli fornisce una base ritmica su cui ballare.

Il momento migliore del film sono senz’altro i dieci minuti circa dello spettacolo che la squadra di tip-tap mette in scena per Natale (1.49 / 1.59): un’esibizione mozzafiato sulle note di “Sing sing sing” (Benny Goodman) che è possibile rivedere molteplici volte senza perdere una briciola di entusiasmo. Ma è tutto: la fucking ideology ha già preso possesso della scena con il complotto nordcoreano per uccidere il comandante del campo a cui Ro Ki-su dovrebbe prender parte proprio al termine dello show – e le due linee narrative stridono, si scontrano, si contraddicono e collassano. Il fratello del protagonista (l’eroe di guerra che abbiamo scoperto essere un disabile dal fisico imponente e dall’età mentale di un bambino) inscena la sparatoria prevista ma non riesce ad assassinare il generale. L’intero gruppetto di tap dancers, invece, è prevedibilmente massacrato su ordine di costui. Per suscitare maggior orrore in platea, a Ro Ki-su i soldati statunitensi sparano prima alle ginocchia… Sopravvive il solo Jackson, che nel finale vediamo ai giorni nostri come anziano turista nel campo di Geoje: entra nel locale in cui si allenava con i suoi quattro amici e si china, per sfiorare con la mano il pavimento di legno su cui le claquettes delle scarpe da tip-tap risuonavano così bene. Lo schermo si fa scuro e parte “Free as a bird” – “Libero come un uccello” (Beatles, 1995) che ci accompagnerà per tutti i titoli di coda. Al di là delle mie perplessità sulla pellicola nel suo complesso, credo sia un buon messaggio di chiusura:

Free as a bird

It’s the next best thing to be

Free as a bird

(Libero come un uccello / E’ prossima cosa migliore da essere / Libero come un uccello)

swing kids

Maria G. Di Rienzo

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Trarre un film d’animazione da quel libro “cult” che è “Il Profeta” del libanese Gibran Kahlil Gibran

http://www.gibransprophetmovie.com/

è un’idea splendida: così come il tenere al centro della narrazione il fare esperienza della poesia a livello visivo. Dei 26 poemi originari 8 sono recitati nel film, ognuno illustrato da un diverso artista e accompagnato da un diverso tema musicale.

Un’altra idea geniale è stata rappresentare l’indovina Almitra, che nel libro “aveva creduto” nel poeta-profeta protagonista “sin dal primo giorno del suo arrivo”, come una bambina.

almitra

La creazione di quest’opera vanta molti nomi famosi, dalla produttrice Salma Hayek (il cui padre emigrò dal Libano in Messico) a Roger Allens, il regista de “Il Re Leone” e Joan Gratz, direttrice dell’animazione già vincitrice di un Oscar.

All’inizio del film, una nave arriva per riportare il prigioniero politico Mustafa alla sua terra dall’esilio fra le montagne, in cui è vissuto agli arresti domiciliari. “Il mio crimine? – spiega il prigioniero agli spettatori – La poesia.”

A Mustafa si chiede di rinunciare ai suoi versi e alle sue convinzioni, ma egli rifiuta anche se ciò gli costa l’essere incarcerato: storicamente, il ruolo “politico” della poesia nel contesto mediorientale è sempre stato forte e lo è ancora oggi. Nella casa in cui è prigioniero i suoi unici contatti sono Kamila, una vedova povera incaricata delle pulizie – a cui dà voce Salma Hayek – e la figlioletta di costei, Almitra (interpretata da Quvenzhané Wallis).

kamila e almitra

Quando una guardia si oppone dapprima al lasciar entrare la bambina nella casa, adducendo problemi di sicurezza, Kamila gli risponde ridendo “Giusto, lei è la leader della resistenza!” E la frase sembra prevedere il futuro, per il ruolo che Almitra avrà nel preservare il lavoro del poeta.

Nel momento in cui la incontriamo, la piccola Almitra non parla da due anni: è un silenzio di protesta per la morte di suo padre, dovuta agli scontri etnico-religiosi che piagano il paese e al pugno di ferro con cui i governanti li manovrano. Il retroscena è la Siria ottomana dei primi del ‘900, nella parte che oggi è il Libano, ovvero uno stato di polizia dominato da ufficiali musulmani turchi. Almitra ritroverà la voce per ispirare e confortare Mustafa e sebbene io riconosca il messaggio che ciò vuole dare sull’importanza delle relazioni umane, il fatto che la presenza o l’assenza della sua voce sia legata agli uomini nella sua vita è un po’ problematico.

Lo scenario non è privo di effettiva resistenza popolare, pacifica e simpaticamente maliziosa – il distrarre le guardie con i dolcetti, il brindare all’amore e alla libertà durante un matrimonio – e raramente sullo schermo la molteplicità dei popoli e delle culture arabe è rappresentata in modo così umano e sensibile.

Ciò detto, mi restano alcuni dubbi sulle scelte grafiche e di animazione relative alle donne. Già è difficile credere che uno stato oppressivo si preoccupi di fornire una domestica, Kamila, a un prigioniero politico: era proprio necessario farla camminare ondeggiando le anche come se dal mattino alla sera sfilasse in passerella? Ed era necessario che la maggioranza delle figure femminili per strada o al mercato, indossino o meno l’hijab, fosse dotata di vita sottilissima e seni strabordanti?

E’ un bel film, innovatore e ispiratore in molti sensi, è proprio un peccato che sui corpi delle donne non riesca a sfuggire agli irrealistici parametri disneyani / americani. Maria G. Di Rienzo

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(“A woman’s life – A journey of constant fear”, di Konda Delphine, dicembre 2012, trad. Maria G. Di Rienzo. L’autrice, venticinquenne del Camerun, è un’attivista per i diritti umani delle donne e co-fondatrice di “VOW Initiative”, un progetto che usa i social media per dare visibilità e voce alle donne e che fornisce addestramento al cosiddetto “citizen journalism”: il giornalismo dei cittadini/delle cittadine, l’informazione dal basso.)

 Konda Delphine

Devo ammettere che sono stata spaventata per tutta la vita. La gente non lo nota, per la forza con cui sostengo le mie opinioni.

Da bambina, sono stata testimone di un mucchio di violenza domestica. In Camerun è assai comune, in famiglia, nel vicinato, nell’intera comunità. In effetti, in certe tribù del mio paese si dice che se un uomo non picchia sua moglie non la ama. Mentre crescevo in un ambiente violento mia madre era costantemente preoccupata che potessero violentarmi, perché anche lo stupro di bambine è una cosa assai comune. A 12 anni, la maggior parte delle bambine del villaggio erano sposate. Io no, perché i miei genitori rifiutavano di sentirne parlare. Inoltre io volevo andare a scuola, imparare e aiutare le mie amiche e le bambine in generale. Volevo essere la “dirigente” della mia vita ed è esattamente quel che sono ora.

Da bambina cominciai a capire come le cose funzionavano attorno a me. Gli uomini parlano e le donne ascoltano. Compresi anche che i miei sogni spaventavano la gente. In maggioranza continuavano a dirmi che una donna non doveva sedersi, parlare, camminare e vestirsi così o colà: Una donna non dovrebbe essere così orgogliosa. Una donna deve stare a sentire e non deve parlare. Le donne non devono essere più istruite degli uomini. Se un uomo ti picchia è perché lo hai provocato. Pure, tutto questo indottrinamento sociale cadde in orecchie sorde. Non appena il mio ex ragazzo si fece ardito al punto di dirmi che mi avrebbe schiaffeggiata, si trovò fuori dalla mia vita più velocemente di quanto avesse mai immaginato.

Potrei andare avanti all’infinito con gli esempi, ma il mio punto è che viviamo immerse in una paura costante. Paura di essere stuprate, discriminate, giudicate, criticate e paura di fallire e paura di non poter neppure reagire. Ciò che il mondo non riesce davvero a capire è la sofferenza delle donne. Intorno alle donne tutto va continuamente a pezzi e le donne persistono a raccogliere quei pezzi con dignità. Anni e anni di cose tenute dentro possono far impazzire veramente una persona.

Nel 2011 ho compiuto delle ricerche su due prigioni in Camerun. In una di esse incontrai una ventiquattrenne che era in galera per la morte del marito. Quando mi interessai alla sua vita fuori di prigione sentii solo storie orribili: che era un’adultera, una donna disprezzabile, che aveva ucciso il marito quando era stata scoperta e così via. Tuttavia non mi convinsero, proprio perché l’avevo conosciuta. Così tornai a farle visita e lei mi raccontò la sua storia: era stata la vittima di un matrimonio forzato e aveva subito la violenza del marito per anni. Le botte di quell’uomo l’avevano fatta abortire due volte. Durante l’ultimo assalto si era difesa e lui era rimasto ucciso.

Organizzai un’azione comunitaria, al proposito, con la mia associazione, gli amici e i familiari, ma più di raccogliere donazioni per lei e le altre donne in prigione non potemmo fare. Ero sconvolta al sentire il biasimo buttato interamente su di lei: tutti concordavano sul fatto che il marito la batteva da anni, ma si aspettavano che lei sopportasse. Dopo tutto, dicevano, mica è l’unica a far esperienza di violenza domestica. Ci sono così tanti problemi che si risolverebbero eliminando la violenza contro le donne. E io capisco come quella giovane si è sentita, perché quel che le è accaduto poteva accadere a qualunque donna si stancasse di essere il punching-ball di un uomo.

Ricordo quanta paura avevamo io e le altre ragazze all’università. Ogni giorno, finite le lezioni, c’erano notizie di questa ragazza o quest’altra che erano state stuprate o molestate. Quando c’erano scioperi ero ancora più terrorizzata, perché un maggior numero di ragazze sarebbero state violentate durante lo sciopero. E se non è abbastanza, di recente due ragazze in Camerun sono state spogliate in pubblico perché “i loro vestiti erano indecenti”. Chi determina se una persona è vestita bene o no? Avete visto in giro il detector della decenza, per caso? E spogliare a forza delle persone in pubblico è per me la cosa più indecente che possa esserci. E’ per tutto questo che io non posso smettere di scrivere e lavorare per i diritti delle donne. Sono cruciali per lo sviluppo delle società. Tutte e tutti dovremmo far voto di impegnarci a fermare questa violenza.

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