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kafa

Questo è il logo di “KAFA (BASTA) violenza e sfruttamento”, un’ong femminista e laica della società civile libanese che cerca di creare una società libera dalle strutture patriarcali sociali, economiche e legali che discriminano le donne. KAFA è stata fondata nel 2005, i suoi scopi sono eliminare ogni forma di violenza e sfruttamento contro le donne e costruire una sostanziale eguaglianza di genere. Perciò, gestisce due centri di sostegno alle donne a Beirut e nella valle della Beqāʿ nonché un rifugio per le vittime di violenza (la cui ubicazione è protetta) e lavora per contrastare prostituzione e traffico di esseri umani.

I centri di sostegno accolgono le donne qualsiasi siano la loro provenienza o storia e forniscono loro non solo informazioni: corsi, istruzione, aiuto psicologico e legale, persino attività di svago – gratuitamente. Data la situazione in Siria, negli ultimi anni hanno ricevuto com’è ovvio molte donne da quel paese. Il 25 gennaio scorso, Kvinna till Kvinna ha pubblicato un articolo di Ida Svedlund e Cecilia Samuelsson che racconta la storia di una loro, “Leila” (il suo nome è stato cambiato per garantire la sua sicurezza).

Leila ha oggi 39 anni ed è fuggita dalla Siria tre anni fa, quando la sua città è stata bombardata e suo marito è morto; ha cinque figli, tre femmine e due maschi. “La fuga mi ha esaurito completamente ed ero già traumatizzata dalla guerra. I bambini non stavano meglio, la più piccola si bagnava di notte, ma grazie all’aiuto che è stato dato loro da KAFA questo non succede più e tutti oggi stanno molto meglio.” Leila ha trovato una casa in affitto e ha lavorato per qualche tempo come domestica, ma le pesanti molestie del padrone di casa e di suo figlio sono diventate intollerabili al punto da costringerla a licenziarsi. La sua situazione economica, già precaria, si fece difficile: “Il primo anno le Nazioni Unite ci davano un po’ di cibo, poi hanno smesso.”

A questo punto le femministe (che come certo saprete sono bieche, misandriche, anacronistiche, frustrate, inutili…) di KAFA sono intervenute di nuovo, offrendole un salario per entrare come educatrice in uno dei loro programmi: “Il progetto coinvolge al momento circa trenta donne. – spiega la coordinatrice Hind – E’ mirato a prevenire la violenza di genere e i matrimoni di bambine, due problemi che si sono aggravati a causa della povertà, dei conflitti e delle migrazioni forzate dagli stessi. Tramite il progetto stimiamo di riuscire a raggiungere almeno 3.000 donne.”

Leila terrà i suoi incontri in diversi punti della valle della Beqāʿ: “Parlerò di che possibilità ci sono di avere qui istruzione e lavoro e tratterò di soggetti come i matrimoni precoci, la violenza contro le donne e la salute, e qualsiasi altra cosa le donne vogliano discutere. – spiega Leila – La violenza di genere è assai diffusa in Siria come in Libano. Frequentando KAFA ho imparato a riconoscere la violenza psicologica, so che le parole possono ferire come ti ferisce la violenza fisica. Perciò, ora sono molto attenta a scegliere i termini quando parlo ai miei bambini. Il lavoro dell’organizzazione contro i matrimoni di bambine mi tocca profondamente. Io mi sono sposata quando avevo 17 anni e sono diventata madre molto presto. E’ un destino che non auguro alle mie figlie. Penso che i loro studi abbiano la precedenza.”

Leila adesso riesce anche ad avere del tempo per sé. Ha cominciato a praticare lo yoga, una cosa che le piace davvero: è un corso offerto da KAFA, ovviamente, “un luogo in cui mi sento sicura e apprendo così tante cose. Sono davvero grata per questo.”

Mannaggia, ma quando troveranno il tempo per odiare gli uomini, spettegolare sugli uomini e lamentarsi di non essere notate dagli uomini queste femministe libanesi?

Maria G. Di Rienzo

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(“On the Terrorist Mystique”, di Robin Morgan per Women’s Media Center, 24 novembre 2015, trad. Maria G. Di Rienzo. Robin Morgan è una femminista, una scrittrice, un’attivista e una conduttrice radiofonica. Il libro citato in questo articolo, “The Demon Lover”, è disponibile in italiano con il titolo “Il Demone Amante”.)

Robin Morgan - Demon Lover

Ci siamo già passati.

E, tragicamente, ci passeremo ancora. E ancora. Gli altari sui marciapiedi, le candele, i fiori, le persone in lutto, la rabbia. Gli assalti dello “Stato Islamico”, o Daesh come lo chiamano gli arabi, contro Beirut, contro le linee aeree russe, contro Parigi, provano che l’IS ha più gente – decine di migliaia di soldati – e scopi maggiori e portata più ampia di quanto si pensasse.

Perciò i prevedibili tentativi di analisi sono proposti di nuovo e girano in tondo: perché uomini giovani sono così attratti da questa setta super violenta – ma non è una setta. “E’ il sogno di un passato glorificato e mitizzato nella reinstallazione del califfato. Per un uomo povero è salario, niente di più. Cibo. Pane. Come pure il senso di valere qualcosa, di combattere per una causa più grande e naturalmente, se è religioso, la ricompensa del martirio.”

Ma, chiede la gente, perché quelli che sono meglio istruiti? Come possono coloro che hanno retroscena di classe media, o persino medio-alta, andare ad unirsi all’IS? “Anche loro lo fanno per ragioni religiose, per i sogni del passato di gloria e per le aspettative disattese, perché anche se istruiti non trovano lavoro. E, ovviamente, il premio: la promessa di schiave femmine è un enorme allettamento.”

Sino a che non andremo oltre tali analisi superficiali, continueremo a ripetere e ripetere questo scenario tragico. Perché il terrorista è la logica incarnazione delle politiche patriarcali in un mondo tecnologico.

Il terrorista è il figlio che mette in pratica ciò che il padre (che ha il potere) ha sempre fatto reclamando di trovare in ciò la propria identità. Per cui il figlio lo imita. E come al solito, con una paterna mistura di orgoglio e allarme, il padre lo disereda o lo riconosce, a seconda di quanto da vicino il figlio ha seguito o no i suoi passi. Lo potete sentire nelle prediche e nelle pratiche del padre: per l’amministrazione Reagan negli Usa, i contras del Nicaragua erano combattenti per la libertà, non terroristi, e le squadre della morte del generale Pinochet in Cile erano poliziotti, non terroristi. Invece i militanti neri sudafricani che combattevano l’apartheid e i gruppi paramilitari palestinesi che combattevano l’occupazione – quelli erano terroristi. Per l’Unione Sovietica, d’altra parte, l’esercito popolare in Salvador era una forza rivoluzionaria insorgente, mentre la resistenza popolare afgana era un fenomeno terrorista. Molto ironico, sì.

Il misticismo terrorista è il fratello gemello del misticismo della mascolinità e il padre mitico di entrambi è l’Eroe. Il terrorista ha carisma perché è la manifestazione dell’Eroe nell’era tecnologica, e questa è la democratizzazione della violenza, perché ora qualsiasi uomo può essere un eroe. E’ il trionfante eroe che vince la sua rivoluzione e si sposta nel palazzo presidenziale: George Washington e Mao Tse-tung, Fidel Castro e Anwar Sadat e Menachem Begin. Ed è l’eroe martirizzato che perde e viene distrutto: Spartaco, Cavallo Pazzo, Zapata, Patrice Lumumba, Che Guevara – e naturalmente c’è il martirio promesso dal fondamentalismo islamico

Senza la propaganda del mito dell’eroe, l’omicidio è un affare sordido. Però con il mito dell’eroe, ogni atto di violenza è reso non solo possibile, ma inevitabile. Lo stupratore è trasformato in seduttore, il tiranno governa per diritto divino e il terrorista ricostituisce l’Eroe. Guardatelo. Eccolo là, giovane, snello, vestito tutto di nero, il viso in ombra o mascherato da un passamontagna, i suoi gesti svelti ed economizzati come quelli di un predatore. Non solo il suo corpo regge i magici attrezzi della morte, ma è lui stesso un magico attrezzo di morte. Il suo impegno è totale. E’ un fanatico della dedizione, una mistura di impetuosità e disciplina. E’ disperato e perciò vulnerabile, è completamente a rischio e perciò coraggioso, è un idealista però temprato e, più di tutto, è qualcuno del tutto assorbito da una passione.

Ma la sua passione è la morte. Lui è quel che passa per “mascolinità”. Nel fatto che cerca (o rischia) un nobile annichilimento, e nel fatto che minaccia (o promette) lo stesso ad altri, lui in effetti ci magnetizza. Ci affascina come un avatar del potere.

Noi riconosciamo che si tratta di un potere insano. Riconosciamo meno ciò che si trova dietro il suo passamontagna. Quel che c’è dietro lo abbiamo invocato per generazioni, è l’erotizzazione della violenza: il Demone Amante.

Quel che c’è dietro è l’uomo-guida della cultura popolare dell’intrattenimento, l’eroe di milioni di persone, Lone Ranger, Zorro, tutti gli eroi mascherati dei fumetti, l’abbandono spersonalizzato del martedì grasso, il carnevale, il ballo mascherato, lo smargiasso, il bandito, il pirata, il temerario, il principe-rospo, la Bestia che minaccia la Bella; i costumi, le uniformi, i travestimenti indossati dagli uomini della chiesa e dagli uomini dell’esercito, come Virginia Woolf nota ne “Le Tre Ghinee”, e dagli uomini delle corporazioni con le loro proprie divise, e dai radicali all’ultima moda o dai capitribù. L’Eroe si traveste e i vestiti dell’Imperatore furono tagliati dallo stesso sarto – e per lo stesso scopo.

Ma queste sono sciocchezze, potreste pensare: il terrorista è un uomo che indossa un passamontagna o una calza sul viso perché non vuole essere identificato; semplicemente non vuole che chiunque sappia chi lui è, tutto qui.

Ed è esattamente quel che dico io.

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(“We Teach Life, Sir.”, di Rafeef Ziadah, poeta palestinese, trad. Maria G. Di Rienzo. Rafeef è una rifugiata di terza generazione e da qualche anno vive a Londra. E’ nata a Beirut – Libano e fra i suoi primi ricordi d’infanzia ci sono l’assedio e il bombardamento della città nel 1982. “Dopo di ciò, la mia famiglia lasciò Beirut e per anni siamo stati costantemente in viaggio, essendo palestinesi apolidi, deportati da un paese all’altro. Infine siamo stati accolti in Canada, dove ho potuto studiare.”)

rafeef ziadah

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo.

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo che doveva adattarsi agli slogan e ai limiti delle parole.

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo che doveva adattarsi agli slogan e ai limiti delle parole abbastanza da corrispondere alle statistiche per controbattere con un responso misurato.

E io ho perfezionato il mio Inglese e ho imparato le risoluzioni delle Nazioni Unite.

Pure, lui mi ha chiesto: Signorina Ziadah, non pensa che tutto si risolverebbe se voi semplicemente smetteste di insegnare così tanto odio ai vostri bambini?

Pausa.

Ho cercato dentro di me la forza per essere paziente, ma non ho la pazienza in punta di lingua mentre le bombe cadono su Gaza.

La pazienza è appena fuggita da me.

Pausa. Sorriso.

Noi insegniamo la vita, signore.

Rafeef, ricordati di sorridere.

Pausa.

Noi insegniamo la vita, signore.

Noi palestinesi insegniamo la vita dopo che essi hanno occupato l’ultimo cielo.

Insegniamo la vita dopo che essi hanno costruito i loro insediamenti e muri dell’apartheid, al di là degli ultimi cieli.

Insegniamo la vita, signore.

Ma oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo che doveva adattarsi agli slogan e ai limiti delle parole.

E dacci solo una storia, una storia umana.

Vedi, questa non è politica.

Noi vogliamo solo raccontare alla gente di te e del tuo popolo perciò dacci una storia umana.

Non menzionare le parole “apartheid” e “occupazione”.

Non stiamo facendo politica.

Devi aiutarmi, come giornalista, ad aiutarti a raccontare la tua storia che non è una storia politica.

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo.

Che ne dici di darci una storia su una donna di Gaza che ha bisogno di medicine?

Che mi dici di te?

Hai abbastanza membra con ossa rotte da essere una buona copertura?

Dammi i tuoi morti e una lista dei loro nomi entro il limite di 2.200 parole.

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo che doveva adattarsi agli slogan e ai limiti delle parole e doveva commuovere quelli che sono insensibili al sangue terrorista.

Ma erano dispiaciuti.

Erano dispiaciuti per il bestiame là a Gaza.

Perciò, io dò loro le risoluzioni delle Nazioni Unite e le statistiche e condanniamo e deploriamo e rigettiamo.

E questi due lati non sono eguali: occupante e occupato.

E un centinaio di morti, due centinaia di morti e un migliaio di morti.

E in mezzo a questo, guerra crimine e massacro, io butto fuori parole e sorrido “non esotica”, “non terrorista”.

E conto, conto un centinaio di morti, un migliaio di morti.

C’è qualcuno là fuori?

Qualcuno ascolterà?

Vorrei poter piangere sopra i loro corpi.

Vorrei poter correre scalza in ogni campo profughi e tenere fra le braccia ogni singolo bambino, e coprire le sue orecchie di modo che non debba udire il suono dei bombardamenti per il resto della sua vita come accade a me.

Oggi, il mio corpo è stato un massacro televisivo.

E lasciate vi dica questo, non c’è nulla che le vostre risoluzioni NU abbiano fatto al proposito.

E nessuno slogan, nessuno slogan che riesco a mettere insieme, non importa quanto diventa buono il mio Inglese, nessuno slogan, nessuno slogan, nessuno slogan li riporterà in vita.

Nessuno slogan risolverà questa cosa.

Noi insegniamo la vita, signore.

Noi Palestinesi ci alziamo ogni mattina per insegnare al resto del mondo la vita, signore.

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Trarre un film d’animazione da quel libro “cult” che è “Il Profeta” del libanese Gibran Kahlil Gibran

http://www.gibransprophetmovie.com/

è un’idea splendida: così come il tenere al centro della narrazione il fare esperienza della poesia a livello visivo. Dei 26 poemi originari 8 sono recitati nel film, ognuno illustrato da un diverso artista e accompagnato da un diverso tema musicale.

Un’altra idea geniale è stata rappresentare l’indovina Almitra, che nel libro “aveva creduto” nel poeta-profeta protagonista “sin dal primo giorno del suo arrivo”, come una bambina.

almitra

La creazione di quest’opera vanta molti nomi famosi, dalla produttrice Salma Hayek (il cui padre emigrò dal Libano in Messico) a Roger Allens, il regista de “Il Re Leone” e Joan Gratz, direttrice dell’animazione già vincitrice di un Oscar.

All’inizio del film, una nave arriva per riportare il prigioniero politico Mustafa alla sua terra dall’esilio fra le montagne, in cui è vissuto agli arresti domiciliari. “Il mio crimine? – spiega il prigioniero agli spettatori – La poesia.”

A Mustafa si chiede di rinunciare ai suoi versi e alle sue convinzioni, ma egli rifiuta anche se ciò gli costa l’essere incarcerato: storicamente, il ruolo “politico” della poesia nel contesto mediorientale è sempre stato forte e lo è ancora oggi. Nella casa in cui è prigioniero i suoi unici contatti sono Kamila, una vedova povera incaricata delle pulizie – a cui dà voce Salma Hayek – e la figlioletta di costei, Almitra (interpretata da Quvenzhané Wallis).

kamila e almitra

Quando una guardia si oppone dapprima al lasciar entrare la bambina nella casa, adducendo problemi di sicurezza, Kamila gli risponde ridendo “Giusto, lei è la leader della resistenza!” E la frase sembra prevedere il futuro, per il ruolo che Almitra avrà nel preservare il lavoro del poeta.

Nel momento in cui la incontriamo, la piccola Almitra non parla da due anni: è un silenzio di protesta per la morte di suo padre, dovuta agli scontri etnico-religiosi che piagano il paese e al pugno di ferro con cui i governanti li manovrano. Il retroscena è la Siria ottomana dei primi del ‘900, nella parte che oggi è il Libano, ovvero uno stato di polizia dominato da ufficiali musulmani turchi. Almitra ritroverà la voce per ispirare e confortare Mustafa e sebbene io riconosca il messaggio che ciò vuole dare sull’importanza delle relazioni umane, il fatto che la presenza o l’assenza della sua voce sia legata agli uomini nella sua vita è un po’ problematico.

Lo scenario non è privo di effettiva resistenza popolare, pacifica e simpaticamente maliziosa – il distrarre le guardie con i dolcetti, il brindare all’amore e alla libertà durante un matrimonio – e raramente sullo schermo la molteplicità dei popoli e delle culture arabe è rappresentata in modo così umano e sensibile.

Ciò detto, mi restano alcuni dubbi sulle scelte grafiche e di animazione relative alle donne. Già è difficile credere che uno stato oppressivo si preoccupi di fornire una domestica, Kamila, a un prigioniero politico: era proprio necessario farla camminare ondeggiando le anche come se dal mattino alla sera sfilasse in passerella? Ed era necessario che la maggioranza delle figure femminili per strada o al mercato, indossino o meno l’hijab, fosse dotata di vita sottilissima e seni strabordanti?

E’ un bel film, innovatore e ispiratore in molti sensi, è proprio un peccato che sui corpi delle donne non riesca a sfuggire agli irrealistici parametri disneyani / americani. Maria G. Di Rienzo

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walk a mile

“Walk a Mile in Her Shoes” (“Cammina un miglio nelle scarpe di lei”) è un’iniziativa nata da un’idea di Frank Baird che va avanti ormai da anni: gli uomini indossano scarpe femminili e camminano letteralmente per la distanza suddetta. La marcia è un modo per suscitare consapevolezza e una protesta contro violenza sessuale e domestica, durante la quale si raccolgono fondi per i centri antiviolenza e i rifugi per le donne in pericolo e così via.

Durante il 2014 queste marce si sono tenute in numerose città statunitensi, ma anche a Sofia in Bulgaria; a Dbayeh in Libano; a Lusaka in Zambia; a Launceston in Cornovaglia, a Port of Spain – St. George in Trinidad; a Camrose, Whitecourt, Brooks, Ottawa e Toronto in Canada, a Thokoza in Sudafrica; a Brisbane in Australia; a Ginowan – Okinawa, Giappone…

Spesso gli uomini partecipanti lasciano a memoria dell’iniziativa brevi poesie e riflessioni: ne ho usate alcune per legare insieme le immagini dei loro simili che usando il “mettiti nei suoi panni” protestano contro la violenza di genere in tutto il mondo. Gli scritti sono anonimi – ringrazio chi li ha creati e resi disponibili -, la traduzione è mia. Maria G. Di Rienzo

no a tutte le forme di violenza

Uomini afghani in burka, 2015

Lei non sa com’è sopravvissuta sino ad ora

da dove ha tirato fuori la volontà e la forza.

E tu non sai nulla guardandola,

nulla delle sue fatiche e delle sue difficoltà,

sino a che non fai un passo nel suo mondo,

e cammini nelle sue scarpe.

uomini turchi

Uomini turchi in gonna, 2015

Cammina un miglio nelle sue scarpe

e finirai per provare la sua malinconia.

Guarda il mondo attraverso i suoi occhi.

Come ti senti ad ascoltare tutte le bugie?

uomini kurdi

Uomini curdi in abiti femminili, 2014

Tutto quel che volevamo,

mettendo le sue scarpe,

era mostrarle che a noi importa,

che può alzarsi in piedi e non aver paura

e che non deve fingere di sorridere,

se il sorriso non è quel che ha dentro.

in her shoes 2013

Uomini statunitensi, 2013

Salta dentro le sue scarpe

Nuota nel suo oceano

Fai un passo

Cammina con lei

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(tratto da: “In Beirut, Syrian Refugees Cook to Survive – and Remember”, un più ampio servizio di Lauren Bohn e Andrew McConnell per Bon Appétit, 18.4.2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)
Ndt: le donne che vedete nelle immagini sono rifugiate siriane in Libano e la loro sopravvivenza e quella delle loro famiglie dipende dal loro lavoro di cuoche. Lo hanno trovato grazie a Kamal Mouzawak, proprietario del ristorante Tawlet (“tavolo di cucina” in arabo), che con il sostegno dell’Agenzia NU per i rifugiati e della Caritas ha organizzato il corso per una ventina di donne siriane quest’anno e spera di riuscire presto ad organizzarne un secondo. Kamal si potrebbe definire un “gastro-pacifista”: “Voglio fare cibo, non la guerra. Il cibo ci unisce tutti e io credo che porti la pace. Queste donne non mostrano la loro forza solo essendo sopravvissute ad un conflitto brutale, ma anche tramite la ricca tradizione culinaria del loro paese.”

Nahrein Abdal, 37 anni.

nahrein abdal

Nahrein è una cristiana assira. Il suo gruppo etnico si estende fra Siria, Turchia ed Iraq. Vivace e vibrante, annuncia scherzosamente che vuole diventare famosa. “So cantare, so ballare, e faccio il miglior ketal (piatto di carne e frumento) e le migliori polpette del Libano. Datemi un programma in televisione!” Ma quando deve parlare della sua fuga dalla Siria, avvenuta l’anno scorso, le sue parole diventano gravi e fatica a trattenere le lacrime: “Non volevo andarmene, ma non avevo altra scelta. Mio marito lavorava all’estero da qualche anno. Quando i compagni di scuola dei nostri figli furono rapiti a scopo di riscatto mi chiese di fuggire con i bambini in Libano. Il concetto di paura, in precedenza, ci era estraneo. Poi è arrivato e non se n’è andato più. Noi abbiamo lasciato la Siria, ma la Siria non ha lasciato noi. Le difficoltà ci seguono.”
Nahrein cerca di scrollarsi di dosso il pensiero e sparge semi di melagrana sul suo piatto di carne, mentre ondeggia ad una musica immaginaria. Sa che non serve continuare a vagare nello spazio fra se stessa oggi e ciò che era un tempo in Siria. E dichiara orgogliosa: “Voglio lavorare di più, voglio cucinare di più. Diventerò la Grande Chef dei rifugiati siriani!”

Ibtisam Masto, 34 anni.

Ibtisam Masto

Quando lo shrapnel atterrò sul suo balcone nel febbraio 2013, mancando per un pelo suo figlio di tre anni, Ibtisam seppe che era il momento di andarsene dalla sua città, Idlib. Aveva procrastinato sino ad allora, maneggiando i blackout, la mancanza d’acqua e i suoni della guerra, ma quando essa arrivò alla sua porta assieme al marito e ai sei figli intraprese il viaggio di 24 ore che l’avrebbe portata in Libano.
Ibtisam, che significa “sorriso” in arabo, si è sempre espressa tramite la musica. Suona il mazhar, un tipo di tamburello, ma ha dovuto lasciarlo alle sue spalle assieme ad altri oggetti amati, carichi di ricordi: “Mi manca tutto, mi manca persino l’aria che respiravo in Siria. Là eravamo soffocati dalla paura, qui siamo soffocati dalla nostalgia.”
Ibtisam dice che non sapeva esattamente a cosa si era iscritta quando mise la sua firma per il corso: “Ho pensato che potevo imparare qualcosa. Non credevo di avere qualcosa da dare. Ma questo mi ha infuso di speranza. Prima mi sentivo respinta, mi sentivo un fardello in Libano. Ed ecco che, di colpo, stavo dando un contributo, non stavo solo prendendo. Noi rifugiati vogliamo che le nostre storie siano conosciute, ma non solo attraverso il dolore. Vogliamo che la gente qui ci conosca – e sorridendo, fedele al proprio nome, aggiunge – anche tramite il nostro cibo.”

Rasha Mhemid, 31 anni.

Rasha Mhemid

Una sera il marito di Rasha non tornò alla propria casa, nella città di Homs, dalla fabbrica di mangimi dove lavorava. Tre giorni dopo lei seppe che era stato arrestato per aver partecipato ad una manifestazione anti-governativa. Rasha si precipitò alla stazione con metà dei loro risparmi per tirarlo fuori di galera; all’indomani, spese l’altra metà per pagare il taxi privato che avrebbe portato lei, il marito e i loro quattro bambini in Libano. Nonostante abbia salvato marito e figli e se stessa, Rasha si sente in colpa, si sente come se avesse “disertato” il proprio paese. Pensava che la permanenza in Libano sarebbe stata di qualche mese, e solo da poco ha accettato di dover ricostruire la propria vita dalle fondamenta. “Il nostro quartiere, a Homs, ora è chiuso. La mia famiglia e i miei vicini non possono uscire di casa e nemmeno riusciamo a raggiungerli al telefono.” Passava le giornate piangendo, racconta, ma cucinare le ha dato qualcosa che la tiene occupata e allontana la crisi dalla sua mente: “Prima non avevo amiche. Adesso ho sorelle. Piango ancora, ma non più così tanto.”

Mariam Al Bakkour, 31 anni.

Mariam Al Bakkour

Mariam, al primo sguardo, sembra mite e fragile ma tutte le altre cuoche dicono che è la più “dura”. Mariam ha lasciato Aleppo con il marito e quattro figli un anno e mezzo fa, quando carri armati circondarono l’edificio dove la famiglia viveva e cominciarono a fare fuoco. Aspettarono sei ore, sino a che la battaglia terminò, e fuggirono. La madre di Miriam, rimasta in Siria, è morta; per lei è devastante non aver potuto neppure dirle addio durante il funerale. “Come rifugiata provi alienazione, e dolore. A volte rabbia. Ma ho dei bambini, così sorrido per loro.” Mariam dice anche che non ha mai realmente conosciuto la differenza fra gruppi musulmani sino allo scoppiare della guerra: “Abbiamo tutti giocato insieme, da piccoli. Ci chiamavamo siriani, non sunniti o sciiti.”
Mariam ha parenti, in Libano, ma non le hanno dato il benvenuto: “Biasimano i siriani per gli attentati suicidi e i disordini al confine. Queste donne che cucinano con me mi hanno fatta sentire più benvenuta dei miei stessi parenti.”

Marleine Youkhanna, 40 anni.

Marleine Youkhanna

Marleine è arrivata in Libano lo scorso agosto con il marito e tre bambini. Si sono portati dietro i vent’anni di risparmi con cui speravano di mandare i figli all’università: sarebbero stati i primi della famiglia a farcela. Marleine ci spera ancora, ma il marito ha dovuto essere operato al cuore e il gruzzolo si assottiglia sempre di più: “Ecco perché sto lottando per migliorare le mie capacità. Ecco perché voglio cucinare per l’intero paese.”
Marleine, cristiana assira come Nahrein, non crede che le divisioni settarie spieghino il conflitto: “Prima di andarmene dalla Siria ho lasciato le chiavi di casa al mio vicino musulmano. So che la proteggerà.” Marleine ricorda quando gli iracheni arrivarono in Siria fuggendo dalla guerra nel 2003. All’epoca aveva cucinato per loro e ne aveva ospitati alcuni in casa sua. Non avrebbe mai pensato di trovarsi nella stessa posizione dieci anni più tardi. “Sì, è dura, ma non puoi aspettare che le cose accadano, che le benedizioni ti arrivino addosso: devi correr loro dietro e afferrarle.”

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Shatila è un campo profughi che si trova a sud di Beirut, Libano. Esiste da 65 anni, ha fogne a cielo aperto e fili elettrici che penzolano desolati nell’aria, nonché un alto tasso di episodi di violenza contro le donne. Ci vivono, ma sarebbe più esatto dire “sopravvivono”, circa 20.000 rifugiati palestinesi, che il Libano ha escluso dalla sfera sociale e politica: è loro proibito richiedere la cittadinanza libanese, svolgere professioni di alto profilo e possedere proprietà nel paese. Come ovvia conseguenza le opportunità per i bambini e i ragazzi sono scarse, quelle per bambine e ragazze praticamente inesistenti. Anche giocare è difficile, in spazi insicuri. E se i piccoli maschi vengono spinti fuori dalle case dalla povertà, nel tentativo di aiutare finanziariamente le loro famiglie, le piccole femmine sono per lo più confinate all’interno.

E’ in questo contesto che due “cape toste” come Mejdi e sua figlia Razan, quattordicenne, hanno messo in piedi una squadra di pallacanestro femminile. Mejdi, che funge da allenatore, è un imbianchino con una paga da fame e un cuore molto più grande di quel che lo circonda: alle ragazze parla dell’importanza del lavoro di squadra, della reciproca lealtà, del rispetto per le avversarie, del fatto che hanno lo stesso diritto dei ragazzi di esprimere se stesse. E Razan, la capitana, gli fa eco: “Questo è il significato che sta dietro all’impresa. Non siamo solo una squadra, siamo una voce.” Noor, famigerata acchiappa-rimbalzi della stessa età lo spiega ancor meglio: “Qui ho trovato la mia anima.”

la squadra

L’idea ha infatti infiammato da subito gli entusiasmi delle ragazze che ne venivano a conoscenza, ma molti dei loro genitori erano riluttanti a lasciarle partecipare. “Non hai idea di quel che noi abbiamo visto da bambini.”, disse Samir, uno dei padri non convinti, alla propria figlia Hannah, “Vogliamo tutti che tu giochi, se lo desideri, ma questo non è un posto sicuro.” La task force Mejdi-Razan, allora, si fece avanti e si presentò a casa della ragazza. “Assicurai a Samir che avrei avuto cura di Hannah allo stesso modo in cui ho cura di Razan, come se anche lei fosse figlia mia.”, racconta l’allenatore. Samir era ancora riluttante, ma decise di dar fiducia a Mejdi. E scoprì subito dopo di aver sviluppato una fiducia ancor più grande in sua figlia Hannah.

La madre della ragazza, Nabine, soffre delle restrizioni imposte alle ragazze e ha sempre manifestato la sua contrarietà ad esse, ma aveva tuttavia paura che qualcosa potesse accadere ad Hannah durante gli allenamenti e le partite. Ora questo timore è stato cancellato da qualcos’altro: “Quando tornò dalla sua prima uscita per giocare a pallacanestro sentii che condividevo la sua libertà. Da bambina io non ho mai avuto la possibilità di giocare. – e abbracciando la figlia aggiunge – Ringrazio Dio, sono così grata dell’esistenza di questa squadra.” Hannah, qui sotto in immagine, ne è la straordinaria playmaker.

Hannah dribbling

Abbiamo il diritto di giocare. – conclude Razan con la palla fra le braccia – E non ci rinunceremo mai.” Maria G. Di Rienzo

(Fonti: The Guardian, BBC, Occupied Palestine, Electronic Intifada)

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(“Is it really your choice or is it what you have learned?”, intervista a Lara Aharonian di Julia Lapitskii per Kvinna till Kvinna, 26.9.2013, trad. Maria G. Di Rienzo)

Lara Aharonian

Lara Aharonian è una delle fondatrici del “Centro risorse delle donne”, ong femminista con sede a Yerevan che offre corsi e organizza gruppi di discussione sui diritti delle donne, sessualità e salute riproduttiva. Il Centro lavora anche in modo significativo per incrementare la partecipazione delle donne ai processi di pace.

Perché sei diventata un’attivista?

Lara Aharonian (LA): Se sei una donna e non ti piace come la gente ti tratta, sia all’interno della tua famiglia, o in pubblico, o sul posto di lavoro, o a scuola, non vedo che altra scelta hai se non diventare un’attivista. Non capisco come le persone possano vivere nella stessa società in cui io vivo e non dar voce alle loro preoccupazioni. Forse sfidare l’autorità è qualcosa che ho imparato quand’ero molto giovane.

Io sono nata in Libano e sono cresciuta osservando i miei genitori che erano molto attivi nei gruppi armeni affinché passasse la legge sul riconoscimento del genocidio. Ho imparato come, quando vuoi che qualcosa cambi, devi dedicare ad essa molto tempo e devi andare dove essa si trova. Quando cresci in una zona di guerra cresci molto velocemente e non dai nulla per scontato.

Dopo che la nostra casa crollò, quando io avevo 16 anni, diventammo rifugiati in Canada. Era il momento in cui io mi stavo risvegliando, stavo diventando consapevole. Capii che non dovevano esserci per forza guerra, ingiustizia e morti. Vedevo che le donne potevano essere elette e diventare deputate e ministre, o manager, vedevo che il mondo non era fatto esclusivamente per gli uomini. Da quel momento cominciai ad impegnarmi per i diritti delle donne.

Successivamente ci trasferimmo qui in Armenia, e la prima cosa che mi colpì furono le enormi differenze di trattamento fra uomini e donne, i ruoli di genere. E seppi che se dovevo continuare a vivere qui, dovevo lavorare per il cambiamento! Cominciai con il parlare con altre donne, nate e cresciute in loco, e avevamo le stesse preoccupazioni, per cui abbiamo unito le forze.

Quale istanza è la più importante, per te, in questo momento?

LA: Principalmente la mancanza di scelte e opportunità per le donne. Molte giovani donne pensano che l’unica scelta a loro disposizione sia sposarsi ed avere figli, pensano di averlo scelto. Ma è veramente una scelta, o è quello che hai imparato? Il messaggio della società è che se non ti sposi sei una fallita, o c’è in te qualcosa che non va. Fino a che io non ti sottopongo a nessun tipo di violenza e non ti discrimino, lasciami fare le mie scelte: questo concerne l’istruzione, la carriera, lo sposarsi o no, l’avere bambini o no, lo scegliere come partner una donna, un uomo, entrambi. Quello che indossi, come ti tingi i capelli. Dal tuo corpo alla politica, scegliere.

Gli stereotipi di genere sono assai rigidi in società come quella armena. Se dici: “Io non vivrò in questo modo.”, sei automaticamente marginalizzata. E la marginalizzazione può prendere la forma della discriminazione, della violenza e del controllo, violando i diritti che hai come essere umano.

Che speranze hai per il futuro?

LA: Le cose cambiano quando gli individui cominciano a cambiare la loro mentalità. Discutere di queste cose, farlo pubblicamente, indurre un mucchio di gente a pensare. Infine, ci sarà quella massa critica che non siamo abituati ad avere in Armenia. Ora cominciamo a vedere sempre più persone che contestano e criticano senza essere punite, ma ancora molte, in maggioranza donne, temono di dire “Non lo accetto.”, perché pensano che saranno prese a bersaglio ed escluse dalla società.

Io metto la mia speranza nel tendere una mano verso l’esterno, nel visitare le comunità, nel dar potere alle donne, nel parlare con loro, nel creare spazi. Cambiare le leggi è pure importante, in parallelo, ma se non cambi la mentalità delle persone esse non sapranno che farsene di quelle leggi.

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Conosciuta con gli pseudonimi di “Cedarseed” (Seme di Cedro) e più recentemente di “Majnouna”, Joumana Medlej è una fumettista e illustratrice libanese. Il suo lavoro più famoso è “Malaak, l’Angelo della Pace”, una serie che ha per protagonista una supereroina il cui scopo è mettere fine ai conflitti in Libano. Malaak è ormai al quinto volume e la sua storia sarà completata in un sesto. Ogni lunedì Joumana posta una nuova pagina della storia sul sito http://malaakonline.com

 

Naturalmente, la domanda a cui più spesso deve rispondere nelle interviste è: Perché una supereroina? O ancora meglio: Perché un supereroe femmina?

Se fosse maschio, mi avreste chiesto perché un supereroe maschio? Non c’è risposta per questo, la storia mi è venuta così. Malaak è l’eroina del Libano, una giovane donna mandata dai Guardiani della Terra a mettere fine ad una guerra che pare non averne e sfuggire ad ogni controllo. La storia è basata per metà sulla mitologia e per metà sulla realtà attuale. Il primo accenno della vicenda risale al 2000, quando la disegnai come nata da un cedro, ma fu solo nel 2006, durante la guerra di luglio, che il resto venne fuori ed io cominciai a lavorarci seriamente.”

 

Un altro lavoro molto particolare di Joumana riguarda i 99 Nomi di Dio (o Divini Attributi): “Ho pensato di disegnarli quando ho scoperto che secondo la numerologia il mio nome in scrittura araba dà 99. E’ difficile tradurre accuratamente la maggior parte dei 99 nomi e in special modo quelli che si riferiscono agli aspetti dell’amore. Per esempio, ho tradotto Al-Wadûd come “L’Amante” ma in esso sono intesi più significati. L’amore evocato dal termine “wadâd” si riferisce ad un affetto intimo e profondo, perciò l’attributo è tradotto anche come “L’amabile gentilezza”, o “La suprema affezione”. Al-Wadûd è l’abbraccio costante di un universo che ama.” Maria G. Di Rienzo

P.S. Il cedro, come probabilmente saprete, è il principale simbolo del Libano.

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(tratto da: The ordeal of Kenyans in Arab ‘slave markets’, di Mugumo Munene per “The Nation”, agosto 2012. Trad. Maria G. Di Rienzo. La donna di cui si narra la storia in questo articolo ha accettato di raccontarla a condizione che la sua vera identità non sia rivelata.)

Mwanaisha Hussein (non il suo vero nome) fu contattata da un’agenzia di reclutamento a Nairobi, dove lavorava come commessa in un negozio. Le promisero uno stipendio ben più alto del suo per andare a fare la domestica in Arabia Saudita. Era l’ottobre dell’anno scorso. L’idea le piacque, ma c’era un problema, non aveva passaporto. Non c’è problema, le rispose il reclutatore, bastava che le desse il danaro per pagare la tassa ufficiale al Dipartimento per l’immigrazione.

Mwanaisha pagò e fornì le fotografie per il passaporto. Poi le chiesero “un altro po’ di soldi per questo e un altro po’ per quest’altro”, ma in pochi giorni era pronta a partire. “Il documento mi fu dato all’aeroporto, non sono mai stata di persona al Dipartimento per l’immigrazione. Era la prima volta che lo vedevo e sopra c’era il nome “Mwanaisha Hussein”. Non avevo mai viaggiato in precedenza e pensai che fosse il nome della persona per cui avrei lavorato.”

Quando Mwanaisha arrivò a Jeddah il suo datore di lavoro andò a prenderla. Lei gli disse il suo vero nome, ma l’uomo insisté a chiamarla Mwanaisha. In Kenya era stata istruita dall’agenzia a vestirsi secondo il codice di abbigliamento saudita ed era coperta dalla testa ai piedi. “Dovevo esserlo a qualsiasi ora del giorno, ovunque mi trovassi. Comunque cominciai a lavorare e tutto andò liscio per un paio di mesi. Poi il mio datore di lavoro disse che dovevo convertirmi alla fede musulmana. Io dissi di no, spiegandogli che ero cristiana. Da quel giorno cominciarono i pestaggi. Non saltarono un solo giorno, a partire da quello. Il figlio arrivava a casa dal suo impiego in una banca e la prima cosa di cui parlava era la mia conversione all’Islam. Più dicevo di no, peggio mi bastonavano.”

Poiché i pestaggi non bastavano, Mwanaisha veniva chiusa in una stanza completamente vuota fino a cinque giorni di seguito. Poi la lasciavano uscire perché facesse una doccia e mangiasse qualcosa, e veniva rinchiusa di nuovo. “Una notte il figlio tornò a casa attorno alle due e mi picchiò tanto che decisi di scappare. Sapevo che la fuga poteva equivalere alla morte, ma a quel punto persino la morte mi sembrava desiderabile.” Mentre sanguinava a causa dell’assalto, Mwanaisha rifletté che l’unico modo per uscire da quella stanza al terzo piano era aprire il sistema di condizionamento dell’aria e saltare attraverso l’apertura della ventola. E così fece, atterrando con un tonfo nel cortile dei vicini. Si ruppe un braccio ed una gamba e svenne, riprendendo conoscenza circa un’ora dopo.

“Per fortuna, ne’ i miei datori di lavoro ne’ i vicini sentirono nulla. Fosse accaduto, sono sicura che non sarei qui a raccontarvi la storia.” Mwanaisha strisciò sino al cancello e rotolò fuori di esso, sulla strada. “Un motociclista si fermò a soccorrermi. Mi chiese cos’era successo. Io glielo dissi e lui chiamò la polizia. La polizia arrivò assieme ad un’ambulanza. Sono stati abbastanza gentili da portarmi all’ospedale, ma non hanno voluto ascoltare quel che avevo da dirgli sulle torture che avevo subito per mano dei loro compatrioti.”

Quando l’ospedale la dimise, Mwanaisha non aveva denaro ne’ un luogo in cui andare. Un assistente sociale la portò all’ambasciata del Kenya a Jeddah, dove visse per un mese in un prefabbricato prima di avere un biglietto aereo e i documenti necessari per tornare a casa. “Maneggio casi del genere ogni giorno.”, dice la signora Nyambura Kamau, capo dipartimento al Ministero per gli affari esteri. Segnalazioni dall’Arabia Saudita, dal Qatar e dal Libano, dove ci sono circa 4.000 lavoratrici domestiche provenienti dal Kenya, riempiono la vaschetta dei documenti in entrata sulla scrivania di Nyambura Kamau. Lo scorso anno si occupata di circa 900 casi simili a quello di Mwanaisha: 445 domestiche hanno fatto ritorno a casa, 104 hanno raggiunto mediazioni legali soddisfacenti, 310 procedimenti sono ancora pendenti.

I potenziali datori di lavoro, spiega Kamau, contattano agenzie nei loro paesi che chiedono sino a 3.000 dollari. Il denaro dovrebbe servire a coprire i costi del viaggio e degli esami medici, nonché la tariffa dell’agenzia locale. Ma, come dice Mwanaisha, a lei si è continuato a chiedere soldi per “le procedure”, quelle che l’hanno ridotta in schiavitù. Secondo le indagini in corso, il racket della tratta di domestiche è internazionale e sarebbero coinvolti in esso diplomatici e funzionari delle compagnie di volo. La maggioranza delle lavoratrici lamenta abusi fisici, molestie sessuali, carico eccessivo di lavoro. Possono cominciare la loro giornata lavorativa alle quattro del mattino e vederla finire a mezzanotte. E’ negato loro qualsiasi tipo di contratto e in caso di dispute legali questo si ritorce facilmente contro di loro. “C’è persino un neonato all’Ambasciata del Kenya in Qatar che dobbiamo portare a casa.”, dice la signora Kamau. La madre, kenyota, aveva un certificato medico che attestava la sua piena salute e capacità di svolgere attività domestica in Qatar. Ma dopo tre mesi è diventato visibile che era incinta. Ha avuto il permesso dai suoi padroni di condurre a termine la gravidanza e di partorire all’ospedale ma non di tenere il bimbo con sé al lavoro. “Per un po’ il piccolo è rimasto in ospedale, poi l’hanno dato alla nostra Ambasciata. Adesso devo arrangiare le cose per lui, affinché possa venire in Kenya.”

Il caso illustra bene le condizioni in cui queste lavoratrici si trovano. All’inizio nessuna di loro guadagna qualcosa, o guadagnano davvero poco, perché i datori di lavoro deducono i 3.000 dollari della loro spesa iniziale dai loro stipendi. “Questo è un vero shock per la maggior parte di noi.”, spiega Mwanaisha Hussein, “Nessuno ti dice che ci si aspetta questo da te prima che tu lasci il Kenya.” Un altro problema sono i permessi di soggiorno. I paesi coinvolti garantiscono alle lavoratrici un visto di ingresso, il che significa che per tornare a casa devono ottenere quello di uscita. I loro passaporti sono trattenuti dalle autorità aeroportuali e in cambio di essi ricevono una carta d’identità locale. Se una vuole andarsene, deve ottenere che il suo datore di lavoro scriva una lettera all’agenzia di reclutamento, che a sua volta ne scrive una agli uffici governativi che possono – o no – rilasciare il “visto d’uscita” e restituire il passaporto alla sua legittima proprietaria. Una kenyota che sia arrestata viene trasferita al “centro di deportazione”, il quale contatta l’Ambasciata e chiede di provvedere per il viaggio. La signora Kamau è appena tornata da una visita “sul campo” e dice che una lavoratrice rigettata dal suo datore di lavoro si trova inevitabilmente nei guai: “Ci sono sempre quei 3.000 dollari da recuperare, per cui portano queste donne in un posto chiamato maktaba dove aspettano potenziali impieghi. E sembra davvero un mercato degli schiavi.”

Mwanaisha è della stessa opinione: “Le condizioni sono miserabili, il cibo scarso. E’ orribile, punto e basta. Io ho lasciato un lavoro qui in Kenya e perso otto mesi della mia vita. Non solo, sono quasi morta. Non tornerei indietro per nulla al mondo. Non consiglio a nessuno di andare.”

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