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lopez

La donna in immagine è Claudia López, la nuova sindaca di Bogotà (Colombia), durante la festa per il suo insediamento tenutasi il 1° gennaio scorso nel parco pubblico Simón Bolívar. Claudia, 49enne, ci è arrivata in bicicletta (casa sua è a sette chilometri di distanza), ha ricevuto la fascia cerimoniale che vedete da sua madre e si è scusata scherzosamente con la sua compagna, Angélica Lozano, perché l’elezione ha ridotto la loro luna di miele: le due donne si sono infatti sposate con rito civile il 17 dicembre 2019.

“Questa è la prima amministrazione guidata da una donna, ma non sarà l’ultima. – ha detto dal podio – Sarà aperta al pubblico e ascolterà, rappresentando le aspirazioni dei giovani, delle donne, dei movimenti della società civile, dei gruppi etnici, degli ambientalisti e dei movimenti per i diritti degli animali: di coloro, cioè, che sono spontaneamente scesi nelle strade al di là dei partiti e dei leader politici. Questa città ci sta parlando. Ogni strada, ogni piazza e ogni parco parlano, cantano, si muovono per le richieste di una città e di un paese che sognano.”

I sogni per cui Claudia ha ricevuto oltre un milione e centomila voti ed è diventata la prima sindaca apertamente lesbica in Colombia sono, fra gli altri, l’inclusione sociale, il rispetto delle diversità, istruzione pubblica di qualità e gratuita, tutela dell’ambiente e sviluppo sostenibile: compiere scelte ecologiche, per un’amministrazione pubblica, “non è fantascienza ne’ fisica nucleare”, ha ribadito nel suo discorso d’insediamento.

Claudia López è una stratega della nonviolenza: sa che per “vivere senza paura” è necessario “costruire empatia e fiducia”, imparare a “riconoscere quel che ci unisce, valutare e rispettare le differenze negli altri”. Perciò, ha coinvolto il suo principale avversario politico Carlos Fernando Galán nel piano per la ristrutturazione dei trasporti pubblici, chiedendo ai partiti della sua coalizione di votarlo quale direttore del progetto – e così è stato.

“Sarò schietta: dobbiamo muoverci in avanti invece di ritirarci ed è quello che faremo.”, ha detto anche la sindaca. Il mio sogno per muoverci in avanti è poter votare in Italia una donna che le somigli.

Maria G. Di Rienzo

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hana lee

Questa è Hana Lee, ventenne, studente e atleta – golfista per la National Collegiate Athletic Association – ma soprattutto attivista per la giustizia sociale, in bicicletta e non. Hana è una dei “dream riders” (ciclisti sognatori, o ciclisti del sogno – godreamriders.org ) che periodicamente percorrono in lungo e in largo gli Stati Uniti in lunghissimi viaggi di protesta: l’ultimo si è dato nell’anno in corso e si chiamava “Cittadinanza per tutti: Viaggio verso la Giustizia”.

Il 24 agosto scorso la giovane è stata intervistata da Angry Asian Man – da cui viene il particolare della sua immagine in bicicletta – e di seguito potete leggere alcune delle cose che ha detto.

“Io sono Hana, “l’unica”, se traduci il mio nome dal coreano. Sono un’orgogliosa coreana-americana, la figlia di due genitori immigrati che lavorano duramente e che sono venuti negli Usa affinché le loro figlie potessero sognare più in grande e avere più opportunità. E sono una dei principali ciclisti sognatori che chiedono cittadinanza per tutti gli 11 milioni di migranti non documentati e per i 35.000 adottati da altri paesi e privi di cittadinanza. Non voglio più vivere nella paura e voglio fare tutto quel che posso per la mia comunità di migranti.

Nessun essere umano merita di essere inferiore agli altri e i miei genitori non meritano nulla di meno di me. Non ci sono “buoni” immigrati e “cattivi” immigrati, e io voglio impegnarmi con tutto quel che ho nella lotta contro le politiche anti-immigrazione e le leggi che hanno impatto sulla mia comunità. Sono così concentrata su questo perché credo che nessun essere umano sia illegale. Sono anche concentrata nel lavorare con gli adolescenti che fanno parte della gioventù a rischio, di modo che possano conoscere le loro potenzialità e vivere pienamente le loro vite.

Mi fa arrabbiare l’attuale clima politico sta dividendo la mia comunità e questo paese, le separazioni delle famiglie come risultato di politiche e leggi discriminatorie, i bambini che soffrono del trauma della separazione e i miei amici e i membri della mia comunità che vivono nel timore della deportazione. Molte persone stanno dimenticando che siamo tutti esseri umani e agiscono come fossero migliori o superiori agli altri.

Mi incazzo anche ogni volta in cui penso all’ipocrisia di gente che arriva a decidere chi merita di stare in questo paese che pensano appartenga a loro, mentre coloni e colonizzatori hanno rubato questa terra ai popoli indigeni, uccidendoli nel processo. E vedere adolescenti e studenti a cui non sono garantite nemmeno le necessità di base, come l’istruzione, la casa, le cure mediche, mi rende furiosa al massimo.

Mi fa male vedere gli Stati “Uniti” d’America andare lentamente verso la divisione e la separazione. Prego per il giorno in cui non avrò bisogno di vivere nella paura per me stessa, per la mia famiglia e la mia comunità. Ma sino a che quel giorno non arriva, continuerò a lottare e ad essere arrabbiata.”

Maria G. Di Rienzo

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(“In small-town Colombia, a group empowers girls one bike at a time”, di Natalia Bonilla, 18 dicembre 2017, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Per Natalia Espitia, imparare ad andare in bicicletta divenne una forma di terapia dopo che lei sopravvisse a un tentativo di assalto sessuale. Andare in bicicletta, dice, l’ha aiutata ad andare oltre la paura di camminare in spazi pubblici: “Hai bisogno di bilanciamento mentale per pedalare… la bicicletta permette alle donne di sentirsi indipendenti e mobili.”

Perciò, nel marzo 2016, Espitia ha fondato “Niñas sin Miedo” (“Bambine/Ragazze senza paura”), un’organizzazione che lavora per promuovere i diritti umani istruendo le ragazzine sulla violenza sessualizzata e offrendo conferenze e seminari sulla prevenzione della gravidanza durante l’adolescenza, l’abuso sessuale e le molestie. Rinforza anche le ragazze insegnando loro ad andare in bicicletta insieme. “Ho preso la decisione pensando che la bici avrebbe fatto alle bambine lo stesso bene che ha fatto a me.”, spiega Espitia.

colombia ragazze

Il 1° ottobre scorso, “Niñas sin Miedo” ha tenuto la sua prima maratona ciclistica a Bogotà (ndt.: in immagine sopra) durante i preparativi per il Giorno internazionale della Bambina, commemorato annualmente dalle Nazioni Unite dal 2012. Circa 100 persone hanno partecipato alla maratona, che è stata guidata da dozzine di ragazzine con le magliette rosa.

L’evento è stato significativo, ha detto Espitia, perché era la prima volta che le ragazzine viaggiavano sino a Bogotà. “Vogliamo mettere nell’agenda mondiale il potenziamento di donne e ragazze tramite gli sport. Con l’aiuto di altri alleati internazionale e del mondo accademico, possiamo contribuire a ridurre la violenza sessualizzata contro le ragazze.”

“Niñas sin Miedo” lavora principalmente a Soacha, una piccola città a sud di Bogotà, ove circa il 40% dei residenti sono colombiani provenienti da altre parti del paese che sono stati costretti ad abbandonare le proprie case, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. La lunga guerra, durata decenni, fra governo, ribelli, paramilitari e trafficanti di droga ha reso sfollati all’interno del paese almeno 7 milioni di colombiani, secondo i dati delle NU.

Soacha è fatta di molteplici quartieri, in precedenza considerati insediamenti. Ma le sue condizioni sono catastrofiche. I crimini violenti continuano ad aumentare e la disoccupazione è alta. Le strade sono di terra battuta, non c’è sistema fognario ne’ acqua corrente. E minimo un 20% della popolazione è composto da bambine minori di 14 anni, dice l’organizzazione. “Abbiamo scoperto che ci sono due questioni principali, qui: l’abuso sessuale e le adolescenti incinte.”, racconta Espitia.

L’organizzazione offre lezioni su sessualità, autostima, cura di sé e discussioni so come identificare e prevenire situazioni di abuso. Aiuta anche le ragazzine a creare relazioni salutare interpersonali e familiari. Lo scopo del programma è dare fiducia alle bambine e alle adolescenti affinché usino le loro proprie voci. Su un corso di circa 30 partecipanti, alcune sono studentesse universitarie che sono d’aiuto nello stabilire legami più importanti con le ragazze più giovani, offrendo loro spazi sicuri per la conversazione sulle loro esperienze.

Da quando l’organizzazione è stata creata, Espitia ha visto che “le ragazze hanno migliorato il loro pensiero critico in termini di violenza di genere e di violenza sessuale.” Ora, dice, “sanno che possono essere discriminate per il loro genere o perché hanno le mestruazioni.”

Una quindicenne, che ha chiesto di restare anonima per proteggere la sua privacy, dice che il tempo passato con le volontarie dell’organizzazione l’ha spinta ad aprirsi di più: “Sento che posso raccontare loro i miei problemi più profondi e che loro mi ascolteranno. Ci hanno parlato di cosa posso fare in caso qualcuno non mi rispetti. Ho capito di avere dei diritti. Non avevo mai raccontato a nessuno cosa mi è successo. Loro mi hanno aiutata a guarire il passato.” Il programma, ha aggiunto la quindicenne, l’ha aiutata a credere nei suoi sogni.

Sin dal suo lancio nel 2016, l’organizzazione ha ricevuto grande sostengo da gruppi locali e internazionali. Nello scorso novembre, ha ricevuto il Premio “Jaime Esparza Rhénals” che dà riconoscimento alle iniziative di spirito imprenditoriale che hanno impatto sociale sul paese. “Niñas sin Miedo” ha anche ricevuto 15 milioni di pesos (ndt.: 4.257 euro), il che permette all’organizzazione di sviluppare i suoi programmi su scala più vasta.

Nel frattempo, ogni fine settimana, dozzine di bambine e adolescenti si radunano per partecipare ai seminari e andare in bicicletta insieme. A volte scherzano e fanno battute con le amiche, a volte fanno gare fra di loro. E nel mentre tutte in fondo condividono la stessa pena, ora avranno per sempre uno sbocco per la gioia.

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Sono solo quindici minuti di documentario, ma potremmo definirli un quarto d’ora di premi:

Miglior Film e Premio del pubblico all’International Cycling Film Festival (2016);

Premio della giuria al Bike Shorts Film Festival (2017);

Premio per il Messaggio Ispiratore all’Ektopfilm International Festival per i film sullo sviluppo sostenibile (2017);

Premio per il miglior “corto” al London Feminist Film Festival (2017)…

Si tratta di “Cycologic”, prodotto dall’abilità e dalla passione di tre registe/produttrici svedesi (Emilia Stålhammar, Veronica Pålsson e Elsa Löwdin) e della protagonista: la ciclo-attivista ugandese Amanda Ngabirano (in immagine).

amanda cycologic

Il documentario segue in particolare la campagna di Amanda per avere piste ciclabili nella sua città, Kampala, dove il traffico è caotico, pericoloso e altamente inquinante, mostrando allo stesso tempo – una volta di più – come in determinati luoghi il solo andare in bicicletta, per le donne, equivalga a rompere stereotipi e a rinegoziare il loro ruolo nella società. Anche queste cicliste sono seguite dalle registe. Potete dare un’occhiata a che succede qui:

https://vimeo.com/185684431

“La bicicletta non è roba da poveri. – dice Amanda nel trailer summenzionato – E’ per le persone indipendenti, libere, liberate. Tu scegli come e dove muoverti.” E notando l’assenza delle sue simili nel via vai di automobili, motociclette e motorini aggiunge ironicamente: “Dove sono le donne? Non hanno piedi, non hanno gambe, non hanno energia?” Li hanno eccome. Nel poco tempo trascorso dall’uscita del film, Amanda ha convinto a pedalare persino la polizia: si è fatta tramite con le forze dell’ordine olandesi, che hanno donato le biciclette “da ronda” ai loro colleghi. Maria G. Di Rienzo

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marguerite coppin

La donna in immagine finì sui giornali per aver scandalizzato la città di Bruges, in Belgio. Con la gonna d’epoca fissata alle caviglie da mollette (successivamente disegnerà un tipo di pantaloni più adatto ai suoi scopi) aveva percorso le strade urbane… in bicicletta! “Oltraggioso”, rimarcarono i quotidiani.

La signora era Marguerite Aimee Rosine Coppin (1867 – 1931) nata a Bruxelles, attivista femminista per i diritti delle donne, scrittrice e poeta: diverrà in effetti la “poeta laureata” del Belgio. Come molte femministe delle sua era, considerava la bicicletta una “macchina della libertà” per le donne. La giovane nostra contemporanea ripresa qui sotto condivide questa visione.

baraah

Si chiama Baraah Luhaid, ha 25 anni e vive in un paese, l’Arabia Saudita, in cui il consenso di un uomo è obbligatorio per l’accesso delle donne ai diritti umani e le femministe sono costantemente a rischio di essere processate e imprigionate.

Nel 2013 il bando totale per le cicliste è stato leggermente ammorbidito: le donne saudite possono andare in bicicletta, ma solo nei parchi autorizzati o sulle spiagge e solo se un “tutore” maschio è presente. Baraah Luhaid ha pensato che il resto del cambiamento necessario lo avrebbe spinto da sé.

“Quando faccio attivismo perché le donne possano andare ovunque in bicicletta, sto promuovendo l’indipendenza delle donne. Cambiare credenze radicate profondamente richiede un lento e persistente lavoro. – ha detto nelle interviste – Presenta difficoltà, ma qualcuna deve pur cominciare.”

Così, ha dato inizio a una comunità mista di cicliste/i e aperto un’officina per biciclette (“Il perno dei raggi”) che comprende un caffè e offre servizi e seminari alle donne… all’inizio dal retro di un camioncino, perché Baraah come femmina non è autorizzata a fondare un’attività commerciale – la sua è a nome del fratello, che la sostiene appassionatamente – e i suoi talenti di meccanica e ciclista legalmente potevano essere rivolti solo agli uomini. Ha anche, come Marguerite Coppin, disegnato una versione dell’abito imposto alle donne (abaya) che permette loro di andare in bicicletta più agevolmente, senza che la stoffa si impigli nei raggi.

La sfida più ardua per lei, ha detto di recente a The Guardian, sono le barriere culturali. Quando passa per strada in bicicletta la gente chiude le tapparelle dopo averle urlato insulti e la polizia la ferma regolarmente sia quando la incontra per caso, sia perché riceve allerta sul suo “oltraggioso” comportamento. Ma lei insiste, pedala in pubblico, incoraggia le sue simili a imitarla, cambia raggi rotti e si consola leggendo libri come “Le ruote del cambiamento” di Sue Macy, ove è tracciata la storia delle donne che hanno fatto questo prima di lei. Sa che la bicicletta ha giocato un ruolo importante nel movimento per la liberazione delle donne.

L’officina “Il perno dei raggi” ha vinto di recente un premio governativo per le iniziative in affari. La Principessa Reema, vice presidente dell’Autorità saudita per gli sport femminili, ha pubblicamente approvato il progetto – e simbolicamente ha strizzato l’occhio a Baraah Luhaid.

Maria G. Di Rienzo

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roma-26-nov-2016-2

Mie care, grazie. Anche se Roma è troppo distante – per le mie tasche – e non ho potuto godere della vostra compagnia. Ho notato, non da sola, che la copertura giornalistica/televisiva di una manifestazione così grande e riuscita è andata per la maggior parte dall’insufficiente al patetico, passando per il banale.

Qualcuno è riuscito persino a non accorgersi proprio del tutto che si trattava di una manifestazione organizzata da donne e composta principalmente da donne:

La Stampa 26 novembre: A Roma migliaia in piazza contro la violenza sulle donne.

Sono centomila, secondo gli organizzatori i partecipanti al corteo contro la violenza sulle donne partito da piazza della Repubblica a Roma e che sta percorrendo via Cavour. A fornire il dato ai cronisti è Tatiana Montella, della Rete «Io decido», che insieme alla Dire (Nda: sarebbe D.i.Re, giusto?) associazione che raccoglie i 77 centri antiviolenza italiani e all’Udi, Unione donne d’Italia (Nda: Unione Donne in Italia, dall’ultimo statuto, sempre se non sbaglio) ha organizzato la manifestazione dal titolo «Non una di meno».” C’è persino, pensate, “Un richiamo anche al movimento femminista: «Siamo femministe, siamo sempre quelle, siamo milioni di forza ribelle».”

Le femministe – scorie di un lontano passato – passavano di là, insomma, e si sono aggregate all’ultimo momento agli organizzatori (maschi) e ai partecipanti (maschi).

Ma non importa, avete vinto per voi stesse e per tutte noi una splendida giornata. Godiamoci questo momento perché da domani, lo sapete meglio di me, il lavoro continua ed è duro come sempre.

Maria G. Di Rienzo

roma-26-nov-2016

P.S.: Ho rubato le immagini della manifestazione a http://comune-info.net/

ma so che mi perdonano a priori, anche perché adesso colgo l’occasione di fare un po’ di pubblicità a questo loro lavoro:

un-movimento-a-pedali

L’idea di andare verso la libertà in bicicletta – e della libertà che la bicicletta costruisce in molti modi – merita una vostra occhiata:

http://comune-info.net/2016/11/un-movimento-pedali

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monache in bici

Sono partite a luglio da Kathmandu – Nepal, dove si trova il loro monastero, entreranno in Pakistan e la loro destinazione finale è Ladakh, in India. Sono cinquecento. Alla fine del viaggio avranno percorso oltre 2.500 chilometri. A quale scopo? Per promuovere l’eguaglianza di genere.

Stiamo diffondendo questi messaggi: anche le ragazze hanno potere e non sono deboli. – dice Yeshe Lhamo, monaca 27enne che partecipa al “pellegrinaggio” detto yatra – Nelle regioni che tocchiamo la gente ascolta e rispetta gli insegnamenti religiosi, perciò se una monaca dice che la diversità e l’eguaglianza sono importanti, le persone magari possono incorporare questo concetto nella loro pratica spirituale.”

Ciò che ha spronato in particolare all’azione le monache buddiste (appartenenti a un Ordine himalayano del culto, la Discendenza Drukpa) sono alcune conseguenze del terremoto che ha devastato il Nepal nell’aprile dello scorso anno: il confine fra Nepal e India è divenuto molto facile da attraversare per i trafficanti di esseri umani e le loro vittime principali sono le donne, vendute come lavoratrici coatte o prostitute. Il governo del loro paese non ha preso misure al proposito.

Durante le soste in remoti villaggi, le monache guidano le preghiere e impartiscono lezioni sulla pace e il rispetto, la diversità e la tolleranza; monitorano l’accesso a istruzione, cure sanitarie, partecipazione politica delle donne; spiegano quali rischi le famiglie corrono nel dare ascolto alle bugie dei trafficanti di esseri umani (che promettono lavoro e una vita migliore per le loro figlie) e persino hanno una parte ambientalista nella loro missione, che è quella di spiegare i rischi del disgelo dei ghiacciai dell’Himalaya, dovuto all’inquinamento, e di suggerire stili di vita alternativi: mollate il diesel i cui fumi vi stanno causando malattie respiratorie, dicono le monache, e andate in bicicletta come noi.

Il capo del loro ordine, Gyalwang Drukpa, è un convinto sostenitore dei diritti delle donne. L’Ordine le aveva relegate in passato a compiti di pulizia e cucina, ma lui le ha incoraggiate a studiare gli stessi testi dei maschi e, per rinforzare la loro autostima, ha ingaggiato un istruttore che insegnasse loro le arti marziali. In precedenza il kung-fu era bandito alle monache, ma come potete vedere dall’immagine sottostante ciò ormai appartiene alla Storia.

monastero amitabha drukpa

Queste donne sono assolutamente convinte di poter fare qualsiasi cosa gli uomini facciano: “Perché siamo esseri umani e gli uomini sono pure esseri umani. – spiega Lhamo – Ci sono quelli che ci dicono: Le femmine non dovrebbero andarsene in giro in bicicletta così. E noi rispondiamo: Perché? Se un maschio può farlo, perché una femmina non può?” Al monastero, oltre alla meditazione e alla preghiera, allo studio dei testi religiosi e alla pratica di arti marziali, le monache fanno TUTTO: saldatrici, elettriciste, informatiche e contabili.

Non di meno, Lhamo sa bene che il cambiamento ha bisogno di tempo: la povertà, la sofferenza, le norme culturali che svalutano le donne non sono ostacoli da poco alla crescita dei semi della parità di genere che le monache diffondono: “Naturalmente uno yatra in bicicletta non può cambiare il mondo nel giro di una notte, ma il nostro messaggio può ispirare una persona, una bambina, una madre… e a volte una singola persona può fare un’enorme differenza. Una madre può cambiare la sua intera famiglia. Una bambina che sa di avere valore può fare cose straordinarie.”

Maria G. Di Rienzo

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Phionah Musumba

“Sono una bella madre, sposata, di sei figli – cinque sono vivi. La cosa principale di me, quella che sta sopra a tutto il resto, è che il mio cuore è colmo d’amore per ogni essere umano di sesso femminile. Ho una bruciante passione per le persone in stato di necessità e quelle meno privilegiate nella società; non perché io abbia molto, in effetti non ho nulla, ma perché sono passata attraverso molta sofferenza per tutta la mia vita, da ragazzina e persino da madre. E’ con questo in mente che nel 2002 ho messo in piedi il “Centro per ragazze svantaggiate”, un’organizzazione comunitaria, e più tardi – nel 2014 – la Fondazione Malkia che fornisce opportunità alle bambine e alle donne tramite l’istruzione. Il nostro è un porto sicuro dove le donne vengono a trovare sollievo e dove non solo possono permettersi di sognare di nuovo, ma anche di nutrire i loro sogni sino a che questi ultimi arrivano a realizzarsi.”

Così si presenta Phionah Musumba, kenyota, suscitando l’immediato desiderio di abbracciarla e dirle che sì, è davvero bella, e sì, il suo amore per le donne è ricambiato e condiviso e apprezzato. Nel mentre lavora alle sue due creazioni, Phionah non smette di progettare. Sta raccogliendo fondi per comprare 50 acri di terra dove costruire un moderno complesso scolastico che: “Al 60% dovrebbe insegnare scienza, tecnologia, matematica, informatica e al 40% le materie tradizionali, di modo da essere appetibile per chi può pagare una retta, rendendo sostenibile l’accesso gratuito delle studentesse in povertà. Sarebbe la prima scuola di questo genere, in Kenya. Quando l’istruzione è resa disponibile a ragazze come me, il cielo cessa di essere il nostro limite.

Ma l’istruzione non è la sola cosa che Phionah ha in mente. “Vorrei riuscire ad aprire una clinica che fornisca attenzione sanitaria di qualità alla mia comunità, dove si muore a causa della corruzione rampante del governo locale, che non permette nemmeno ai bambini di accedere alle cure gratuite: e dovrebbe farlo, per legge, almeno per quelli che hanno meno di cinque anni. La mia gente muore di malattie che non dovrebbero uccidere, in quest’era, come la diarrea, il colera, la tubercolosi, la malaria. E sogno pure di mettere in piedi stazioni radiotelevisive, media che si concentrino su quel che accade sul territorio, a livello di base, un tipo di informazione completamente disattesa dai media ufficiali.”

Phionah va dovunque, anche all’estero, a stringere relazioni, creare alleanze e sinergie d’intervento, insegnare, imparare.

“Una delle cose più recenti che abbiamo fatto è il Progetto Bicicletta Gialla. I nostri partner in questa avventura sono i volontari di “The Austin Yellow Bike Project” che mettono biciclette comunitarie sulle strade di Austin e di altre città del Texas e addestrano gratuitamente le persone ad aggiustarle e mantenerle efficienti. Hanno donato alla Fondazione Malkia tutte le biciclette che sono riusciti a recuperare, tre set di attrezzi e un bel mucchio di parti di ricambio. Così, adesso, le nostre donne e ragazze stanno apprendendo a riparare e a costruire biciclette. Per molte, è una forma di impiego che cambierà le loro vite.” Maria G. Di Rienzo

bici gialle

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(tratto da: “The revolution will not be pinkified”, un più ampio articolo di Liz Smith per The F-Word, 11.9.2014, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Amy, una bimba inglese di nove anni, è stata di recente ad un festival estivo per la gioventù, dove ha visto alcune dimostrazioni di BMX. (Ndt. la sigla sta per “Bicycle Motocross”. Le bici da cross sono diverse dall’usuale per struttura, peso e dimensioni.)

Ha quindi deciso che voleva una BMX per il suo compleanno e la madre l’ha portata a dare un’occhiata a quelle disponibili in negozio. Le due sono state avvicinate da una commessa non appena hanno messo piede nella sezione per bambini. Dando un’occhiata ai lunghi capelli biondi di Amy, la commessa le ha dirottate immediatamente nell’angolo a colori caramellati del reparto.

bmx pink

Là c’era una sola BMX “per femminucce”, nera e rosa acceso. Amy l’ha guardata ed è tornata a passo svelto dall’altra parte. “Penso che queste mi piacciano di più.”, ha detto.

La commessa non si è arresa: “Queste sono biciclette da maschi, tesoro. Non preferiresti una bici da femmine?” Ho amato la risposta di Amy: ha fissato la commessa con uno sguardo interrogativo e beffardo al tempo stesso, una specialità da “novenni”, e ha detto: “Cosa importa?”

La mamma di Amy ha fatto un veloce confronto fra le biciclette per bambine e quelle per bambini. Per lo stesso prezzo, molte di quelle per maschi avevano funzionalità e componenti migliori delle altre: forcelle con sospensioni e ingranaggi, per esempio. Le biciclette per bambine si concentravano invece sull’apparenza e il comfort – sellini più larghi, canna più bassa e colori pastello con cascate di motivi floreali, e accessori come cestini, stelle filanti e copri-manubri a lustrini. Gli abiti e gli oggetti relativi al cross in bicicletta per bambine erano per la maggior parte rosa, con occasionali flash di bianco e porpora, e – di nuovo – si concentravano sull’essere graziosi anziché sull’avere una funzione.

Secondo i rivenditori, alla fine, i maschietti sono rudi e disordinati, guideranno le loro bici nel fango e il loro set di accessori dovrà essere lavato spesso dalle madri, mentre le femminucce faranno giretti oziosi, con le loro bambole nel cestino frontale. Se l’industria vuole davvero sostenere il ciclismo femminile, deve fare lo sforzo di andare oltre i sellini color gelatina e gli aggeggi in sfumature di rosa e pastello. Le bambine devono sapere che VA BENE sporcarsi e che c’è abbastanza detersivo al mondo per lavare le loro cose e quelle dei loro fratellini. Devono sapere che saranno le benvenute in qualsiasi associazione o club di ciclismo e che sono libere di scegliere qualsiasi disciplina vogliano apprendere o in cui vogliano competere.

Mi chiedo quante Amy ci siano che non hanno l’assertività o il sostegno necessari a dire al mondo che non vogliono essere inzuppate di rosa. Mi chiedo quante Amy, anziché avere quel che realmente volevano e che rifletteva ciò che erano, hanno finito per avere una bicicletta o altri oggetti – e invero a fare scelte – perché gli si è detto che quelle cose o quelle scelte dovevano piacere loro, e loro non volevano essere giudicate negativamente come differenti.

Sono felice però di ragguagliarvi sul fatto che Amy ha la sua nuova BMX blu e verde – non dirò “smagliante”, perché lei sta passando così tanto tempo al parco per ciclisti locale che probabilmente “smagliante” non lo è più… Amy ha anche imparato ad usare la lavatrice.

rossa è meglio

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cicliste

Un’ispirazione al giorno toglie (un po’) il sessismo di torno. Quella che vedete alla testa del gruppo di cicliste è la 21enne Evelyn Martinez, la città è Los Angeles. Mentre cresceva, a Evelyn fu ripetutamente detto che la bicicletta non era affar suo. Andare in bici è pericoloso, le spiegavano gli adulti della sua cerchia familiare, soprattutto di sera, soprattutto per una femmina, le femmine sono fragili e devono essere protette. “Le biciclette sono per gli uomini.”, tagliò corto sua madre. E poi, aggiunsero i soliti “amici della salute” non hai neanche il fisico adatto al ruolo, giusto?

Così, Evelyn ha cercato e trovato donne che la pensassero altrimenti ed è nata la “Ovarian Psyco Cycles Brigade”, un nome che gioca con le parole – ovariche e psicotiche – al fine di “creare una sorta di riconoscimento, di accettazione e orgoglio per il nostro corpo storicamente oppresso”. La brigata ha un appuntamento fisso mensile, il “Luna Ride” (non è tradotto, le donne sono in maggioranza di origine latino-americana) in cui le cicliste sciamano per le strade sotto la luna piena, e spesso usa i suoi giri per sostenere o promuovere campagne politiche, ambientaliste, sociali. Nel luglio scorso la loro biciclettata era un atto solidale con lo sciopero della fame dei detenuti nelle prigioni californiane. Pedalano anche con gli uomini, quando ce n’è l’occasione, ma dicono di trovarlo faticoso perché i ciclisti effettuano sempre il tentativo di istruirle sulla superiorità maschile e sulle tecniche e sulla velocità, eccetera: “Ma a noi non importa chi va più veloce, il nostro gruppo si fonda sullo stare insieme come sorelle.”, dice un’altra socia ciclista, Maryann Aguirre.

A volte i passanti e gli automobilisti gridano loro insulti e oscenità, a cui le giovani donne rispondono con canti e slogan femministi, ma in genere le altre donne le salutano con allegria e entusiasmo. In particolare le anziane, come ha scoperto Evelyn di recente: “Mi dicono: Mija que bueno! Es muy bien ejercicio! (Molto bene, figlia mia! E’ davvero un buon esercizio.) Molte di loro non hanno mai avuto la possibilità di andare in bicicletta, perché erano talmente povere da non potersene permettere una, e perché sono donne e nessuno voleva insegnare loro o motivarle. Io sto dimostrando alle donne che vogliono andare in bicicletta che il tuo peso, la tua età, il tuo sesso non c’entrano nulla con la tua possibilità di farlo.” Ha ragione da vendere: tant’è che sua madre, adesso, vuole imparare a pedalare. Maria G. Di Rienzo

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