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(tratto da: “Yazidi girls sold as sex slaves create choir to find healing”, di Emma Batha per Thomson Reuters Foundation, 4 febbraio 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Quando Rainas Elias aveva 14 anni, i militanti dello stato islamico invasero la sua terra natale yazida nel nord dell’Iraq, la rapirono e la vendettero a un combattente che la stuprò e la torturò ripetutamente prima di venderla a un mostro ancora più brutale.

Due anni dopo la sua fuga, Elias sta visitando la Gran Bretagna questa settimana con un coro creato dalle sopravvissute alle atrocità dell’Isis.

Le ragazze, che hanno dai 15 ai 22 anni, dicono che il coro fornisce loro amicizia, guarigione e una fuga dai ricordi traumatici che le perseguitano.

“Sono molto felice con loro. Questo mi ha aiutata molto psicologicamente.”, dice Elias tramite un’interprete dopo la performance al Conservatorio musicale di Londra.

Il coro ha cantato all’Abbazia di Westminster e si esibirà in parlamento alla presenza del principe Carlo, da lungo tempo patrono di AMAR, un’organizzazione umanitaria che dà assistenza alla riabilitazione delle ragazze in Iraq.

yazidi choir

(il coro durante un’esibizione a Greenwich, immagine di Thomson Reuters Foundation / Morgane Mounier, 3 febbraio 2020)

La comunità yazida in Iraq, stimata in 400.000 persone, è una minoranza curda la cui fede combina elementi del cristianesimo, dello zoroastrismo e dell’islam.

L’Isis, che li considera adoratori del demonio, ha ucciso e rapito migliaia di yazidi dopo aver scatenato un assalto nel 2014 nella loro area del monte Sinjar, in quello che le Nazioni Unite hanno definito genocidio.

Sebbene i militanti siano stati cacciati tre anni fa, gli yazidi per la maggior parte vivono ancora nei campi profughi, troppo spaventati per fare ritorno. (…)

La musica è centrale per la religione e la cultura yazida, ma non è mai stata scritta su spartiti o registrata. Il virtuoso del violino Michael Bochmann ha lavorato con i musicisti yazidi e AMAR per registrate la musica antica. Martedì scorso, Bochmann e il coro hanno consegnato l’archivio alla biblioteca dell’Università di Oxford.

Il progetto mira anche a proteggere la musica yazida insegnandola alle centinaia di giovani nei campi. Sebbene tradizionalmente sia eseguita da uomini, circa metà di coloro che stanno imparando sono ragazze e donne, dal che Bochmann è deliziato. Ha detto che il coro sta avendo un effetto di trasformazione.

“E’ straordinario come la loro fiducia in se stesse sia aumentata. – ha detto Bochmann a Thomson Reuters Foundation – La grande cosa della musica è che ti fa vivere qui ed ora. Più di qualsiasi altra forma d’arte, può renderti felice nel momento presente.” (…)

La maggior parte delle coriste non vuole raccontare la propria storia, ma Elias era disposta a parlare. “Non credo mi riprenderò mai dalle esperienze che ho fatto.”, ha detto la giovane che ha passato tre anni in prigionia.

Elias è stata venduta tre volte a differenti uomini dopo che il suo rapimento l’ha condotta in Siria. Il secondo, di nazionalità saudita, morì mentre lei era incinta. Fu venduta in stato di gravidanza a un marocchino che la stuprava “come un mostro”, fino a sei volte al giorno.

Restò incinta due volte ma ambo le volte perse i bambini e attribuisce in parte il primo aborto spontaneo alle torture. La sua famiglia pagò il suo riscatto di quasi 11.000 euro nel 2017, ma l’Isis non la lasciò andare. Sua sorella e due suoi fratelli sono nella lista degli yazidi di cui ancora non si sa nulla.

Alcune coriste erano ancora più giovani di lei quando furono rapite. Una ragazza fu venduta cinque volte a stupratori dell’Isis dopo essere stata rapita all’età di 11 anni. Un’altra ne aveva nove quando fu costretta a diventare una schiava domestica. La sua forma minuta suggerisce quanto poco le dessero da mangiare.

Elias, che ha ora 19 anni, dice che la comunità internazionale dovrebbe essere d’aiuto nel soccorrere chi è ancora prigioniero ed assicurarsi che gli yazidi non siano di nuovo perseguitati. E’ il messaggio che il coro sta portando a leader politici e religiosi durante il suo viaggio in Gran Bretagna. Sebbene gli uomini dell’Isis siano stati sconfitti, gli yazidi dicono che non se ne sono andati e che potrebbero ripresentarsi.

“Il pericolo è ancora là. L’unica cosa che può salvarci è l’impegno mondiale a proteggerci. – ha detto Elias – Quello che ho sperimentato, la tortura e lo stupro, non lo posso dimenticare. E’ ovvio che ho ancora paura.”

P.S. – Potete ascoltare il canto delle ragazze qui:

https://www.youtube.com/watch?v=OCWheGSp1EQ

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Forse ricordate il villaggio delle donne in Kenya, Umoja, fondato negli anni ’90 da una quindicina di sopravvissute alla violenza domestica fra cui la straordinaria Rebecca Lolosoli, attuale “presidente” del posto.

https://lunanuvola.wordpress.com/2013/12/31/e-questo-e-quanto/

Le donne Yazidi sfuggite alla guerra e alla schiavitù (in sintesi all’Isis) hanno fatto la stessa cosa nel nordest della Siria. Il villaggio si chiama Jinwar ed è stato inaugurato ufficialmente il 25 novembre 2018, Giorno internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. E’ basato sull’eguaglianza di chi ci vive e il suo scopo è fornire alle donne un posto libero da violenza e oppressione: le abitanti non sono solo Yazidi e curde ma anche arabe, perché il villaggio accoglie qualunque donna in difficoltà e eventualmente i suoi bambini femmine e maschi.

murales a jinwar di bethan mckernan

Quello che segue è un brano dell’articolo “We are now free: Yazidis fleeing Isis start over in female-only commune” di Bethan McKernan per il Guardian, datato 25 febbraio; anche l’immagine del murale di Jinwar è sua.

“Durante il genocidio, gli uomini Yazidi furono radunati, uccisi a fucilate e abbandonati in fosse comuni. Le donne furono prese prigioniere allo scopo di essere vendute nei mercati di schiavi dell’Isis e molte passarono da un combattente all’altro subendo abusi fisici e sessuali.

Jinwar è una comune femminile, organizzata dalle donne della locale amministrazione curda per creare uno spazio in cui le donne potessero vivere “libere dalle costrizioni di strutture di potere oppressive come il patriarcato e il capitalismo”.

Le donne si sono costruite da sole le loro case, si fanno il pane, accudiscono il bestiame e coltivano la terra, cucinano e mangiano insieme. Davanti a pollo e riso, e più tardi a musica e danza, le residenti discutono di come se la stanno cavando i nuovi alberi appena piantati, albicocchi, melograni e ulivi.

“Abbiamo costruito questo posto da noi stesse, mattone dopo mattone. – dice la 35enne Barwa Darwish, che è venuta a Jinwar con i suoi sette figli dopo che il suo villaggio nella provincia di Deir Ezzor è stato liberato dall’Isis e suo marito, che si era unito alla lotta contro il gruppo, è morto in battaglia – Sotto l’Isis eravamo strangolate e ora siamo libere. Ma anche prima di questo, le donne stavano a casa. Non uscivamo e non lavoravamo fuori casa. A Jinwar, ho capito che le donne possono stare in piedi da sole.”

Jinwar è uscita dall’ideologia democratica che ha alimentato la creazione di Rojava, uno staterello curdo nella Siria nord orientale, sin da quando scoppiò la guerra civile nel 2011. L’area se l’è cavata largamente bene nonostante la presenza di nemici da ogni lato: l’Isis, le truppe del presidente siriano Bashar al-Assad e la Turchia, che vede i combattenti curdi come un’organizzazione terroristica.

La rivoluzione delle donne, com’è noto, è una parte significativa della filosofia di Rojava. Indignate dalle atrocità commesse dall’Isis, le donne curde formarono le proprie unità di combattimento. Più tardi, donne arabe e Yazidi si unirono a loro in prima linea per liberare le loro sorelle. Ma a casa, molte parti della società curda sono ancora profondamente conservatrici. Alcune delle donne ora a Jinwar sono fuggite da matrimoni imposti e abusi domestici. Queste dinamiche, così come l’eredità degli otto anni di brutale guerra in Siria, devono essere disimparate a Jinwar.

“Quando le famiglie arrivano, dapprima i bimbi arabi non vogliono giocare con quelli curdi. – dice Nujin, una delle volontarie internazionali che lavorano al villaggio – Ma in neppure due mesi si può già vedere il cambiamento. I bambini sono tutti più felici. Il villaggio è la miglior forma di riabilitazione per tutte le cose che queste famiglie hanno sofferto.”

Jinwar è ancora in costruzione: ci sono giardini da piantare e una biblioteca vuota che aspetta i suoi libri. La comunità sta tuttora vagliando idee. Oltre a quella di un centro di istruzione c’è l’idea di creare una piscina da utilizzare in estate. La maggioranza delle residenti la userebbe per la prima volta, giacché le piscine sono riservate agli uomini in gran parte del Medio oriente. Le donne hanno anche già votato per avere lezioni di guida e per dare inizio a un’attività commerciale di sartoria.”

Maria G. Di Rienzo

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(“Yazidi women seek to join case against French company accused of funding Islamic State”, di Lin Taylor per Thomson Reuters Foundation, 30 novembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Un gruppo di donne Yazidi, rapite e tenute in schiavitù sessuale dallo Stato Islamico in Iraq e Siria, hanno richiesto venerdì di unirsi alla denuncia contro il produttore di cemento francese Lafarge, che è sotto indagine per l’accusa di aver finanziato i militanti.

Lafarge è sotto indagine ufficiale in Francia con il capo d’imputazione di aver pagato l’IS, noto anche come ISIS, per tener aperto uno stabilimento che operava nel nord della Siria dal 2011 al 2014.

Gli avvocati attestano di aver presentato la richiesta delle donne di diventare parte civile nel caso, che dicono segni la prima volta in cui una multinazionale è accusata di complicità nei crimini internazionale dell’IS.

“Fornisce un’opportunità per stabilire che l’ISIS, e tutti coloro che assistono i suoi membri, saranno tenuti responsabili per i loro crimini e che alle vittime sarà garantita una giusta compensazione. – ha detto Amal Clooney in una dichiarazione – E manda un importante messaggio alle corporazioni complici nella commissione di reati internazionali che affronteranno le conseguenze legali delle loro azioni.”, ha aggiunto.

amal clooney e nadia murad

(da sinistra: Amal Clooney e Nadia Murad)

Gli Yazidi, un gruppo religioso la cui fede combina elementi delle antiche religioni mediorientali, sono ritenuti dallo Stato Islamico degli adoratori del demonio.

Circa 7.000 donne e bambine furono catturate nel nordovest dell’Iraq nell’agosto 2014 e tenute prigioniere dallo Stato Islamico a Mosul, dove furono torturate e stuprate. Sebbene i militanti siano stati cacciati un anno fa, molti Yazidi vivono ancora nei campi profughi perché temono il ritorno a casa, dicono i gruppi di aiuto umanitario.

Lafarge, che si è fusa con la ditta svizzera di materiali da costruzione Holcim, ha riconosciuto i propri fallimenti nell’affare siriano.

“LafargeHolcim rimpiange profondamente gli inaccettabili errori commessi in Siria. La compagnia continuerà a cooperare pienamente con le autorità francesi.”, ha detto un portavoce via e-mail a Thomson Reuters Foundation.

Le traversie degli Yazidi hanno attirato attenzione in anni recenti, in special modo da quando l’avvocata di alto profilo Clooney ha cominciato a rappresentare il gruppo di minoranza ed è diventata consigliera legale dell’attivista Nadia Murad, che ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2018.

Un gruppo d’indagine delle Nazioni Unite ha cominciato a lavorare in agosto – circa un anno dopo essere stato creato dal Consiglio di Sicurezza – per raccogliere e preservare le prove delle azioni dello Stato Islamico in Iraq che potrebbero essere rubricate come crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio.

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basta guerra

“Se l’onorevole Alessandro Di Battista ha la possibilità di entrare in contatto con i terroristi e vuole andare nelle zone sotto il loro controllo per intavolare con loro una discussione, sappia che il suo visto di ingresso in Iraq è pronto: può andare ad Erbil, raggiungere in qualche modo Mosul e convincere i terroristi a fermare il genocidio di cristiani e musulmani come sta avvenendo in questi giorni”. Così Saywan Barzani, ambasciatore iracheno in Italia.

Ma non occorre mandare l’onorevole “che vuole capire” a Mosul. E’ giusto cercare di capire: per cominciare, può visitare il campo profughi a Dayrabun.

E chiedere a Samo Ilyas Ali perché non dorme, perché gli sembra di impazzire, cosa sono i suoni che continua a sentire dentro la testa e che si rifiutano di essere tacitati: il rifugiato gli risponderà che sono le grida di donne e bambini. Donne e bambini che chiedevano aiuto mentre li seppellivano vivi. L’8 agosto quelli nati (secondo l’onorevole) “dal male di Abu Ghraib” sono arrivati al suo villaggio con i mitragliatori. Ali e i suoi concittadini con Abu Ghraib non hanno mai avuto a che fare, ma i militanti di Isis li hanno messi a scavare buche. Ali, 46enne, farà frequenti pause per piangere mentre gli racconterà a cosa le buche sono servite. Dawud Hassan, meccanico 26enne, potrà intervenire al proposito. E’ terrorizzato dal futuro, non vuole più stare in Iraq dopo quello che ha visto. Vorrebbe dimenticare: “Hanno messo donne e bambini sottoterra. Erano ancora vivi. Li sento urlare anche adesso. Tentavano di tenere su la testa per respirare.”

Cerchi anche lo yazida Hassan, studente 22enne, che continua a ripetere come un disco rotto: “Si è mai visto niente del genere? Si è mai visto? Le hanno legato le mani ad un’automobile e i piedi ad un’altra, e l’hanno lacerata in due. Si è mai visto niente del genere? Le hanno fatto questo perché non era musulmana e non voleva convertirsi.” Capisce, onorevole? Questa donna non è morta in modo atroce perché aveva a che fare in qualche modo con Abu Ghraib.

Non occorre mandarlo a Mosul.

Vada a Newroz, al campo profughi sul confine siriano, e cerchi Bagisa e suo marito Hadi.

Costoro sono fuggiti dall’invasione armata del loro villaggio, Sumari. Gli invasori sono sempre quelli generati “dal male di Abu Ghraib”. Bagisa e Hadi si sono rifugiati in montagna, da soli. Lei era incinta del loro primo figlio. All’ottavo giorno di fuga, all’ombra di un picco, ha messo al mondo una bimba e l’ha chiamata Khudaida. C’erano altri fuggiaschi in quel luogo, ma nessuno conosceva la coppia e nessuno aveva acqua in più da dividere con loro. L’onorevole ha idea di cosa voglia dire partorire senza aver acqua da bere, senza aver acqua per lavarsi e per lavare la neonata, sotto una calura insopportabile? Se lo faccia raccontare da Bagisa.

Il giorno dopo la nascita di Khudaida, membri del Partito dei lavoratori curdo (PKK) hanno trovato i profughi e li hanno condotti al campo di Newroz. Ma la mattina del 14 agosto, la minuscola figlia di Bagisa e Hadi ha smesso di respirare. Aveva 4 giorni di vita.

Chieda al dottore che ha cercato di salvarla quali sono state le cause della morte: “Tutto.”, gli risponderà costui, “Il caldo in montagna, la sete, il vento che ha inalato pieno di polvere ed escrementi, la fame. Quando è arrivata al campo era già troppo debole.”

Bagisa e Hadi hanno dovuto faticare anche a seppellirla. Hanno fatto avanti e indietro per un giorno e mezzo con il fagottino fra le mani fra la direzione del cimitero, il servizio di sicurezza del PKK e la direzione del campo profughi: nessuno voleva prendersi la responsabilità di seppellire in Siria una bimba irachena. Alla fine il cimitero ha ceduto e Khudaida è stata messa a giacere per sempre nella terra. Questa famiglia non aveva mai avuto a che fare con Abu Ghraib: per cosa ha pagato un prezzo così alto?

Non occorre mandarlo a Mosul.

Vada a Raqqa, in Siria, dove il “califfato” dell’Isis è già realtà.

Ma stia attento a non farsi beccare per strada durante uno dei cinque momenti giornalieri di preghiera, perché potrebbe essere ucciso.

Tutte le donne in città sono infagottate nel niqab per ordine dell’Isis e i pantaloni sono loro banditi. Le parrucchiere devono cancellare le facce delle donne sulle scatole di tintura per capelli.

Niente musica, nemmeno durante i matrimoni. E d’altronde, quando le ragazze si uccidono o cercano di uccidersi per sfuggire ai matrimoni imposti con i combattenti islamisti, chi ha voglia di suonare e ballare?

Mani tagliate, crocifissioni, decapitazioni sono il destino dei piccoli malfattori come degli oppositori del regime: le immagini sono pubblicate con didascalie gongolanti sui social network.

E al mercato del bestiame, ai venditori è stato ordinato di coprire i posteriori di pecore e capre perché altrimenti gli uomini, vedendo i loro genitali esposti, potrebbero avere pensieri impuri.

Onorevole, nessuna somma di torti fa una ragione. Onorevole, questa guerra fa schifo come ogni altra guerra. Maria G. Di Rienzo

N.B. Le informazioni che le ho presentato, onorevole, provengono da attiviste/i per i diritti umani e giornaliste/i che si trovano nei luoghi summenzionati. Può controllare le loro testimonianze su Spiegel, Reuters, Awid, Kvinna til Kvinna, Women’s Learning Partnership, Metrography, Indipendent, Guardian, Mezzaluna Rossa irachena, Iraqi News, CS Monitor, UN Women, ecc.

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