“Dragon Blade” (“La lama del drago”), uscito il 19 febbraio scorso, è il film più recente di Jackie Chan, diretto da Daniel Lee. In pratica, lo hanno stroncato tutti i critici di lingua inglese. Le recensioni italiane sono ancora poche, ma vanno più o meno nella stessa direzione.
Io l’ho visto due volte: nella versione tagliata per il mercato americano, senza sottotitoli, della durata di un’ora e mezza circa e nella versione originale, che i sottotitoli li ha – in inglese e in mandarino: nel film 6 gruppi etnici parlano 6 lingue diverse – e dura poco più di due ore. La storia, molto in breve e cercando di non inserirvi troppi spoiler, è questa: in un prologo ambientato al giorno d’oggi, due giovani archeologi – una femmina e un maschio – seguendo le vaghe notizie su una favoleggiata spedizione romana in Cina scoprono i resti della perduta città di Regum. Dalle rovine (la fotografia e l’animazione sono molto belle) siamo trasportati all’anno 48 prima di Cristo, dinastia Han, e al confine nordoccidentale del paese, disputato da 36 gruppi tribali. Qui incontriamo Huo An – Jackie Chan, capitano di una squadra che ha il difficile compito di proteggere la Via della Seta; assieme alla moglie Xiuqing, maestra che insegna ai bambini di tutte le etnie – ed appartiene ad un’etnia differente da quella del marito, Huo An cerca di promuovere e mantenere l’armonia fra i vari gruppi.
Accusata ingiustamente di contrabbando, la squadra è esiliata in un forte in rovina che deve contribuire a ricostruire. Qui arriva la legione romana “rinnegata” al comando del generale Lucius (John Cusack), fuggito da Roma per proteggere il piccolo Publius (Jozef Waite) già accecato da suo fratello, il Console Tiberio (Adrien Brody), che a sua insaputa lo sta inseguendo con un’armata di 100.000 uomini. Complice una tempesta di sabbia che non lascia scelta se non cooperare per la sopravvivenza, i romani si uniranno ai diversi gruppi che lavorano all’interno del forte, Huo An e Lucius diventeranno amici e combinando sapienza orientale e sapienza occidentale riusciranno a ricostruire il posto in quindici giorni (data di scadenza imposta malignamente dal Capo della Prefettura). All’arrivo dell’esercito di Tiberio, lealtà e speranze di pace sono messe alla prova ed ambo le parti sono costrette a rivelare le loro debolezze e i loro punti di forza… Basta così, o rischio di rovinarvi la visione.
Mi è piaciuto? Sì, soprattutto nella sua versione originale, in cui c’è tempo per entrare in sintonia con i personaggi e per vedere come ricordi ed eventi si incastrano l’uno con l’altro producendo e celebrando la vita. E’ esente da difetti? Naturalmente no, come qualsiasi prodotto umano, e il principale è l’aver fatto della costruzione di pace un affare da fratellanza fra uomini, con le donne abili aiutanti – siano guerriere o maestre – ma non chiamate a portare proprie prospettive e sogni. Tuttavia, piuttosto dell’ennesima boiata americana sull’eroe sniper che “salva il mondo” (leggi: “salva le corporazioni economiche statunitensi”) ammazzando gente, meglio cento film come questo dove si dichiara a voce alta che ammazzando gente non si salva un bel niente.
Mi restano alcune riflessioni sulle aspre critiche a “Dragon Blade”, ed eccole qui.
La storia è “finta”? Perché, le innumerevoli pellicole che hanno per soggetto Eldorado fittizi nascosti nella giungla e le perduranti maledizioni dei faraoni e le cospirazioni globali di malvagissime sette segrete – e che usano personaggi e fatti storici come base – sono “vere”? Certo che è finta. Nel finale l’archeologa la definirà “una fiaba affascinante”. Nessuno crede che un Tiberio qualsiasi – e meno ancora l’imperatore indecente di questo nome che successe ad Augusto – sia corso dietro a una legione così ostinatamente fuggitiva da finire dal Lazio in Cina. E il generale Huo Qubing storico, che nel film adotta il piccolo Huo An reso orfano dalla guerra e gli insegna principi di civile convivenza, era tutt’altro che un gentile pacifista. La fantasia del regista parte dal ritrovamento nei pressi della Via della Seta della tomba di due guerrieri “caucasici” con armi di fattura romana. Da lì ha immaginato una vicenda, ha creato personaggi e dialoghi e girato un film. Lo sbaglio dov’è?
Jackie Chan non fa abbastanza acrobazie mortali? Cioè, a 60 anni (è nato nell’aprile 1954) e nell’era del cgi deve rischiare la vita perché un’audience faccia “ooooh” con le boccucce a culo di gallina? La sua parte di “action” in “Dragon Blade” (duelli, cavalcate, uscite rocambolesche da edifici e prigioni, sessioni di kung fu) a me come spettatrice basta e avanza.
Huo An (Jackie Chan) è superbo – pomposo – arrogante nei suoi discorsi sulla pace (traduzione: chi ti credi di essere cinese del menga per dar lezioni agli occidentali)? No, perché in realtà di discorsi di questo tipo non ne tiene. Sono solo frasi, a volte un po’ trite, nel mezzo del dialogo: “Il nostro motto è trasformare i nemici in amici”, “Non c’è modo di risolvere questa cosa senza combattere?”, “Manteniamo la pace sulla Via della Seta”. “Voi addestrate ad uccidere, noi a difendere.” Il personaggio è un sincero umanista, l’attore è contrario alla guerra in modo altrettanto sincero – per quanto spesso ingenuo – e non da oggi: vedasi “Il piccolo grande soldato”, un altro dei suoi film “pacifisti”, e le numerose dichiarazioni che Chan ha rilasciato sulle opzioni belliche. Poi, sicuramente non è un libertario e politicamente esprime visioni conservatrici, ma come essere umano è almeno decente e farei la firma se tutti gli avversari politici dei progressisti fossero come lui.
Publius (Jozef Waite) è un “frignone viziato buono-a-nulla”? Quando è in pericolo piange e urla? Be’, è un bambino cieco di circa 8 anni incastrato nelle mortali lotte dei suoi familiari per la supremazia politica, in fuga in un paese straniero e fin troppo conscio che comunque vadano le cose ha pochissimo da vivere. Nei suoi panni piangerei io che ho quasi sette volte la sua età: sarebbe strano se tenesse sermoni sul coraggio e la impavida fine degli eroi, non che sia fragile e sconvolto.
Le spettacolari scene di battaglia sono “confuse”? No, sono verosimili. Mostrano la guerra per quello che è: massacro e caos, l’onore e l’armonia e la piacevolezza sono altrove.
Cusack non va bene nel ruolo del generale romano, Brody crede di stare sul palcoscenico dell’Old Vic, il coreano Choi Si-won – membro di un “idol group” – l’hanno messo lì per far andare al cinema le fan del k-pop? De gustibus. Può darsi. Io che ho un’esperienza di regia teatrale, per quanto limitata, non ne ho trovato nessuno “fuori ruolo”. E lasciatevi dire che un buon attore, o una buona attrice, dovrebbero pensare sempre di stare sul palcoscenico dell’Old Vic, a contatto diretto con gli spettatori, modulando i messaggi del corpo e quelli della voce per convogliare senso a costoro.
Perché quello che si vuol fare recitando, in ultima analisi, è raccontare loro una storia – e raccontarla in modo che vi partecipino, che si appassionino ad essa e che escano dal teatro o dal cinema con qualcosa in più nella mente e nel cuore. “Dragon Blade”, con i suoi pregi e i suoi difetti, passa almeno questo test. Maria G. Di Rienzo
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