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Il brano che segue proviene da un articolo più lungo e dettagliato di Anna Zobnina: “WOMEN, MIGRATION, AND PROSTITUTION IN EUROPE: NOT A SEX WORK STORY”, pubblicato da Dignity – Vol. 2 – Issue 1 – 2017, che potete leggere integralmente qui:

http://digitalcommons.uri.edu/dignity/vol2/iss1/1/

Anna Zobnina (in immagine) è la presidente della Rete Europea delle Donne Migranti, nonché una delle esperte dell’Istituto Europeo dell’Eguaglianza di Genere. E’ nata a San Pietroburgo in Russia e ha lavorato in precedenza come ricercatrice e analista per l’Istituto Mediterraneo degli Studi di Genere. (Trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Anna Zobnina

Sin dall’inizio della più recente crisi umanitaria, a circa un milione di rifugiati è stato garantito asilo in Europa. Secondo l’Alto Commissariato per i Rifugiati delle Nazioni Unite, nel 2016 oltre 360.000 profughi sono arrivati alle spiagge europee cercando rifugio. Di questa cifra, almeno 115.000 sono donne e bambine, incluse minori non accompagnate. Ciò che alcuni descrivono come una “crisi dei rifugiati” è, in molti modi, un fenomeno femminista: donne e le loro famiglie che scelgono la vita, la libertà e il benessere, opponendosi alla morte, all’oppressione e alla distruzione.

Tuttavia, l’Europa non è mai stata un luogo sicuro per le donne, in particolare per quelle che sono sole, povere e senza documenti. I campi profughi dominati dagli uomini, gestiti da personale dell’esercito e non equipaggiati con spazi divisi per sesso o materiale igienico di base per le donne, diventano velocemente ambienti altamente mascolinizzati dove la violenza sessuale e l’intimidazione delle donne proliferano. Di frequente le donne scompaiono dai campi profughi.

Come le appartenenti alla nostra rete riportano – ovvero le donne rifugiate stesse, che forniscono servizi nei campi – le richiedenti asilo hanno legittimamente paura di fare la doccia nelle strutture per ambo i sessi. Temono di essere molestate sessualmente e quando estranei che si fingono volontari dell’aiuto umanitario offrono loro di accedere a bagni in località “sicure” esterne al campo, le donne non tornano più. Sino a che una donna mancante non è stata identificata ufficialmente, è impossibile sapere se è stata trasportata altrove, se è riuscita a fuggire o se è morta. Ciò che noi, la Rete Europea delle Donne Migranti, sappiamo è che le donne della nostra comunità finiscono regolarmente in situazioni di sfruttamento, di cui matrimoni forzati, schiavitù domestica e prostituzione sono le forme più gravi.

Per capire ciò non è necessario consultare la polizia; tutto quel che dovete fare è camminare per le strade di Madrid, Berlino o Bruxelles. Bruxelles, la capitale dell’Europa, ove la Rete Europea delle Donne Migranti ha la propria sede principale, è una delle molte città europee dove la prostituzione è legalizzata. Se partendo dal suo “quartiere europeo”, l’area di lusso che ospita la clientela internazionale delle “escort di alto livello, andate verso Molenbeek – il famigerato “quartiere terrorista” dove vivono i migranti impoveriti e segregati per etnia – passerete per il distretto chiamato Alhambra. Là noterete gli uomini che si affrettano per le strade, tenendo bassi i volti. Evitano il contatto con gli occhi degli altri per non tradire la ragione per cui frequentano Alhambra: l’accesso alle donne che si prostituiscono. Molte di queste donne provengono delle ex colonie europee, da ciò che spesso è chiamato Terzo Mondo, o dalle più povere regioni dell’Europa stessa. Le donne che vengono dalla Russia, come me, sono pure abbondanti. Nel mentre le latino-americane, le africane e le asiatiche del sud-est sono facili da individuare sulle strade, le donne dell’est europeo sono difficili da raggiungere, poiché i loro “manager” le sorvegliano strettamente e le tengono distanti dagli spazi pubblici.

Si suppone che noi chiamiamo queste donne “sex workers”, ma la maggioranza di esse sarebbe sorpresa da tale descrizione occidentale e neoliberista di ciò che fanno. Questo perché la maggioranza delle donne migranti sopravvive alla prostituzione nel modo in cui si sopravvive a una carestia, a un disastro naturale o a una guerra. Non lavorano in situazioni simili. Un gran numero di queste donne possiede diplomi e abilità che vorrebbe usare in quelle che l’Unione Europea chiama “economie competenti”, ma le politiche restrittive delle leggi europee sul lavoro e la discriminazione etnica e sessuale nei confronti delle donne non permettono loro di accedere a questi impieghi. Il commercio di sesso, perciò, non è un luogo inusuale per trovare le donne migranti in Europa. Nel mentre alcune di esse sono identificate come vittime di traffico o di sfruttamento sessuale, la maggior parte no. Sulle strade e fuori dalle strade – nei club di spogliarello, nelle saune, nei locali per massaggi, negli alberghi e in appartamenti privati – ci sono migranti femmine che non soddisfano i criteri ufficialmente accettati e non hanno diritto ad alcun sostegno.

Nel 2015, la Commissione Europea riportò che delle 30.000 vittime registrate del traffico nell’Unione Europea in soli tre anni, dal 2010 al 2012, circa il 70% erano vittime di sfruttamento sessuale, con le donne e le minorenni che componevano il 95% di tale cifra. Oltre il 60% delle vittime erano state trafficate internamente da paesi come Romania, Bulgaria e Polonia. Le vittime dall’esterno dell’Unione Europea venivano per lo più da Nigeria, Brasile, Cina, Vietnam e Russia.

Questi sono i numeri ufficiali ottenuti tramite istituzioni ufficiali. Le definizioni del traffico di esseri umani sono notoriamente difficili da applicare e coloro che in prima linea forniscono servizi sanno che gli indicatori del traffico a stento riescono a coprire la gamma di casi in cui si imbattono, tanto le pratiche di sfruttamento, prostituzione e traffico sono radicate. Le grandi organizzazioni pro-diritti umani, inclusa Amnesty International, questo lo sanno bene. Pure, nel maggio 2016, Amnesty ha dato inizio alla sua politica internazionale che sostiene la decriminalizzazione della prostituzione. Tale politica patrocina tenutari di bordelli, magnaccia e compratori di sesso affinché diventino liberi attori nel libero mercato chiamato “lavoro sessuale”. Amnesty dichiara di aver basato la politica di decriminalizzazione su una “estesa consultazione in tutto il mondo”, ma non ha consultato i gruppi per i diritti umani quale è il nostro e che si sarebbe opposto. (…)

Secondo Amnesty, quel che proteggerebbe i “diritti lavorativi delle sex workers” è il garantire, per legge, il diritto dei maschi europei ad essere serviti sessualmente su basi commerciali, senza timore di azione giudiziaria. Amnesty precisa che la loro politica si applica solo a “adulti consenzienti”. Amnesty è contraria alla prostituzione di minori, che definisce stupro. Quel che Amnesty omette è che una volta la ragazza rifugiata sia istruita alla prostituzione, è improbabile arrivi ad avere risorse materiali e psicologiche per fuggire e denunciare i suoi sfruttatori. E’ molto più probabile che sarà condizionata ad accettare il “sex work”: e cioè l’etichetta che l’industria del sesso le ha assegnato. Il “lavoro sessuale” diverrà una parte inevitabile della sua sopravvivenza in Europa. In realtà, la linea netta che la politica di Amnesty traccia tra adulti consenzienti e minori sfruttate non esiste. Quel che esiste è la traiettoria di un individuo vulnerabile in cui l’abuso sessuale diventa normalizzato e si consente alla violenza sessuale.

L’invito di Amnesty alle donne più vulnerabili a acconsentire alla violenza e all’abuso della prostituzione è diventato possibile solo perché molti professionisti l’hanno abilitato. E’ diventato un truismo (Ndt: una cosa assolutamente palese e ovvia), ripetuto da accademici e ong, che la prostituzione sia una forma di impiego. Che il commercio di sesso sia chiamato la più antica professione del mondo è ora non solo politicamente corretto, ma la prospettiva obbligatoria da sostenere se ti curi dei diritti umani. Amnesty e i suoi alleati rassicurano anche tutti dicendo che la prostituzione è una scelta. Ammettono che non si tratta della prima scelta per chi ne ha altre, ma per i più marginalizzati e svantaggiati gruppi di donne è proposta come una via accettabile per uscire dalla povertà. In linea con questa posizione Kenneth Roth, il direttore esecutivo di Human Rights Watch ha dichiarato nel 2015: “Tutti vogliono mettere fine alla povertà, ma nel frattempo perché negare alle donne povere l’opzione del lavoro sessuale volontario?”

E’ anche divenuto largamente accettato dal settore dei diritti umani che a danneggiare le donne nella prostituzione è lo stigma. Anche se sappiamo tutti che è il trauma di sospendere la tua autonomia sessuale che occorre in ogni atto di prostituzione a danneggiare e che è il cliente maschio violento a uccidere. Se cercate fra le donne migranti una “sex worker” uccisa dallo stigma non la troverete mai: ciò che troverete è il compratore di sesso che l’ha assassinata, l’industria del sesso che ha creato l’ambiente atto a far accadere questo e i sostenitori dei diritti umani, come Amnesty, che hanno chiuso un occhio.

Le donne arrivano in Europa a causa di disperato bisogno economico e, in numero sempre crescente, temono per le loro vite. Se lasci la scrivania dove fai le ricerche e parli con le donne migranti – le donne arabe, le donne africane, le donne indiane, le donne che vengono da Filippine, Cina e Russia – la possibilità di trovarne una che descriva la prostituzione come “lavoro” è estremamente bassa. Questo perché il concetto di “sex work” non esiste nelle culture da cui noi proveniamo. Proprio come il resto del vocabolario neoliberista, è stato importato nel resto del mondo dalle economie occidentali capitaliste e spesso incanalato tramite l’aiuto umanitario, la riduzione del danno e i programmi di prevenzione per l’AIDS.

Una di queste economie capitaliste in Europa è la Germania, dove la soddisfazione sessuale maschile, proprio come le cure odontoiatriche, può essere apertamente acquistata. Il modello con cui la Germania regola la prostituzione è derivato dalla decriminalizzazione del commercio di sesso nella sua interezza, seguita dall’implementazione di alcune regole. In questo aperto mercato, i compratori di sesso e i magnaccia non sono riconosciuti ne’ come perpetratori ne’ come sfruttatori. Nel periodo fra il 6 e l’11 novembre 2016 quattro prostitute sono state assassinate in Germania. Sono state assassinate in sex club privati, appartamenti-bordello e in ciò che i tedeschi eufemisticamente chiamano “semoventi dell’amore”, cioè roulotte situate in località remote e non protette, gestite da magnaccia e visitate dai compratori di sesso. Almeno tre delle vittime sono state identificate come donne migranti (da Santo Domingo e dall’Ungheria) e per tutte e quattro i sospetti dell’omicidio sono i loro “clienti” maschi.

Stante l’evidenza schiacciante che la completa decriminalizzazione del commercio di sesso non protegge nessuno eccetto i compratori e i magnaccia, si potrebbe concludere che Amnesty, nel prendere la sua posizione, ha trovato l’analisi politica della discriminazione sessista, razzista e di classe che sostiene la prostituzione troppo difficile da affrontare. Ma la domanda che implora una risposta è questa: non sanno nemmeno cosa il sesso è? E’ improbabile che tutti i membri del consiglio direttivo di Amnesty siano casti; di sicuro, almeno alcuni di loro hanno fatto sesso e in tal caso devono sapere che il sesso accade quando ambo le parti coinvolte lo vogliono. Quando una delle due parti non vuole fare sesso, ciò che accade si chiama “esperienza sessuale indesiderata” il che, in termini legali, è molestia sessuale, abuso sessuale e stupro.

Questa violenza sessuale è ciò che la prostituzione è, e non fa alcuna differenza se lei “acconsente”. Il consenso, secondo le leggi europee, dev’essere dato volontariamente come risultato del libero arbitrio di una persona valutato nel contesto delle circostanze in cui si trova (Consiglio d’Europa, 2011). Il consenso non dovrebbe essere il risultato del privilegio sessuale maschile, che è parte delle norme patriarcali. Un atto sessuale non desiderato non diventa un’esperienza accettabile perché l’industria del sesso dice che è così. Non c’è alcun principio morale che lo rende tollerabile per chi è povera, disoccupata, priva di documenti, per chi fugge da una guerra o da un partner violento. (…)

Decriminalizzare la prostituzione normalizza le diseguaglianze di sesso, etnia e classe già incancrenite profondamente nelle società europee e di cui le donne soffrono già in maniera sproporzionata. Aumenta le barriere legali per ottenere impieghi dignitosi che la maggioranza delle donne migranti deve già affrontare, ignorando i loro talenti e derubandole di opportunità economiche. Quel che è peggio, strappa via ciò che persino le più povere e le più svantaggiate donne migranti portano con sé quando si imbarcano in viaggi pericolosi diretti in Europa: il nostro convincimento che una vita libera dalla violenza è possibile e la nostra determinazione a lottare per essa.

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(“On surviving the Christmas holidays as a lesbian in Bulgaria” di Lora Novachkova – in immagine – per Open Democracy, 9 gennaio 2017, trad. Maria G. Di Rienzo. Lora, femminista anarchica, si è laureata all’Università di Vienna con una specializzazione in Studi di genere.)

lora

Mi trovo di nuovo in Bulgaria per le vacanza di Natale e Capodanno e sono in un luogo che si suppone essere “casa mia”, con i membri della mia famiglia omofobica che sono convinti di amarmi incondizionatamente.

L’anno scorso, all’incirca nello stesso periodo, ho dato le dimissioni dal mio lavoro come direttrice dei programmi del settore “Diritti e Movimenti LGBTI” del Centro Risorse della Fondazione Bilitis, a causa di un grave esaurimento nervoso. Ero frustrata dal vivere a Sofia, un città coperta di svastiche, e ho deciso che era ora di smettere di aver paura di essere assalita per strada. Mi sono trasferita in Spagna, dove posso di nuovo tenere per mano la mia compagna in pubblica. Tuttavia, non appena è stato il momento di far visita a “casa”, l’illusione è svanita e al suo posto è subentrata l’amara riflessione del dover fronteggiare l’omofobia della mia famiglia così come dell’intera società in cui sono cresciuta.

In maggioranza le persone LGBTI in Bulgaria sono costrette a condurre una doppia vita, o a emigrare per poter esprimere il loro orientamento sessuale più o meno liberamente. Sebbene sia difficile avere le statistiche nazionali sulle attitudini verso le persone LGBTI, i risultati di un sondaggio dell’Unione Europea del 2015 hanno mostrato che il 68% della popolazione si oppone ai matrimoni fra persone dello stesso sesso, che sono stati banditi dal governo nel 1991. La stragrande maggioranza dei bulgari vede questi desideri come malattia o devianza ma mai, per niente, come qualcosa di “naturale” (qualsiasi cosa questa parola significhi).

Ricordo il Natale del 2011, quando mi fu gentilmente chiesto dai miei familiari, che sono cristiani ortodossi come la maggioranza dei bulgari, di consultare un imam per rompere la “malvagia maledizione” che aveva fatto di me una lesbica, perché la mia famiglia crede che la mia omosessualità sia il risultato di magia nera. Ironicamente, i miei genitori non riuscirono a spiegare al tipo di cosa erano preoccupati e si aspettavano che lui lo “vedesse” in qualche modo. E’ una pratica assai diffusa, in Bulgaria, consultare imam di origine turca quando c’è il sospetto di essere sotto l’influenza di magia nera. Normalmente, vai a casa dell’imam e gli lasci una donazione per il suo lavoro. Non so se quello in questione fosse in grado di “vedere” il “problema”, ma pare che il suo lavoro non raggiunse il risultato sperato. Perciò, la procedura dovette essere ripetuta nel 2014.

Questa volta consultammo una “vrachka”, un’indovina di sesso femminile in grado anche di rompere incantesimi. Mi chiese perché, dopo aver avuto un ragazzo per alcuni anni, ho cominciato a uscire con le ragazze. Pensò che la mia risposta non fosse convincente, ma non sentivo il bisogno di arrivare a farle capire qualcosa.

Mentre facevo ricerche per la mia tesi di laurea, in cui indagavo le interconnessioni fra l’omofobia sociale e quella familiare in Bulgaria, mi sono imbattuta in storie simili raccontate da molte altre lesbiche. Io visitai questi “consulenti” perché ero per lo più curiosa come ricercatrice ma anche se non l’avessi fatto i miei genitori avrebbero comunque visto la mia omosessualità come l’influenza di un oscuro incantesimo. Un consulto psicologico è anche, tristemente, non la risposta perché in Bulgaria queste istituzione non possono garantire uno spazio sicuro a causa della natura del soggetto. Ovviamente, in tale contesto omofobico, ci sono un mucchio di psicologi incompetenti che fanno affari non etici rinforzando l’omofobia e traumatizzando le giovani persone LGBTI che dovranno poi affrontarne le conseguenze per tutta la vita. Poiché in Bulgaria non ci sono telefoni amici o qualsiasi altra risorsa pubblica per venire incontro alle necessità delle persone LGBTI, siamo in pratica lasciati a gestire il processo da soli, nei modi in cui possiamo farlo. In simili circostanze (senza l’aiuto di specialisti), la reazione familiare diventa assolutamente cruciale nella percezione che un individuo ha di se stesso.

Tornando alle mie riflessioni sul Natale, non è stato un periodo allegro. Lo sforzo mentale di sopprimere la rabbia verso l’ignoranza della propria famiglia è duro, e dover recitare il ruolo di una persona felice di essere tornata a “casa” non lo rende meno pesante. Per me, questo mondo ha perso il suo significato quando un paio d’anni fa tornai in Bulgaria da Berlino con la mia ragazza e ci fu richiesto di non venire a “casa”. Stavamo insieme da tre anni, e avevamo trascorso metà di questo tempo a Sofia, ma ciò non ha indotto i miei genitori a volerla conoscere. Mia madre non ha mai messo piede nel nostro appartamento. Mio padre osò farlo, ma solo quando lei non c’era. Quando lo incontravo, dovevo raggiungere il posto dove si trovava da sola. La legittimazione per la “mancanza di simpatia” della mia famiglia nei suoi confronti è che lei è più vecchia di me di tredici anni. Come sappiamo, l’omofobia raramente arriva da sola. Più spesso che no, si intreccia con il sessismo, con i pregiudizi sull’età, eccetera.

La scorsa estate i miei genitori mi fecero visita in Spagna. Ero sinceramente entusiasta della loro visita perché per me significava che, per la prima volta, avrebbero incontrato una mia compagna. Chiedemmo perché accettavano di incontrare lei, ma non la mia ex partner con cui ero stata tre anni. Sarebbe stato meglio non chiedere. Mio padre spiegò che l’età della mia compagna precedente lo aveva indotto a concludere che lei era veramente una lesbica, ma poiché la mia compagna attuale ha nove anni meno di me, loro vedevano la nostra relazione come l’esperimento di una persona giovane. Ero sconvolta, offesa e volevo urlare, ma invece ho dovuto sopportare perché quello era solo il primo giorno e dovevano passarne altri quattro. Dopo di ciò, volammo in Bulgaria, dove mi avvisarono di non portarla.

Questo accadde in estate e ora è inverno, nulla è cambiato. La mia compagna e io siamo nella stessa città per Natale e Capodanno, ma ne’ io ne’ lei possiamo portare l’altra a “casa”. Mi chiedo: quante coppie omosessuali smettono di tenersi per mano non appena atterranno all’aeroporto di Sofia?

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walk a mile

“Walk a Mile in Her Shoes” (“Cammina un miglio nelle scarpe di lei”) è un’iniziativa nata da un’idea di Frank Baird che va avanti ormai da anni: gli uomini indossano scarpe femminili e camminano letteralmente per la distanza suddetta. La marcia è un modo per suscitare consapevolezza e una protesta contro violenza sessuale e domestica, durante la quale si raccolgono fondi per i centri antiviolenza e i rifugi per le donne in pericolo e così via.

Durante il 2014 queste marce si sono tenute in numerose città statunitensi, ma anche a Sofia in Bulgaria; a Dbayeh in Libano; a Lusaka in Zambia; a Launceston in Cornovaglia, a Port of Spain – St. George in Trinidad; a Camrose, Whitecourt, Brooks, Ottawa e Toronto in Canada, a Thokoza in Sudafrica; a Brisbane in Australia; a Ginowan – Okinawa, Giappone…

Spesso gli uomini partecipanti lasciano a memoria dell’iniziativa brevi poesie e riflessioni: ne ho usate alcune per legare insieme le immagini dei loro simili che usando il “mettiti nei suoi panni” protestano contro la violenza di genere in tutto il mondo. Gli scritti sono anonimi – ringrazio chi li ha creati e resi disponibili -, la traduzione è mia. Maria G. Di Rienzo

no a tutte le forme di violenza

Uomini afghani in burka, 2015

Lei non sa com’è sopravvissuta sino ad ora

da dove ha tirato fuori la volontà e la forza.

E tu non sai nulla guardandola,

nulla delle sue fatiche e delle sue difficoltà,

sino a che non fai un passo nel suo mondo,

e cammini nelle sue scarpe.

uomini turchi

Uomini turchi in gonna, 2015

Cammina un miglio nelle sue scarpe

e finirai per provare la sua malinconia.

Guarda il mondo attraverso i suoi occhi.

Come ti senti ad ascoltare tutte le bugie?

uomini kurdi

Uomini curdi in abiti femminili, 2014

Tutto quel che volevamo,

mettendo le sue scarpe,

era mostrarle che a noi importa,

che può alzarsi in piedi e non aver paura

e che non deve fingere di sorridere,

se il sorriso non è quel che ha dentro.

in her shoes 2013

Uomini statunitensi, 2013

Salta dentro le sue scarpe

Nuota nel suo oceano

Fai un passo

Cammina con lei

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(Intervista a Mimi Chakarova, di Bryan Shih per Women in the World Foundation, 2 ottobre 2012, trad. Maria G. Di Rienzo)

 

Nel 1990, quando aveva 13 anni, Mimi Chakarova emigrò con la madre dalla Bulgaria agli Stati Uniti in cerca di una nuova vita. Quando si recò in visita al suo paese, due anni più tardi, scoprì che molte delle sue coetanee erano pure emigrate con lo scopo di trovare un lavoro e sostenere economicamente le loro famiglie impoverite. Di parecchie non si sapeva più nulla. Mimi pensò allora che era molto strano non mantenessero il contatto con i propri parenti, quando erano di sicuro spaesate in quelle terre straniere, ma genitori e nonni le dicevano che davvero non sapevano dove fossero le loro figlie e nipoti.

Passarono altri anni e nella seconda metà dei ’90 l’attenzione di Mimi fu attratta dai servizi giornalistici sulla crescente industria del sesso che si diffondeva dall’Europa dell’est. I suoi pensieri tornarono in Bulgaria, alle ragazze che aveva conosciuto mentre cresceva. Era possibile che ad alcune di loro fosse accaduto proprio quello che i servizi riportavano? Ormai una fotogiornalista con esperienza di zone di conflitto, Mimi pensò che la questione meritava ulteriori indagini. Il contenuto salace di quei pezzi, spesso scritti in tono voyeuristico da giornalisti maschi che fingevano di essere clienti, la disturbava: “Mi dissi che invece di star là a leggere e lamentarmi e scuotere la testa, dovevo provare ad andare più in profondità.” E così fece, lavorando per quasi dieci anni al suo progetto di giornalismo investigativo e producendo tra l’altro un documentario che ha già vinto dei premi, “Il prezzo del sesso”.

Il titolo del tuo progetto, “Il prezzo del sesso”, è semplice ma efficace. Perché lo hai scelto, cosa significa per te?

Nel 2006 stavo lavorando ad una storia per Frontline World sul traffico di esseri umani a Dubai. Incontrai i produttori per chiarire alcuni dettagli e loro mi dissero: “Allora, come si chiamerà il tuo servizio?” Io non avevo ancora scelto un titolo e loro continuarono: “Be’, comunque lo chiami assicurati di metterci dentro la parola sesso.” Mentre ero alla guida dell’auto per tornare a casa mi ripetevo: “E’ disgustoso. Non posso crederci.” Ma questo mi ha costretta a riflettere su una cosa che ha molteplici significati. Per esempio, qual è il prezzo del sesso? Il prezzo del sesso è ciò che un bel po’ di queste donne hanno pagato. E’ la degradazione del loro spirito. Questo è il prezzo che hanno pagato per essere vendute.

Il tuo progetto multimediale fornisce molte risorse per comprendere la questione del traffico di esseri umani, ma che impatto ha avuto il filmato sulle sue protagoniste?

Le ragazze che appaiono nel film non hanno accesso ad internet. Devi capire le condizioni in cui vivono. Non è che possono accendere un portatile e andare a vedere. Ma una di loro, Jenea, aveva bisogno urgente di serie cure mediche: molti di quelli che hanno visto la sua storia nel documentario hanno mandato donazioni e Jenea ha potuto affrontare l’intervento chirurgico. Per cui anche se non conoscono il prodotto finito sono consapevoli che c’è un ritorno dall’aver raccontato le proprie storie.

Non abbiamo chiuso il film su una nota ottimistica o speranzosa, anche se avremmo potuto, perché sarebbe stata in gran parte falsa: non avrebbe mostrato le altre donne in situazioni simili le cui storie non sono udite. Gran parte di loro non sopravvivono. Non possono raccontare le loro vicende. Nello strutturare un messaggio indirizzato alla comunità globale io penso si debba avere un tono realistico. E questa è stata la critica principale fatta al film, e cioè che si tratta di un documentario davvero “pesante”. E lo è per via della materia che tratta: le vite delle persone sono distrutte e non è semplice rimetterle insieme dopo che sono state spezzate tante volte.

Una delle critiche in generale ai servizi sul traffico a scopo sessuale è che distolgono l’attenzione da altri traffici di esseri umani, per esempio il traffico di lavoratori, solo perché trattano di sesso. Tu cosa ne dici?

Io penso sia vero, penso che il traffico di lavoratori esista su una scala enormemente più grande. Ma penso anche che questo tipo di traffico è molto più difficile da documentare perché è letteralmente dappertutto: fabbriche, campi, case. Accade con le domestiche, che spesso sperimentano pure abusi sessuali. So bene che il traffico di lavoratori ha definitivamente bisogno di maggior copertura giornalistica, ma ognuno sceglie le proprie battaglie.

La gente mi ha anche chiesto: “Perché non sei andata in altri luoghi, perché ti sei concentrata sull’Europa dell’est, la Turchia e Dubai?” Perché avevo connessioni e contatti in questi luoghi. Dopo la caduta del comunismo le cose sono cambiate drammaticamente. Girare il documentario mi ha dato l’opportunità di indagare qualcosa che mi interessa, che credo dovrebbe far riflettere tutti, e cioè i sistemi sociali. Cosa accade quando un sistema sociale collassa? Che ne è delle questioni di genere? Come ci trattiamo l’un l’altro? Come sono trattate le donne? Nell’Europa dell’est e nei Balcani le società sono assai patriarcali, e allora in che modi le ragazze sono trattate diversamente dai ragazzi? Perché questi genitori non stanno facendo domande sulle loro figlie scomparse, perché non fanno le domande che farebbero se a scomparire fossero stati i loro figli maschi? Tutto questo, genere, opportunità economiche, sistemi sociali, che degradano e si dissolvono, è molto più interessante da indagare, per me.

Dopo dieci anni di lavoro sul traffico a scopo sessuale quanto pensi di occupartene ancora? Come ti ha toccato personalmente?

Sicuramente non farò questo per il resto della mia vita. E’ qualcosa che ti cambia. Che ti si attacca addosso. Le mie colleghe che hanno passato solo due settimane a leggere e far ricerche ogni giorno sul traffico di esseri umani e sullo stupro mi hanno detto che avevano gli incubi e che la cosa le stava angustiando troppo. Adesso tu moltiplica questo per dieci anni, e non si tratta solo di leggere ma di parlare con le persone e di andare in certi posti. Finisci per sviluppare il terrore che qualcosa di terribile ti accadrà, perché incontri costantemente persone a cui cose terribili sono già accadute. Ti investe ad un livello assai profondo. Per cui, se dovessi continuare a lavorare solo in quest’area non so quanto bene potrei fare alle persone o al mio stesso lavoro.

Mi piacerebbe espandere le ricerche, aggiungere gli altri due elementi sovrani del profitto, le armi e le droghe, e chiudere il triangolo. I giocatori chiave di tutte e tre le partite sono gli stessi: i paesi che beneficiano maggiormente del traffico di armi e droghe sono gli stessi che trafficano donne, le reti criminali sono le stesse.

Come trovi bilanciamento nella tua vita, cosa ti sostiene?

Mi piacerebbe davvero saper meditare. Ho colleghi e colleghe che maneggiano soggetti difficili e so che lo yoga e la meditazione li aiutano molto. Io maneggio la mia rabbia, la mia frustrazione e la mia ansia facendo pugilato.

Ho cominciato ad allenarmi perché volevo avere la forza di andare in posti non sicuri durante il mio lavoro da reporter. Sapevo che se accadeva qualcosa niente poteva tirarmene fuori, perché non ho protezioni e nessuna squadra alle spalle, per cui avevo bisogno di sentirmi forte, in grado di entrare in situazioni difficili ed uscirne bene. Faccio boxe da sei anni, anche eccessivamente. Il mio rilassarmi è un processo in cui rendo esausti corpo e mente, proprio l’opposto della meditazione e dello yoga, ma sembra che per me funzioni.

http://www.mclight.com/slideshow.html

Ndt: All’indirizzo riportato sopra potete vedere lo slideshow del documentario, che si apre con queste parole: “Quando ero piccola, mia madre mi disse che quando piove e contemporaneamente esce il sole una prostituta partorisce. Il sole è il bambino, le gocce di pioggia sono le lacrime della madre. – Rima”

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