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Posts Tagged ‘profughi’

(tratto da: “Yazidi girls sold as sex slaves create choir to find healing”, di Emma Batha per Thomson Reuters Foundation, 4 febbraio 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Quando Rainas Elias aveva 14 anni, i militanti dello stato islamico invasero la sua terra natale yazida nel nord dell’Iraq, la rapirono e la vendettero a un combattente che la stuprò e la torturò ripetutamente prima di venderla a un mostro ancora più brutale.

Due anni dopo la sua fuga, Elias sta visitando la Gran Bretagna questa settimana con un coro creato dalle sopravvissute alle atrocità dell’Isis.

Le ragazze, che hanno dai 15 ai 22 anni, dicono che il coro fornisce loro amicizia, guarigione e una fuga dai ricordi traumatici che le perseguitano.

“Sono molto felice con loro. Questo mi ha aiutata molto psicologicamente.”, dice Elias tramite un’interprete dopo la performance al Conservatorio musicale di Londra.

Il coro ha cantato all’Abbazia di Westminster e si esibirà in parlamento alla presenza del principe Carlo, da lungo tempo patrono di AMAR, un’organizzazione umanitaria che dà assistenza alla riabilitazione delle ragazze in Iraq.

yazidi choir

(il coro durante un’esibizione a Greenwich, immagine di Thomson Reuters Foundation / Morgane Mounier, 3 febbraio 2020)

La comunità yazida in Iraq, stimata in 400.000 persone, è una minoranza curda la cui fede combina elementi del cristianesimo, dello zoroastrismo e dell’islam.

L’Isis, che li considera adoratori del demonio, ha ucciso e rapito migliaia di yazidi dopo aver scatenato un assalto nel 2014 nella loro area del monte Sinjar, in quello che le Nazioni Unite hanno definito genocidio.

Sebbene i militanti siano stati cacciati tre anni fa, gli yazidi per la maggior parte vivono ancora nei campi profughi, troppo spaventati per fare ritorno. (…)

La musica è centrale per la religione e la cultura yazida, ma non è mai stata scritta su spartiti o registrata. Il virtuoso del violino Michael Bochmann ha lavorato con i musicisti yazidi e AMAR per registrate la musica antica. Martedì scorso, Bochmann e il coro hanno consegnato l’archivio alla biblioteca dell’Università di Oxford.

Il progetto mira anche a proteggere la musica yazida insegnandola alle centinaia di giovani nei campi. Sebbene tradizionalmente sia eseguita da uomini, circa metà di coloro che stanno imparando sono ragazze e donne, dal che Bochmann è deliziato. Ha detto che il coro sta avendo un effetto di trasformazione.

“E’ straordinario come la loro fiducia in se stesse sia aumentata. – ha detto Bochmann a Thomson Reuters Foundation – La grande cosa della musica è che ti fa vivere qui ed ora. Più di qualsiasi altra forma d’arte, può renderti felice nel momento presente.” (…)

La maggior parte delle coriste non vuole raccontare la propria storia, ma Elias era disposta a parlare. “Non credo mi riprenderò mai dalle esperienze che ho fatto.”, ha detto la giovane che ha passato tre anni in prigionia.

Elias è stata venduta tre volte a differenti uomini dopo che il suo rapimento l’ha condotta in Siria. Il secondo, di nazionalità saudita, morì mentre lei era incinta. Fu venduta in stato di gravidanza a un marocchino che la stuprava “come un mostro”, fino a sei volte al giorno.

Restò incinta due volte ma ambo le volte perse i bambini e attribuisce in parte il primo aborto spontaneo alle torture. La sua famiglia pagò il suo riscatto di quasi 11.000 euro nel 2017, ma l’Isis non la lasciò andare. Sua sorella e due suoi fratelli sono nella lista degli yazidi di cui ancora non si sa nulla.

Alcune coriste erano ancora più giovani di lei quando furono rapite. Una ragazza fu venduta cinque volte a stupratori dell’Isis dopo essere stata rapita all’età di 11 anni. Un’altra ne aveva nove quando fu costretta a diventare una schiava domestica. La sua forma minuta suggerisce quanto poco le dessero da mangiare.

Elias, che ha ora 19 anni, dice che la comunità internazionale dovrebbe essere d’aiuto nel soccorrere chi è ancora prigioniero ed assicurarsi che gli yazidi non siano di nuovo perseguitati. E’ il messaggio che il coro sta portando a leader politici e religiosi durante il suo viaggio in Gran Bretagna. Sebbene gli uomini dell’Isis siano stati sconfitti, gli yazidi dicono che non se ne sono andati e che potrebbero ripresentarsi.

“Il pericolo è ancora là. L’unica cosa che può salvarci è l’impegno mondiale a proteggerci. – ha detto Elias – Quello che ho sperimentato, la tortura e lo stupro, non lo posso dimenticare. E’ ovvio che ho ancora paura.”

P.S. – Potete ascoltare il canto delle ragazze qui:

https://www.youtube.com/watch?v=OCWheGSp1EQ

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FORZA

Non permettere loro di dirti che il tuo dolore dovrebbe essere confinato al passato, che non riveste alcuna importanza nel presente. Il tuo dolore è parte di chi tu sei.

Loro non sanno quanto forte ciò ti rende.

(“Strenght”, di Lang Leav, scrittrice e poeta contemporanea. Lang è nata in cui campo profughi thailandese: la sua famiglia fuggiva dalla Cambogia e nello specifico dagli khmer rossi. E’ cresciuta in Australia e oggi vive in Nuova Zelanda.)

capitana

Carola Rackete, capitana della Sea Watch. La sua biografia professionale e da attivista è lunghissima nonostante la sua giovane età: ha frequentato tre università, è laureata in conservazione ambientale, parla cinque lingue, ha lavorato per uno dei maggiori istituti oceanografici tedeschi e per Greenpeace ecc.

A sentire i nostri poco letterati ma ostinatamente feroci politici è “una sbruffoncella che fa politica sulla pelle degli immigrati” (Salvini, che forse si stava guardando allo specchio), vuole solo farsi pubblicità (Di Maio, probabilmente osservando il proprio riflesso in una vetrina), dovrebbe essere arrestata e la sua imbarcazione colata a picco (Meloni in C-3: colpito e affondato) – ma più che di battaglia navale in quest’ultimo caso si è trattato del gioco “Se la crudeltà guadagna consenso elettorale, riusciamo a dire cose più disumane di quelle che dice e fa sotto forma di leggi il Ministro dell’Interno?”. Ok, brava, Meloni per il momento ha vinto: nessuno ha ancora proposto la tortura e il plotone d’esecuzione (ufficialmente: fra i seguaci dei tre sui social media è un’altra faccenda).

Nessuno dei politici che ha rovesciato su Carola Rackete i propri giudizi sommari e denigratori ha fatto lo sforzo di cercare di parlarle direttamente. Nessuno ha cercato di avere informazioni sullo stato psicofisico delle persone che si trovano a bordo. Risolvere la situazione in maniera civile non è alla loro portata. Al massimo sanno sputare insulti, intimare altolà, schierare carabinieri e lagnarsi dell’Europa (“Assente, come al solito!”, strilla il vero assente, il ministro che se n’è sbattuto di tutti gli appuntamenti europei in cui avrebbe potuto e dovuto discutere di politiche condivise sull’immigrazione – prima gli italiani e meglio un comizietto in più).

La capitana Rackete e il suo equipaggio hanno salvato esseri umani che senza il loro intervento ora potrebbero ornare come cadaveri le reti dei pescatori; secondo il diritto marittimo devono sbarcarli nel porto sicuro più vicino – e non c’è altro da dire.

Fateli scendere. FATELI SCENDERE e basta.

Maria G. Di Rienzo

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(tratto da: “Gripping refugee tale wins Waterstones children’s book prize”, un più lungo articolo di Alison Flood per The Guardian, 22 marzo 2019, trad. Maria G. Di Rienzo)

onjali

Onjali Q Raúf (in immagine) ha vinto il Premio Waterstones per la letteratura per l’infanzia con il suo romanzo di debutto, che ha scritto mentre si stava riprendendo dall’intervento chirurgico che le ha salvato la vita.

Raúf è la fondatrice dell’ong umanitaria “Making Herstory” (“Creare la Storia di Lei”) che combatte il traffico e la messa in schiavitù delle donne. Dopo un’operazione raffazzonata per l’endometriosi, che l’ha lasciata in preda al vomito e a dolori paralizzanti, le fu detto che aveva solo tre settimane da vivere. In seguito, un estensivo intervento chirurgico l’ha salvata, ma ha costretto Raúf a passare tre mesi di convalescenza a letto.

Durante quel periodo, tutto quello a cui riusciva a pensare erano le donne che aveva incontrato lavorando nei campi profughi a Calais e Dunkirk, alcune delle quali erano in stato di avanzata gravidanza, o sofferenti, e in particolare a una donna siriana, Zainab, che aveva appena messo al mondo un neonato di nome Raehan.

“Di colpo questo titolo, “The Boy at the Back of the Class” (“Il bambino in fondo alla classe”), mi è saltato in mente. – ha detto Raúf – Non riuscivo a smettere di pensare a Raehan e non appena i medici mi hanno detto che era ok stare di nuovo seduta, tutto è semplicemente straripato fuori. Il libro è stato scritto, letteralmente, in sette o otto settimane.”

Il romanzo racconta la storia di un profugo di nove anni, Ahmet, che è fuggito dalla guerra in Siria. Quando i bambini della sua classe scoprono che è separato dalla sua famiglia, escogitano un piano per dare una mano.

Secondo la responsabile acquisti di Waterstones per la letteratura per l’infanzia, Florentyna Martin, “The Boy at the Back of the Class” è un futuro classico, che mette in mostra il meglio di cosa le storie possono ottenere.

“Raúf ha distillato quel che significa essere una persona aperta e positiva in una storia che scintilla di gentilezza, umorismo e curiosità. – ha detto Martin – I suoi personaggi escono dal libro con un caldo sorriso, completamente formati come esempi e modelli per la vita di tutti i giorni, pronti a portarti in un’ambiziosa avventura che è sia divertente sia eccezionalmente appassionante. I libri per bambini hanno un mucchio di istanze difficili da trasmettere ai giovani lettori, e Raúf abbraccia questo con un approccio che è spassoso, ottimista e dal cuore aperto in modo travolgente.” (…)

Raúf ha dedicato “The Boy at the Back of the Class” a Raehan, “il Bimbo di Calais. E ai milioni di bimbi rifugiati nel mondo che hanno necessità di una casa sicura e amorevole.” Ma non l’ha più visto da allora.

“Sfortunatamente ho perso contatto con loro lo stesso giorno in cui ho incontrato Raehan. – ha detto – Mentre stavamo partendo abbiamo visto la polizia venire a demolire l’accampamento. Avevo il numero di telefono di Zainab e ho tentato di chiamarla il giorno dopo, ma il telefono non riceveva, perciò non so dove siano o se stiano bene. Raehan dovrebbe avere due anni e mezzo, ora.”

Raúf sta in questo momento scrivendo un altro romanzo, “The Star Outside My Window” (“La stella fuori dalla mia finestra”), che affronta il tema della violenza domestica attraverso la storia di una bambina che va a caccia di una stella “per tristi motivi”. Ma i suoi impegni principali sono la sua ong e il campo profughi dove continua a lavorare durante il tempo libero.

“E’ davvero surreale, perché la mia vita normale e la vita del mio libro sono due mondi così differenti. Io sto incontrando persone che sono sconvolte, che sono state trafficate, tento di maneggiare questioni su basi emergenziali, ed ecco che nell’altro mondo ci sono champagne e pasticcini. Vincere questo Premio è stato strabiliante, una vera enorme ciliegia su una torta fantastica.”

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(tratto da: “The woman who will turn off her phone when the war in Syria is over”, di Sara Rosati per El Paìs, 4 maggio 2017, trad. e adattamento Maria G. Di Rienzo. Souad Benkaddour – nell’immagine – è originaria del Marocco e vive a Madrid.)

souad

La prima rifugiata siriana che Souad Benkaddour, 53enne, ha aiutato era una donna incinta con tre bambini arrivata alla stazione degli autobus Méndez Álvaro di Madrid nel settembre 2015. Souad spiega che in effetti lei era in viaggio per Segovia con la sua famiglia quando un vicino di casa la chiamò per sapere se avrebbe potuto fungere da traduttrice per la donna. “Lo dissi a mio marito e lui fece un’inversione a U.”, racconta Souad.

Allora non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe stata d’aiuto a più di 500 persone provenienti da Siria, Palestina, Iraq e Bangladesh, o che il suo telefono sarebbe divenuto il numero di soccorso per così tanti rifugiati. Souad e i suoi vicini hanno reso possibile a quella donna siriana, Fayrouz, e ai suoi tre figli di continuare il viaggio verso la Germania. La donna e i bambini avevano attraversato il confine marocchino all’enclave spagnola di Melilla, lungo la costa nordafricana, nascondersi sotto i camion.

Souad e i suoi vicini scoprirono poco dopo che c’erano dozzine di rifugiati che dormivano nel parco antistante la suddetta stazione degli autobus e decisero di lavorare insieme per toglierli dalla strada. Era all’incirca il periodo in cui centinaia di migliaia di siriani bussavano alle porte d’Europa per fuggire dalla guerra. Molti attraversavano Tunisia, Algeria e Marocco per entrare in Europa tramite Melilla, ma per la maggior parte di loro la Spagna era il punto di partenza per altri luoghi – paesi che percepivano come in grado di offrire più sostegno e opportunità. Secondo l’Eurostat, solo 2.975 siriani hanno chiesto asilo in Spagna nel 2016, a paragone dei 300.000 nell’intera Unione Europea.

Centinaia di ong hanno raccolto denaro per aiutarli lungo la via, ma migliaia di persone comuni come Souad li hanno pure aiutati. Assieme ai suoi vicini, ha costruito un ingegnoso sistema di scambio di favori che sta ancora funzionando. Prima che partisse, Souad disse a Fayrouz di dare il suo numero a chiunque avesse bisogno di aiuto e cominciò a ricevere dalle 20 alle 30 chiamate al giorno.

La sua storia personale ha qualche somiglianza con quelle delle persone che assiste. Nella città marocchina di Al Hoceima, dov’è nata, Souad dice di non essere stata libera di agire come voleva: “Volevo poter sperimentare successi e fallimenti senza barriere.”, spiega. Aveva compreso di aver talento nell’aiutare gli altri e offriva sostegno alle ragazze marocchine incinte che avevano a che fare con famiglie intolleranti, mentre sognava di emigrare in un paese in cui le donne fossero libere di vivere le proprie vite. Quando giunse in Spagna all’età di 38 anni prese un profondo respiro: “Sentivo di poter essere me stessa, sentivo di essere libera.”

Sebbene siriani e marocchini presentino alcune somiglianze culturali, Souad non ne aveva mai incontrato uno prima del 2015: “Adesso so persino distinguere da quale città vengono.” C’è una condizione, comunque, per essere aiutati da Souad e dai suoi vicini: un rifugiato che ottenga assistenza deve, in cambio, assistere un’altra persona. “Spiego loro che quando arriveranno a destinazione ci sarà qualcuno ad aspettarli e che in futuro mi aspetto da loro che vadano ad accogliere qualcun altro.”, dice Souad.

La rete che Souad ha creato arriva sino alla Croce Rossa, che la chiama ogni volta in cui una corriera carica di rifugiati lascia Granada per andare a Madrid. L’Asla, la società di trasporti degli autobus, pure si rivolge a lei quando un rifugiato alla biglietteria ha bisogno di un traduttore. La passione con cui si è dedicata alle sofferenze dei rifugiati ha qualche volta interferito con la sua vita familiare. All’epoca, Souad passava ogni giorno della settimana alla stazione degli autobus e il suo telefono squillava 24 ore su 24. Quando lo spegneva, trovava dozzina di chiamate perse non appena lo riaccendeva: “Non potevo rispondere a tutte le chiamate. C’è stato un momento in cui ho dovuto imparare a bilanciare quel che stavo facendo con le necessità della mia famiglia.”

Nel marzo 2016 la Turchia firmò un accordo con l’UE e le chiamate cominciarono a diminuire, a causa della drastica diminuzione del numero di rifugiati in grado di entrare in Europa. In pochi mesi, le centinaia di arrivi giornalieri alla stazione Méndez Álvaro si erano ridotte a una cinquantina. Ora, Souad non va più alla stazione ogni giorni, ma sta ancora ricevendo chiamate, traducendo, organizzando l’accoglienza e aiutando in ogni modo a lei possibile: “Non ho rimpianti nel dare tempo e vita a questa causa.”

Souad non è sicura se definirsi un’attivista – semplicemente si sente a posto quando aiuta altre persone. Agisce per istinto e in modo indipendente. E sebbene centinaia di persone abbiano avuto il suo sostegno, a volte si chiede se non avrebbe potuto aiutarne di più. Ma questi dubbi pignoli sono zittiti dalla prossima telefonata: “Salam Alaikum, Souad. Abbiamo bisogno di te.” E lei risponde con naturalezza, come se la cosa fosse la più normale del mondo. “Spegnerò il telefono quando la guerra in Siria finirà.”, conclude.

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Khawla al-Sheikh

Khawla al-Sheikh, nell’immagine, è una donna giordana che di professione fa l’idraulica. Nel 2004 frequentò un corso specifico offerto da un’agenzia per lo sviluppo assieme ad altre 16 donne, ma fu l’unica a mettersi poi effettivamente in affari. Nel 2015 ha messo in piedi una cooperativa a Amman offrendo lei stessa l’addestramento alle aspiranti idrauliche: la cooperativa oggi consta di 19 donne di differenti nazionalità, native e migranti. Allo stesso modo, nella città di Irbid, la rifugiata siriana Safa Sukariya ha costituito nel 2016 la prima ditta femminile per le riparazioni idrauliche con altre due profughe dal suo paese e due donne giordane.

Il mercato del lavoro per le donne, in Giordania, non è dei più favorevoli: anche quelle che hanno un alto livello di istruzione e trovano un impiego sono spesso spinte a lasciarlo da un cumulo di fattori – sono pagate clamorosamente meno degli uomini nelle loro stesse posizioni, sono loro richiesti orari più lunghi di quelli maschili, i trasporti pubblici sono inadeguati, gli asili per i loro figli mancano, gli ambienti di lavoro sono ostili, eccetera. E poi, la sanzione culturale per una donna che provveda a se stessa e alla propria famiglia uscendo di casa, magari svolgendo una professione ritenuta “maschile” come quella di idraulico, è ancora pesante.

Quindi, qual è la notizia che vi sto dando? E’ che Khawla e Safa (e le loro colleghe) se ne fregano.

“Questo mestiere ha bisogno più di donne che di uomini in Giordania. – ha spiegato la prima alla stampa – Nelle nostre comunità a un maschio estraneo non è permesso entrare in una casa se non ci sono altri uomini presenti. All’inizio non accettavano l’idea di donne idrauliche, ma adesso le richiedono esplicitamente: e noi guadagniamo abbastanza per vivere.”

Safa Sukariya, che come Khawla ha frequentato un corso offerto da un’organizzazione tedesca per la cooperazione internazionale, ha tre figli a cui pensare. Anche lei dice che, dopo l’iniziale rifiuto: “La gente ha cominciato a tollerare l’esistenza di una ditta composta da donne che vivono sole, in special modo le siriane che hanno perso i mariti in guerra. Tramite la nostra professione noi stiamo lottando per far quadrare pranzo e cena, pagare gli affitti e acquistare necessità di base.”

Per cui, chi storce il naso si rilassi pure e si ripari il lavandino da solo – le idrauliche non hanno intenzione di smettere. Maria G. Di Rienzo

(Fonti: Al-Monitor, UN Women, Reuters)

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sandrine

Questa giovane donna si chiamava Sandrine Bakayoko, aveva 25 anni e aveva chiesto asilo in Italia. E’ morta, per cause ancora sconosciute al momento in cui scrivo, nel cosiddetto “centro di prima accoglienza” a Cona (Venezia). Ne è seguita una rivolta all’interno della struttura: coloro che vi sono ospitati, in condizioni igieniche allucinanti com’è stato visibile dalle foto, hanno dichiarato di aver chiesto soccorso per Sandrine alle 8 di mattina e che però l’ambulanza ci ha messo 6 ore ad arrivare (i sanitari dicono di essere partiti non appena ricevuta la chiamata).

“La situazione è poi degenerata: – scrivono oggi i giornali – la protesta è sfociata in una rivolta con mobilio e oggetti dati alle fiamme. Uno scenario che ha costretto gli operatori del centro a cercare rifugio nei locali della struttura, barricandosi in alcuni container e negli uffici amministrativi della struttura, dove sono rimasti poi bloccati per ore.” Liberati durante la notte, paura a parte, stanno tutti bene. Il centro è una ex base missilistica in cui sono ammassate circa un migliaio di persone ed era già stato scenario di proteste in precedenza.

Come se tutto questo non fosse abbastanza ignobile, nei forbiti “dibattiti” che seguono gli articoli Sandrine semplicemente scompare. La sua morte non interessa a nessuno. A volte c’è un rimando del tipo: “Ma in Costa D’Avorio la guerra civile non e’ finita anni fa? Cosa ci fanno ancora in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato le persone che sono arrivate dalla Costa d’Avorio?”, ma non il suo nome, nemmeno un’espressione di rammarico o sconcerto – visto che chiedere empatia sarebbe probabilmente esagerato.

Abbiamo invece una valanga di economisti, politici e opinionisti da tastiera che ci spiegano il “costo sociale dei milioni di stranieri già presenti sul territorio”, assicurano che “questa invasione è voluta dal pd per spendere 4,5 miliardi l’anno fuori dai vincoli europei” ma anche che “gli altri farebbero la stessa cosa, compresi i 5S, con le chiacchiere e gli slogan non conclude nulla…” e che “nel 2011 sbarcarono ben 22.000 tunisini, al governo c’era Berlusconi ministro degli interni Maroni il quale per risolvere il problema dette il permesso di soggiorno a tutti perché dovevano andare in Francia invece chiuse le frontiere e questi sono ancora qui”; stigmatizzano “le direttive di un’Europa criminale” e i “governi pecoroni” che le seguono, si preoccupano dell’italica gioventù e della scarsità di risorse loro rivolta, a confronto di quel che ricevono i migranti: “I “giovani” albanesi (fino ai 19/20 anni) si presentano in Italia dicendo di essere minorenni, ovviamente senza documenti. Li alloggiamo in alberghi 3*, wi fi libero, gli passiamo una scheda SIM gratis e gli diamo una somma mensile per le spese di sostentamento. E NON FANNO NIENTE!! E i nostri di giovani? A loro chi ci pensa?”.

Naturalmente, amministrassero loro il territorio e dovessero gestire la questione in generale e ciò che è accaduto a Cona, le soluzioni sarebbero pronte:

– Intanto cominciamo a finirla di chiamarli ipocritamente migranti.

– Sono da espellere TUTTI, senza processi e/o lungaggini burocratiche!

– Vanno rimpatriati tutti senza troppi problemi quelli del centro. Sequestrare personale operativo è un reato

– Non solo siamo l’unico Paese, o quasi, ad accoglierli, hanno pure da protestare sul cibo, modalità, termini etc, Ma che restino nei loro Paesi, siamo stufi!!! Solo diritti hanno ed alcun dovere.

E il futuro lo vedono proprio nero:

– Ma a che serve l’accoglienza, se poi li troviamo solo a chiedere elemosina fuori dai bar, centri commerciali ecc.?

– Vengono e pretendono, vivono al di fuori delle regole, tutto gli è dovuto, sanno che qui non gli possono fare niente e hanno capito che più ce ne sono meglio è per loro

– Sono solo alcune decine di migliaia. Quando saranno milioni come faremo?

– Questo di Cona è solo l’inizio di quello che presto succederà nei vari centri italiani, fanno le rivolte, ora è andata bene, ma non illudiamoci, questi non hanno nulla da perdere…

– Mi domando cosa debba ancora accadere perché quei geni al governo si rendano conto che la situazione è un tantinello fuori controllo.

– Bronx prossimo venturo… siamo perduti.

Infine c’è il genio che chiede accorato: Ci deve scappare il morto? Aspettiamo quello?

Psst, signore? Di morti, in mare e soffocati nei camion e altrove ne sono già “scappati” decine di migliaia: quella di oggi è una morta, si chiamava Sandrine Bakayoko. Sono sicura che non vuole la sua compassione neppure da cadavere ma il rispetto, signore, quello lei e i suoi “compari di commento” glielo dovete comunque. Maria G. Di Rienzo

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nuovo album fereshta

Prendi il bambino e scappa (“Take the baby and run”, testo e musica di Fereshta, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Ricordi, il giorno in cui cominciò la guerra

la confusione del coprifuoco, il dolore e la violenza

Ricordi, le lacrime negli occhi dei nostri genitori

Abbiamo fatto i bagagli, detto i nostri ultimi saluti

Tu prenderai il bambino e fuggirai

Prendi la mia vita, scappa e basta

Lo sai che questi soldati uccideranno tutti

Prendi il piccolo e fuggi

Prendi la mia vita, scappa e basta

E promettimi, ragazza, che non guarderai mai indietro – amore mio

Diamo i soldi a un contrabbandiere e preghiamo

che ci tiri fuori da questo guaio, che ci porti in una terra di possibilità

Camminiamo nel deserto, vediamo quelli che hanno tentato di scappare

Lasciamo il resto a dio, con angoscia e speranza preghiamo

Penso a tutto quello che abbiamo fatto,

dolci picnic nel sole primaverile

il giorno del nostro matrimonio e tutto il divertimento

e ora – siamo giovani e in fuga

fereshta

Fereshta è una musicista rock e un’attivista per la pace. E’ nata in Afghanistan, ma i suoi genitori fuggirono dal paese in guerra con lei piccolina fra le braccia. Per un po’ hanno vissuto in Pakistan, poi si sono trasferiti negli Stati Uniti.

I miei genitori – racconta Fereshta – crebbero in un Afghanistan ben diverso da quello che vediamo oggi nelle notizie. Le donne indossavano abiti di stile europeo, andavano a scuola, al lavoro, partecipavano attivamente alla vita delle loro comunità. Mia madre giocava nella squadra di basket della sua università. Mio padre e i suoi amici legavano i loro strumenti orientali dietro le motociclette e andavano nei posti in cui c’erano giovani europei in vacanza, così da poter suonare insieme. Gli armonium (tastiera di piccole dimensioni), i tabla (tamburi) e i rebab (strumento ad arco antenato del violino) trovavano ritmi per accordarsi alle chitarre acustiche occidentali.

Io credo che la musica, nella sue forme ed espressioni migliori, sia la voce dell’umanità. Muove i nostri cuori in modo potente e ci guarisce.”

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Il 15 luglio 2015 il Prefetto di Treviso destina 101 profughi provenienti da Mali e Africa subsahariana in una trentina di appartamenti sfitti di Via Legnago a Quinto di Treviso: sono definiti “rifugiati”, si tratta quindi di persone che richiedono asilo in Italia e che perciò devono seguire delle procedure (Dpr n. 21 del 12 gennaio 2015, “Regolamento relativo alle procedure per il riconoscimento e la revoca della protezione internazionale” – Gazzetta Ufficiale n. 53 del 5 marzo 2015) compresa quella di eleggere residenza nel nostro paese.

Precedentemente queste persone erano ospitate in strutture temporanee non idonee di varia appartenenza (Comune di Treviso, associazioni, parrocchie). Lo spostamento a Quinto è frutto di una convenzione fra la società immobiliare proprietaria degli appartamenti e una cooperativa sociale incaricata della gestione dei rifugiati. I residenti in loco affermano di non essere stati avvisati dalla Prefettura – anche i Sindaci di Quinto e di Treviso sostengono ciò – e questo costituirebbe il primo motivo della loro protesta. Il secondo motivo sarebbe “il timore di una perdita di valore delle case” a causa della presenza degli stranieri in pianta stabile (eleggere residenza questo vuol dire).

Nella notte fra il 15 e il 16 luglio alcuni degli abitanti di Via Legnago aprono uno degli alloggi destinati ai rifugiati (ma nella narrazione giornalistica “l’appartamento” diventerà subito “gli appartamenti”) e sembra che non l’abbiano fatto dicendo semplicemente “Apriti Sesamo” pure, leggendo i quotidiani, si evince come abbiano aperto la caverna dei Quaranta Ladroni… “e la loro rabbia esplode”:

“(…) si sono introdotti negli appartamenti non ancora occupati dai profughi e li hanno trovati arredati di tutto punto: divani, televisori led a 40 pollici, pacchetti di sigarette, vestiti, infradito e altro.” “Non potevano credere ai loro occhi: immobili arredati e forniti di tutti i comfort. Dai televisori led a 40 pollici al vestiario, dai pacchetti di sigarette ai mobili.” Questo appartamento viene svuotato e vestiti, materassi, mobili ecc. sono bruciati davanti all’edificio.

Il giorno dopo arriva Forza Nuova e cominciano i tafferugli, come da tweet del 16 luglio 2015: “Continua la protesta. Insieme ai residenti abbiamo impedito la distribuzione del cibo ai clandestini chiedendo che venisse consegnato agli italiani in difficoltà.” e da dichiarazioni alla stampa: “Non lo facciamo per non dare cibo a chi ne ha bisogno ma per protestare contro il business dei profughi. Qui c’è chi ci guadagna.” Le consegne dei pasti sono scortate dalla celere, ottimo risultato contro gli sprechi nevvero ragazzi?

E sempre il 16 la Commissione medica del Dipartimento di Prevenzione dell’Ulss 9 di Treviso, dopo aver compiuto un sopralluogo, dichiara gli alloggi non abitabili “perché manca l’allacciamento alla rete elettrica” (il televisore led a 40 pollici – mioddio! – lo avrebbero fatto funzionare attaccandolo ad un gruppo elettrogeno alimentato dai pedali di una bicicletta?).

I residenti hanno comunque annunciato che continueranno a protestare sino a che i rifugiati non saranno allontanati – alcuni di loro dormono in tende davanti agli appartamenti, con gli angeli custodi di Forza Nuova accanto a loro in “presidio permanente”: “Hanno trasformato le nostre case, che abbiamo pagato col mutuo, in un campo profughi. Devono andarsene di qui.”

Naturalmente il Presidente della Regione Veneto Zaia ha capito tutto: “(…) fa bene la gente a reagire contro un governo che oggi in un comune da 9.000 abitanti scarica senza preavviso due corriere di clandestini, senza identità, senza storia, senza controlli medici (…) che presto cadranno preda della criminalità (…)” Faccio notare che la domanda di asilo si presenta in Questura e da là parte tutta una serie di procedure di controllo e di acquisizione di eventuali documenti, istruttoria, rapporto alla Commissione territoriale eccetera.

Per finire sabato – domani – ciliegina sulla torta, arriverà Salvini: “Solidarietà alle famiglie di Quinto di Treviso. Quello che sta accadendo è intollerabile, via il prefetto se non è in grado di gestire. Questi immigrati devono andar via.”

In sintesi, dalle mie parti il quadro è questo. Fuggire dalla fame, dalla guerra, dalla miseria, dalla persecuzione è già sbagliato per i cristianissimi veneti, se poi capitate nella loro regione se ne hanno veramente a male. Davanti a una casa che si deprezza sono disposti alla rivoluzione e a buttare il pane per terra come se fosse immondizia. Io ho nel borsellino 77 centesimi, è tutto quel che c’è in casa di soldi al momento, e nessun volontario solidale anti “business-dei-profughi” di Forza Nuova è ancora arrivato a portarmi un pasto a domicilio. Si verificasse pure questa fantasiosa ed improbabile eventualità, c’è da dire che non riuscirei a mangiare qualcosa così sporco di odio. Maria G. Di Rienzo

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