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Posts Tagged ‘iraq’

(tratto da: “Yazidi girls sold as sex slaves create choir to find healing”, di Emma Batha per Thomson Reuters Foundation, 4 febbraio 2020, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Quando Rainas Elias aveva 14 anni, i militanti dello stato islamico invasero la sua terra natale yazida nel nord dell’Iraq, la rapirono e la vendettero a un combattente che la stuprò e la torturò ripetutamente prima di venderla a un mostro ancora più brutale.

Due anni dopo la sua fuga, Elias sta visitando la Gran Bretagna questa settimana con un coro creato dalle sopravvissute alle atrocità dell’Isis.

Le ragazze, che hanno dai 15 ai 22 anni, dicono che il coro fornisce loro amicizia, guarigione e una fuga dai ricordi traumatici che le perseguitano.

“Sono molto felice con loro. Questo mi ha aiutata molto psicologicamente.”, dice Elias tramite un’interprete dopo la performance al Conservatorio musicale di Londra.

Il coro ha cantato all’Abbazia di Westminster e si esibirà in parlamento alla presenza del principe Carlo, da lungo tempo patrono di AMAR, un’organizzazione umanitaria che dà assistenza alla riabilitazione delle ragazze in Iraq.

yazidi choir

(il coro durante un’esibizione a Greenwich, immagine di Thomson Reuters Foundation / Morgane Mounier, 3 febbraio 2020)

La comunità yazida in Iraq, stimata in 400.000 persone, è una minoranza curda la cui fede combina elementi del cristianesimo, dello zoroastrismo e dell’islam.

L’Isis, che li considera adoratori del demonio, ha ucciso e rapito migliaia di yazidi dopo aver scatenato un assalto nel 2014 nella loro area del monte Sinjar, in quello che le Nazioni Unite hanno definito genocidio.

Sebbene i militanti siano stati cacciati tre anni fa, gli yazidi per la maggior parte vivono ancora nei campi profughi, troppo spaventati per fare ritorno. (…)

La musica è centrale per la religione e la cultura yazida, ma non è mai stata scritta su spartiti o registrata. Il virtuoso del violino Michael Bochmann ha lavorato con i musicisti yazidi e AMAR per registrate la musica antica. Martedì scorso, Bochmann e il coro hanno consegnato l’archivio alla biblioteca dell’Università di Oxford.

Il progetto mira anche a proteggere la musica yazida insegnandola alle centinaia di giovani nei campi. Sebbene tradizionalmente sia eseguita da uomini, circa metà di coloro che stanno imparando sono ragazze e donne, dal che Bochmann è deliziato. Ha detto che il coro sta avendo un effetto di trasformazione.

“E’ straordinario come la loro fiducia in se stesse sia aumentata. – ha detto Bochmann a Thomson Reuters Foundation – La grande cosa della musica è che ti fa vivere qui ed ora. Più di qualsiasi altra forma d’arte, può renderti felice nel momento presente.” (…)

La maggior parte delle coriste non vuole raccontare la propria storia, ma Elias era disposta a parlare. “Non credo mi riprenderò mai dalle esperienze che ho fatto.”, ha detto la giovane che ha passato tre anni in prigionia.

Elias è stata venduta tre volte a differenti uomini dopo che il suo rapimento l’ha condotta in Siria. Il secondo, di nazionalità saudita, morì mentre lei era incinta. Fu venduta in stato di gravidanza a un marocchino che la stuprava “come un mostro”, fino a sei volte al giorno.

Restò incinta due volte ma ambo le volte perse i bambini e attribuisce in parte il primo aborto spontaneo alle torture. La sua famiglia pagò il suo riscatto di quasi 11.000 euro nel 2017, ma l’Isis non la lasciò andare. Sua sorella e due suoi fratelli sono nella lista degli yazidi di cui ancora non si sa nulla.

Alcune coriste erano ancora più giovani di lei quando furono rapite. Una ragazza fu venduta cinque volte a stupratori dell’Isis dopo essere stata rapita all’età di 11 anni. Un’altra ne aveva nove quando fu costretta a diventare una schiava domestica. La sua forma minuta suggerisce quanto poco le dessero da mangiare.

Elias, che ha ora 19 anni, dice che la comunità internazionale dovrebbe essere d’aiuto nel soccorrere chi è ancora prigioniero ed assicurarsi che gli yazidi non siano di nuovo perseguitati. E’ il messaggio che il coro sta portando a leader politici e religiosi durante il suo viaggio in Gran Bretagna. Sebbene gli uomini dell’Isis siano stati sconfitti, gli yazidi dicono che non se ne sono andati e che potrebbero ripresentarsi.

“Il pericolo è ancora là. L’unica cosa che può salvarci è l’impegno mondiale a proteggerci. – ha detto Elias – Quello che ho sperimentato, la tortura e lo stupro, non lo posso dimenticare. E’ ovvio che ho ancora paura.”

P.S. – Potete ascoltare il canto delle ragazze qui:

https://www.youtube.com/watch?v=OCWheGSp1EQ

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(“Yazidi women seek to join case against French company accused of funding Islamic State”, di Lin Taylor per Thomson Reuters Foundation, 30 novembre 2018, trad. Maria G. Di Rienzo.)

Un gruppo di donne Yazidi, rapite e tenute in schiavitù sessuale dallo Stato Islamico in Iraq e Siria, hanno richiesto venerdì di unirsi alla denuncia contro il produttore di cemento francese Lafarge, che è sotto indagine per l’accusa di aver finanziato i militanti.

Lafarge è sotto indagine ufficiale in Francia con il capo d’imputazione di aver pagato l’IS, noto anche come ISIS, per tener aperto uno stabilimento che operava nel nord della Siria dal 2011 al 2014.

Gli avvocati attestano di aver presentato la richiesta delle donne di diventare parte civile nel caso, che dicono segni la prima volta in cui una multinazionale è accusata di complicità nei crimini internazionale dell’IS.

“Fornisce un’opportunità per stabilire che l’ISIS, e tutti coloro che assistono i suoi membri, saranno tenuti responsabili per i loro crimini e che alle vittime sarà garantita una giusta compensazione. – ha detto Amal Clooney in una dichiarazione – E manda un importante messaggio alle corporazioni complici nella commissione di reati internazionali che affronteranno le conseguenze legali delle loro azioni.”, ha aggiunto.

amal clooney e nadia murad

(da sinistra: Amal Clooney e Nadia Murad)

Gli Yazidi, un gruppo religioso la cui fede combina elementi delle antiche religioni mediorientali, sono ritenuti dallo Stato Islamico degli adoratori del demonio.

Circa 7.000 donne e bambine furono catturate nel nordovest dell’Iraq nell’agosto 2014 e tenute prigioniere dallo Stato Islamico a Mosul, dove furono torturate e stuprate. Sebbene i militanti siano stati cacciati un anno fa, molti Yazidi vivono ancora nei campi profughi perché temono il ritorno a casa, dicono i gruppi di aiuto umanitario.

Lafarge, che si è fusa con la ditta svizzera di materiali da costruzione Holcim, ha riconosciuto i propri fallimenti nell’affare siriano.

“LafargeHolcim rimpiange profondamente gli inaccettabili errori commessi in Siria. La compagnia continuerà a cooperare pienamente con le autorità francesi.”, ha detto un portavoce via e-mail a Thomson Reuters Foundation.

Le traversie degli Yazidi hanno attirato attenzione in anni recenti, in special modo da quando l’avvocata di alto profilo Clooney ha cominciato a rappresentare il gruppo di minoranza ed è diventata consigliera legale dell’attivista Nadia Murad, che ha vinto il Premio Nobel per la Pace nel 2018.

Un gruppo d’indagine delle Nazioni Unite ha cominciato a lavorare in agosto – circa un anno dopo essere stato creato dal Consiglio di Sicurezza – per raccogliere e preservare le prove delle azioni dello Stato Islamico in Iraq che potrebbero essere rubricate come crimini di guerra, crimini contro l’umanità o genocidio.

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mina

Questa è Mina Jaf, femminista curda irachena, fondatrice nel 2015 dell’ong Women Refugee Route, Vice Presidente dal 2017 della Rete Europea delle Donne Migranti e alla fine dello stesso anno premiata come a Bruxelles con il Women of Europe Award nella categoria “giovani attiviste”.

Mina è nata nel 1988, durante un attacco al suo villaggio effettuato con gas chimici: divenne una rifugiata nel momento stesso in cui vedeva la luce. La sua famiglia fuggì attraverso le montagne e visse vagabondando fra Iraq e Iran per i seguenti 11 anni, a volte senza passare più di una notte nel medesimo luogo, sino a quando madre e figli riuscirono a trasferirsi in Europa. Con i suoi familiari, Mina ha trascorso i tre anni successivi nei centri per i richiedenti asilo della Danimarca, prima che la loro condizione fosse finalmente stabilizzata.

Per tutta la sua infanzia Mina ha ascoltato, spesso fingendo di dormire, le storie orripilanti delle violenze subite dalle donne sfollate provenienti da mille luoghi diversi, dalla Bosnia alla Somalia: stupro e violenza domestica, la stigmatizzazione e la vergogna che circondavano le loro esperienze, il poterle condividere solo in sussurri nella notte. Mina è cresciuta con la determinazione di lottare per i loro diritti.

Oggi lavora non solo nella Danimarca di cui è orgogliosa cittadina, ma in Belgio (con lo Stairpont Project), Grecia e Italia e ovunque vi siano alte concentrazioni di migranti/rifugiati. Parla sette lingue: “Fatico ogni giorno per trovare le parole giuste con cui dire alle donne questa cosa: Se sei stata stuprata, al centro accoglienza o durante il tuo viaggio, devi dirlo. Se ometti questa informazione – perché hai paura, perché ti vergogni, per via dei tabù – non avrai una seconda possibilità.” Adesso Mina sta creando un’organizzazione di traduttrici, sapendo che le donne parlano più volentieri e facilmente con le loro simili: “La lezione più importante che ho appreso lavorando sul campo è questa: il modo in cui l’informazione è data è cruciale quanto il tipo di informazione data.”

Il 15 maggio scorso Mina Jaf ha parlato alle Nazioni Unite in un incontro dedicato alla violenza sessuale durante i conflitti. Non ha solo dettagliato molto bene la situazione mondiale, non ha solo spiegato cosa la violenza sessuale è: “un crimine di genere usato per svergognare, esercitare potere e rinforzare le norme di genere”, ha detto loro chiaro e tondo cosa bisogna fare:

“Promuovere l’eguaglianza di genere e il potenziamento di donne e bambine come fondamento a tutti gli sforzi per prevenire e affrontare la violenza sessuale durante i conflitti e sostenere le organizzazione delle donne che lavorano in prima linea;

Unirsi alla Chiamata all’Azione per la protezione dalla violenza di genere durante le emergenze e sostenerla;

Assicurarsi che l’Accordo Globale per i Rifugiati, che sarà completato nel 2018, sia progressivo per le donne e le bambine rifugiate;

Confermare i diritti di tutti i rifugiati migliorando urgentemente l’accesso alla protezione internazionale con le visa umanitarie, i reinsediamenti dei rifugiati, il più vasto accesso all’informazione e ad audizioni imparziali;

Assicurarsi che l’aiuto umanitario si accordi al diritto umanitario internazionale e non sia soggetto a limitazioni imposte dai donatori, come il negare l’accesso ai servizi sanitari per la salute sessuale e riproduttiva quali l’interruzione di gravidanza;

Impegnarsi in programmi che siano aggiornati con analisi di genere, che riconoscano le necessità di tutte le sopravvissute e includano dati disaggregati per sesso ed età: questo deve comprendere l’addestramento alla sensibilità di genere per chiunque lavori con le sopravvissute sul campo e l’inclusione delle sopravvissute nella consultazione sulle individuali strategie di protezione;

Limitare il flusso delle armi leggere ratificando il Trattato sul Commercio delle Armi e implementandolo tramite leggi e regolamenti nazionali.

Non è sufficiente condannare gli atti di violenza sessuale durante i conflitti. Chiunque sia presente qui oggi è responsabile del porvi fine, del portare tutti i perpetratori davanti alla giustizia e del mettere le donne all’inizio e al centro di ogni responso per prevenire la violenza.

Maria G. Di Rienzo

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suzan

La parola “impossibile” non c’è, sul mio vocabolario.

“Sono cresciuta in una famiglia istruita e di mente aperta”, dice Suzan Aref Maroof, “ma la cultura è quel che è.” Rimasta vedova all’età di 27 anni, con tre figli, ha dovuto apprendere di prima mano come alle donne sia impedito di partecipare alla vita economica o politica. Per proteggere l’onore e la reputazione della famiglia Suzan è stata costretta a rimanere nascosta nella casa dei suoi genitori per otto anni. Ha pensato seriamente al suicidio, ma ha convinto il padre che sarebbe stata meglio libera, piuttosto che morta. Dopo di ciò, Suzan ha fondato un’organizzazione con lo scopo di sostenere le donne come lei. “Voglio un paese (ndt. l’Iraq) forte che abbia le sue fondamenta nei contributi di donne e uomini.”, dice. Sino ad ora, ha aiutato più di 50.000 donne a trovare impieghi e a sfuggire alla violenza, e ha fatto campagna con successo per alzare l’età legale per il matrimonio dai 16 anni ai 18.

(tratto da: “16 Women Who Are Standing Up to Violence” di Kristin Williams, trad. Maria G. Di Rienzo.)

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nadia-murad

Essere una sopravvissuta al genocidio porta grande responsabilità – perché io sono quella fortunata. Avendo perso i miei fratelli, mia madre e molti altri familiari e amici, è una responsabilità che io abbraccio completamente e prendo molto sul serio. Il mio ruolo come attivista non riguarda solo la mia sofferenza, riguarda una sofferenza collettiva. Raccontare la mia storia e rivivere gli orrori che ho incontrato non è un compito facile, ma il mondo deve sapere. Il mondo deve sentire una responsabilità morale per agire e se la mia storia può influenzare i leader mondiali allora dev’essere narrata.

Dopo l’Olocausto il mondo decretò “mai più”, pure il genocidio occorre con spaventosa frequenza. Quel che mi confonde è accade in piena vista della comunità planetaria. Quando l’ISIS intrappolò la comunità Yazida sulle montagne Sinjar, il mondo restò a guardare e i leader mondiali scelsero di non agire. In effetti stiamo ancora implorando le Nazioni Unite di agire – di fermare l’ISIS – di condannare l’ISIS per tutti i crimini orrendi che ha commesso. Un mio scopo fondamentale è combattere l’impunità per i crimini commessi contro tutte le comunità marginalizzate devastate dal terrorismo globale.

Sono impegnata nel guidare una campagna che promuove la pace tramite la de-radicalizzazione. Concentrerò i miei sforzi nel mandare un messaggio al mondo musulmano affinché condanni l’estremismo, in particolare quello diretto contro bambini e donne, portato avanti in nome dell’Islam. Noi dobbiamo lavorare insieme per contrastare il terrorismo e scoraggiare la gioventù dall’unirsi o sostenere i gruppi radicali e insegnare a tutti i giovani l’importanza della tolleranza verso le fedi degli altri.

Il terrorismo recente ha portato sofferenze che vanno oltre l’immaginabile, e donne e bambini sono stati la popolazione che ne ha risentito maggiormente, com’è noto, perché il traffico di esseri umani e la schiavitù di massa sono diventati attrezzi usati dai terroristi per umiliare società e l’umanità nel suo complesso, e io sono impegnata a combattere il traffico di esseri umani e la schiavitù.

Noi non possiamo dipendere solamente dalle azioni delle Nazioni Unite e dei leader mondiali. Gli individui possono contribuire anch’essi a questa lotta. Se tutti noi facciamo la nostra parte, in ogni angolo del mondo, io credo che potremo mettere fine ai genocidi e alle atrocità di massa commesse contro donne e bambini. Se abbiamo il coraggio di sollevarci e lottare per quelli che non conosciamo, che vivono a migliaia di miglia di distanza, noi possiamo fare la differenza. Il mondo è una comunità e come tale noi dobbiamo agire.

Io vi chiedo, come sopravvissuta e come amica, di unirvi alla mia iniziativa e di aiutare le vittime nelle zone di conflitto, in special modo quelle prese a bersaglio per la loro identità. L’ISIS dev’essere fermato. Per favore contribuite a quest’importante causa, perché noi tutti esseri umani meritiamo di vivere pacificamente. Con immensa gratitudine, Nadia Murad.” (trad. Maria G. Di Rienzo)

Nadia Murad, della comunità Yazidi, è nata e cresciuta nel villaggio agricolo di Kocho, in Iraq. La pacifica vita di Kocho, in cui abitavano in armonia cristiani e musulmani, finì il 3 agosto 2014 quando il cosiddetto “Stato Islamico” (ISIS) attaccò il villaggio. Nadia in quel periodo frequentava le superiori. Sei dei suoi nove fratelli furono uccisi immediatamente, Nadia fu presa prigioniera assieme alla madre, alle due sorelle e molte altre persone, maschi e femmine: fu loro offerta una “scelta”, convertirsi o essere ammazzati. Alle donne fu presentata una terza opzione (si fa sempre per dire, non è che potessero rifiutarsi), il diventare schiave sessuali: la 19enne Nadia e le sue due sorelle furono rubricate come tali, ma la loro madre era “troppo vecchia” per sollazzare i devoti e fu quindi uccisa. In compenso, le bambine venivano date come “regali sessuali” ai militanti meritevoli. Nadia è stata stuprata e torturata su base giornaliera e picchiata ferocemente quando tentava di fuggire. Alla fine c’è riuscita, è emigrata in Germania e si è riunita ad altri/e sopravvissuti/e. In tutto, ha perso 18 membri della sua famiglia. E’ stata nominata dalle Nazioni Unite “Ambasciatrice di Buona Volontà per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani” il 15 settembre scorso.

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(“The refugee crisis is a feminist issue. We can’t just sit by and watch.”, di Helen Pankhurst per The Guardian, 19 settembre 2016, trad. Maria G. Di Rienzo.)

kosovo

L’attuale crisi riguardante i rifugiati è uno dei più gravi disastri umanitari che si dispiega attraverso il mondo nell’epoca attuale. Fra una molteplicità di orrori universali, la crisi presenta specifiche minacce e difficoltà per milioni di donne che sono rifugiate: e, come per tutte le istanze femministe, la risoluzione di quest’ultima dipende dalla solidarietà.

Mentre il mondo guardava dall’altra parte, Care International – http://www.careinternational.org.uk/

e Women for Refugee Women- http://www.refugeewomen.co.uk/ – hanno lavorato insieme anzitempo rispetto al summit (Ndt. : quello sui rifugiati organizzato dalle Nazioni Unite il 19 settembre u.s.) per dare alle donne rifugiate una piattaforma in cui narrare le loro storie – storie di dolore e di durezze che hanno fatto luce su come questa crisi sia davvero molto una crisi delle donne.

Prendete Nadia. Costretta a lasciare il nativo Iraq quando era incinta di quattro mesi, ha cercato una relativa sicurezza attraversando il confine con la Siria. Quanto dev’essere disperata una persona per considerare l’ingresso in Siria come il minore fra due mali? Nel caso di Nadia, la sua motivazione fu l’aver visto un’auto piena di ragazze Yazide come lei bruciate vive dagli estremisti, un destino che lei temeva fosse in agguato per la sua stessa famiglia.

Dopo un breve periodo disperato in Siria, Nadia intraprese il viaggio verso la Grecia in un barca insicura che perdeva acqua quando era incinta di nove mesi. Il suo figlio non nato morì durante il viaggio, risultato inevitabile della denutrizione e dello stress. Al suo arrivo in Grecia, Nadia fu sottoposta a un affrettato taglio cesareo: “Non mi permisero neppure di vedere il mio bambino – ricorda – L’hanno semplicemente portato via e sepolto in una tomba comune… Ho pianto e pianto per giorni. Non posso nemmeno visitare la tomba di mio figlio.”

Quando Care e Women for Refugee Women chiedono trattamenti dignitosi e giusti per i rifugiati, lo fanno per donne come Nadia. Come un’altra donna, Dana, riassume: “In Siria, tu puoi morire a causa di una bomba, un giorno, ma durante questo viaggio tu muori ogni singolo giorno.” Dana, madre di due bambini, attualmente vive in un campo profughi in Serbia. E’ arrivata portando poche cose, ma con addosso un peso di miseria che nessuna donna, nessun essere umano, dovrebbe portare.

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E storie come queste ne hai 10 per un centesimo in tutta Europa, proprio in questo momento. Quando la situazione di una donna è così disperata che è costretta a fare del “sesso di sopravvivenza” per assicurarsi che un uomo la protegga durante il suo viaggio, questa è un’istanza femminista. Quando una donna è costretta a fare centinaia di miglia a piedi, in stato di avanzata gravidanza e con bambini malnutriti fra le braccia, questa è un’istanza femminista.

Quando le ragazzine sono date in spose a un’età così giovane da spezzare il cuore, perché ciò è visto per loro come la maggior probabilità di sopravvivenza; quando le donne abortiscono spontaneamente sul ciglio della strada in un paese straniero; quando le madri sono costrette a mandare via i figli da soli sui gommoni, nel buio, non convinte che avranno l’occasione di rivederli vivi; quando le donne raggiungono il Regno Unito e si abusa di loro e le si degrada, o le si tiene in detenzione per il crimine di aver chiesto rifugio: queste sono istanze femministe. Urgenti, disperate, oltraggiose istanze femministe. E, come femministe, noi dobbiamo agire.

In vista dei summit sui rifugiati globali, noi stiamo facendo alcune richieste molto semplici ai leader mondiali. Primo, assicurare più sostegno per le donne rifugiate nei paesi in via di sviluppo; secondo, stabilire rotte protette, sicure e legale per le donne rifugiate vulnerabili, di modo che esse non debbano affrontare viaggi pericolosi nelle mani dei trafficanti; terzo, intraprendere azioni per proteggere donne e bambine dalla violenza sessuale e dal traffico di esseri umani. E quarto, in special modo per il governo britannico, dare alle donne rifugiate in Gran Bretagna dignità e udienze oneste.

La crisi relativa ai rifugiati è controversa e, in questi tempi turbolenti, chiedere di offrire protezione addizionale ai rifugiati incontra sempre maggiore opposizione. Ma io guardo alla rappresentazione che i media fanno dei rifugiati – l’oggettivazione, la disumanizzazione – e vedo la Storia ripetere se stessa: la stessa Storia che ha indotto i miei antenati a fuggire per salvare le proprie vite.

Perché io sono la figlia e la nipote di rifugiati. Dal lato famoso delle suffragiste Pankhurst, il compagno di mia nonna Sylvia era un anarchico italiano che finì per chiamare il Regno Unito la sua casa; e mia madre originariamente venne dalla Romania, fuggendo l’ascesa del fascismo.

Ogni volta in cui nella Storia vediamo vasti segmenti di persone cacciati fuori – o peggio, spazzati via – puoi star sicuro che ciò è accompagnato, da qualche parte, da propaganda che insinua come quelle vite siano vite a perdere. Come Paese, siamo stati dal lato giusto della Storia quando il fascismo e il nazismo hanno preso piede. Dobbiamo assicurarci che vada allo stesso modo oggi.

La vergogna di questa crisi non sarà candeggiata nei libri di Storia; lascerà una cicatrice nella nostra coscienza collettiva per generazioni. Abbiamo la responsabilità individuale e collettiva di agire ora.

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I rischi che fronteggiano hanno molte forme, incluse le molestie, le campagne diffamatorie e la violenza fisica – non solo contro di loro, ma spesso anche contro le loro famiglie. Sperimentano l’esaurimento a causa del loro impegno e il ruolo vitale che giocano è sovente non visibile all’opinione pubblica. Pure, rifiutano di smettere di lottare perché credono che i nostri diritti umani dovrebbero essere protetti e rispettati.”

Chi sono? Sono le difensore dei diritti umani delle donne e così sono presentate nella campagna organizzata da Global Fund for Women, JASS (Just Associates), e MADRE:

https://www.globalfundforwomen.org/defendher/

Mentre crescono estremismo politico e restrizioni dirette ai gruppi della società civile, le difensore si trovano davanti attacchi sistematici che hanno lo scopo di ridurle al silenzio. – continua la presentazione – Dozzine di esse sono state uccise o imprigionate per aver parlato di sesso, per aver difeso i fiumi, per aver portato alla luce la corruzione. Tramite la campagna DefendHer stiamo rendendo visibili il loro ruolo e i rischi da esse affrontati nella speranza che ottengano sostegno e che si rispettino la loro sicurezza e le loro voci. Questa campagna presenta le storie di 14 incredibili difensore dei diritti umani e dei gruppi in tutto il mondo che, nonostante minacce e rappresaglie stanno lavorando per: mettere fine alla violenza contro le donne; far avanzare i diritti delle persone LGBTI; proteggere il pianeta e i diritti delle comunità indigene e molto altro.”

defendher

(Illustrazione originale per la campagna dell’artista femminista María María Acha-Kutscher, https://lunanuvola.wordpress.com/2015/07/03/mujeres )

Poiché l’appello dice chiaramente “diffondete le loro storie, passate parola e accendete conversazioni sul loro lavoro”, ma tradurre tutti i pezzi mi costringerebbe a comprare occhiali nuovi, eccovi un sommario su chi sono queste donne:

Marta Alicia Alanis, lavora in Argentina, fa parte dei Cattolici argentini per l’autodeterminazione e della Campagna nazionale per il diritto all’aborto legale, sicuro e gratuito.

Nelle sue parole: “Le donne dovrebbero poter scegliere di diventare madri. Non dovrebbe essere un’imposizione dovuta alla mancanza di accesso a educazione sessuale o contraccettivi, o al destino, o alla semplice sfortuna.”

Alia Almirchaoui, dell’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq (di cui ho parlato spesso). E’ un’irachena di colore sopravvissuta alla violenza e dalla violenza sta difendendo le sue simili. Nelle sue parole: “Nessuna persona è migliore di un’altra. Io sono qui per difendere la diversità all’interno della società.”

Khadrah Al Sana, dell’organizzazione israeliana Sidreh, che difende la sicurezza delle donne beduine. Nelle sue parole: “Le donne devono vivere in dignità e non devono essere separate dalla società in cui vivono: ognuno ha un ruolo importante nella vita e le donne dovrebbero poter dare e ricevere benefici in questo mondo.”

Bai Bibyaon Ligkayan Bigkay, filippina del gruppo etnico Lumad, lavora nelle associazioni indigene femminili e miste (Sabokahan, Pasaka, Bai). Sta difendendo i territori nel raggio del monte Pantaron e chiedendo il ritiro dei gruppi militari e paramilitari.

Nelle sue parole: “Voglio che le giovani generazioni abbiamo una vita migliore di quella che ho fatto io, voglio che godano i frutti dei nostri sacrifici. Il solo ostacolo che la mia età (70 anni) mi pone è qualche limitazione fisica, ma il mio spirito di lotta ha un’energia altissima.”

Azra Causevic, dell’associazione Okvir per i diritti delle persone omosessuali, bisessuali, transgender ecc. di Bosnia ed Erzegovina: vuole una vita dignitosa, libera dalla violenza per tutti.

Nelle sue parole: Dobbiamo difenderci l’un l’altro sempre, in ogni situazione in cui vediamo ingiustizia, proprio perché sappiamo come ci sente a essere dei sopravvissuti.”

Melania Chiponda, Zimbabwe, della WoMin African Gender and Extractives Alliance. Lavora per i diritti delle donne sulla terra e per mettere fine agli abusi sessuali perpetrati dalle forze di sicurezza. Nelle sue parole: “Se porti via la terra alle donne nelle aree rurali, porti via la loro sopravvivenza. Perciò lottiamo. Perché non abbiamo più nulla da perdere.”

Leduvina Guill, nicaraguense dell’ong Wangki Tangni, difende il diritto di donne e bambine a vivere vite senza violenza. Nelle sue parole: “Combattere la violenza contro le donne è cruciale, perché si tratta delle loro vite; come difensora salvi le vite delle donne. I diritti sono molto importanti, le donne soffrono così tanto quando non hanno diritti.”

Magdalena Kafiar, fa parte del FAMM (Forum giovani donne attiviste indonesiane) ed è ministra della chiesa evangelica. Lavora per la difesa dei diritti delle donne e della terra. Nelle sue parole: “Ormai conosco il pericolo, ma mantengo lo spirito dentro di me e mi muovo in avanti. Devo lottare continuamente per rivelare le ingiustizie in Papua.”

Miriam Miranda, della Organización Fraternal Negra Hondureña (OFRANEH), Honduras. Lotta per il rispetto e la sicurezza delle culture indigene, per l’accesso alla terra e alle risorse, per i diritti delle donne. Nelle sue parole: “La lotta, come la vita stessa, dovrebbe essere gioiosa.”

Irina Maslova, dell’organizzazione Silver Rose, Russia. Agisce nell’ambito della protezione dei diritti umani per tutti, compresi gruppi svantaggiati e donne nelle prostituzione. Nelle sue parole: “La rivoluzione comincia dal basso, quando coloro che sono esclusi da questa vita devono lottare per il loro diritto di rientrarci.”

Honorate Nizigiyimana, dell’organizzazione Développement Agropastoral et Sanitaire (Dagropass), Burundi. Lavora per la pace e la sicurezza delle donne nel suo paese. Nelle sue parole: “Sebbene io sia la più anziana della mia famiglia, sono ancora considerata una persona di poco valore. E’ la cultura attuale del Burundi. Sono questi comportamenti che mi hanno condotta a pensare alla promozione dei diritti delle donne.”

Tin Tin Nyo, dell’Unione donne birmane. Lavora in Thailandia per i diritti delle donne e la loro rappresentazione nelle negoziazioni di pace. Nelle sue parole: “La nostra arma più potente è la nostra voce. Abbiamo verità e sincerità. Queste sono le armi che dobbiamo usare per tutte le donne che sono senza voce e senza aiuto.”

Ana Sandoval, Guatemala, del gruppo di Resistenza Pacifica “La Puya”. Lavora per i diritti comunitari sulla terra e per la chiusura della miniera Progreso VII. Nelle sue parole: “Alla fine, tutte le lotte hanno il medesimo obiettivo: la difesa della vita.”

Menzione di gruppo: Forze unite per i nostri “desaparecidos” in Coahuila e Messico.

Le donne sono Yolanda Moran, Angeles Mendieta, Blanca Martinez. Vogliono giustizia e verità per le famiglie delle persone “scomparse”. Dice Blanca Martinez: “Noi crediamo che bisogna battersi per i propri diritti e difenderli, nessuno li difenderà per noi se non lo facciamo.”

Maria G. Di Rienzo

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(brano tratto da: “Sex Slave Legacy: The Children of Islamic State”, un lungo e dettagliato articolo di Katrin Kuntz e Maria Feck per Der Spiegel del 19 aprile 2016. Trad. Maria G. Di Rienzo.)

dipinto di arthur kalaher

La notte, quando Khaula è a letto e riesce finalmente ad addormentarsi, spesso sogna di sua figlia. Ogni volta, le appare la stessa immagine. Vede le sue mani, unite l’una all’altra davanti al petto a formare una cavità. Quando alza la mano che sta sopra, nell’altra sta seduto un uccellino. Vede il suo corpo e le piume, ma l’uccellino non la guarda e dalla sua gola non viene alcuna canzone: la piccola testa manca.

Ogni volta in cui faccio questo sogno, non riesco più a muovermi per un po’.”, dice Khaula. Dopo otto mesi in cui è stata prigioniera dell’IS (Stato Islamico) ha partorito una bimba. Il padre della bambina era il suo torturatore, un combattente iracheno dell’IS proveniente da Mosul. Aveva già un bel po’ di figlie e voleva che Khaula, una donna Yazida rapita dall’IS, gli desse un figlio maschio.

Questo è successo un anno fa. Oggi Khaula vive in Germania, senza sua figlia. E’ seduta in una stanza appartata di un caffè nel Baden-Württemberg, dove è venuta per condividere la sua storia. E’ una quieta donna di 23 anni con i riccioli neri a cui piace indossare abiti kurdi.

Khaula vive in un dormitorio con altre donne che sono state liberate. La località dev’essere mantenuta segreta e anche il nome “Khaula” è un alias. Con i simpatizzanti dell’IS in Germania, le donne sono in pericolo anche qui.

Il Baden-Württemberg ha accolto circa 1.000 donne e bambini provenienti dall’Iraq per aiutarli a venire a patti con ciò che è accaduto loro. Lo psicologo specialista in traumi Jan Ilhan Kizilhan, dell’Università Cooperativa di Stato, ha selezionato solo le persone che avevano maggiormente bisogno di aiuto in Iraq, dove è stato una dozzina di volte. In passato, ha lavorato con le vittime di stupro in Ruanda e Bosnia. “Solo le donne più seriamente traumatizzate sono venute in Germania.”, dice Kizilhan. Ciò include donne come la Yazida il cui figlioletto fu rinchiuso in una cassa di metallo da un combattente dell’IS e messo direttamente sotto il sole, davanti agli occhi della madre, sino a che fu morto. L’infante di un’altra donna fu picchiato a morte da un uomo dell’IS che gli ruppe la spina dorsale.

Nell’agosto 2014, lo Stato Islamico invase la regione irachena di Sinjar nel nord, assassinando e rapendo migliaia di donne e bambine che poi diventarono schiave sessuali per i combattenti. Centinaia delle donne riuscite a fuggire dai loro torturatori sono tornate incinte. (…)

Ci vogliono ore perché Khaula riesca a raccontare la sua storia. Non piange mentre la narra, sembra piuttosto stia riportando il fato di un’altra persona: “Ne parlo affinché la mia famiglia presa prigioniera in Iraq non sia dimenticata.”, dice.

Il 3 agosto 2014 l’IS attaccò il villaggio di Khaula e, entro un mese, 5.000 persone erano scomparse dalla regione. Khaula fu costretta a salire su un autobus e condotta in una prigione piena di centinaia di donne e bambine. Furono forzate a bere acqua in cui i carcerieri dell’IS sputavano di fronte a loro. Mentre bevevano, furono fatti i preparativi per la loro vendita. Khaula cadde nelle mani di un alto 45enne vestito di bianco che si faceva chiamare Abu Omar. La comprò per un milione mezzo di dinari iracheni (circa 1.140 euro) e le disse: “Tu mi appartieni.” Poi la chiuse in una casa di Mosul, la roccaforte dello Stato Islamico in Iraq.

E’ stato là che l’ha brutalmente deflorata, schiacciandola sul pavimento, è stato là che l’ha trascinata per i capelli dentro il letto, strozzandola, maledicendola e forzandola ad ascoltare le urla di altre donne che erano torturate nella stessa casa. Dopo quattro mesi, quando era incinta, la portò dalla propria moglie. Le fu ordinato di aiutare quest’ultima nei lavori di casa, nel lavare e cucinare. In uno scoppio di gelosia, la moglie picchiò Khaula con una sedia. Khaula allora tentò di impiccarsi a un ventilatore del soffitto. L’uomo aveva cinque figlie dalla prima moglie. Disse a Khaula: “Voglio che tu mi partorisca un maschio.” (…)

Ufficialmente, l’IS non vuole che le schiave sessuali come Khaula restino incinte. Lo Stato Islamico ha pubblicato un pamphlet su come vanno trattate le schiave femmine chiamato “Domande e risposte sul prendere prigionieri e schiavi” che ha cominciato a circolare su Internet dopo l’attacco a Sinjar nel 2014. Il documento dice che il sesso con le schiave è permesso. La sola menzione di gravidanze è relativa al valore di mercato delle donne. La domanda è così: “Se una prigioniera femmina è impregnata dal suo padrone, lui può venderla?” La risposta: “Non può venderla se deve diventare madre di un bambino.” In altre parole, il suo valore scende a zero nel momento in cui è incinta. Ma il suo status migliora: come madre, si trova in una posizione intermedia fra la schiava e la donna libera. Non ha più i requisiti necessari al commercio di schiave o al bazar delle vergini che l’IS perpetua per reclutare nuovi combattenti. (…)

Quando Khaula capì di essere rimasta incinta, andò nel salotto del combattente, sollevò la televisione e la portò su e giù per le scale, per ore. Altre donne si sono caricate di pietre o sono saltate da finestre per cercare di indursi un aborto. “Io ho tentato di tutto, ma non ho perso la bambina.”, dice Khaula. La moglie del combattente presto divenne invidiosa, una svolta fortunata per Khaula: “Non voglio più vedere la tua pancia.”, le disse un mattino. Le portò un telefono, che Khaula usò per chiamare suo fratello a Dohuk. Il fratello le diede l’indirizzo di un suo conoscente. Khaula lasciò la casa indossando un burqa e accettò il danaro che la moglie del combattente le offrì per la sua fuga. Prendendo il taxi, invece di usare la parola araba per “grazie”, shukran, usò per paura il termine Daesh (Ndt. : “daesh” è l’acronimo arabo per “stato islamico di Siria e Iraq”, ma la parola che le lettere formano ha il significato di “disordine” ed è perciò che l’IS bandisce il termine nei suoi territori) Jazaak Allaahu Khayran.

Il conoscente del fratello la mise in contatto con un network Yazida che opera nella regione dell’IS, intermediari che sono di frequente in grado di contrabbandare donne fuori dalla schiavitù e di portarle in territori controllati dai Kurdi. (…) Khaula aspettò 40 giorni, poi venne sistemata presso una famiglia araba che vive nei pressi del confine. Il viaggio lo ha fatto durante le notti, strisciando sino a cinque ore di seguito sulle montagne. L’ultimo tratto Khaula lo ha fatto in braccio alla sua guida, perché solo quell’uomo sapeva dove erano piazzate le mine nel terreno sassoso. “Alla fine ero libera.”, dice Khaula. Si stima che circa 2.000 donne siano fuggite con successo dalle aree controllate dall’IS. Le Nazioni Unite stimano che circa 3.500 donne Yazide siano ancora schiave in tale aree. Altre fonti danno la cifra a 7.000. (…)

Dohuk, una città di mezzo milione di abitanti a 75 chilometri da Mosul, nel Kurdistan iracheno del nord, è dove si recano in prima istanza i sopravvissuti al terrore dell’IS. E’ circondata da agglomerati di tende e da montagne color ocra. Qui è dove arrivano le donne incinte e dove i figli dell’IS sono abortiti. E’ anche il posto dove i bambini che sopravvivono sono dati in adozione.

Khaula si riunì al fratello in un campo di Dohuk. Allora, era incinta di sei mesi. “Ero così felice che non sapevo neppure come abbracciarlo.”, racconta Khaula. Quella sera, si mise addosso vestiti supplementari nel tentativo di nascondere la gravidanza, ma tutti continuavano a fissarla. Una sera, suo zio la prese da parte e le disse: “Niente bambino Daesh, per favore.”

Khaula decise di abortire e trovò un medico che le diede le sostanze che inducevano il travaglio. Passò due giorni in un albergo e al terzo andò in ospedale come una normale paziente. “Il padre del bambino è al fronte.”, disse al personale medico. Partorì una bambina dai capelli neri e il volto da uccellino. In precedenza, aveva fantasticato su come poteva essere avere un bambino, sulle sue manine e sul suo odore di pesca fresca nei primi giorni di vita. Adesso la figlia giaceva vicino alla sua gamba, morta.

I dottori non volevano che morisse, ma c’erano problemi.”, dice. Khaula la guardò e toccò uno dei suoi piedini con la punta delle dita, poi mise un lenzuolo sopra il corpicino. Suo cugino arrivò in automobile e la portò fuori città, dove seppellì la creatura lungo una strada. Khaula restò in macchina. Il suo unico pensiero, dice, era questo: “Ho ucciso una bambina.”

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(“Baghdad Before the Occupation”, di Amal Al-Jubouri, poeta contemporanea e attivista per i diritti umani nata a Baghdad – Iraq, trad. Maria G. Di Rienzo. In una recentissima intervista (12 aprile u.s.), Amal ha raccontato di come a 16 anni perse la voce e come la ritrovò: aveva partecipato a un festival di poesia e i suoi fratelli adolescenti intendevano ucciderla per questo. “Ero terrorizzata… e come risultato, divenni muta.” Ma la sua voce tornò a lei poco tempo dopo, quando il poeta Nizar al-Qabbani disse pubblicamente: Io mi sono sposato nel 1963 e l’Iraq allora era una società dalla mente aperta. Com’è che nel 1984 una giovane poeta viene minacciata solo per aver partecipato a un festival? “Questa storia diede una scossa al mio cervello e ripresi a parlare.”, ha detto Amal. Due anni dopo avrebbe pubblicato la sua prima raccolta di poesie e più tardi avrebbe lavorato in televisione a un proprio programma culturale. Nel 1997 è fuggita dall’Iraq con sua figlia e si è stabilita a Monaco, in Germania. Sempre nell’intervista parla dell’esplosione di un’autobomba nella Strada Al-Mutanabbi (5 marzo 2007, 26 vittime) e della lezione che da essa ha appreso: “Perdonare, ma non dimenticare. E non aprire le porte alla vendetta.” La strada porta il nome di un poeta iracheno del 10° secolo ed è sempre stata il cuore della Baghdad letteraria e intellettuale. Dopo il disastro, ci volle un anno di lavoro per riaprirla.)

amal

BAGHDAD PRIMA DELL’OCCUPAZIONE

La mia solitudine, a cui sono sempre tornata

Città che custodisce la mia religione segreta nelle sue biblioteche

Sono tornata per posare la testa sulla sua spalla

e, con un solo sguardo, lei ha visto quanto stanca ero.

Ha avvolto i suoi giardini, la sua fragranza, attorno a me

Mi ha riscaldata e nei suoi occhi ho visto

quanto sciocca ero stata

Le mie poesie erano lacrime che avevano raggiunto la mia amata

ben prima che lo facessi io

baghdad flower festival

(Festival Internazionale dei Fiori a Baghdad)

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Yanar Mohammed, femminista e fondatrice dell’OWFI – Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq – è una vecchia conoscenza per queste pagine.

https://lunanuvola.wordpress.com/2010/01/08/auguri-dalliraq/

https://lunanuvola.wordpress.com/2014/10/12/scontro-di-ideologie-non-di-civilta/

Yanar con bimba

Nell’immagine qui sopra la vedete con in braccio una bimba nata nella “Pacifica Fattoria delle Donne”, un rifugio che l’OWFI, in collaborazione con l’ong internazionale MADRE, ha creato per le donne che fuggono dalle persecuzioni dell’Isis. La madre della piccina, Reemah, è arrivata alla Fattoria sola, incinta e in possesso unicamente degli abiti che aveva addosso: le altre residenti l’hanno prontamente soccorsa e sostenuta organizzandosi per fornire alla neonata tutto il necessario. Reemah dice di trovare conforto in questa amicizia e nel lavoro alla fattoria: anche se pensa che non si sentirà mai più davvero al sicuro dopo quel che ha passato, sta lentamente ricostruendo la sua vita.

La “Pacifica Fattoria delle Donne” si trova nell’Iraq del sud, in prossimità della città di Karbala. All’inizio di quest’anno, l’OWFI ha acquistato un lembo di terra e MADRE ha fornito le attrezzature di base. Attualmente, vi risiedono 54 donne capi-famiglia e le loro figlie e figli. Non sono ancora completamente autosufficienti e l’Organizzazione per la libertà delle donne in Iraq fornisce loro cibo e copre le loro spese mediche, ma le coltivazioni stanno cominciando a prosperare: melanzane, peperoni, cetrioli, pomodori e gombo (okra) vanno a gonfie vele.

la serra

Fra le bambine che vivono alla Fattoria c’è Asma. Della sua famiglia, massacrata dall’Isis, restano lei e sua madre. A soli 9 anni, Asma ha già sperimentato abbastanza violenza e dolore per l’intera vita: pure, dopo pochi mesi di permanenza in un luogo che accoglie e dà valore alle donne ha ricominciato a mostrare la sua personalità forte e positiva. E’ praticamente la capo-attivista per il benessere dei bambini in loco, prende nota dei loro bisogni – dai calzini ai libri – e li comunica alle volontarie dell’OWFI e si assicura che tutti siano soddisfatti e vadano d’accordo.

tre bimbe

Ah, sì: ma di fronte ai massacri e alle guerre e alle indegnità degli estremismi religiosi dove sono le femministe, cosa fanno le femministe, eh? Magari, se i media togliessero qualche spazio ai culi e ai tacchi (solo qualche, per carità) che spacciano come essenziali notizie sulle donne, il lavoro di Yanar e delle migliaia di altre come lei comincerebbe ad essere visibile e le domande idiote su “cosa fanno le femministe” calerebbero di numero. Spes ultima dea… Maria G. Di Rienzo

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