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Posts Tagged ‘afghanistan’

Ogni volta in cui il “progressista” papa in carica apre la bocca in materia di relazioni fra uomini e donne – e dei rispettivi ruoli sociali – infila perle di medioevo senza che nessuno dei giornalisti / commentatori riesca a contestualizzarne e contestarne neppure una. E’ ovvio, dicono, che Bergoglio si esprima in tal modo, è questa la dottrina della chiesa cattolica.

Così, l’aborto “è di moda”, praticato da “nazisti in guanti bianchi” su donne che vogliono una “vita facile” e respingono i bambini “mandati da dio” con qualche difetto: portare avanti una gravidanza per dare alla luce una creatura che morirà a causa di una grave malformazione congenita non appena partorita (come per l’anencefalia, decesso sicuro al 100%) o che vivrà un’esistenza breve e tormentata è meglio, dio e Bergoglio sono contenti – dopotutto, non è toccato a loro.

Poi, sempre durante lo stesso pistolotto rivolto al Forum delle Famiglie (un plurale che il papa non gradisce e che ha subito “corretto”) ha lodato quelle che fanno finta di niente mentre i loro mariti si puliscono il didietro con i voti coniugali: “Una cosa che nella vita matrimoniale aiuta tanto è la pazienza, sapere aspettare. Ci sono nella vita situazioni di crisi forti, brutte, dove anche arrivano tempi di infedeltà”. Di qui, la lode di Francesco alla “pazienza dell’amore che aspetta. Tante donne, ma anche l’uomo talvolta lo fa, nel silenzio hanno aspettato, guardando da un’altra parte, aspettando che il marito tornasse alla fedeltà. La santità che perdona tutto perché ama.”

A questo punto vorrei mandarlo al cinema. A New York, tanto a lui i soldi per il viaggio e il biglietto non mancano, al Film Festival di Human Rights Watch (14 – 21 giugno 2018), per vedere “Un migliaio di ragazze come me”.

A Thousand Girls Like Me

E’ un documentario su una giovane donna afgana, la ora 23enne Khatera – in immagine nel poster – che la regista Sahra Mani presenta così: “Ogni donna in questo paese ha un centinaio di proprietari. Padri, fratelli, zii, vicini di casa: tutti credono di avere il diritto di parlare per noi e di prendere decisioni al nostro posto. Questo è il motivo per cui le nostre storie non sono mai udite, ma vengono seppellite con noi.” La religione è diversa, ma i fondamenti patriarcali sono gli stessi.

Khatera è stata presa a botte e abusata sessualmente da suo padre per più di 13 anni. E’ rimasta incinta e ha abortito innumerevoli volte. Due figli, una femmina e un maschio, li ha messi al mondo. Come da precetti suggeriti da Bergoglio, è stata molto paziente. Sua madre ha cercato di guardare da un’altra parte. Hanno aspettato, immerse ogni singolo giorno in un dolore letteralmente inenarrabile – non dovevano parlare, perché la vergogna e la condanna sarebbero ricadute su di loro. E la violenza non è finita.

Non è finita sino a che Khatera ha denunciato il suo stupratore ed è riuscita a mandarlo in galera. Lei e sua madre ricevono a tutt’oggi minacce di morte dai parenti per aver “rovinato la loro reputazione”. Tollerare l’abuso e la sofferenza, scusando e legittimando con ciò il comportamento dei perpetratori maschi, è il consiglio che non solo il papa cattolico, ma sistemi giudiziari e attitudini socio-culturali sessiste danno alle donne in tutto il mondo. Può darsi che ciò le renda “sante” agli occhi di qualche dio, ma noi non possiamo farci carico delle vostre fantasie, signor Bergoglio, in quelle che sono le nostre esistenze reali e anche se ci aspetta l’inferno dopo la morte (del che molte di noi dubitano seriamente) preferiamo mettere fine all’inferno in cui sono state trasformate le nostre vite.

Maria G. Di Rienzo

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Free Women Writers – Libere Donne Scrittrici, è un gruppo che lavora per migliorare le vite delle donne afgane tramite l’attivismo, la narrazione e l’istruzione. Traggo dal loro sito:

“Secoli fa, Rabia Balkhi fu uccisa da suo fratello, un re, per l’essersi innamorata di uno schiavo, l’aver osato scrivere poesia e sognare un mondo diverso. Lei simboleggia le donne dell’Afghanistan perché ha spezzato molte tradizioni misogine facendo sentire la sua voce e perché ha scosso l’inumano sistema classista del suo tempo amando uno schiavo. E’ perché lei alzò la voce allora che noi possiamo alzarla oggi. Lei esemplifica la nostra lotta per l’eguaglianza di genere, la giustizia sociale e l’istruzione. Il nostro primo libro lo abbiamo intitolato “Figlie di Rabia” per onorare questa donna coraggiosa che fu anche la prima poeta nota a scrivere versi in persiano: è una collezione di testi di donne afgane in difesa dei nostri diritti umani ed è stato pubblicato nel 2013. (…)

Oggi siamo estremamente entusiaste di condividere con voi la nascita del nostro secondo libro. Si chiama “You Are not Alone – Non sei sola” ed è una guida per le donne che si trovano a fronteggiare la violenza di genere.

You-Are-Not-Alone

(la copertina)

Il libro deriva da anni di ricerca, di interviste con le sopravvissute alle violenza e dalle nostre esperienze di donne e sopravvissute. Tramite esso condividiamo le lezioni apprese in quattro anni di lotte per la libertà e per la sicurezza. Smantelliamo anche i molti miti che continuano a circondare le conversazione sulla violenza di genere.

Ma la cosa più importante è che lo abbiamo scritto per rassicurare te che, se sei una sopravvissuta alla violenza, non è colpa tua. Tu non meriti di vivere nella violenza. Non hai fatto nulla per causarla. Non sei responsabile delle azioni compiute da chi abusa di te. Tu hai il diritto di vivere felicemente e di essere amata, apprezzata e rispettata.

Tu non sei definita dalla violenza che hai fronteggiato o che continui a fronteggiare. Tu sei un completo essere umano nato con l’inalienabile diritto di avere il controllo sul tuo corpo e di vivere una vita priva di violenza fisica, sessuale, emotiva e priva di intimidazioni. E non sei sola nel tuo viaggio verso la libertà.”

L’originale in persiano è leggibile online: https://www.freewomenwriters.org/

Una traduzione approssimativa (secondo le Autrici) del testo in inglese può essere richiesta a: akbarnoorjahan@gmail.com

Maria G. Di Rienzo

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(“If Every Woman Were Happy & Free”, della 18enne Haya per Afghan Women’s Writing Project, 28 febbraio 2016, trad. Maria G. Di Rienzo.)

ragazza afghana

Nella mia società, in Afghanistan, le donne sono considerate inferiori agli uomini. Le donne lottano per i loro diritti e nella maggior parte delle aree sono ancora considerate praticamente delle schiave. In alcuni distretti una donna non ha diritto all’istruzione o nemmeno di mettere un piedi fuori dalla porta di casa sua.

Nella mia società, le famiglie sono infastidite quando nasce una bambina. Ho sentito persone a cui era appena nata una figlia dire: “Come vorrei aver avuto un maschio.” Ho visto famiglie dare feste quando nasce un figlio ma ben poche lo fanno quando nasce una figlia. Ho visto famiglie dare via figlie appena nate, perché non volevano femmine. Ho chiesto a varie persone perché le loro figlie non gli piacciono, ma non ho mai avuto una risposta sensata.

Le donne sono ritenute responsabili per ogni cosa storta in Afghanistan. Se una famiglia scopre una relazione proibita fra una ragazza e un ragazzo, uccide la ragazza e il ragazzo se ne va libero. Se l’amore è un peccato, non dovrebbe esserlo per ambo le persone? E se non ha importanza per il ragazzo, perché dev’essere la ragazza a pagare?

In alcuni posti, alle donne non è permesso mangiare sino a che i loro mariti non hanno finito di farlo. Se il marito non vuol mangiare, neppure loro possono farlo. Questo accade più di frequente nelle zone rurali, dove la gente non è istruita e le donne sono come macchine che si vendono e comprano.

Quando una donna condivide le sue idee su qualcosa, gli uomini non ascoltano. Dicono: “E che, adesso dobbiamo ascoltare una donna?” Io posso condividere le mie idee apertamente con la mia famiglia, ma all’università o al lavoro è diverso. Le mie amiche e io non siamo ascoltate. Ci spingono ad accettare le idee degli uomini solo perché sono uomini. Alcuni di loro pensano che ascoltare una donna o chiedere la sua opinione sia una vergogna o persino un insulto, per loro. Pensano che accettando un consiglio da una donna perdono il rispetto degli altri.

A volte penso che questa diseguaglianza andrà avanti per sempre. Verrà il tempo in cui saremo trattate da eguali? La mia famiglia sostiene i miei studi, ma conosco molte ragazze che non sono così fortunate. Io mi considero fortunata, ma ci sono cose che anche la mia famiglia non permette. I miei parenti non mi lascerebbero mai andare a studiare all’estero o vivere in un’altra città senza di loro.

Io credo che sia gli uomini sia le donne dovrebbero avere autorità sulle loro proprie vite. Non voglio che nessuno forzi qualcun altro a fare cose che non desidera, com’è per i matrimoni forzati. Dovremmo cambiare la cultura per cui le ragazze sono forzate a sposarsi prima di compiere 18 anni. Non voglio altre adolescenti picchiate dai mariti.

Se le ragazze non fossero costrette a sposarsi così giovani, la percentuale di decessi duranti il parto sarebbe minore. Le vite di molte giovani ragazze sarebbero salvate. Se le ragazze non fossero costrette a sposare uomini di vent’anni più vecchi, il tasso di suicidi scenderebbe.

Se ogni donna fosse felice e libera di far quel che desidera, avremmo una società più sviluppata e più pacifica.

Girl Scouts afgane negli anni '50 dello scorso secolo: si è persa la "tradizione", eh?

Girl Scouts afgane negli anni ’50 dello scorso secolo: si è persa la “tradizione”, eh?

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Calendario alternativo per il 2016. Perché sono arcistufa di immagini di donne in pose contorte, “photoshoppate”, con le lingue penzoloni e le mutande di lustrini. Sono nauseata dal suggerimento sotteso che le donne “non servono ad altro” e “non sanno fare nient’altro”. Perciò, eccovi: IL LAVORO DELLE DONNE – 12 mesi 12 di persone che mi/vi somigliano. Maria G. Di Rienzo

GENNAIO dedicato a Sara Bahai, la prima tassista afgana che lavora per le donne a cui non è consentito prendere taxi senza permesso di un parente maschio di primo grado.

sara bahai

FEBBRAIO dedicato alla meccanica spagnola al lavoro su una turbina d’aereoplano in quel di Aoiz, Navarra.

meccanica spagnola

MARZO dedicato a Mahboubeh Khoshsolat, membro dell’unica squadra femminile di vigili del fuoco in Iran.

mahboubeh khoshsolat

APRILE dedicato a Cristina Isidro Salazar (sinistra) e Felicitas Contreras Santiago (destra) qui ritratte mentre riparano il furgone con cui consegnano legna ai cantieri della loro città, San Pablo Huixtepec, Messico.

cristina e felicitas

MAGGIO dedicato all’operaia tessile francese impegnata al telaio del lino.

operaia francese

GIUGNO dedicato alla carpentiera palestinese Amal Abu-Rqayiq, che lavora nel campo profughi di Nusseirat a Gaza.

Amal Abu-Rqayiq

LUGLIO dedicato a Liu Shujian, saldatrice ultranovantenne cinese ancora al lavoro.

Liu Shujian

AGOSTO dedicato alla sigaraia in pausa dentro la fabbrica di Havana, Cuba.

sigaraia cubana

SETTEMBRE dedicato alla raccoglitrice di tè Oolong sulle colline di Chang Rai, Thailandia.

raccoglitrice thailandese

OTTOBRE dedicato all’ingegnera tedesca che sta costruendo un motore alla fabbrica Mercedes di Affalterbach.

ingegnera tedesca

NOVEMBRE dedicato alle pallequeras, minatrici peruviane che scavano oro in quel de La Rinconada.

minatrici peruviane

DICEMBRE dedicato all’operaia al lavoro nella fabbrica di mattoni fuori Islamabad, Pakistan.

operaia pakistana

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nuovo album fereshta

Prendi il bambino e scappa (“Take the baby and run”, testo e musica di Fereshta, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Ricordi, il giorno in cui cominciò la guerra

la confusione del coprifuoco, il dolore e la violenza

Ricordi, le lacrime negli occhi dei nostri genitori

Abbiamo fatto i bagagli, detto i nostri ultimi saluti

Tu prenderai il bambino e fuggirai

Prendi la mia vita, scappa e basta

Lo sai che questi soldati uccideranno tutti

Prendi il piccolo e fuggi

Prendi la mia vita, scappa e basta

E promettimi, ragazza, che non guarderai mai indietro – amore mio

Diamo i soldi a un contrabbandiere e preghiamo

che ci tiri fuori da questo guaio, che ci porti in una terra di possibilità

Camminiamo nel deserto, vediamo quelli che hanno tentato di scappare

Lasciamo il resto a dio, con angoscia e speranza preghiamo

Penso a tutto quello che abbiamo fatto,

dolci picnic nel sole primaverile

il giorno del nostro matrimonio e tutto il divertimento

e ora – siamo giovani e in fuga

fereshta

Fereshta è una musicista rock e un’attivista per la pace. E’ nata in Afghanistan, ma i suoi genitori fuggirono dal paese in guerra con lei piccolina fra le braccia. Per un po’ hanno vissuto in Pakistan, poi si sono trasferiti negli Stati Uniti.

I miei genitori – racconta Fereshta – crebbero in un Afghanistan ben diverso da quello che vediamo oggi nelle notizie. Le donne indossavano abiti di stile europeo, andavano a scuola, al lavoro, partecipavano attivamente alla vita delle loro comunità. Mia madre giocava nella squadra di basket della sua università. Mio padre e i suoi amici legavano i loro strumenti orientali dietro le motociclette e andavano nei posti in cui c’erano giovani europei in vacanza, così da poter suonare insieme. Gli armonium (tastiera di piccole dimensioni), i tabla (tamburi) e i rebab (strumento ad arco antenato del violino) trovavano ritmi per accordarsi alle chitarre acustiche occidentali.

Io credo che la musica, nella sue forme ed espressioni migliori, sia la voce dell’umanità. Muove i nostri cuori in modo potente e ci guarisce.”

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(“Meet the Badass Afghan Politician Who Ran Against Her Husband and Won”, di Natasha Noman per World Mic, 17 luglio 2015, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo.)

Shukria Barakzai

Shukria Barakzai ha sopportato un aborto dovuto ad un’aggressione dei talebani, un marito segretamente poligamo, pestaggi in strada da parte degli estremisti, un’aggressiva campagna d’opposizione da parte di quello stesso marito e molteplici tentativi di assassinarla. Una sola di queste cose basterebbe a fermare la maggior parte delle persone comuni.

Ma Barakzai non è una persona comune. E’ una donna politica femminista che sta dando nuova forma al panorama sociale e politico dell’Afghanistan.

Entrare in politica non è stata tanto una decisione che lei ha preso, ma una decisione a cui l’hanno spinta le circostanze, ci ha detto, consapevole che il ruolo che voleva giocare e la persona che voleva essere nella società afgana richiedevano la sua partecipazione civica e ciò comportava il confrontarsi con le istanze della sua vita personale.

Mentre Barakzai faceva campagna per i diritti delle donne suo marito, che lei in precedenza definiva il suo “migliore amico”, si prese una seconda moglie senza farglielo sapere. “Non so se dovrei dire che si è trattato del peggior incidente della mia vita o di un altro momento di risveglio, perché io ero e sono contraria alla poligamia.”, dice Barakzai. Scoprì della seconda moglie non tramite suo marito, ma tramite i pettegolezzi.

All’epoca, lei si stava battendo contro i suoi colleghi maschi nel Comitato per la redazione della Costituzione sull’eguale trattamento delle donne davanti alla legge. L’ironia della sua vita personale non fece che aggiungersi alle umiliazioni che già subiva. Ma continuò la campagna e quando arrivarono le elezioni parlamentari del 2005 e alle donne fu permesso parteciparvi, Barakzai si candidò con lo scopo di influenzare il cambiamento verso l’eguaglianza di genere – una campagna che includeva la promessa di mettere fuori leggi pratiche misogine come la poligamia. Suo marito fu uno dei principali avversari maschi candidati allo stesso seggio.

“Era un multimilionario, allora. Ha speso mezzo milione di dollari americani per la propaganda elettorale, mentre io ero una donna povera con un microfono e un megafono. Ho fatto la mia campagna per le strade. Ancora oggi non è facile per una donna andare per strada con un megafono a chiedere democrazia, spiegare le elezioni e chiedere ad uomini e donne di votare una donna.” Però funzionò. “Fortunatamente ebbi il triplo, forse anche il quadruplo di voti di mio marito.”, dice Barakzai in un tono da “è un dato di fatto”. Pensa che la sua vittoria sia stata dovuta al fatto che non ha usato slogan, costruendo la campagna su due semplici idee: diritti e giustizia. “Abbiamo tutti sete di questo. La giustizia, per noi afgani, è come l’ossigeno.”

Barakzai ha lottato da ben prima di avere una carica politica. E’ stata galvanizzata ad entrare in azione anni prima di diventare una donna politica. Dopo che i talebani la picchiarono in strada perché non era accompagnata da un parente maschio, Barakzai ebbe un risveglio. Ricorda tutta una serie di emozioni legate a quel giorno: “Ero tristissima e arrabbiata, ho pianto parecchio. Ma ricordo che, quando mi sono rialzata in mezzo alla strada, sentivo il doppio di energia. E quell’energia costruì il mio futuro: essere qualcuno che si oppone all’ingiustizia e lotta per l’eguaglianza.”

Dopo l’incidente aprì una scuola segreta per le ragazze e le sue studenti occultavano libri e quaderni sotto i loro burqa e le loro vesti, dove la polizia non era autorizzata a frugare una donna. “Quattro volte almeno i talebani vennero a casa mia, ma non hanno mai scoperto che ero io ad organizzare la scuola.”

Pure, la ribelle ha pagato un prezzo pesante per il suo attivismo. E’ stata il bersaglio di numerosi tentativi di omicidio e di minacce di morte e molti sono convinti che un buon numero di questi incidenti sono stati orchestrati dai talebani. “Ero nella mia automobile, stavo guidando per andare al lavoro in Parlamento, ma quella mattina ero un po’ in ritardo. Ricordo ancora la macchina rossa che venne addosso alla mia.”, dice dell’attentato alla sua vita del 16 novembre 2014. Nove persone morirono, ma Barakzai venne fuori dall’auto per aiutare le altre vittime mentre parti del suo corpo e dei suoi abiti erano in fiamme.

Poco dopo l’esplosione, Barakzai si rivolse pubblicamente alla nazione dall’ospedale, visibilmente ancora non guarita. Fu adamantina nel mostrare ai suoi compatrioti afgani di non essere sconfitta e che, per quanto gli estremisti cercassero di terrorizzarla, lei non avrebbe lasciato cadere nel silenzio la propria voce. Sperava che l’immagine della sua sfida avrebbe ispirato il paese a non capitolare davanti alle minacce fondamentaliste.

Nel giugno scorso, Barakzai ha incontrato una delegazione talebana ad Oslo, in Norvegia, per negoziare e discutere la possibilità di un accordo che includa eguali diritti per tutti gli afgani. Descrive l’incontro come una decisione difficile, presa dopo anni di oppressione, pestaggi in pubblico e tentativi di omicidio (uno dei quali comportò come già detto un aborto) a cui l’avevano sottoposta. “Mi chiedevo se ero preparata o no, se ero pronta o no… C’era troppa rabbia dentro di me, perché a causa loro io ho perso due figli, a causa loro il paese è diviso.” E precisamente per l’ultimo motivo Barakzai si è forzata ad andare, ad andare a fare la Storia, vista la rarità di talebani che negozino con donne. Ha lasciato Oslo avendo chiarito che la pace – l’abbandono delle armi – era una condizione non negoziabile. Aveva bisogno di dare al minimo questo, al suo paese, visto quanto tempo ha speso e spende come politica lavorando su pace e stabilità.

I talebani e le legislatrici afgane hanno concluso i colloqui sul muto accordo che il dialogo fra le due parti deve restare aperto per potersi muovere in avanti. La sola decisione di incontrarsi è stata di per sé tremendamente simbolica, segnalando la possibilità che il governo afgano e i talebani arrivino ad un accordo di pace. L’opposizione talebana al governo esistente impantana il paese nella violenza; dati i trascorsi del gruppo sull’eguaglianza di genere, la volontà di incontrare donne politiche è un segno di speranza per molti. E’ anche la testimonianza di quanto Barakzai ha avuto successo nel diventare una voce autorevole nel panorama politico afgano.

Barakzai non mostra segni di voler lasciar perdere o di voler rallentare. L’Afghanistan è stato deprivato di modelli femminili ispirativi a causa del tumulto politico e della conseguente instabilità degli ultimi decenni. Dato l’enorme impatto che ha già provocato, si può presumere che Barakzai continuerà a sorprendere il suo paese – e il mondo – per il meglio.

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“Ho percepito subito che queste ragazze erano la storia che volevo raccontare. Grazie a loro, è stato meraviglioso tornare a casa con un senso di esaltazione da una parte del mondo di cui senti solo notizie terribili.” Così la fotografa Jessica Fulford-Dobson, nell’immagine qui sotto, spiega la sua decisione di allestire la mostra “Skate girls of Kabul”.

jessica e una sua foto

Jessica ha cominciato a fotografare le piccole skaters afghane nel 2013 con l’appoggio di “Skateistan”, una ong impegnata a sostenere la gioventù del paese tramite istruzione e sport. La settimana scorsa, la sua mostra ha fatto sensazione a Londra.

“E’ molto raro trovarsi in un posto dove vedi 300 ragazzine insieme sugli skateboard. – racconta ancora la fotografa – Il minibus dell’associazione passa a raccoglierle e quando arrivano al parco scendono correndo, più eccitate delle scolarette che vedi di solito… perché negli altri giorni della settimana queste bambine lavorano, nel mezzo dei loro studi. Se guardi le loro mani da vicino vedi i segni del duro lavoro manuale che svolgono: per le strade e nelle case.”

skaters

La maggioranza dei giovani che frequentano “Skateistan” vengono da famiglie impoverite o di basso reddito. Il 40% sono bambine e ragazze. Alcune sono piccole ribelli, altre mostrano già i segni di un’attitudine alla leadership che il progetto mira a nutrire, sullo skate tutte si comportano come se quello fosse il momento migliore della loro giornata.

“Quando le vedi volteggiare vedi in loro il potere di dire: Fatemi spazio, sto arrivando.” Maria G. Di Rienzo

skater girl afghanistan

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walk a mile

“Walk a Mile in Her Shoes” (“Cammina un miglio nelle scarpe di lei”) è un’iniziativa nata da un’idea di Frank Baird che va avanti ormai da anni: gli uomini indossano scarpe femminili e camminano letteralmente per la distanza suddetta. La marcia è un modo per suscitare consapevolezza e una protesta contro violenza sessuale e domestica, durante la quale si raccolgono fondi per i centri antiviolenza e i rifugi per le donne in pericolo e così via.

Durante il 2014 queste marce si sono tenute in numerose città statunitensi, ma anche a Sofia in Bulgaria; a Dbayeh in Libano; a Lusaka in Zambia; a Launceston in Cornovaglia, a Port of Spain – St. George in Trinidad; a Camrose, Whitecourt, Brooks, Ottawa e Toronto in Canada, a Thokoza in Sudafrica; a Brisbane in Australia; a Ginowan – Okinawa, Giappone…

Spesso gli uomini partecipanti lasciano a memoria dell’iniziativa brevi poesie e riflessioni: ne ho usate alcune per legare insieme le immagini dei loro simili che usando il “mettiti nei suoi panni” protestano contro la violenza di genere in tutto il mondo. Gli scritti sono anonimi – ringrazio chi li ha creati e resi disponibili -, la traduzione è mia. Maria G. Di Rienzo

no a tutte le forme di violenza

Uomini afghani in burka, 2015

Lei non sa com’è sopravvissuta sino ad ora

da dove ha tirato fuori la volontà e la forza.

E tu non sai nulla guardandola,

nulla delle sue fatiche e delle sue difficoltà,

sino a che non fai un passo nel suo mondo,

e cammini nelle sue scarpe.

uomini turchi

Uomini turchi in gonna, 2015

Cammina un miglio nelle sue scarpe

e finirai per provare la sua malinconia.

Guarda il mondo attraverso i suoi occhi.

Come ti senti ad ascoltare tutte le bugie?

uomini kurdi

Uomini curdi in abiti femminili, 2014

Tutto quel che volevamo,

mettendo le sue scarpe,

era mostrarle che a noi importa,

che può alzarsi in piedi e non aver paura

e che non deve fingere di sorridere,

se il sorriso non è quel che ha dentro.

in her shoes 2013

Uomini statunitensi, 2013

Salta dentro le sue scarpe

Nuota nel suo oceano

Fai un passo

Cammina con lei

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(Poesia di Masooma, giovane afgana, 2014. Masooma è nata in un piccolo villaggio nel 1994 e qualche anno fa si è trasferita a Kabul. Da piccola sognava di andare a scuola e di essere “circondata da libri”. Masooma crede che “l’istruzione e la conoscenza mi daranno abbastanza potere per combattere le durezze della vita e l’ignoranza della mia società. Voglio studiare e laurearmi per poter essere d’aiuto alla mia gente.” Trad. Maria G. Di Rienzo)

dipinto di Laura Lopez Cano

IERI, OGGI, DOMANI

Ieri mia sorella aveva paura di uscire,

oggi le mie sorelle vanno a scuola,

e domani lavoreranno fuori casa.

Ieri mia sorella è stata lapidata.

Oggi studia per diventare medica,

e domani salverà una vita.

Ieri il sogno di mia sorella era avere un libro.

Oggi è in biblioteca,

e domani scriverà lei il libro.

Ieri mia sorella guardava il mondo da una finestrella.

Oggi vede il mondo attraverso la sua macchina da presa,

e domani il mondo vedrà ogni cosa tramite i suoi documentari.

Ieri le donne del mio paese non avevano diritti.

Ora stanno lottando per i propri diritti,

e domani avranno gli stessi diritti degli uomini.

Ieri il mio paese era un deserto.

Ora i miei fratelli e le mie sorelle stanno piantando alberi,

e domani, insieme in questo giardino, noi vivremo in pace.

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(“Are Women Really Peaceful?”, di Sanam Naraghi Anderlini, 2014, trad. Maria G. Di Rienzo. Sanam Naraghi Anderlini è la co-fondatrice di International Civil Society Action Network (ICAN) – http://www.icanpeacework.org -, una rete internazionale della società civile. Esperta di genere e conflitto, Sanam fu una dei membri della società civile che parteciparono alla stesura della Risoluzione 1325 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite su donne, pace e sicurezza.)

sanam

Sono davvero pacifiche, le donne?

Questa è la domanda che inevitabilmente sorge durante ogni discussione sull’inclusione o il contributo femminile alla costruzione di pace.

Per alcune donne occidentali l’assunto che le donne siano orientate alla pace implica l’essere troppo “soffici”. E’ spiacevole, perché il dialogo, la diplomazia e il compromesso sono faccende molto più dure e complesse dell’affidarsi alle opzioni militari.

Le persone mettono in discussione l’essere orientate alla pace delle donne puntando il dito su leader come Margaret Thatcher, Golda Meir ed altre che hanno guidato i loro paesi in guerra. Indicano le donne che si uniscono a ISIS o i membri femmine nei movimenti di ribelli armati, come Farc in Colombia o i maoisti in Nepal, per provare che le donne non sono pacifiche.

Questi esempi raccontano solo una piccola parte della storia. Metà dell’umanità non può essere omogenea nelle sue azioni. Anche il contesto va preso in considerazione.

Ci sono tre modi di rispondere alla domanda. Il primo potrebbe essere: no, le donne non sono pacifiche. Come individui, le donne possono essere violente o sostenere la violenza. Molte si uniscono ad eserciti, gruppi armati o altri movimenti che predicano e perpetrano violenza.

Per alcune donne il servizio militare è la strada verso l’eguaglianza, l’empowerment e fuori dall’oppressione. Numerose donne nepalesi nel movimento maoista si sono unite alla lotta per i principi di eguaglianza e giustizia sociale asseriti dal movimento. Si uniscono dopo aver testimoniato l’uccisione dei propri padri, mariti o fratelli da parte dell’esercito. Alcune fuggono dalla violenza nelle loro case o per vendicare il proprio stupro. Alcune sono forzate.

Ci sono situazioni in cui donne spingono i loro parenti maschi alla vendetta o a cercare retribuzione per la violenza da loro subita, ma globalmente le donne sono ancora una minoranza nei gruppi armati o negli eserciti.

Il secondo modo di rispondere alla domanda è: sì, se le azioni collettive delle donne, come movimenti organizzati per lottare per i propri diritti di base e l’autodeterminazione, sono prese in considerazione. Attraverso la Storia e il mondo, l’organizzarsi collettivo delle donne ha le sue radici nella nonviolenza e usa la resistenza civile e altre tattiche simili per arrivare ai suoi scopi.

Il movimento delle donne afgane è uno di questi casi. Nonostante trent’anni di guerra e di oppressione diretta, nonostante minacce di morte e aggressioni, le donne afgane continuano la loro lotta per i diritti e la pace in modo nonviolento.

Vi è inerente ironia e contraddizione, in questo. Martin Luther King e il Mahatma Gandhi sono onorati per la loro aderenza alla nonviolenza. Ma la maggior parte delle leader e delle attiviste nei movimenti per i diritti delle donne sono tipicamente ne’ celebrate ne’ onorate, mentre quelle che hanno usato violenza sono spesso ricordate nelle narrazioni storiche.

La risposta finale è considerare come le donne, collettivamente e individualmente, contribuiscono a metter fine alla violenza e alla costruzione di pace, durante le guerre e nei contesti interessati da conflitti.

Sovente, le esperienze personali hanno spinto le donne come singoli individui a sollevarsi come attiviste per la pace. In Sri Lanka, Visaka Dharmadasa ha incanalato il dolore seguito alla sparizione del figlio (che era nell’esercito) verso il cercare il leader dei ribelli e l’iniziare con lui un dialogo che ha contributo a un “cessate il fuoco”. Lei scelse di pensare ai ribelli, in maggioranza giovani uomini, attraverso la lente di una madre, anche se costoro erano responsabili della sua perdita.

Allo stesso modo negli Usa, donne che avevano perso figli e mariti l’11 settembre non solo istigarono la Commissione 11/9, ma stabilirono organizzazioni umanitarie che promuovono l’empatia per le vittime di violenza e celebrano la diversità religiosa.

Questa capacità di lavorare su un dolore profondo volgendolo in positivo è una qualità straordinaria.

In Somalia, un gruppo di donne anziane appartenenti all’elite usarono il proprio status per interagire con i clan guerreggianti e incoraggiarono la loro partecipazione ai colloqui di pace, e negoziarono la riapertura dell’aeroporto e dell’ospedale con i ribelli di al-Shabaab.

Non tutte le donne in un movimento per i diritti umani delle donne fanno attivismo pacifista.

Non tutte le donne pacifiste emergono dai movimenti per i diritti umani.

Sebbene siano una minoranza, le donne che combinano l’attivismo per la pace con l’attivismo per i diritti gettano ponti sui divari e attirano sostenitori da ambo le parti. I loro successi sono basati su tecniche che esse stesse hanno ideato, spesso specifiche per un dato contesto culturale, e radicate nel loro invisibile potere.

In molti paesi, le donne hanno usato scioperi del sesso come tattica all’interno del loro più ampio sforzo per metter fine agli scontri.

In Sierra Leone, donne anziane appartenenti alla chiesa chiesero un incontro con un leader del movimento ribelle. Furono insultate e come risposta si sfilarono le vesti e rimasero nude, conoscendo alla perfezione le conseguenze. La loro azione accese la mobilitazione degli uomini appartenenti alla chiesa e ciò portò alla fine della violenza.

In Liberia, donne si interposero direttamente durante le resistenze al processo di disarmo e convinsero i giovani uomini a consegnare loro le armi.

In numerosi scenari, le donne hanno portato informazioni e prospettive importanti ai processi di pace su istanze quali sicurezza, giustizia, governance e recupero economico. Mentre i belligeranti sono spesso concentrati sulla propria quota di potere, le donne sono concentrate sulle responsabilità verso le loro comunità, famiglie e bambini.

Persino donne anziane dei movimenti ribelli del Salvador e del Guatemala, che entravano nelle negoziazioni come combattenti stagionate e rappresentanti dei loro gruppi, diventarono subito consapevoli dei gruppi marginalizzati, fra cui le donne – e parlarono in loro favore.

Invariabilmente, la loro comprensione della pace e della proverbiale “tavola della pace” ha più sfumature ed è più complessa di quella dei partiti in guerra o dei mediatori. Le donne sanno che metter fine alla violenza è una priorità, ma riconoscono anche che ciò non può essere fatto in modo efficace senza affrontare le cause profonde della guerra ed articolare una visione condivisa di pace e società.

In nessun altro luogo questo è tanto visibile quanto nell’odierno Medio Oriente. Nella lotta contro gli estremismi insorgenti e il militarismo di stato, le donne in Siria, Libia, Iraq, Egitto ecc. osano contrapporsi e intervenire. Sono le prime a rispondere con soccorso, cura e “normalità” nel bel mezzo del caos. E nonostante tutta la violenza e le minacce di morte, sanno che le risposte militari non metteranno mai fine alla crisi. Si basano sulla loro propria storia e difendono diritti umani, pluralismo e pace. Esse sono l’unico movimento transnazionale che sta offrendo una visione condivisa e dei valori condivisi, in alternativa a visione e valori degli estremisti.

“Chiediamo al mondo: perché ci aiutate ad ucciderci l’un l’altro? – ha detto un’attivista siriana – Perché non ci aiutate a parlare l’uno all’altro?”

Le donne sono gli assetti chiave per la pace, eppure la comunità internazionale persiste nell’ignorarle o marginalizzarle. Forse è il momento di girare sottosopra la domanda iniziale.

Perché il mondo continua ad ignorare o indebolire donne che sono abbastanza coraggiose da lottare per la pace, pacificamente?

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