(Sareena Rai, musicista, attivista, scrittrice, praticante di arti marziali, vive a lavora a Kathmandu. Assieme al marito Olivier, francese trasferitosi in Nepal, ha fondato nel 1999 la punk band “Rai Ko Ris” – che significa “La furia, o la vendetta, dei Ris”, un piccolo gruppo etnico del Nepal orientale, in effetti conosciuto per l’essere un popolo molto pacifico: “Sino a che non li inganni, poi è meglio stare distanti.”, spiega Sareena.
Nel gruppo Sareena suona la chitarra, e Olivier la batteria. Inoltre, gestiscono a Kathmandu una libreria anarchica, uno dei pochissimi luoghi nella città dove si trovano testi su femminismo, omosessualità, ambientalismo, pacifismo, ecc. oltre ovviamente quelli anarchici. Sareena e Olivier hanno un figlio di 8 anni. Il testo di Sareena che segue è dell’agosto scorso.)
Mio padre era un soldato Gurkha e noi vivevamo in caserma, nel Nepal dell’est, dove tutti i nepalesi stavano da una parte del muro e tutti gli inglesi dall’altra. Ma mio padre era un ufficiale, perciò a noi fu data una casa all’interno, il che rese le cose abbastanza strane per me e mia sorella.
Così nuotavo, andavo a cavallo, frequentavo la scuola elementare per bianchi. Ai pigiama-party avevo sempre la tentazione di mangiarmi la pasta dentifricia alla fragola, importata, della figlia del colonnello. Guardavo le cameriere nepalesi fare il bagno ai bambini bianchi.
Nella parte nepalese tutte le mie zie e i mie zii coltivavano ortaggi e mi insegnavano a pulirmi i denti con rametti tagliati da un arbusto medicinale (presto dimenticai la pasta dentifricia a favore di questa opzione). Là giocavo a “looki mari” (nascondino) con bambine e bambini nepalesi, scorrazzando in tutti i cortili – qualcosa che non si poteva fare dall’altra parte. Uno dei miei zii era il responsabile della fattoria militare e mi permetteva di esplorare, di cercare uova d’anatra, coccolare pulcini e cavalcare il bufalo.
Un giorno, ero in piscina assieme ai miei amici inglesi quando di colpo uno di loro disse: “La sai una cosa, tu non dovresti vivere da questa parte dell’accampamento militare. Tu dovresti stare dall’altra parte. E ad ogni modo non hai niente a che fare con la nostra piscina. Dovresti nuotare in quella per neri. E non dovresti neppure andare alla fattoria, perché è la nostra fattoria!” Io non sapevo perché sino ad allora mi era permesso farlo, e non me lo ero mai chiesta. Non sapevo cosa rispondere. Mi guardarono tutti sogghignando, poi un altro specificò: “Tu non hai niente a che fare con la nostra piscina perché sei nera.”
Forse è inappropriato quel che sto per scrivere, ma oggi probabilmente li colpirei tutti con il mio miglior “pugno rovesciato” alla Bruce Lee. Allora, ahimè, avevo otto anni e non avevo ancora cominciato a praticare il Jeet Kune Do. Sono rimasta là a tremare di paura, mentre mi dicevano di smettere di seguirli e di voler giocare con loro, perché ero “nera”, e io continuai a restare ferma e a trattenere le lacrime, fino a che se ne andarono. Piccoli nazisti nel Nepal orientale, chi l’avrebbe mai detto?
Sono passati un bel po’ d’anni, e io sto ancora appesa allo status di “minoranza”, perché sono: a) asiatica; b) una donna; c) una chitarrista quarantenne sulla scena punk. A livello musicale, nel punk il rapporto uomini/donne è trenta a uno – e questo è quel che ho visto in occidente: lasciamo stare il Nepal dove io sono una goccia nell’oceano. Qua la mia lotta per l’eguaglianza di genere non serve a niente, mi è chiaro che in maggioranza le altre donne non sono attratte dai vestiti a brandelli e dal tormentare malignamente l’uditorio con una chitarra rumorosa, assieme ad un mucchio di uomini dall’aspetto pure malmesso, e disillusi e furiosi quanto me. Puoi portare un cavallo all’acqua, ma beve solo se ne ha voglia, eccetera.
Non ho neppure visto molti asiatici ai concerti quando siamo andati in tournée in Occidente due anni fa. Forse uno o due. E nonostante io fossi esaltata all’idea di conoscere queste altre anime perse, pesciolini nel grande acquario, non ne ho neppure avuta l’occasione, perché se ne sono andati prima che il concerto finisse. E se non bastasse, è estremamente raro vedere una donna scura di quarant’anni su questi palcoscenici. Forse, per me, è ora di passare all’hip-hop…
Ma poi mi dicono che viviamo in un’era davvero liberale, dove nessuno dovrebbe identificarsi per etnia, colore della pelle, genere ed età (l’età soprattutto sul mercato del lavoro). Devi essere “simile”. Siamo tutti simili. Trattiamoci l’un l’altro “similmente”, simili-simili. Be’, adesso non ho più otto anni e sono molto più forte. La “similitudine” voglio farla a pezzi. Io sono differente, proprio come te. (Trad. Maria G. Di Rienzo)